“Fenomenologia di YouPorn” di Stefano Sgambati

Fenomenologia di YouPorn (Miraggi edizioni, 2012) porta a galla una domanda che, solo superficialmente, può risultare banale: com’è cambiato il nostro rapporto con la pornografia?

«Perché la trasgressione abbia successo occorre che si disegni su uno sfondo di normalità. […] Pertanto se Gilberto deve prendere l’autobus e andare da A a B, si vedrà Gilberto che prende l’autobus che va da A a B. Questo irrita sovente gli spettatori, perché essi vorrebbero che ci fossero sempre scene innominabili. Ma si tratta di una illusione. Essi non sosterrebbero un’ora e mezzo di scene innominabili, Quindi i tempi morti sono essenziali». Queste parole di Umberto Eco tratte dal Secondo diario minimo descrivono, sostanzialmente, cosa avviene in un film porno. L’attesa snervante, l’irritazione, la noia, che separa lo spettatore  dalle «scene innominabili».

Tutto ciò, nel mondo di YouPorn, e delle centinaia di siti nati in seguito, non esiste più.  Il punto di partenza è il video privo di questo aspetto. Dai film porno ai filmati porno. Nella maggior parte dei casi (qui le categorie e, di seguito, le sottocategorie e, ancora, di riflesso, la terminologia che ne è derivata e che è andata diffondendosi, giocano un ruolo fondamentale: la sezione «Vintage», per esempio, dà la possibilità allo spettatore di vivere quest’esperienza come-una-volta: attese, chiacchiere superflue, excursus su storie parallele sostanzialmente prive di senso, azioni completamente inutili da parte di uno o più attori), è tutto già pronto. Istantaneamente. I protagonisti non aspettano più, non trainano più lo spettatore verso l’atto – magari ci si può imbattere in una chiacchierata piena di doppi sensi tra la dottoressa e il paziente, o nella presentazione di una giovane finta ingenua americana durante il suo casting –, non c’è più un pre all’arrivo nel fienile, verso il momento in cui lei comincerà a togliersi la salopette o a sbottonarsi la camicia lasciando intravedere una micro sezione dell’alone del capezzolo – si parte da un presupposto: la pornografia ha, da sempre, una visione di sé prettamente maschilista, il fatto che l’oggetto della sua materia sia la donna – tramite un climax ai limiti dello sfinimento.

Di fondo, è il rapporto tra lo sviluppo delle tecnologie e l’uomo da un punto di vista pratico, meccanico. Da una parte, il singolo Vhs, la collezione di Vhs, magari, e il videoregistratore o, nel peggiore dei casi, la televisione; dall’altra il computer, internet e il suo essere (quasi) infinito. In passato, infatti, la possibilità di eliminare le parti non interessanti poteva avvenire unicamente attraverso un’opzione del registratore: Forward (l’opzione Rewind era sfruttata solo se si andava troppo avanti rispetto alla scena in questione oppure se la scena in questione era particolarmente apprezzata). Al di fuori di questo, partendo, ad esempio, dai film e dalle réclame sulle reti private che andavano in onda la notte, il nulla. Questa opzione, sfruttando il cursore in basso al video, è rimasta. Dal particolare che ci viene proposto, possiamo inoltrarci ancora più nello specifico, sezionando sempre più a fondo il filmato che abbiamo di fronte, in un gioco  di matrioske potenzialmente infinito.

Un esempio di questa distanza tra la volontà dell’individuo e l’assenza di supporti tecnologici, per quanto possa sembrare decontestualizzato, può essere estrapolato dalla graphic novel di Joe Matt, Al capolinea, dove il protagonista, Joe Matt stesso, forse involontario lungimirante, passa intere giornate tagliando da Vhs porno le parti in cui compaiono volti maschili, e copiando ciò che resta su un altro Vhs; costruendo, dunque, scegliendo. Scegliere cosa guardare, quando guardare, quanto a lungo guardare.

L’attesa è stata bandita, i concetti di plot e fabula, per quanto vuoti, superati; ci troviamo immersi direttamente nel cuore della situazione – l’atto sessuale pratico e praticato. 

Sgambati porta a queste riflessioni soprattutto attraverso tre macro sezioni in cui il libro è diviso: Da “Forza Chiara” a Belén Rodriguez; Dai film porno ai filmati porno e Siamo tutti malati?. La prima tratta due fenomeni diametralmente opposti: Chiara da Perugia, ragazza poco più che adolescente, ripresa dal fidanzato ventenne, entrambi «non particolarmente belli, neanche fatti tanto bene», episodio che secondo l’autore ci iniziò al video porno amatoriale e che ci preparò involontariamente a quello di Belén Rodriguez non ancora maggiorenne, e al rapporto complesso di immedesimazione nei confronti del modello argentino che è con lei e che in quel momento sta «operando una sintesi tra tutto quello che desidereremmo e tutto quello che non avremo mai».

Della seconda, la più breve, e probabilmente il cuore del libro, si è parlato, in parte, in precedenza trattando del rapporto film porno-filmato porno, arricchita un elenco di termini che si sono diffusi (basti pensare alla parola blowjob) o che sono nati, veri e propri “neologismi”, in seguito a YouPorn (l’acronimo POV, che sta per Point Of View) con accanto spiegazioni che non entrano nello specifico, ma che possono essere d’aiuto per i neofiti.

La terza parte è l’incontro dell’autore con Emilio Lambiase, psicoterapeuta che si occupa di problematiche sessuali in genere e di disturbi ossessivi gravi. La domanda che si pone Sgambati è: a quali conseguenze può portare un uso eccessivo di YouPorn?  Lambiase risponde che «i canoni estetici si modificano, si modifica il percorso di corteggiamento che rischia di risultare timoroso e timido oppure, al contrario, eccessivamente sfacciato, perché l’obiettivo sessuale diventa troppo precoce, nel desiderio o nel timore di fallire».

A completare il tutto, la prefazione di Enrico Remmert e tre brevi contributi di Gaja Cenciarelli, Roberto Moroni e Carolina Cutolo.

Fenomenologia di YouPorn è originale, divertente, ma soprattutto coraggioso: per trattare di un surrogato del sesso, di un’attività che nell’immaginario collettivo ha dei connotati di immoralità, di meschinità, di sudiciume, ma soprattutto di profonda  e incolmabile solitudine, bisogna essere ben allenati, e Sgambati lo è. In qualche modo, un’opera d’avanguardia.

(Stefano Sgambati, Fenomenologia di YouPorn, Miraggi edizioni, 2012, pp. 144, euro 14,90)

[Oscar 2013] “Les Misérables” di Tom Hooper

Premessa doverosa: Les Misérables di Tom Hooper, candidato a otto premi Oscar tra cui miglior film e regia, non è l’ennesima trasposizione cinematografica del romanzone di Victor Hugo del 1862: è l’adattamento del musical tratto dal romanzo. Nel 1980 a Claude-Michel Schönberg e Alain Boubil venne in mente di scrivere uno spettacolo musicale tratto dal romanzo e di portarlo in scena nei teatri di Parigi. Non ebbero successo. Lo spettacolo venne però notato dall’impresario Cameron Mackintosh che pensò di portarlo a Londra con un nuovo libretto in inglese. Fu un trionfo. Da allora lo spettacolo è stato riproposto per più di venticinque anni consecutivi nel West End, portato a Broadway e in giro per il mondo, vincendo premi su premi e diventando il musical più longevo di sempre.

