“Tutti De Sica” all’Ara Pacis

«Lui non aveva nessun canone. Era questa la sua forza». Questa la semplice ma efficace definizione di Dario Fo, in un’intervista sul Maestro del cinema: Vittorio De Sica. È stato il militare gentiluomo, il giocatore d’azzardo, il giudice o l’avvocato e questa mostra ha l’intento di ripercorrere tutti i suoi personaggi. «Mio padre era un uomo molto semplice», ma anche «un insoddisfatto totale», le voci dei figli a riguardo, sugli schermi.

Cantante, uomo di teatro, poi attore di cinema e regista. «A wonderful man called… Vittorio!», dice la dedica sulla foto della premiata attrice di Stazione Termini, Jennifer Jones. «La gente lo adorava, anche la troupe e tutti gli altri», afferma Clint Eastwood. Un personaggio più in voga di Totò e di Alberto Sordi, se si contano le visualizzazioni sulla scena: il primo divo italiano comparabile alle stelle del cinema internazionale, al pari di Gary Cooper o Hans Alberts. 


Queste sono le mille sfaccettature di Tutti De Sica che ha visto, durante la tanto acclamata inaugurazione del 7 febbraio, oltre alla massiccia partecipazione di tv e giornali, la presenza dei tre figli Manuel, Christian ed Emi. Questa esposizione fa parte di una serie che ha già visto in mostra altri grandi del cinema italiano come Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini e Sergio Leone, ideata da Equa di Camilla Morabito. Il risultato è assolutamente interessante, arricchito dalla collaborazione della Cineteca di Bologna. I materiali, diversi e numerosi, provengono dalle collezioni private e dagli archivi, tra cui, per la prima volta reso pubblico, quello personale di Giuditta Rissone-Emi De Sica, che comprende album di famiglia e oggetti personali.
 


Il percorso, lungo e vario, accoglie i visitatori in un corridoio dalle pareti rosse, che ricorda il red carpet, in cui sono incorniciate diverse stampe originali di Vittorio De Sica bambino e i suoi primi esordi sul palcoscenico, durante gli anni Trenta. Tra le foto di famiglia e i filmati dell’inizio della sua carriera, ecco esposte quattro parrucche del periodo teatrale, quando collaborò con Pirandello in Liolà.
«Io», diceva, «sono nato e rinato alla vita artistica almeno cinque volte».

Cantante e attore di rivista, è negli anni Trenta, che matura l’idea di rinunciare a esprimersi in una sola arte e decide di diventare anche un regista. Così, con il debutto e il primo film da teatrante, nel ’31, Gli uomini… che mascalzoni!, Mario Camerini ne adocchia l’innato talento. Prima di esordire nella regia, nel 1940, De Sica interpreta trenta film, in un tour de force di personaggi e di cambi d’identità. Da subito si spaccia per bravo ragazzo ma in realtà è spesso un simpatico mascalzone: l’emblema è naturalmente Il signor Max, firmato da Mario Camerini nel 1937, del quale è esposto un corredo fotografico che ricostruisce l’intero film, così come i documenti d’epoca di un lancio promozionale in pieno stile hollywoodiano.Quando diventa regista, lavora su i suoi attori plasmandoli, si identifica con tutti, trova e ne condivide le ragioni, i sentimenti e ne assimila i punti di vista. Un indiscusso padre del Neorealismo, in Sciuscià, in cui guarda il mondo con gli occhi dei bambini e in Ladri di Biciclette, di cui è esposta la bicicletta Bianchi più famosa del cinema, utilizzata per il film da Lamberto Maggiorani.
 


Viene evidenziata anche la collaborazione con le più grandi bellezze degli anni Cinquanta, come Sofia Loren e Gina Lollobrigida, e il sodalizio con Zavattini, di cui è filmata e offerta una passeggiata sugli Champs-Elysées.


Amante delle camminate, delle riprese per strada, della vita quotidiana e della risata spontanea, De Sica ha affascinato il mondo, con il suo garbato ed elegante stile, con il suo profilo e il suo cappotto pied de poule grigio, di cui tutti noi ne assimiliamo ancora il ricordo.

Una Roma che non lo ha mai celebrato abbastanza, come avrebbe dovuto, dona al grande artista un importante tributo, con una galleria espositiva ricca ed elegantemente offerta al pubblico, romano e internazionale.

 

Tutti De Sica
Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma
8 febbraio-28 aprile 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito http://www.arapacis.it

“Fantasma” dei Baustelle

Non solo un disco: siamo in presenza di qualcos’altro. Non solo un album, non solo un concept sullo scorrere del Tempo, ma qualcosa di più. Un accompagnamento per ambientazioni sinistre come pretesto per uno scorcio metaforico, ricercato e artisticamente elaborato sull’attualità. Una colonna sonora di film dell’orrore. Come avrete capito, siamo al cospetto del Fantasma dei Baustelle. Che, nel bene e nel male, è anche il nostro.

Andiamo con ordine, perché, fortunatamente, gli aspetti di cui parlare sono numerosi e tutti estremamente affascinanti. Partiamo dal titolo: Fantasma. Un nome del genere vale più di mille descrizioni e immette l’ascoltatore, o lo spettatore, in un canale iconografico ben delineato. Contesti di morte e atmosfere tetre costituiscono una vera e propria scenografia, che si avvale dell’ausilio di generi di cui l’Italia è maestra assoluta: l’horror e il giallo anni Settanta-Ottanta. Bianconi stesso, interpellato a proposito del modello filmico di Fantasma, ha risposto citando un nome molto chiaro: Suspiria di Dario Argento. La presenza del maestro è lampante, sia nell’art work ma soprattutto musicalmente.

E qui affrontiamo un altro aspetto che fa del disco un lavoro superbo: l’arrangiamento strumentale.

“Fantasma (Titoli di Testa)” è l’agghiacciante intro, tra la ninna nanna di Profondo Rosso e i temi dei Goblin ed Ennio Morricone. Il lavoro è uno sfoggio, mai banale e fine a se stesso, della composizione sinfonica, registrata con l’apporto della Film Harmony Orchestra di Breslava, direttamente in Polonia. Il resto delle composizioni è stato inciso nella Fortezza Medicea di Montepucliano, borgo natio del gruppo, tra freddi organi e spazi suggestivi. Alla cabina di regia per le partiture c’è un nome noto: Enrico Gabrielli, che ha fatto con il genere poliziottesco insieme ai Calibro 35, la medesima operazione qui riproposta con i Baustelle, cambiando ovviamente il genere. Altro elemento importante: per la prima volta nella loro carriera, la band toscana appare come produttrice esecutiva; una scelta non da poco, emblema della forza e delle ambizioni investite nel progetto.

L’esoscheletro del disco è cinematografico: abbiamo infatti i titoli di testa, l’intervallo e i titoli di coda. Elemento capitale di Fantasma è il lavoro testuale di Francesco Bianconi, il primo a capire che un concept album del genere dovesse avere una base strumentale così alta. Bianconi è evidentemente memore degli insegnamenti del pilastro De André, ricalcato a livello vocale e chiamato in causa con il suo lavoro più funereo e incentrato sulla morte, Tutti morimmo a stento. I testi sono quadri in bilico tra gotico, romantico e quotidianità ipermoderna, elaborati in modo che ogni frase sia una scena, incentrata su tematiche complesse e spesso evitate dalla musica leggera, come la morte, il tempo e i drammi del presente. Uno scenario disperato e pessimista, con pochi, ma preziosissimi, accenni di vitalità e speranza. La figura del fantasma è il filo rosso che lega le tracce, mostrando come lo spettro possa coniugarsi perfettamente in svariati modi. Il primo, onnipresente nel disco, è quello della Morte.

I titoli delle canzoni sono chiarissimi: dal primo bellissimo singolo “La morte (non esiste più)” (quanto tempo è passato da “Charlie fa surf”?) al brano che lo precede, “Nessuno”, il cui testo è una delle dichiarazioni d’intenti più poetiche e spietate mai scritte. Passando per il cimitero monumentale di Milano, protagonista per l’appunto di “Monumentale”, dopo l’intervallo, si amplia il raggio della trattazione e la Morte non riguarda più solo il singolo e la sua esistenza, ma tutta l’umanità. Ecco infatti “Maya colpisce ancora” (doveroso il ringraziamento a Rachele Bastreghi per uno dei ritornelli più belli mai regalatici) e “L’estinzione della razza umana”, preceduta nella tracklist dalle strumentali “Primo” e “Secondo principio d’estinzione”. La Morte non è trattata solo a livello di pessimismo cosmico – a proposito di Leopardi, segnaliamo anche la citazione da La Ginestra in “La morte (non esiste più)” –, ma anche a livello di cronaca. Notevole l’uso del romanesco fatto da Bianconi in “Contà l’inverni”, che oltre al dialetto della capitale, riprende anche il contesto di omicidi di gelosia tipici della tradizione. Insomma, sono tante le ambientazioni in cui far sfogare il nostro Fantasma. Le parole finali di “Radioattività” concedono un colpo di scena: dopo aver chiamato in causa Dio parecchie volte nel corso dell’album, Bianconi si lancia in un conclusivo spiraglio di fede, unica arma contro i temi dominanti di Fantasma.

I titoli di coda portano alla conclusione una maestosa opera di diciannove brani per settantatré minuti di musica. Un lavoro possente, impegnato, che richiede all’ascoltatore lo sforzo di lasciarsi condurre in un ambito sicuramente non adatto a tutti, ma che una volta accettato dona in cambio il piacere e l’appagamento che solo la grande musica riesce a dare. Siamo sempre nella canzone pop, ma in Italia pochi nomi hanno portato questo genere a tali livelli.

È modesto e umile parere del sottoscritto che Fantasma dei Baustelle tra dieci, cinquanta, cento anni, verrà visto e ricordato come uno dei lavori più belli, complessi e affascinanti della storia della musica italiana. Il dramma (o forse la fortuna dei Baustelle) sarà che molto probabilmente i fantasmi del domani saranno gli stessi di oggi. Estinzione della razza umana permettendo.

(Baustelle, Fantasma, Warner, 2013)

 

“Poesie” di Emily Dickinson

È già difficile di per sé parlare della poesia di Emily Dickinson, per molti madre indiscussa della lirica moderna e contemporanea. Ancora più arduo è contestualizzarla attraverso la voce registrata di un’attrice. Che poi si tratti di Giovanna Mezzogiorno (la cui bravura è pari alla bellezza) poco importa. Ma questi versi, che scivolano via come gocce d’acqua sulla nostra pelle, sui nostri pensieri, sono la letteratura moderna e contemporanea, sono il passaggio dall’uomo di ieri a quello di oggi.

Sì, fa effetto vederli, sentirli, incastrati in qualcosa che non è libro, che non è l’avorio della carta o l’odore di stampato. Ma c’è qualcosa in questo oggetto che ho tra le mani (l’audiolibro edito dalla Emons, primo per quanto riguarda la poesia) che riconduce all’essenza primordiale del verso, a quando la magia era data dal ritmo, dalla musica, dal distacco tra un mittente, lontano dalla quotidianità del mondo, e un destinatario, avaro del piacere di ascoltare. Ed è meraviglioso fermarsi a sentire senza né fermarsi né sentire. Guidando la macchina, o scrivendo. Persino mangiando o leggendo versi di altri. La voce ti entra dall’orecchio, ma è allo stomaco che arriva subito. Non te ne accorgi: versi che conoscevi ma non ricordavi ti arrivano alla bocca, si sussurrano senza volerlo; quelli che sapevi a memoria ti vien voglia di riscriverli su carta, come per non perderne le pause; quelli sconosciuti (e, ahimè sono molti, troppi) si sovrappongono ai pensieri e ne modificano l’andamento, per sottrazione e addizioni di immagini. Giovanna Mezzogiorno è brava perché riesce a tenere intatta, in tutta la lettura, una trasposizione profondamente terrena, un andamento che si riflette in se stesso, avvicinando e allontanando tutte le correlazioni verso l’esterno.

Il percorso poetico di Emily Dickinson, dagli esordi alla maturità, viene sciolinato con paziente voracità ed esce fuori in tutta la sua forza poetica rendendo un giusto tributo alla divina autrice americana e, permettetemi di aggiungere, alla sopraffina traduzione di Silvia Bre, poetessa italiana troppo spesso dimenticata.

Ascolto come lettura, emerge tutto quello che deve emergere: 104 poesie su una produzione di 1750 testi sono la giusta selezione per non perdere alcuna delle sue digressioni enfatiche. Il ritmo salmodiante rimane intatto, così come le rime asimmetriche, l’aristocratica austerità, le molteplici voci e le elaborate e complesse (ben intesi, non complicate) metafore che sono la decodificazione, da parte dell’autrice, del quotidiano e di un tempo, il nostro, che ci mette, sempre di più, di fronte a noi stessi.