La storia è la stessa del libro di Hugo: nel 1815 Jean Valjean, il prigioniero 24601 del carcere di Toulon, riottiene finalmente la libertà dopo diciannove anni di prigione per aver rubato un tozzo di pane (e aver tentato più volte la fuga). Mentre l’uomo lascia il carcere, il funzionario di polizia Javert lo avverte che non lo perderà di vista, perché un ladro è destinato a rimanere tale. Di nuovo libero Valjean si scontra con la difficoltà di tornare a una vita normale con i suoi documenti di ex-galeotto. Trova conforto e riparo presso un vescovo di campagna che gli offre un tetto dopo giorni di vagabondaggio. La notte non resiste alla tentazione di rubare al vecchio l’argenteria, ma, sorpreso dalla polizia, riceve l’inattesa grazia dell’uomo che afferma di avergli donato la refurtiva e lo invita a usarla per il bene. Colpito dalla carità, Valjean straccia i suoi vecchi documenti e decide di iniziare una nuova vita votata agli altri. Passano gli anni, Valjean è diventato Monsieur Madeleine, sindaco e imprenditore a Montreuil sur Mer. Il caso vuole che il suo antico aguzzino Javert venga nominato ispettore di polizia della cittadina. Lo riconosce. Valjean/Madeleine è costretto alla fuga perché il poliziotto vuole ritradurlo in carcere per non aver rispettato i termini della libertà vigilata, ma Valjean, pronto a pagare per le sue colpe, non può consegnarsi perché ha promesso alla morente Fantine, prima operaia presso la sua fabbrica, poi costretta dalla miseria alla prostituzione, di prendersi cura della di lei figlia Cosette. Obbligato moralmente dall’impegno assunto, Valjean riscatta la bambina dai biechi locandieri che l’avevano in custodia e raggiunge Parigi, dove i due vivranno tranquillamente fino all’esplodere delle insurrezioni del giugno 1832 che portò i parigini sulle barricate e Valjean a rincontrare Javert.

È un film di ossessioni, Les Misérables: l’ossessione di Javert per Valjean e per un concetto di Legge come Giustizia; l’ossessione di Valjean per le sue colpe da espiare e per una Giustizia che va oltre la legge; l’ossessione di Marius, giovane rivoluzionario di ricca famiglia, per Cosette, che sconvolge gli equilibri padre-figlia; dei Thenardiér, i biechi locandieri, per i soldi; dei giovani parigini per la libertà; di Tom Hooper per i suoi attori. Gli si incolla in faccia con la telecamera e non li lascia respirare. Fedele all’impostazione quasi operistica del musical (niente dialoghi, niente coreografie, tutto cantato), il regista de Il discorso del re si concentra sugli interpreti con continui primi piani. Dopo l’ouverture spettacolare sui lavori forzati di Valjean, con canzone corale e movimenti coordinati, il campo si restringe sul cantante di turno e sui riflessi emotivi del cantare (Hugh Jackman/Valjean bravo ma non da Oscar, Russel Crowe/Javert un po’ rigido e fuori posto, Anne Hathaway, nel breve ruolo di Fantine, conferma che il 2012 è stato un anno d’oro per lei), tornando ad aprirsi nella scena della locanda, con la coppia formata da Sacha Baron Cohen e Helena Bohnam Carter perfettamente affiatata, e nel finale barricadero che richiama parecchia pittura di Delacroix. Per gli amanti dei musical c’è molto di cui bearsi: grandi canzoni, duetti serrati (Confrontation, per dirne uno), pathos ed emozione, con un ottimo impianto scenografico e effettistico che sa molto di teatro lirico. Per tutti gli altri rimane lo scoglio, non piccolo, di due ore e mezzo di canzoni e primi piani che tendono alla ripetitività e il pensiero, di fondo, che se avessero fatto un normale film dal romanzo ci sarebbe stato solo da guadagnare.

(Les Misérables, di Tom Hooper, musical, 2012, 153’)

 

[SongList] La città

Iniziamo il 2013 con una nuova rubrica. Una rubrica con tanta Musica e poche parole. Anzi, una parola sola a fare da tema e da filo conduttore con i brani accuratamente scelti e presentati nella lista. Ormai fare una degna playlist è un’arte, e noi di InMusica vogliamo proporvi la nostra. Prima parola-argomento chiave: la città. Perché il Potere della musica è anche quello dell’evocazione: suggerire e creare nell’ascoltatore scenari e contesti solo grazie all’ascolto di pochi riff e qualche ritornello. Ogni grande autore o band ha cantato almeno una volta la storia di una città più o meno grande e famosa, usando spesso il brano come pretesto per trattare di qualcosa di più ampio e complesso. Partendo da questa potenza, inauguriamo SongList. Buon ascolto.

 

R.E.M., “Houston”

Il posto delle promesse e della speranza, soprattutto quando il Presidente si chiama Bush. Sentita dichiarazione politica di un gruppo che tante volte ha espresso disapprovazione e vergogna per le scelte del proprio Capo.

 

Interpol, “NYC”

La Grande Mela dilaniata dopo l’119. Una metropoli collassata e ferita decantata in maniera struggente, dove le «metro sono un porno e i pavimenti un casino». Gli esordienti Interpol fanno dello smarrimento urbano uno dei loro marchi di fabbrica: saranno gli alfieri della scena indie-rock degli anni Duemila.

 

Antonello Venditti, “C’è un cuore che batte nel cuore di Roma”

Il cantautore romano ha scritto brani ben più celebrati e famosi dedicati alla Capitale, ma in questa canzone si respira tutta la fortuna ed il privilegio nell’essere un cittadino dell’Urbe. Soprattutto quando «Io esco di casa ed è già mattino e Villa Borghese è ancora un giardino».

 

The Clash, “The Guns of Brixton”

Primo pezzo scritto e cantato dal bassista Paul Simonon, dalle riuscite sfumature reggae, parla per l’appunto di quanto questa cultura musicale e di vita fosse presente nel quartiere a sud di Londra. L’album da cui è tratta? Ovviamente London Calling

 

Rammstein, “Wiener Blut”

Il Sangue viennese è quello scaturito dal tragico fatto di cronaca riguardante Elisabeth Fritzl, segregata e seviziata per più di vent’anni dal padre in un bunker costruito sotto casa. Till Lindemann miscela la sua poesia tragica e gotica alle tematiche più insostenibili. «Seid ihr bereit? / Seid ihr so weit? / Willkommen, in der Dunkelheit!»

 

Fabrizio de Andrè, “Sidun

Creuza De Maè un concept album sul viaggio, tra i più immensi in assoluto mai composti, e tra i lavori più grandi mai fatti a livello linguistico in Italia. Con “Sidun” il grande Faber, oltre a parlare di marinai e puttane, riesce a trattare un altro tema a lui molto caro: la guerra. Ascoltando la performance vocale più grande mai registrata dal poeta genovese, è difficile non piangere per la storia di questa madre palestinese che tiene in braccio il suo figlioletto schiacciato da un carroarmato. E il lutto di una città diventa il lutto dell’umanità.

 

Ringo Starr, “Liverpool 8”

Ovvero: come raccontare la storia dei Beatles dall’interno. Pieno di citazioni e riferimenti alla biografia ormai epica dei Fab Four, questa canzone è una sorta di cartolina nostalgica in cui vengono raffigurati non tanto i membri della più grande band della storia, quanto quattro amici conosciutisi per le vie industriali e proletarie di Liverpool, ignari del destino che gli attende.

 

Afterhours, “Milano Circonvallazione Esterna”

 

Fedele alla sua scrittura cancerogena e d’impatto, Manuel Agnelli apre Non è per sempre con il martellante battito di un personaggio ormai alienato e semiannullato dalla città che lo ospita. E Milano diventa così zona per piccole e grandi Iene.

 

Nirvana, “Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle”

La Seattle del Grunge è ormai un’icona consegnata agli annali della storia del rock. Kurt Cobain, il suo Messia, ormai logorato dalla vita e dalla musica da lui stesso creata, piazza nella rabbia di In Utero il caotico fragore di un brano criptico. Riascoltare oggi «Ho perso il benessere diventando triste» ferisce più delle mille congetture ipotizzate sulla dipartita dell’Angelo biondo di Seattle.

 

Il Teatro degli Orrori, “Skopje”

La lettera di un lavoratore macedone emigrato che scrive alla sua famiglia, ancora a Skopje. Uno dei momenti più forti e indimenticabili de Il Mondo Nuovo, dove la band sfoga tutto il noise e Capovilla tutta la sua influenza majakowskiana. Impossibili rimanere indifferenti.

 

The National, “Bloodbuzz Ohio”

Lo stato chiave delle votazioni presidenziali americane è anche il luogo in cui Matt Berninger dedica uno dei suoi testi più sentiti ed emozionanti. Cantato in modo da imprimersi per sempre. Indimenticabile anche il video.

 

Tom Waits, “Singapore”

Brano simbolo della poetica di Waits, qui l’artista di Pomona dimostra d’essere perfettamente a suo agio tra cappellai matti, alcolisti, girovaghi e vagabondi. Il fatto d’essere dall’altra parte del mondo non lo disturba minimamente. Il tutto è condito con un accompagnamento musicale capace di portarti repentinamente in quelle strade losche e torve, ma altrettanto piene di vita. Benvenuti nel mondo dei Rain Dogs.

 

Wilco, “Capitol City”

Bisogna godersi i momenti in cui Tweedy è di buon umore, lontano da antidolorifici ed emicranie. Anche perché la musica sembra guadagnarne. Soprattutto quando passa per Capitol City.

 

Ministri, “Vicenza (La voglio anche io una base a)”

Da sempre scaltri osservatori dei malaffari italiani, i Ministri del rock descrivono impietosamente il malcostume di un Nord Italia tanto impegnato a ostentare benessere e successo da non considerare le basi militari dietro casa. Tempi bui.

“Coi binari fra le nuvole” di Riccardo Finelli

C’era una volta la «Transiberiana d’Italia», la linea ferroviaria che, all’interno del macrocosmo della Pescara-Napoli, la «Napoletana», collegava Sulmona con Carpinone e poi Isernia. Un frammento di strada ferrata importante per la sua storia – genti varie partirono da queste terre per emigrare in America – e per la sua bellezza paesaggistica – la Majella è giusto lì di fianco a controllare. C’era una volta, dicevamo, perché dal dicembre del 2011, in anticipo di quasi un dieci mesi dal compimento del suo centoventesimo anno di vita – la linea era infatti stata inaugurata il 18 settembre 1892 – la Regione Abruzzo ha deciso di “fossilizzarla”, sostituendola per intero con il servizio bus.

Coi binari fra le nuvole (Neo Edizioni, 2012), di Riccardo Finelli, è la cronaca di un viaggio clandestino lungo questa tratta nel cuore dell’Italia, tra Abruzzo e Molise. È il diario di coloro che non si sono dati per vinti, che hanno voluto ripercorrere a piedi i 120 chilometri e le 320 mila traversine della Sulmona-Carpinone.

Viaggio clandestino, perché lo sanno tutti che è vietato camminare tra i binari, ma poco importa a Riccardo e al suo amico d’infanzia Stefano Cipriani – che ha curato l’introduzione al libro. Così, convinti e testardi, i due decidono di intraprendere il percorso a piedi, calcolando un tragitto della durata di quattro giorno per circa dieci ore di cammino al dì, che finirà per avere le seguenti tappe: primo giorno da Sulmona a Campo di Giove; secondo giorno da Campo di Giove e Afedena; terzo giorno da Alfedena a Cerreto di Vastogirardi; quarto giorno da Cerreto di Vastogirardi a Carpinone. Lungo la strada fioccano gli incontri: con Emanuele, «istruttore di orienteering, sulmonese»,  con Liborio, «per trent’anni macchinista sulla linea e per venti sindaco o vicesindaco di Campo di Giove», e ancora con Walter, il ferroviere del casello sulla via per Castel di Sangro, fino al capostazione di Carpinone, colui che sancirà involontariamente il raggiungimento della meta.

«Già, perché? Saranno i quattro giorni di viaggio, densi di vita e ricordi. Sarà la stanchezza allucinante […] Ma adesso il perché di tutto questo me lo sto chiedendo anch’io. Per turismo? Per un ultimo saluto alla linea da viaggiatore romantico? Per protesta verso la colossale indifferenza a cui è stata abbandonata la ferrovia? […] Per testardaggine? Per amore? Forse per tutto questo assieme…»

Coi binari fra le nuvole è la storia di questo viaggio sentimentale tra le nuvole, appunto, che ha il sapore di una storia di casa nostra, di quello che è il nostro paese, che è sempre qui davanti ai nostri occhi con le sue meraviglie e la sua disarmante bellezza, nonostante spesso lo si ignori o ci si ostini a sconfessarlo. Insomma è un libro, questo di Riccardo Finelli, che può far bene all’anima. Davvero.


(Riccardo Finelli, Coi binari fra le nuvole, Neo Edizioni, 2012, pp. 176, euro 13)

“La vergine che attrae”, regia di Vittorio Adinolfi

Il violino sa cavalcare le note di un drappo steso, pur essendo da esso celato. Il suono riesce ad attraversare le sottili maglie di tessuto, per approdare ai corpi diafani di due giovani innamorati. Il suono non riesce a essere arrestato da alcun sentimento. Il suono può solo rotolare fino alle orecchie di chi ha bisogno di ascoltarlo.

È la vertigine a generare attrazione. La vertigine che si trova immersa nel fondo marino dell’animo di ciascuno. In quel fondo inanimato di ricordi di solito ci sono memorie stantie e invecchiate. Non nell’animo di Ellida, che in quel punto ha accumulato gli sguardi di un uomo che non può non ritornare nel suo reale. Ha tentato di cambiar vita, di concedersi a un altro, ma non può dimenticare il suono delle sue mani sui drappi increspati, non può dimenticare il suono delle onde sulla barca che pochi anni prima traghettava lontano il suo sogno.

È proprio il suono quindi a ritornare nella mente come nel corpo di Ellida, a rendersi puro controcanto della triste melodia che la donna ha intonato nel seno del suo amore per il dottor Wangel. Medico e marito, quest’ultimo ha la colpa dell’amore che sa ispessire la quotidianità fino a renderla resistente all’urto di qualsiasi pensiero che rifugga la realtà coniugale.