Emily Dickinson ènata nel 1830 ad Amherst, Massachusetts; nel corso della sua vita scrisse 1775 poesie ma ne pubblicò sette. Solo dopo la morte, avvenuta nel 1886, cominciarono a essere pubblicati gli inediti che furono poi raccolti in un’edizione complessiva nel 1955. Per il ritmo, la musicalità e il tono austero dei suoi versi, è considerata uno dei massimi poeti di ogni tempo.

(Emily Dickinson, Poesie, letto da Giovanna Mezzogiorno, regia di Flavia Gentili, Emons, 2012, 51 min, euro 14,90) 

“Prima gli idioti” di Bernard Malamud

«Con un saggio inedito dell’autore», recita la copertina. Di fondamentale importanza, potremmo aggiungere. Come spesso accade, infatti, il saggio che introduce questa raccolta di dodici racconti di Bernard Malamud edita da minimum fax per la collana Minimum Classics, si rivela strumento importantissimo per la comprensione non solo della scelta formale compiuta dall’autore statunitense del cuore del Novecento, la short story, ma anche delle ambientazioni, i personaggi e le problematiche che in quella forma si fanno spazio con urgenza e attraverso una scrittura asciutta, immediata, intrisa di realismo e satira.

Malamud non scrive per ispirazione, ma per necessità, per entrare a far parte del mondo dell’arte e per portare, in quel mondo, il suo punto di vista sul reale, la sua versione dei fatti travestiti di un’ironia critica e squisita nei confronti della società: «Per la centesima volta mi ripromisi che un giorno sarei diventato uno scrittore davvero bravo. Questo rinnovato entusiasmo, e altri episodi simili, mi tennero vivo nell’arte negli anni prima che riuscissi a realizzare qualcosa».

Il forno in cui lievita la materia narrativa è il secondo dopoguerra (First idiots è pubblicato per la prima volta dalla casa editrice Farrar, Straus, a New York, nel 1963) e gli ingredienti sono personaggi di ceto medio-basso coinvolti in storie brevi e difficoltà quotidiane che però rivelano, nella semplicità del loro intreccio, tutto il disincanto dell’essere umano che vive, lavora, ama, è semplicemente se stesso nel mondo dopo l’Olocausto.

Emerge per originalità, potenza ironica e ricchezza metaforica “L’uccello ebreo” che, sfruttando la lezione millenaria della fiaba esopiana che da sempre dà voce, caratteri e bruttezze umane agli animali, racconta la storia di un corvo parlante di religione ebraica che si stabilisce in casa Cohen guadagnandosi le simpatie di moglie e figlio e le persecuzioni del capofamiglia. Ecco uno stralcio della comica quanto tagliente presentazione del presuntuoso volatile:

«Gevalt (“Accidenti”, in yiddish, ndt), un pogrom!»
«Un uccello che parla!», esclamò Edie, sbalordita.
«In yiddish», rincarò Maurie. […]
«Per quale motivo sei venuto a questo indirizzo?» «La finestra era aperta», sospirò l’uccello. E dopo un attimo soggiunse: «Sto scappando. Volo, ma me la do anche a gambe».
«Da chi scappi?», domandò Edie, con interesse.
«Dagli antisemiti».
«Antisemiti», fecero eco gli altri.
«Proprio così».
«Ma quali antisemiti vanno a dar noia a un uccello?», volle sapere Edie.
«Tutti, praticamente».

La discriminazione è al centro anche de “Il mio colore preferito è il nero”, in cui il proprietario, bianco, di un negozio di liquori viene sedotto dalla bellissima signora Ornita, dalla pelle morbida e scura: «Voglio dire che per me, personalmente, c’è un solo colore ed è il colore del sangue. I neri mi piacciono, e se non è perché sono neri, allora è perché io sono bianco. In fondo è la stessa cosa. Se non fossi bianco vorrei essere nero. Sono contento di essere bianco perché non ho altra scelta. Comunque, ho il pallino della gente di colore. Mi piace. Chi desidera che tutti siano uguali? È una specie di dono, forse».

Interessanti i racconti ambientati a Roma (dove Malamud trascorse un breve periodo nel 1954) che ci permettono di immaginare in luoghi che conosciamo bene – il cimitero del Verano, via Nomentana, la stazione Termini – una vedova affranta che riesce con difficoltà a lasciarsi andare alle attenzioni discrete e gentili dell’affascinante Cesare Montaldo (“Meglio vivi che morti”) e il giovane Arthur Fidelman, innamorato perdutamente della pittrice Annamaria Oliovino con cui condivide la casa e pasti silenziosi in una trattoria di Trastevere (“Natura Morta”, in cui appare, in un cameo fulmineo, un Alberto Moravia di Piazza del Popolo).

Prima gli idioti è il punto di partenza ideale per chi voglia accostarsi al fortunato genere del racconto breve. Il messaggio dell’autore, attento osservatore della comédie humaine, è tutto affidato al travestimento ironico e all’uso impeccabile della metafora, di un periodare asciutto e che non stanca, di espedienti insoliti e geniali, a dimostrazione che non sono la ricchezza dell’intreccio o la complessità dei personaggi a determinare l’efficacia di una storia.

«Le storie ci accompagneranno finché esisterà l’uomo. Lo si capisce, in parte, dall’effetto che hanno sui bambini. Grazie alle storie i bambini capiscono che il mistero non li ucciderà. Grazie alle storie scoprono di avere un futuro».

(Bernard Malamud, Prima gli idioti, trad. di Ida Omboni, minumum fax, 2012, pp. 243, euro 13)

“Mille cretini” di Quim Monzó

Se giudicassimo un libro solo dalla sua copertina – o meglio, dalla sua quarta di copertina – allora con Mille cretini (marcos y marcos, 2013) potremmo pensare di avere in mano un insieme di storie brevi, leggere, forse intenzionate a far ridere: nulla di più lontano, questo libro non riesce a strappare nemmeno un sorriso, al massimo una smorfia piuttosto amara; in realtà, non si tratta nemmeno di un libro leggero, l’unico dato sicuro e oggettivo di cui possiamo disporre è la sua brevità, che non è però sinonimo di una lettura “rapida e indolore”.