Nel frattempo Ellida sa essere l’onda che torna al mare, se quest’ultimo solo le rivolge il suo indimenticato spumeggiare. È il mare che continua a guardarla, da quando il suo antico amante ne ha fatto la sua via di fuga. Ogni goccia del mare è divenuta quindi un occhio. E per ciascun occhio è nato un dubbio. Si tratta di uno sguardo che vive solo della sensazione del brivido che può generare nella pelle della donna. Uno sguardo rarefatto, sublimato, che può essere reso veramente immateriale solo dalla musica.

Proprio attraverso la musica del violino del M° Michela Coppola, la regia di Vittorio Adinolfi fa rivivere sul palco il personaggio non rivelato del testo di Henrik Ibsen, La donna del mare. Ellida (Angela Rosa D’Auria) si fa travolgere da una scenografia essenziale, ma costantemente avvolgente. Drappi e fili di cotone attorniano sempre più i due sposi, mentre le luci scivolano sul palcoscenico solo sfiorando i corpi senza mai definirli troppo, in un continuo rimando a ciò che l’oscurità può e deve nascondere. È l’oscurità in cui si cela lo sguardo dell’amante perduto, che sarà sempre vicino, ma mai realmente rintracciabile.

Al lieve candore Angela Rosa D’Auria sa alternare rapaci scatti di emozioni a stento trattenute, proprio come le onde del mare che finiranno per rappresentarla. D’altra parte Maurizio D. Capuono (Wangel) sa prodursi in una fine evoluzione psicologica che, da mero contenitore di una donna barrata da un desiderio possente quanto straniero, lo rende donatore di una scelta che potrebbe distruggerlo, ma anche parte attiva e cruciale della vicenda e del suo esito.

La rappresentazione di Vittorio Adinolfi riesce a trovare spessore nella delicatezza di interpreti mai impersonali e di costante fascino per la violenta follia che l’insieme scenico riesce a far sempre intuire senza mai rivelare.

 

La vergine che attrae
tratto da La donna del mare di Henrik Ibsen
regia di Vittorio Adinolfi
con Angela Rosa D’Auria e Maurizio D. Capuono

“Semplice” di Stefano Simeone

Semplice (Tunué, 2012), anche se solo apparentemente, è la graphic novel d’esordio di Stefano Simeone. Atmosfere oniriche e dolciastre – dall’indefinito sapore di zucchero filato gusto puffo – e sfumature rigorosamente pastello per raccontare una storia in bilico tra la monotona realtà e una sfrenata immaginazione.

Mario è un ragazzo come tanti, vive in una cittadina di provincia; si divide tra un lavoro in fabbrica ereditato dai genitori e la passione per i videogiochi; sposa, un po’ per noia, un po’ per rassegnazione, valori altrui, lotte altrui. Conduce, appunto, una vita semplice, prevedibile, ripetitiva ai limiti della confusione. Come gestire una quotidianità in cui la semplicità è tale da mostrare il suo lato negativo, non più mancanza di difficoltà e ostacoli bensì monotonia e una soffusa oppressione? Ogni personaggio – in una galleria di tipi umani che ci strappa, a ogni pagina, un sorriso amaro – ci prova a modo suo.
 


Per Michele, bambinone affetto da erre moscia e da una vaga ossessione per le “pecove”, l’unico passatempo sembra essere la ricerca di un nome geniale per un parco a tema, sulle pecore appunto. Ernesto, «lo stereotipo del vecchietto nostalgico», nonché campione imbattuto di boccia-bowling, vive in una continua rievocazione del glorioso passato, addolcito dalla laconica presenza di Brenda, la sua adorata ruota panoramica. Gli operai della fabbrica, ovviamente, rompono la monotonia giornaliera scatenando la «revolusiòn», poi sopita con una semplice macchinetta per il caffè. Per Mario, invece, il diversivo non sta nel mondo reale, ma in quello immaginario: anche se in un momento di stanca, lui è un supereroe.

I toni vagamente infantili cui sottende tutto il fumetto si sovrappongono a una complicata e ben riuscita alternanza tra realtà e fantasia, in cui il potere dell’immaginazione sembra lenire, almeno apparentemente, il tedio di una vita priva di svolte. Fino a quando, come in ogni storia di formazione che si rispetti, la svolta arriva davvero, e non potrebbe essere più reale di così: capelli lunghi, occhi grandi, appassionata di cinema. Non è una principessa da salvare, ma qualcosa di infinitamente più complicato: Giada, una studentessa fuori sede, che torna al paese dalla «città moltomoltolontana» dove si è trasferita per l’università.
 


Ecco il punto di rottura: la collisione tra la sicurezza dell’infanzia e l’incertezza della vita adulta, tra l’abitudine e il nuovo, tra la realtà e la fantasia è tale da provocare addirittura un’esplosione degna di un fumetto fantasy vecchio stile, con tanto di «katooom» a caratteri cubitali. Il cambiamento genera un vortice a tratti esilarante: come tutti, Mario non fa che ripensare agli attimi vissuti e a immaginare quelli che verranno, in una ripetizione di varianti infinite, in cui ogni minimo dettaglio, dai colori utilizzati alle impercettibili didascalie, diventa fondamentale.

Simeone ci racconta così una storia il cui contenuto si adatta naturalmente alla forma. Semplice sembra avere infatti tutti gli elementi tipici che caratterizzano un certo filone di graphic novel: un percorso di formazione, di educazione sentimentale, la rottura della barriera della solitudine o, in poche parole, il tanto temuto “diventare grandi”. Insomma, quel momento in cui niente è più semplice, ma forse tutto diventa vero.

(Stefano Simeone, Semplice, Tunué, 2012, pp. 175, euro 16,90)

[CultSeries] “Twin Peaks” di David Lynch e Mark Frost

Twin Peaks è una Madre. La Madre di un tipo di serie, che prima era considerato inimmaginabile e irrealizzabile. Nella storia della fiction televisiva, c’è un Anno Zero: un prima e un dopo segnati da  Twin Peaks. La sua messa in onda ha generato un unicum mai scalfito, visti gli effetti prodotti a livello artistico e di pubblico. Ma procediamo un passo alla volta, perché alla base di Twin Peaks c’è la Madre delle menti folli, geniali e malate: quella di David Lynch. 

Immaginatevi la scena: è l’aprile del 1990 – basta dare un’occhiata alla tv dell’epoca per capire quanto fosse mediocre e bonario il target – e il telespettatore americano, fermando lo zapping sul canale ABC s’imbatte in cupe immagini di fabbriche e boschi. Una fotografia terrosa e satura. Poi un sinistro cartello segnaletico che anticipa l’inquietante e grigio paesetto di Twin Peaks, al confine tra lo stato di Washington e il Canada. Dopo aver respirato l’atmosfera, lo spettatore s’imbatte nell’evento cult per eccellenza della storia delle serie: l’omicidio di Laura Palmer. Il ritrovamento del suo cadavere nudo avvolto in un telo di plastica sconvolge – e coinvolge – la cittadina, vista la popolarità della vittima. Ma lo shock va avanti: poco dopo, lo spettatore, già inquietato, viene a sapere che un’altra giovane del posto – Ronette Pulaski – è ritrovata in fin di vita vicino alle rotaie della ferrovia. Prima di entrare in coma, racconterà il suo incubo. A questo punto le turbate autorità del posto cedono le indagini all’FBI, nello specifico all’agente Dale Cooper. Da quel momento in poi inizia il vero delirio, perché Twins Peaks è la concentrazione estrema di tutto il male possibile da concepire per Lynch. E abbiamo solo accennato alla prima puntata…

La grandezza del regista (qui anche attore), è stata quella di andare oltre il solito thriller e portare lo spettatore a livelli narrativi e immaginifici mai trasmessi sul piccolo schermo, miscelando secondo le sue norme enigmatiche e decostruttive il fantasy – vedi ciò che accade nel Bosco –, il giallo e l’horror – ovvero La Loggia Nera. Altro epico esempio che vale più di mille parole: la Stanza Rossa.