Monzó, scrittore catalano che sta acquisendo un certo rilievo nel panorama letterario internazionale, riunisce in 157 pagine una serie di racconti autonomi, legati dal fil rouge della dura realtà: un padre che si traveste da donna, forse per sfuggire alla vecchiaia e all’amarezza di una casa di riposo; la coppia di coniugi anziani e malati che non desidererebbero altro che morire ma che, a dispetto delle speranze del figlio, ormai esasperato, si ostinano a vivere, proseguendo lungo la spirale discendente che hanno imboccato da ormai troppo tempo; la donna che, abbandonata dal marito in un’età non più verde, decide di sbarazzarsi di ogni ricordo che ha di lui, facendo a pezzi la propria casa fino a raggiungere una soluzione estrema, per noi inattesa, che fa scorrere qualche brivido lungo le nostre schiene.

Monzó ha il raro pregio di sapere come si scrive un libro: sa giocare con fini tecniche narrative e ripetizioni come pochi sarebbero in grado di fare senza presentare un testo in realtà scevro da inventiva o vuoto, o senza rischiare di risultare autori privi di sostanza. I racconti si aprono sempre in modo piuttosto semplice, l’autore non ci dà indizi su come andranno a finire, ma non ci porta nemmeno a pensare a colpi di scena particolari come quelli che, appena poche pagine dopo, ci vengono presentati con una semplicità disarmante, lasciandoci senza parole: più andiamo avanti con la lettura, più ci rendiamo conto che la narrazione non si sposta, ritorna su di sé, la vediamo ripetersi e ripercorrere punti che abbiamo letto poco prima, con una variazione minima che tende al tetro, a una realtà distorta che diventa un’ottima metafora delle nostre vite. Ognuno di noi, per un aspetto o per un altro, si può sentire chiamato in causa sfogliando il libro, riconoscendosi in uno dei personaggi o delle situazioni crude e certamente concrete che lo animano.

Un aspetto assolutamente degno di nota di questi racconti è il modo con cui i personaggi ammettono a se stessi le proprie debolezze, facendosi per così dire perdonare da noi lettori proprio perché riconoscono la meschinità di un pensiero o di un gesto che, in circostanze molto particolari, è passato anche per le nostre menti: la speranza nella morte di qualcuno, che ci permetterebbe di sentirci più liberi, o magari un favore fatto solamente perché mossi dalla pena, di cui ci siamo pentiti, anche amaramente, a distanza di qualche tempo.

«Faccio ciò che è in mio potere per correggere il corso della realtà, e prevedere tutto, perché se evito brutte sorprese il domani sarà più sopportabile. Ma prevedere tutto mi mette un'ansia tremenda, che fa sì che le cose mi passino davanti come razzi, senza darmi il tempo di goderne. Non godo del bacio se non quando ormai c’è stato; allora lo ricordo con piacere. Non ne godo al momento perché vedo le ombre oltre la tenerezza, le terribili possibilità che si celano dietro ogni cosa piacevole»: è con molta probabilità questa la frase che riesce a rendere al meglio la profondità di Mille cretini e lo stile di Monzó. Contiene infatti una tematica profonda, in cui molti di noi possono riconoscersi, espressa con parole semplici e allo stesso tempo di impatto, che sanno raggiungere quello che dovrebbe essere lo scopo di un libro: scuotere le coscienze, far riflettere e, in qualche modo, far crescere. Anche in poche pagine, anche ripetendosi.


(Quim Monzó, Mille cretini, trad. di Gina Maneri, marcos y marcos, 2013, pp. 157, euro 14,50)

“Sancta Sanctoroom” alla -1 art gallery di Roma

Sancta Sanctoroom si trova nella -1 art gallery, spazio underground della Capitale nato più o meno un anno fa, adibito a site specific (ospita interventi artistici creati appositamente).

La -1 art gallery non si può propriamente definire una galleria, bensì come uno spazio ricavato rubato dal seminterrato della Casa dell’Architettura o, più romanticamente, della cripta dell’Acquario romano. Questo, però, non ci deve scoraggiare poiché l’ambiente è grande, ampio, con i soffitti a volte e con pareti in muratura.

È stato inaugurato questa primavera da un ciclo di stanze dedicate alla street art. Sancta Sanctroom di Mr. Kleva e omino71 è la terza di questo ciclo, iniziato con Cabinet of Natural History di Lucamaleone e seguita da Cinese Room di Diamond.

Questa volta il tema è l’apocalisse, scelto dal curatore Giorgio de Finis, o meglio il giudizio universale, come vogliono intenderlo i due artisti. Non a caso, ironicamente, nella locandina il finissage coincide con il 21 dicembre, data che è passata alla storia come termine del calendario Maya, ma che, a quanto pare, non ha sortito né la fine dell’esposizione né quella del mondo.

La mostra non è un susseguirsi di quadri o tele, ma le opere sono state create direttamente lungo le pareti della galleria. L’apocalisse o giudizio universale, che dir si voglia, calza a pennello per la coppia Mr. Klevra/omino71. Il duo, unitosi nel 2008, ha sperimentato in questi anni l’uso delle immagini sacre e delle iconografie bizantine in scenari urbani e li accosta a elementi pop, punk, rock, tattoo, presi dal loro background.
 


Per capire meglio il lavoro di questi due artisti, bisogna parlare del loro progetto Eikomprojeckt: nato intorno al 2012 insieme alla fotografa Jessica Stewart, si occupa di rielaborare icone sacre provenienti dalla tradizione bizantina, esposte per la prima volta per le strade brasiliane con il nome “Mural Italia Brasil” e poi con le scenografie di “Super Santos Tour” del cantante Mannarino. I due artisti di solito lavorano insieme realizzando un unicum, questa volta invece si cimentano in istallazioni autonome e separate.

La prima impressione che abbiamo, appena usciamo dall’ascensore, è di essere immersi nel colore tra simboli cristiani e pagani, il tutto con una forte connotazione pop. Ai lati troviamo la rappresentazione di due angeli con sembianze femminili. Sulla destra quello di Mr. Klevra e sulla sinistra quello di omino71, rappresentano gli angeli della morte, coloro che giudicheranno i vivi. Quello di omino71 è un grande calavera per metà umana, sulla cui testa capeggia in corsivo «de finis pena mai» e ai due lati «male nun fa» e «paura nun ave»: la vera condanna dell’uomo non è la morte, bensì il dolore eterno. A destra quello di Mr. Klevra ha lo sguardo accigliato e ai due lati due scritte «ho combattuto la mia battaglia» e ho «ho terminato la mia corsa».
 