Il successo di Twin Peaks è leggenda: «Chi ha ucciso Laura Palmer?» è il dilemma che ha assillato milioni di spettatori in tutto il mondo, creando un vero fenomeno massmediatico senza precedenti. Dai Twin Peaks Parties, dove la gente si riuniva per vedere gli episodi e dare le proprie ipotesi sull’omicidio, alle tshirt con la scritta «I killed Laura Palmer», alla Regina Elisabetta che interrompe un concerto in suo onore per vedere una puntata. Un aneddoto nostrano (in Italia i dati Auditel di Twin Peaks sono sbalorditivi, secondi solo alla Nazionale, al Festival di Sanremo e a La Piovra), anche per sottolineare quanto la serie sia entrata nell’immaginario collettivo culturale: alcuni casi di omicidi avvenuti tra il ’91 e il ’92, quando i parallelismi lo permettevano, venivano descritti come «omicidi alla Laura Palmer».

È anche bello vedere come nel tempo innumerevoli prodotti televisivi, abbiano tributato il loro omaggio alla serie Madre. Tra i tanti, chi ama i Simpsons, sa quando viene citata la Stanza Rossa. Ovviamente, con il loro stile inconfondibile.

Sicuramente le innovazioni e i pregi di Twin Peaks sono lampanti tutt’oggi, a più di vent’anni dall’esordio. Primo: l’aver portato il cinema in tv. La concezione e il progetto di un maestro della settima arte, il dispiego di mezzi, la sceneggiatura e la produzione sono degne di un film che ha poco a che vedere con una puntata di una fiction di allora. E anche di oggi. Già dalla sigla, composta dallo stretto collaboratore di Lynch, Angelo Badalamenti, si intuisce chiaramente il livello qualitativo. Secondo: l’impostazione narrativa. Tutti nel paese hanno un movente e sono legati alla vittima: questo li rende tutti protagonisti. E Lost ha appreso alla perfezione la lezione. Terzo: l’aver mostrato il soprannaturale e l’inconscio in tv. L’agente Dale Cooper, che risolve i casi lasciandosi guidare dalle sue visioni e da un misterioso sesto senso, è il padrino del Fox Mulder di X-Files e del Frank Black di Millennium. Quarto: l’aver trattato in maniera visivamente spietata e cruda tematiche estremamente forti. C.S.I. e colleghi hanno seguito la via. E diffidate dalle imitazioni o presunte tali: Carnivale e Happy Town, solo per fare qualche nome.

Rimane infine l’amarezza per come sia finita. Il dilemma sulla morte di Laura Palmer è stato in maniera duplice e alquanto cinica il motivo della vita e della morte di Twin Peaks. Lynch infatti non voleva proprio svelare l’enigma, mentre la produzione insistette per mostrarlo all’inizio della seconda stagione. Cosa che poi avvenne. Questo provocò uno spietato calo degli ascolti e un continuo declino sfociato nella cancellazione, lasciando come ultimo fotogramma una delle immagini più sconcertanti e folli mai viste sul piccolo schermo.

L’amara conclusione sembra però non aver tolto nulla al mito della Madre delle serie di qualità. Anzi. Lo stesso Lynch si è preoccupato di chiudere le vicende incompiute nel capolavoro Fuoco cammina con me. Ma questa è un’altra storia: prima dovete uscire vivi da Twin Peaks.
 

“Nel vento” di Emiliano Gucci

Emiliano Gucci di libri ne ha visti tanti. Li ha riposti, consigliati, impilati quando erano tanti, riordinati quando invece erano troppo pochi. Lo ha fatto e lo fa ancora perché è il suo lavoro. Le usanze odierne lo chiamerebbero “addetto alla vendita”, denominazione di origine poco controllata che applica l’etichetta a qualsiasi insegna, a qualunque merce da esporre e fatturare. Ma per me, come per quelli che il suo mestiere lo indossano e imparano ad amarlo molto più di come si ama un vestito, il termine abitabile è solo “libraio”. Ebbene, Emiliano Gucci è un libraio di Prato. Che ha deciso di compiere un salto. Di calarsi al di là della pagina. Di scrivere qualcosa che avesse il suo nome.

E il suo primo risultato è Nel vento (Feltrinelli, 2013).

Storia che inizia storta. Coi polmoni anneriti di cenere. Torva, scurissima, malgrado nevichi.

Il protagonista, da adolescente, assiste all’omicidio del fratello da parte di suo padre.

Assiste perché si cristallizza, il suo corpo si congela guardando in basso, raccontandosi che quell’assurdo si asciugherà in fretta. E invece il padre non si arresta, fracassa una stampella sulla testa di suo figlio, che si preme il cranio, provando quasi a contenere la fine, che era già arrivata. Lo ha visto uscire di casa, spalmarsi sul bianco ghiacciato e poi morire senza un rumore. 

Da lì, da quell’atto di impotenza confessato alle pareti, all’aria che gli punge i piedi, quel ragazzo sopravvissuto alla tragedia, perché non ha saputo entrarci, sceglie di voler correre.

Corre per spingersi in avanti, perché voltarsi sarebbe innaturale. Indietro graffia, indietro infetta.

Non pensa ad altro. Scappare forte, scappare veloce. Si rifugia nello scatto, picchietta ossessivamente la punta delle scarpe chiodate sui blocchi di partenza. Su tutti i blocchi possibili.  È quello il mantra adottato dal bisogno. Si rivolge a Stefano, il suo insegnante di ginnastica, a cui non chiede niente, se non di correre. Quello che è stato resta avvolto dentro una campana. Il perché di un orrore così denso, del sangue che annega la neve. Quello stesso terreno che poi diventerà un vigneto, quell’angoscia vinificata in botte, imbottigliata e tracannata senza sosta.

Il suo pensiero fisso si tramuta in obiettivo, lo scampato si fa corridore. Lui vuole solo allontanarsi, bruciare legna di distanze, segnare chilometri e giorni lontano da ciò che lo ha scheggiato. Da ciò che lo rincorre.

E comincia a gareggiare. Sul serio. Anche quel mondo, però, è sporco. Vive solo nell’attesa dello sparo.

E poi fino al traguardo. Ma tutto ciò che lo attornia, che lo segue, è una vertigine di squallore e scommesse, un universo putrefatto in cui gli avversari sono innominati, proprio come lui.

Hanno identità cifrate. Sono UNO, CINQUE, SETTE, volti divorati dalle sanguisughe, geometrie di corpi cesellati dalla chimica, dai diktat degli anabolizzanti, entità in movimento che vincono o perdono solo per ingrassare qualche portafogli. Al protagonista non interessa prestarsi al gioco. Lo ha fatto fin troppo, rinunciando alla salute, a pensarsi vecchio.

Ormai è stanco, sventrato dalle sostanze incapsulate nello stomaco e in mezzo alle arterie. Vuole solo aggiudicarsi il podio, il gradino più alto stavolta. E da lassù dire tutto il necessario, svuotarsi.

O riempirsi di ciò che gli manca.

Come l’amore che ha lasciato andare, con quella mela addentata sul tavolo, quel futuro mai morso abbastanza. Beatrice, la sola che poteva salvarlo, la sola con cui camminare e non da cui staccarsi, non ce l’ha fatta a sopportare il piombo dei suoi occhi.

E allora non resta che correre, fino a bruciarsi. Ma continua a qualificarsi secondo, a incarnare lo scarto. Quel passo mancato come una vittoria mai afferrata. E la corsa non basta a dimenticare. La fine non porta da nessuna parte, non c’è traguardo per chi vuole fuggire. I drammi si guardano sospesi, sono bolle che scoppiano nel vento. Appunto. Per chi è secondo il finale resta a metà. Come quello del romanzo.

Che comincia densissimo e rimane incompiuto, con frattaglie di immagini affollate e una sola domanda: «Era o non era quella la nostra vita?»

Una scrittura secca, affilata, senza scampo. Disillusa e acuta. Confluita in un libro che non occupa solo qualche centimetro nello scaffale, ma resta un mondo infelice che ci incolla alla partenza. L’avventura di una storia a cui è difficile non andare incontro.

(Emiliano Gucci, Nel vento, Feltrinelli, 2013, pp. 144, euro 12)

“Viaggi postumi. Avventure post-mortem dei personaggi illustri” di Omar López

Cosa succede agli esseri umani dopo la morte? Finisce davvero tutto con l’ultimo respiro esalato oppure possiamo sperare che il destino ci riservi altre sorprese?

Viaggi postumi. Avventure post-mortem dei personaggi illustri, di Omar López Mato, fornisce tutta una serie di aneddoti e curiosità sulle avventure che sono successe ad alcuni personaggi famosi dopo la loro morte, partendo dai processi di mummificazione degli antichi egizi e arrivando fino alle vicissitudini dei corpi di Che Guevara, Napoleone o Stalin.

Ad esempio, è celebre il lavoro del veronese Lombroso che ha avviato degli studi frenologici, usando teschi di assassini, ladri e stupratori al fine di spiegare le origini del comportamento criminale in base alle caratteristiche morfologiche del cranio. Seppure le intenzioni di Lombroso fossero lodevoli, non produssero alcun significativo risultato, se non un accumulo di crani nei musei di antropologia senza contribuire alla diminuzione della criminalità.

Eppure Lombroso non è stato l’unico a pensare di poter trovare un’utilità nei cadaveri. Lo studioso di medicina Gunther von Hagens ha sviluppato un sistema di plastificazione dei cadaveri che gli permette di conservarli in perfette condizioni per poterli trasformare in vere e proprie opere d’arte. Nel 1996, Von Hagens ha iniziato un tour mondiale dei suoi corpi in pose plastiche chiamato Body Worlds mantenendo l’intento didattico di mostrare agli uomini la meravigliosa meccanica umana, e suscitando sgomento, ammirazione e una buona dose di proteste.

Una particolarità di Viaggi postumi è confutare alcune leggende metropolitane diffuse, come ad esempio quella che riguarda le avventure post-mortem di Walt Disney. Secondo voci non documentate Walt Disney avrebbe chiesto di essere sottoposto a sospensione crionica, decidendo quindi di ibernare il proprio corpo in attesa che la scienza avesse trovato una cura al cancro ai polmoni che lo affliggeva. In realtà, Omar López Mato ci svela che il corpo di Walt Disney, lungi dall’essere congelato, fu destinato al fuoco e le sue ceneri furono sepolte in California.

Interessante anche il capitolo dedicato alle sepolture premature, nel quale vengono analizzati diversi episodi di errori e distrazioni che portarono a seppellire uomini affetti da morte apparente. Vari studiosi in tutto il mondo hanno ideato diverse possibili soluzioni per permettere al medico di essere certo dell’avvenuta morte del paziente prima o dopo la sepoltura, come “Le Karnice”, una tomba dotata di un sistema di ventilazione e di un cordoncino legato a una campanella in modo da permettere al seppellito di segnalare all’esterno l’eventuale risveglio.

Ampio e ricco di particolari suggestivi anche il capitolo riguardante il Cimitero protestante a Roma, adiacente alla Piramide Cestia, dove sono sepolti fra l’altro Carlo Emilio Gadda, Percy Bysshe Shelle, e John Keats, che insistette affinché il proprio nome non comparisse sulla lapide, dove invece si legge «Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua».

Viaggi postumitratta inoltre di alcuni casi in cui la morte è stata strettamente intrecciata con l’amore, come le storie di Benito Mussolini e Adolf Hitler, le cui fedeli amanti hanno preferito morire accanto ai propri uomini piuttosto che salvarsi voltando loro le spalle. Durante la cattura di Mussolini nel 1944, Claretta Petacci ebbe la possibilità di scappare, ma rifiutò di abbandonarlo e, al momento della fucilazione, si lanciò sull’amante cercando di proteggerlo col suo corpo. Simile situazione si verificò un anno dopo a Berlino, nel bunker dove Hitler ed Eva Braun attendevano la fine progettando un duplice suicidio con il cianuro. In realtà, l’analisi dei cadaveri fa supporre che la donna, dopo aver ingerito il cianuro, avrebbe sparato alla testa al marito per evitargli la dolorosa agonia provocata dal veleno.

Molto simpatica poi la parte finale di Viaggi postumi, dove vengono raccolte alcune delle più famose ultime parole pronunciate ed epitaffi vari, come quello particolarmente ironico sulla tomba di Molière, scritto pensando che sarebbe morto a teatro:

«Qui giace Molière, il re degli attori. In questo momento sta facendo la parte del morto. E gli riesce decisamente bene».

(Omar López Mato, Viaggi Postumi. Avventure post-mortem dei personaggi illustri, trad. di Ariase Barretta, Odoya, pp. 374, euro 20)

“Paul Harbutt. Bad Boys” al Museo Carlo Bilotti

«Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle 5; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare».

Pier Paolo Pasolini apre con questa immagine Ragazzi di vita, storia di giovani cresciuti nell’Urbe tra povertà e difficoltà in un contesto sociale disgraziato che li porta a passare le giornate per strada alla ricerca di passatempi e modi per raccogliere qualche soldo. Riccetto viene presentato in modo che emerga subito una certa strafottenza e una sicura malizia. È spavaldo, quello che si potrebbe definire un bullo. Questa figura e gli altri personaggi del romanzo tornano alla mente visitando la mostra di Paul Harbutt, Bad Boys: benché non vi sia alcun riferimento tra le due opere, entrambe riconducono all’analisi di una realtà, passata e presente, che riguarda la condizione e la condotta giovanile. Si tratta di una riflessione che nel caso di Harbutt si sofferma sui comportamenti socialmente discutibili assunti dai cosiddetti “cattivi ragazzi” e che va oltre, interrogandosi su quelle che sono le reazioni di condanna avute dalla società e le pesanti punizioni da essa stabilite. Viene presentato e trasmesso, dunque, tramite questo lavoro tematico, un discorso importante, quello della violenza che ricade sul mondo infantile, generata a volte da condizioni quali la povertà e lo stress sociale. 