Dopo questo primo spazio ci troviamo davanti la stanza principale e rimaniamo colpiti nel trovare una scultura di dimensioni umane: un black bloc che prega inginocchiato con tanto di panchetto, casco, sampietrino e lumini. La scultura dal titolo enigmatico, “Incontrollabile fede”, è realizzata da Salvatore Mauro e Matteo Peretti e prende ispirazione dal messaggio biblico: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra».

In seguito ci troviamo nel bel mezzo della lotta tra il bene e il male, rappresentata sulle pareti maggiori. Il Male di omino71 è un falso profeta crocifisso, con una grande scritta dorata «fake» sulla fronte, ispirato alla cultura giapponese dell’Old Style Tattoo di Ed Hardy, circondato da simboli sacri e profani, slang americano e romano; se lo analizziamo con attenzione troviamo riferimenti alla cabala e al numero 7, che sono alla base della realizzazione dell’opera. Tutta la parete è avvolta da onde in tempesta dalle quali emergono teste di draghi, calaveras e, infine, la grande prostituta Babilonia accompagnata dal Dio Denaro. In opposizione Mr. Klevra rappresenta la Santissima Trinità: quattro cavalli, due leoni e l’agnello, ribadiscono i chiari riferimenti alla simbologia cristiana (ricordiamo che Mr. Klevra è credente e praticante, a differenza di omino71 che si professa agnostico) e ai fumetti.
 


Il contrasto stilistico è molto marcato tra i due e questo ci aiuta nel riconoscimento, poiché la mostra è priva di indicazioni o di cartellini. Il curatore ci ha immerso in un memento mori, che prende direttamente ispirazione dall’Apocalisse di Giovanni, il cui compito è svelare o meglio rivelare. Il percorso si conclude con la «donna vestita di sole, e con la luna sotto i suoi piedi» (Apocalisse 12,1-2), e un grande libro che vuol rappresentare il testo sacro. La numerologia è fondamentale e ci sarebbe molto da approfondire sui vari collegamenti e sulle citazioni dai testi sacri, ma lasciamo all’attento visitatore il divertente compito di risolvere queste corrispondenze!

 

Sancta Sanctoroom
-1 art gallery – Casa dell’Architettura, Piazza Manfredo Fanti 47, Roma
23 novembre-aprile 2013

Per ulteriori informazioni visitare il sito
www.casadellarchitettura.it

[Oscar 2013] “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow

Ci sono film che si insinuano sottopelle, prescindono dal puro piacere estatico della visione per seminare un germe e imprimersi come fotografia di un pensiero, di un momento, di uno stato delle cose. Opere capaci di valicare i limiti dell’intrattenimento, dell’arte. Opere che vanno oltre, fissando punti, indicando direzioni, con il coraggio e la forza che è di pochi. Raro che ciò avvenga nel cinema contemporaneo occidentale, ancor più raro che ciò avvenga, oggi, nel cinema “americano”. Raro che un film sappia porsi con consapevolezza e coscienza come atto eminentemente politico di riflessione, esame e critica, non solo di fatti e accadimenti ma di un intero paese, della sua struttura e della sua essenza più intima. Zero Dark Thirty, lo straordinario ultimo lungometraggio di Kathryn Bigelow è tutto questo: una lucida e insieme spietata analisi di quel che sono oggi gli Stati Uniti e forse maggiormente di quel che non sono più. Il quadro di una nazione smarrita.

Scioccamente accusato di essere una sorta di apologia dell’etica reazionaria americana e di dare gratuito risalto a crude scene di tortura, l’opera della Bigelow si pone bensì al di sopra delle parti e inquadra, descrivendo la storia recente e, con ammirevole equilibrio, una situazione delicata e scottante che genera ancora ferite laceranti, immergendosi nell’intimo e scavando in profondità quando necessario.

Pensato e iniziato ben prima dei fatti che il 2 maggio del 2011 hanno portato all’uccisione di Osama Bin Laden, il progetto della Bigelow e del suo compagno Boal inizialmente si sarebbe dovuto concentrare sulla caccia al terrorista saudita. È stato poi completamente ripensato in seguito all’uccisione dello stesso. Zero Dark Thirty è divenuto quindi la storia di Maya, una giovanissima agente CIA, una predestinata, una Clarice Starling riattualizzata, che ha nella testa e nel cuore un solo obbiettivo da perseguire con decisione e a tutti i costi: non catturare, non interrogare, non indagare i perché, ma uccidere. Uccidere il diavolo. Un diavolo attraverso cui guardarsi allo specchio per uccidere se stessi o fare i conti quel che ne rimane, con il nulla, con un’identità smarrita, con la solitudine che è personale ma ancor più globale. Qui sta la grandezza di un film che si incentra completamente sulla asciutta prova attoriale della sua protagonista, una Jessica Chastain oramai indiscutibilmente tra le migliori interpreti contemporanee, un’agente nel senso più pieno del termine, protagonista di un agire che ha un prezzo altissimo: la scarnificazione di una identità, la propria, costruita intorno a un mostro frutto delle contraddizioni di quel sogno in cui si è nati e in cui si è creduto di prosperare.

Una corsa alla bieca vendetta che nelle mani della Bigelow diventa lo strumento per documentare le complesse derive scaturite dall’11 settembre. Documentare. La prima e unica donna premio Oscar per la regia, fonde con rigore ed equilibrio uno stile prettamente documentaristico con scene d’azione e tensione degne della migliore tradizione di genere, anche grazie a un montaggio preciso e puntuale e una musica mai invadente. Impossibile non rimanere ammaliati dall’intera sequenza del raid nel compound di Abbottabad, filmata con un taglio di realismo estremo e che pure racchiude al suo interno uno dei momenti più cinicamente politici di tutto il film come le inquadrature sui visi inespressivi e incapaci di reazione dei militari di fronte alle vittime collaterali. Un cinema che stilisticamente accelera e frena quando deve, virando lentamente senza far avvertire il cambio di tono, che si mantiene rigoroso e mai protagonista eccessivo e che sa letteralmente spegnersi nella struggente scena finale che è amara chiave di volta dell’enormità di un film a cui negli anni avvenire si guarderà forse con un occhio più distaccato e lucido, comprendendo quanto possa essere stato il punto di partenza per la rinascita del grande cinema americano, smarritosi come l’America stessa dipinta in Zero Dark Thirty.
(Zero Dark Thirty, di Kathryn Bigelow, 2012, drammatico, 157’)

“La ragione delle mani” di Emidio Clementi

Per chi non lo conoscesse, Emidio Clementi è il leader dei Massimo Volume, gruppo musicale italiano tra le realtà musicali più interessanti e apprezzate nella scena alternativa negli anni Novanta. L’approccio inusuale alla forma canzone che li contraddistingue, con Clementi che sul palco non canta ma recita i suoi testi mentre suona il basso accompagnato dalle sonorità post-rock della band, ha fatto emergere la vera forza del gruppo: la qualità assoluta della scrittura del front-man, la capacità di confezionare nella brevità di un brano musicale racconti compiuti e di autentica bellezza.