Bad Boys, in mostra presso l’Aranciera-Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese fino al 3 Marzo 2013, ospita circa ottanta opere dell’artista inglese sul tema dell’infanzia e dell’adolescenza indagate secondo un aspetto specifico: i giochi e i comportamenti pericolosi. L’esposizione si struttura in un percorso costituito da quattro sezioni: due di queste sono dedicate ai dipinti, una ai disegni preparatori e un’ultima a una scultura che almeno formalmente non sembra strettamente collegata alla mostra. In una sala a parte, la Project Room, Harbutt presenta infatti “The Mirror which Flatters Not”, ovvero “Lo specchio che non fa complimenti”, un teschio umano dalle grandi dimensioni che impugna uno specchio rivolto verso lo spettatore: questi ha così la possibilità di riflettersi e riflettere sul percorso appena compiuto attraverso la mostra, chiudendo una meditazione grazie alla visione di sé e degli altri, compresi quei cattivi ragazzi in cui si è appena imbattuto.

In merito ai dipinti, Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, chiarisce come l’iconografia dell’artista affondi le sue radici nella pittura del nord Europa di Bosch e Brueghel, per arrivare poi a Goya e alla Pop Art. Le opere esposte sono il frutto della contaminazione di queste differenti espressività. In particolar modo colpiscono i colori accesi dei dipinti costituiti da diversi materiali: si tratta di lavori realizzati con pittura a olio, resina, tecnica mista e neon su tela.
 


L’esposizione è pensata disponendo i dipinti in due sezioni: vi è la serie al neon e una ad essa succedanea, disposta sulla parete di una lunga sala a corridoio. Si tratta di tele su cui sono impresse fotografie di ragazzi rinchiusi in riformatori, immagini d’epoca che vanno dall’età vittoriana fino all’inizio degli anni Cinquanta. Quello che colpisce sono i colori intensi e vivi che si oppongono a un tema decisamente cupo, volendo con questo contrasto far esplodere il senso di rabbia e dolore provato da quei giovani.

La stessa vivacità di colori attrae nella serie al neon. Il grande impatto che si ha, appena entrati nella sala, è il contrasto tra le scritte luminose che emergono dalle tele e l’ambiente in cui le opere sono collocate: lo spazio è adiacente a un ninfeo, reduce di ciò che un tempo era il museo Carlo Bilotti, ossia la sede del Casino dei Giuochi d’Acqua (questo prima di divenire Aranciera, ovvero il ricovero invernale dei vasi d’agrumi).

Il contrasto prima evidenziato non fa che valorizzare il lavoro di Harbutt, quasi a sottolineare che in quelle opere così contemporanee vi sia qualcosa di passato: rimandi alla storia dell’arte e ad aspetti umani sempre esistiti. Ecco quindi che ci si trova dinanzi a una serie di azioni pericolose compiute dai giovani: si passa da comportamenti rischiosi e dannosi a giochi azzardati. L’atteggiamento che si impone è quello di infrangere la regola. Così ci sono ragazzi che guidano in “Stato di ebbrezza” o le cui sbronze degenerano nell’“Ubriachezza molesta”, quelli che si abbandonano alla “Collera stradale”, gli “Hooligans e teppisti” o quelli che si dilettano in “Brutti scherzi” o ancora in un “Gioco pericoloso”. Una carrellata di cattivi esempi, dunque, trattati però con quell’ironia e quell’umorismo che da sempre contraddistinguono l’artista.

La mostra è visivamente accattivante, colori e forme attraggono svelando successivamente uno scenario concettualmente profondo. Il risvolto sociale di tale lavoro è anche dato dalla realizzazione di un catalogo i cui proventi in parte verranno devoluti all’associazione Save the Children, scelta che riconduce al valore di questa mostra: presentare i Bad Boys ma anche interrogarsi sulle cause e le conseguenze dei loro comportamenti, quali condizioni hanno prodotto quegli atteggiamenti, come e quanto la società li punisca. In questo senso l’opera “Authority and Abuse” è sicuramente la più rappresentativa.

 

 

 

Harbutt: Bad Boys
Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese
19 gennaio 2013 – 3 marzo 2013
Per ulteriori informazioni visitate il sito http://www.museocarlobilotti.it

“Il sangue è randagio” di James Ellroy

«L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto».

Inizia così American Tabloid, il primo libro della Trilogia Americana di James Ellroy. Il grande narratore – «uno dei più grandi autori americani del nostro tempo», solo per citare qualche titolo che lo riguarda – dopo aver portato il romanzo noir a livelli inimmaginabili con la Quadrilogia di Los Angeles, sceglie di alzare il tiro e colpire dove non era arrivato mai nessuno. Calare l’ossessione e la dannazione umana in parabole poliziesche sconcertanti – basti citare la Dalia Nera e L.A. Confidential – non gli bastava più. Esorcizzare la vita tormentata, segnata dal traumatico omicidio della madre, nelle pagine di cult best-seller non era più sufficiente. E così dall’impossibile redenzione dei poliziotti corrotti, si passa a un corruzione peggiore, universale: quella dell’America.

L’impresa in cui si cimenta Ellroy è imponente: unire il noir con il romanzo storico. Riuscendoci.  Raccontare la storia dell’America dal 22 novembre 1958 all’11 maggio del 1972, in tre opere: il già citato American Tabloid, Sei pezzi da mille e il gran finale di Il sangue è randagio. Lo fa in maniera stupefacente: esasperando la violenza e l’impatto telegrafico della scrittura per mostrare senza mezze misure il marcio e il Male annidato dietro i grandi nomi ed eventi americani del periodo, studiati e documentati perfettamente durante la stesura delle mastodontiche composizioni. La Storia s’incontra così con storie più piccole, spesso anonime, sconosciute ai più, ma parecchio influenti. I fratelli Kennedy, Nixon, il capo dell’FBI Hoover, Jimmy Hoffa, l’aviatore miliardario Howard Huges, Martin Luther King (e sono solo alcuni), verranno mostrati impietosamente senza veli, mentre incrociano le loro parabole umane con i personaggi principali dei romanzi. La struttura narrativa di Ellroy è quella già adottata e collaudata nella Quadrilogia: portare avanti la narrazione usando le figure dei tre poliziotti protagonisti. Da loro si dipana un inarrestabile meccanismo che ha con Il sangue è randagio la conclusione suprema.

Il contesto storico: un’America sfibrata dalle lotte razziali dopo l’omicidio di Martin Luther King, l’avvento di Nixon, il Vietnam, la mafia infiltrata ovunque, l’FBI impegnata con tutti i mezzi – spesso poco leciti – nella lotta ai sovversivi, le varie operazione terroristiche contro Cuba post Baia dei Porci. Il contesto narrativo: Dwigth Holly, uomo di fiducia di Hoover e Nixon, viene incaricato di organizzare una missione segreta dell’FBI per smantellare i gruppi favorevoli al potere nero. Wayne Tedrow jr, ex poliziotto e chimico per la mafia, assoldato da Howard Huges per la costruzione di casinò in una Repubblica Dominicana intrinsa di crimine e vudù. Loro due li avevamo già conosciuti in Sei pezzi da mille, il cui titolo è legato alla somma ricevuta da Wayne proprio per fare un viaggio a Dallas il giorno dell’omicidio di Kennedy… New entry de Il sangue è randagio è Don Crutchfield: giovane investigatore privato di bassa lega, guardone perverso e incallito, dal passato torvo, invischiato nelle paludi più nere e terribili della Storia. Sarà lui, poco a poco, a unire i livelli, portando avanti anche i due crimini che terranno il lettore legato al libro fino all’ultima pagina: una misteriosa rapina di diamanti e dollari che sarà il chiodo fisso di un altro epico personaggio, Scott Bennett, e l’agghiacciante omicidio di una ragazza nella Casa dell’Orrore, battezzata così dallo stesso Crutchfield. Le indagini prenderanno le svolte impensabili. Poi le grandi figure femminili capaci di scatenare gli amori più folli e le guerre più terribili, veri motori della trama e della Storia. Da Karen a Joan Klein, che si contendono il cuore di Holly, passando per Celia, misteriosa figura su cui deve investigare Crutchfield.

Il terzo capitolo – il cui titolo è la citazione di un verso di una poesia di Housman – è il massimo compimento dei lavori precedenti: il plot giallo e le lande storiche di un’America mai vista così sporca e cattiva sono l’ambiente perfetto in cui calare le vicende di Tedrow, Holly e Crutchfield: protagonisti leggendari e indimenticabili, capaci di non abbandonare il lettore nemmeno a libro finito.

La scrittura di Ellroy è magistrale: periodi brevi, ripetizioni ossessive, ritmo, una potenza descrittiva inaudita, una capacità immensa di portare a galla i sentimenti e i pensieri dei protagonisti con tre parole. Frasi che trafiggono come colpi di pistola. E poi la base documentaristica: articoli di giornale, dossier, riferimenti precisi e puntuali agli anni trattati e agli svariati luoghi in cui avvengono i fatti. Ma la vera grandezza di Ellroy – quella che lo rende davvero uno dei più grandi romanzieri viventi – è la capacità di raccontare dell’eterno conflitto tra Bene e Male all’interno dell’animo umano. Nel suo mondo, l’unico modo per espiare il dolore e la disperazione è la violenza. Per i suoi eroi non c’è altra via di riscatto. Ogni omicidio, ogni colpo di stato, ogni attentato, ogni fatto storico e drammatico, fa riferimento sempre a quel duello iniziale. Uno scontro lampante nel periodo storico trattato dalla Trilogia Americana, ma che solo Ellroy riesce a rendere ogni giorno attuale e quotidiano, grazie alla lettura dei suoi capolavori.

(James Ellroy, Il sangue è randagio, trad. di Giuseppe Costigliola, Mondadori, 2010, pp. 859, euro 24)

“Uomini e topi” di John Steinbeck

California, pochi anni dopo la crisi del 1929. Due lavoratori stagionali arrivano in un ranch per un impiego da cinquanta dollari al mese, tra sacchi d’orzo da caricarsi sulle spalle e una misera vita in una baracca con letti di paglia. Unica distrazione: le carte e il bordello in una città poco lontana. I due lavoratori/protagonisti sono George Milton, «basso e vivace, fosco in viso, dagli occhi impazienti, dai tratti taglienti e vigorosi», e Lennie Small, «il suo opposto, un giovanottone dal viso informe, occhi grandi e pallidi, spalle ampie e cascanti». Lennie, ingenuo e sensibile, è enorme, ha una forza straordinaria ed è ritardato mentalmente. 

Uomini e topi è il sesto romanzo di John Steinbeck, liberamente ispirato a una storia accaduta in un ranch californiano nel 1920. Romanzo breve e ricco di dialoghi, anche perché destinato soprattutto a quei vagabondi, lavoratori stagionali, ladruncoli, uomini liberi che spesso analfabeti vagavano di stato in stato nell’America tra le due guerre mondiali. Anzi, l’autore aveva pensato inizialmente a un’opera drammatica dal titolo Something that happenend, che è poi divenuta un romanzo, come spesso accade con autori americani, dalla forza visiva dirompente. Non a caso sono due le trasposizioni cinematografiche: una del 1939 e l’altra del 1992. La prima versione teatrale è invece del 1937. Nonostante la brevità e l’esiguo numero di personaggi, Steinbeck affronta diversi temi che compariranno anche in opere dal più ampio respiro come Furore: la condizione dei lavoratori e degli emigranti nell’America post-Ventinove, la centralità del lavoro e del guadagno, il sogno americano che si traduce nel possesso di una attività produttiva. Ma per trovare l’ossatura della narrazione bisogna cogliere il senso di solitudine che trasuda da ogni pagina. Lennie e George sono un’anomalia, come subito notano tutti, proprio perché è più unico che raro vedere due lavoratori che viaggiano in coppia. Ecco allora lo scopino Candy senza più nessuno dopo l’uccisione del suo vecchio pastore tedesco. Oppure Curly, il figlio attaccabrighe del proprietario del ranch, costretto a rincorrere ogni giorno la giovane moglie che “fa gli occhi”ai lavoratori. E soprattutto Crooks e la moglie di Curly. In questo caso la solitudine diventa impossibilità di comunicare: un isolamento claustrofobico, assoluto. E Steinbeck, sempre cronachistico, ci racconta così la vita degli ultimi in quell’America: le donne e i neri.

Crooks è il garzone di stalla. Di colore e con la schiena deformata dal calcio di un cavallo. La sua vita dopo il lavoro è rinchiusa in una baracca di pochi metri quadri, diversa da quella degli altri lavoratori perché lui è nero. In un dialogo con Lennie, Crooks spiega che «Un uomo ammattisce se non ha qualcuno. Non importa chi è con lui, purché ci sia», «Un uomo passa la sera qui solo, seduto». Il garzone finisce per diventare quasi l’intellettuale del gruppo o comunque l’unico che abbia dei libri, usati, per tentare di lenire la sofferenza della solitudine e non certo per cultura personale o voglia di conoscenza. Poi c’è la moglie di Curly, l’unica donna del romanzo, il cui nome non viene mai menzionato. «Mi sento sola. Voi potete parlare con la gente, ma io solo con Curly. Diversamente, se la prende. Vi piacerebbe a voi non poter discorrere con nessuno?». Parole dette ancora una volta a Lennie, in un dialogo in un altro luogo chiuso come la stalla, immobile nel caldo del meriggio. L’importanza della comunicazione e della parola trova in Uomini e topi anche un altro esempio, ribaltato rispetto ai precedenti e proprio per questo fondamentale: tra tutti i lavoratori emerge Slim, il capo-cavallante. Saggio, pacato, carismatico; una leadership riconosciuta che emerge chiaramente. Le sue parole sono definitive, mai contestate. Quando il capo-cavallante parla il microcosmo creato da Steinbeck ascolta in silenzio.


(John Steinbeck, Uomini e topi, trad. di Cesare Pavese, Bompiani, 1937, pp. 118, euro 8,90)