Dopo quattro album in studio il gruppo decide nel 2002 di prendersi una pausa per tornare poi sui proprio passi nel 2008.

Durante l’interruzione, Clementi si è concentrato sulla sua attività parallela di scrittore avviata nel 1997 con la raccolta di racconti Gara di resistenza (Gamberetti) e proseguita negli anni con romanzi in bilico tra autobiografia (L’ultimo dio, Fazi, 2004) e la narrazione più sociale che storica dei mutamenti della cultura italiana (Matilde e i suoi tre padri, Rizzoli, 2009).

Con La Ragione delle mani (Playground, 2012) Clementi torna al racconto con nove storie di musica che alternano le vite qualunque di personaggi reali e di fantasia, grandi stelle e celebrità minori note solo nel mondo musica, piccole vicende e grandi storie. La scrittura di Clementi unisce tutto senza sbavature, donando uguale dignità e grandezza a Marilyn Monroe nei suo ultimi giorni in “The lost weekend”(che si discosta molto, per materia, dagli altri, ma risulta forse il racconto più compiuto), circondata dagli amanti di una vita nel Cal-Nevada Lodge di Frank Sinatra, e a Lya Melitta, signora bolognese protagonista casuale di un documentario su Glenn Gould e del racconto “Incontro al buio in un ristorante cinese”.

I protagonisti delle storie di Clementi si trascinano tutti il fardello di un passato glorioso o glorificato, ingombrante, minaccioso o liberatorio come per Grazia e Bruno in “Due tazze di porcellana sull’orlo di un tavolo”. Il tempo gioca un ruolo fondamentale nei racconti de La ragione delle mani. C’è sempre un passato a cui volgere lo sguardo, un futuro incerto che si delinea nel presente come misera somma di attimi che si divorano a vicenda fondendo ieri e domani. È il tempo lo spazio in cui si muovono i personaggi, un tempo fatto di spostamento e attesa che qualcosa accada, che l’evento per cui tutto si prepara si manifesti. Come in “La villa” e “Attraversando Roma su una macchina della produzione”, dove la storia si ferma prima che si risolva l’aspettativa che anima il testo, prima che arrivino gli ospiti, nel primo caso, prima di iniziare il concerto nel secondo. Perché la vita non è quello che ti accade mentre fai altri progetti: la vita è quello che accade mentre si aspetta che qualcosa accada.

Il taglio quasi cinematografico della scrittura di Clementi conosce i suoi momenti più alti proprio nel riempire quei tempi di attesa, nel narrare con semplicità la semplicità di storie speciali che nel loro essere normali riescono a esprimere non qualcosa sulla vita, ma sul vivere, sul senso quotidiano dello stare al mondo.

Clementi è in questi giorni in tour con Corrado Nuccini dei Giardini di Mirò per presentare dal vivo in un reading musicale La ragione delle mani. Le prossime date previste sono: 15 febbraio, Pescara; 16 febbraio, San Benedetto del Tronto; 2 marzo, Bologna.

(Emidio Clementi, La ragione delle mani, Playground, 2012, pp. 131, euro 13)

[BioSong] “Losing My Religion” dei R.E.M.

In campo musicale il 1991 è un anno di grandi canzoni. Nel volgere di pochi mesi, infatti, come per magia, un salvifico risveglio dal torpore elettro-pop degli anni Ottanta ci conduce verso alcuni brani rock che ormai, a distanza di un ventennio, possiamo indubbiamente affermare essere dei classici: “Losing My Religion” (Rem), “Jeremy” (Pearl Jam), “Nothing Else Matters” (Metallica), “Smells Like Ten Spirit” (Nirvana), “November Rain” e “Don’t Cry” (Guns N’ Roses), “Under The Bridge” (Red Hot Chilly Peppers), “One” (U2).
Di tutte le canzoni appena citate, quella che meglio rappresenta l’inizio degli anni Novanta è probabilmente “Losing My Religion” dei R.E.M. Fra il 1991 e il 1992 è impossibile non sentirla almeno una volta al giorno alla radio, senza dimenticare lo strepitoso successo del video che per mesi e mesi imperversa su MTV incantando con le sue immagine suggestive milioni di persone. Come afferma il bassista Mike Mills del resto, «ci sono stati pochi eventi epocali nella nostra carriera, perché è avanzata così gradualmente. Se proprio bisogna parlare di un cambiamento storico, credo che la cosa che ci si avvicina di più sia “Losing My Religion” poiché senza questa canzone l’album Out of Time avrebbe venduto due o tre milioni di copie rispetto ai circa dieci che ha venduto in realtà». “Losing My Religion” ha trasformato una rock band famosa, ma pur sempre di culto, in un fenomeno planetario. Fra la fine degli anni Ottanta e l’uscita di Out of Time i Rem sono in effetti in mezzo al guado: ormai troppo commerciali per i vecchi fan del circuito dell’alternative rock dei college americani non riescono tuttavia ancora a sfondare nel mainstream. Dopo “Losing My Religion”, invece, niente sarà più come prima per il gruppo di Athens, che dovrà persino giustificarsi per il successo ottenuto (in un’intervista pubblicata su Mucchio Selvaggio a. 2, n. 95, p. 28, si chiede al gruppo se provi una forma di imbarazzo per il successo commerciale ottenuto negli ultimi anni).

«La canzone è stata scritta al mandolino», afferma il chitarrista Peter Buck, «so che arriva al cuore e mi piace suonarla ma quando la eseguiamo sembra solo una grande hit che ti dà la carica. Non sono sicuro di aver provato le stesse sensazioni quando l’ho scritta o quando ho sentito il testo di Michael (si riferisce a Michael Stipe, cantante e autore dei testi dei Rem, ndr) ma è una delle preferite del pubblico e ti dà sempre parecchia carica».
Il titolo, frainteso per anni, così come gran parte del testo (certo il video carico di immagini pseudo religiose non aiuta a chiarirsi le idee) si riferisce ad una espressione idiomatica degli Stati Uniti del Sud che significa letteralmente “perdere la pazienza, non farcela più” e si tratta, sempre secondo le parole del chitarrista, di una classica canzone ossessiva, di un amore irrequieto. Niente a che vedere quindi con «una canzone centrata sul tramonto dei grandi ideali», come ancora nel 1995 scrive il critico musicale del Corriere della Sera Luzzato Fegiz (Corriere, 21/2/1995). Lo stesso Stipe ha rivelato più volte che si tratta di una canzone su di un amore tormentato e che l’ispirazione viene da “Every Breath You Take”dei Police (altra canzone su un amore difficile). E che il tema sia l’amore, sebbene nel classico stile R.E.M. non compaia mai nel testo la parola “love”, pare chiaro dalle seguenti strofe: «That’s me in the corner. / That’s me in the spotlight / losing my religion / trying to keep up with you / and I know if I can do it»(«Eccomi nell’angolo. /Eccomi sotto i riflettori/ che sto per perdere il controllo / cercando di tenere il tuo passo / e non so se ce la faccio»). E ancora, man mano che il testo scorre, il protagonista appare sempre più stanco, alle corde, ormai privo di forza per reagire: «Every whisper of every waking hour / I’m choosing my confessions / trying to keep an eye on you / Like a hurt lost and blinded fool / oh no I’ve said too much».(«Ogni sussurro di ogni ora del giorno / scelgo le mie confessioni / cercando di tenerti d’occhio / come un idiota ferito, smarrito e accecato / oh no ho detto troppo»).

I medesimi versi hanno inoltre fatto a lungo discutere riguardo la presunta natura autobiografica della canzone, in particolare : «That’s me in the corner. / That’s me in the spotlight». Secondo Tony Fletcher e Gianni Sibilla, autori di una ottima biografia del gruppo (R.E.M. Vecchie storie, nuove avventure) pare, infatti, che lo stesso Stipe all’inizio fosse intenzionato a scrivere “Quello sono io in cucina” per evitare la percezione della rockstar alle prese con i propri dolori. Come afferma David Buckley in Fiction. Una storia vera, fatto strano per una band che non ama i video, sarà invece proprio quest’ultimo a completare l’opera rendendo il singolo un successo così notevole. Si tratta del primo videoclip in assoluto in cui il gruppo utilizza il playback. Protagonista assoluto è Stipe (l’unico dei quattro che ama questo genere di performance) mentre gli altri tre R.E.M. fanno fugaci apparizioni sullo sfondo lasciando il frontmanlibero di esprimersi in primo piano sul modello di “Nothing Compares to You”di Sinead O’ Connor uscito l’anno precedente e di “Once in a Liftime” edei Talking Heads del 1981. Girato dal regista indiano Tarsem in una stanza vuota con una finestra che dà sull’aperta campagna, grazie alle sue immagini celestiali, ai rimandi di Caravaggio e al cinema russo sperimentalista di Tarkovskij, così come alla leggenda di Icaro, ma più in generale grazie alla notevole qualità dell’opera intera, il video vincerà ben sei Music Awards fra cui il premio come miglior video dell’anno. Questi riconoscimenti non impediranno tuttavia la censura in un cattolicissimo paese come l’Irlanda a causa di alcune immagini simili alla crocifissione e di altre ritenute omofile fra cui, su tutte, spicca quella di un giovane a petto nudo con le labbra col rossetto legato ad un albero. Nonostante “Losing My Religion”  sia il pezzo che probabilmente molti fan dei R.E.M. sceglierebbero come il loro preferito dell’album Out of Time se non addirittura dell’intera opera del gruppo, questa non sarebbe probabilmente la prima scelta né dei fan più accaniti e di lunga data né degli stessi membri della band. Ed è vero. I R.E.M. infatti sia negli anni Ottanta che Novanta hanno scritto canzoni migliori di “Losing My Religion” ma certo è che non hanno mai raggiunto il medesimo successo commerciale.

(“Losing My Religion”, R.E.M., Out of Time, Warner Bros, 1991)

 

“Comiche” di Gianni Celati

Quarantun anni sono davvero troppi per rivedere pubblicato il libro d’esordio di Gianni Celati, Comiche. Il recupero editoriale di Quodlibet rende giustizia a un’opera importante e purtroppo sconosciuta al grande pubblico. Non è un caso se a scoprirlo fu Italo Calvino, quando nel 1967 lesse il primo abbozzo del libro sulla rivista napoletana Uomini e idee e incitò Celati a proseguire il lavoro affinché potesse promuoverlo per la collana La ricerca letteraria di Einaudi.

Ammalatosi di epatite virale e costretto a un periodo di quarantena, Gianni Celati scrive le prime pagine di Comiche, ispirato da alcuni scritti di un anziano ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Pesaro.

Otero Aloysio, il protagonista, scrive il suo diario ossessionato da voci malevole e dal timore di sbagliare; scrive, cancella e riscrive, mentre gli si affollano attorno altri personaggi, numerosi e molesti, creando il teatrino di «un mondo dove tutti giocano a correggerti», dove si vive nel divieto, nella competizione, nella coercizione e anche il proprio nome si perde nel dubbio.

Per capire questo testo e non fermarsi all’idea di libro d’avanguardia bisogna conoscere le innumerevoli letture di Celati, il quale spazia dai flussi di coscienza dell’Ulisse di Joyce alle teorie antropologiche di Lévi-Strauss e De Martino, con la scoperta delle culture animiste e dell’«andar fuori di sé» sciamanico come viaggio dove si dimentica se stessi per ascoltare. Da qui l’abbandono del razionalismo e dei suoi luoghi comuni, che nel mondo occidentale può essere identificato soltanto con la pazzia, quindi come fatto patologico.

Altro riferimento fondamentale è quello al cinema comico americano di Stan Laurel & Oliver Hardy, dei fratelli Marx e di Jacques Tati: il titolo è un evidente richiamo alle gag del cinema muto, alla necessità di creare una lingua di gesti corporali, buttando via punteggiatura e sintassi per un parlato mimico culminante nella bagarre.

La storia c’è e si ride, ma il superfluo è bandito, la frase segue il parlato e non la fissità lineare dello scrivere consueto. Fantastica sintesi di tutto questo è la scena finale, in cui Otero Aloysio, in sella a un ciclomotore sgangherato, cerca di raggiungere la corriera dei villeggianti, e mentre goffamente mantiene il cappello fermo sul capo, la valigia si apre lasciando liberi tutti i fogli del suo tormentato diario: «Volano e fine».

Comiche è un’opera originale e significativa che dopo quarantun anni parla alla nostra sensibilità e forse risulta ancora più calzante alla realtà di oggi.


(Gianni Celati, Comiche, Quodlibet Compagnia Extra, 2012, pp. 216, euro 15)

“La serata a Colono”, regia di Mario Martone

La serata a Colono, ispirato alla tragedia Edipo a Colono di Sofocle, costituisce l’unico lavoro teatrale della scrittrice Elsa Morante e viene messa in scena per la prima volta a distanza di trentacinque anni dalla pubblicazione de Il mondo salvato dai ragazzini, che la conteneva. È la Morante stessa a definire la sua opera come una parodia, nonostante si abbia l’impressione di assistere a molteplici e diversi generi teatrali ibridati fra loro.

L’Edipo della Morante, affidato alla regia di Mario Martone, è rappresentato da un magistrale Carlo Cecchi il quale, approdato fra le mura di un ospedale psichiatrico in preda a un delirio che lo porta a credere di essere Edipo egli stesso, viene assistito dalla figlia fino alla morte. Antigone, nei panni di una spaventata e ingenua ragazzina meridionale dalla parlata sgrammaticata, ripercorre la storia del padre all’interno dell’ospedale. Il coro, con una trovata registica efficace e straniante, è costituito da altri infermi, i quali vagano per la platea, disorientando il pubblico e sovrapponendosi alla scena principale, ciascuno in preda alla propria follia.

Durante la rappresentazione è forte la sensazione che sia Elsa Morante a raccontare la sua storia, servendosi degli attori e delle musiche, affidate al premio Oscar Nicola Piovani. È impossibile non scorgere fra le battute, di tanto in tanto, il dolore della scrittrice per la morte del pittore statunitense Bill Morrow, al quale la Morante era stata profondamente legata, al punto da strutturare Il mondo salvato dai ragazzini come un susseguirsi di esperienze di droghe che, nell’intenzione dell’autrice, l’avrebbero avvicinata all’intimità del pittore, permettendole di evocarlo.

La serata a Colono di Martone è scenicamente perfetto, non ci sono cadute di tono ed è la giusta chiosa del percorso “edipico” affrontato dal regista napoletano nel corso della sua carriera. Martone non tradisce lo spirito originario dell’opera e può contare su prove attoriali di altissimo livello grazie alla sua regia efficace e curata. I soliloqui di Cecchi si susseguono, incalzanti e paranoici, in un contesto che, pur presentandosi parodistico, assume di volta in volta gli aspetti di una tragedia, di una commedia, di un monologo e di molto altro, costringendo lo spettatore a vivere il dramma di Edipo attraverso le parole, che risuonano pesanti e fedeli, di una delle più grandi scrittrici italiane del secolo scorso.

 


La serata a Colono 
di
Elsa Morante
regia e scene di Mario Martone
con Carlo Cecchi, Antonia Truppo, Angelica Ippolito, Victor Capello, Vincenzo Ferrera, Totò Onnis, Rino Marino.
Coro (in ordine alfabetico) Giovanni Calcagno, Salvatore Caruso, Dario Iubatti, Giovanni Ludeno, Rino Marino, Paolo Musio, Franco Ravera


In scena al Teatro Argentina di Roma fino al 17 febbraio 2013

“Il tempo della festa” di Furio Jesi

Il volume Il tempo della festa di Furio Jesi (1941-1980) contiene scritti «tra i più rari o tra i pochi ancora inediti» del germanista e studioso del mito e delle religioni. Così lo presenta Andrea Cavalletti che lo ha curato per Nottetempo.

Saggi che vanno da Pavese a Rimbaud a Rilke passando per Mann, Proust, Lukács al magister Kerényi con il quale si era da poco consumata la rottura. Vi si mostra più che altrove la complessità di pensiero di questo intellettuale dalla vita breve ma feconda di scritti; complessità che investe la scrittura, una peculiare forma-saggio e un pensiero problematizzato dalla necessità di stringere la sofisticata elaborazione teorica sul mito con l’aspetto politico. Siamo nei primi anni Settanta, i più penseranno non casualmente. Jesi va elaborando l’idea della “macchina mitologica”, che «allude all’esistenza del mito come origine, cuore che però resta nascosto dietro le parole della macchina stessa».

Se Jesi legge le Elegie duinesi di Rilke come pura parola sgombra da qualsiasi gravame di semantizzazione per farla così vibrare in un vuoto epifanico, e in Pavese, ossia in uno dei narratori italiani che nel Novecento più di altri intorno al mito ha ragionato, vede «l’impossibilità per l’uomo moderno di accedere a un’esperienza collettiva del mito», il saggio (una lettura del Bateau ivre), su Rimbaud, «profeta di una rivolta», compone una lezione sulla differenza fra rivolta e rivoluzione. La prima è assimilabile al tempo sospeso della festa, alla parentesi del tempo storico, a un principio “veritativo” che è anche distruttivo della ragione dominante; priva delle coordinate strategiche che presuppongono l’ipotesi di un altro tempo, futuro e ideale, com’è della seconda. Motivo bastevole per ridere del giudizio ingessato e appiattito su un presunto marxismo “duro” di Jesi, e tantomeno sufficiente per leggervi una banale apologia del sacrificio: dell’eroe-vittima. Tutt’altro.

Ché se l’ambizione di Jesi, fra altre, era quella di legare la riflessione sul mito alla prospettiva politica, nell’esplicito referto sulla menzogna della macchina mitologica era lecito accludervi una definizione della Cultura di destra (altro suo titolo ristampato dallo stesso editore romano) come di quella «in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire». Laddove una critica della mitologia crede di poter rovesciare, nella rivolta del tempo della festa, la pratica autoritaria del dominio.

 

(Furio Jesi, Il tempo della festa, Nottetempo, 2013, pp. 230, euro 15,50)