“The Odds” degli Evens

Ian MacKaye ha cinquant’anni. Pieni. Ex membro dei Fugazi e dei Minor Threat, è un chitarrista, bassista e un fonico. E’ il fondatore di un’etichetta discografica, è un maniaco del controllo, è l’inventore del termine Straight Edge, è un collaboratore a numerosi progetti della scena indipendente americana. Da qualche anno collabora con la compagna Amy Farina nel progetto The Evens, che ha composto il veramente ottimo The Odds.
A parte il sorriso strappato dal titolo, si sente che è qualcosa di matematico la costante dell’album. Perché The Odds è matematica: prendi la chitarra baritona di MacKaye, aggiungi i ritmi (battuti fortissimo) di Farina, aggiungi le due voci perfette insieme, il risultato è piano, un bel numero intero. Ma forse, forse, The Odds in realtà è chimica. È una reazione ben bilanciata, esplode e resta stabile, ogni cosa è perfettamente al suo posto. Un indie rock delicato, ritmato, mai eccessivo, spesso fatto di pause e silenzi puntuali a causa dei soli due strumenti presenti. Le due voci si incastrano e si compensano.

Nonostante il tempo e gli anni che passano MacKaye non ha perso mordente, ma con l’età, come al solito, possiamo dire che sia diventato saggio: i suoi attacchi al sistema sono ragionati, la rabbia punk è passata, ma non i temi, non la voglia di dire. Così in “Wanted Criminals”, forse la più Fugaziana del disco, parla dello stato di controllo americano – senza furore ma con enfasi, ragionandoci, ma senza perdere un colpo. In “Competing With The Till” l’attacco è diretto verso il gestore di un bar che vede i musicisti che suonano per lui solo come mezzi per pagare il proprio affitto, e i suoi clienti come «money’s standing outside» – chiaramente una visione d’insieme del panorama musicale indipendente. La terza “I Do Myself” è un blues allucinato, la storia di un ribelle senza una causa vera, annoiato dalla stabilità.

The Odds non cambierà certo il panorama musicale mondiale; ma questa terza uscita dei The Evens, con echi di un passato post punk che sotto la cenere brucia ancora, prosegue lungo un percorso (quieto, minimale) tracciato anni fa da Farina e MacKaye, un percorso quasi domestico; ritratto sulla copertina dell’album è proprio il figlio dei due.
Senza distorsioni di sorta, grazie a una produzione limpida e al solo – si fa per dire – genio musicale la coppia di Washington D.C. inanella una perla nella compiuta collana del 2012, una perla piccola e sfuggente, di quelle che non vorresti perdere perché sei affezionato. Già dopo il primo ascolto.

(The Evens, The Odds, Dischord, 2012)

 

“Il compromesso” di Elia Kazan

Qual è il compromesso di cui si parla in questo romanzo fondamentale del ’900 americano, e fondamentale nel senso che può essere letto da chiunque di noi – ben fuori i confini americani – come qualcosa che ci riguarda da vicino?

Il compromesso in realtà – e sul mero piano dei fatti – è duplice. Il primo è banale: fra una moglie devota e un’amante che ti manda fuori di testa. L’altro lo è un po’ meno se preso alla lettera dei due mestieri in ballo, ma in fondo abbastanza diffuso se visto nel suo significato generale: professione di pubblicitario che vende menzogne da una parte e giornalista duro e puro che si scaglia contro l’ipocrisia del mondo borghese che è l’orizzonte poco immaginifico di quella pubblicità dall’altra.

Elia Kazan quanto a doppiezza non aveva forse molto da imparare da nessuno. Le sue vicende sono note ma questo non dovrebbe impedirci di sostare davanti a un’opera, sia un romanzo o un film, e leggerla per quel che vale.

Dirò subito allora della stranezza di questo libro. Il compromesso (Mattioli, 2012) raggiunge in certi momenti una cupa profondità da romanzo russo, fa un viaggio vertiginoso nella  grammatica minima di un uomo, grammatica morale e affettiva fatta di pulsioni incontrollabili e totale irresponsabilità verso gli effetti delle proprie azioni. Ma se i dialoghi sono eccellenti, la prosa si avvale spesso di immagini kitsch. La scrittura di Kazan è elementare, a volte sconcerta specie se consideriamo che era un uomo di cinema, più abituato di molti scrittori magari geniali facitori di frasi ma narrativamente pigri o disinteressati all’azione; e invece stupiscono certi passaggi fallimentari, specie nelle scene di sesso (affare centrale nel romanzo) il cui climax si risolve in illeggibili frasi smielate. Che riferiscono e non mostrano. In un romanzo in cui anche il pensiero è azione, e in cui, come in Pavese, vien detto che l’organo sessuale maschile è quanto di più onesto esista in natura visto che non può mentire (non c’era il Viagra), ci troviamo di fronte atti sessuali, in cui i protagonisti si «ritrovano in paradiso»: e morta lì. Succede in tutto il libro.

Resta che Kazan scrisse un romanzo di ammirevole forza, capace di andare al fondo di una vita umana per mostrarne tutta la miseria e meschinità; una vita in cui anche l’eventuale successo (amoroso, professionale, economico) a un certo punto appare solo uno spettacolo per renderla tollerabile. Il narratore lo sa: «Il successo dovrebbe fornire una certa difesa contro gli spettri o l’inconscio o qualunque altra cosa fosse. È il minimo che ci si, dovrebbe aspettare dal successo. O dal denaro. E invece non è così, per nessuno dei due».

Se per Henry Miller «c’è un uomo qui dentro», aggiungerei che c’è in una maniera talmente intima che a tratti è quasi intollerabile («Non scrivo per divertire, ma per disturbare» dice il regista del Fronte del porto: e si può dire che vi riesca assai bene). C’è al fondo una debolezza catastrofica in quest’uomo abituato a usare gli altri per raggiungere i propri scopi che deriva da una legge difficilmente revocabile: l’essere determinati dalle nostre stesse azioni. L’impossibilità di sfuggire alle trappole che noi stessi ci costruiamo per sfuggire ad altre gabbie.

Dura da accettare, ma c’è molta più verità ne Il compromesso della spia Elia Kazan, collaboratore della peggiore America reazionaria, che nel sogno on the road di alcuni scrittori che ci metterebbero più a nostro agio. Uno così magari non era uomo di cui l’umanità possa andar fiera; è probabile (è di sé che parla Kazan, inutile aggiungerlo). Ma l’artista, solo un uomo – un lettore – disonesto potrebbe non riconoscerlo. A questi tempi di feroce potenza del denaro i più credono di poter opporre la melassa sentimentale delle buone intenzioni – ma l’arte è un’altra cosa. Lasciate perdere la commissione McCarthy e leggete questo romanzo, con tutti i suoi difetti. E ditemi se non è molto più duro e sincero non solo di Kerouac, ma del 99% di autofiction prodotta in Europa e nelle Americhe in questi anni.


(Elia Kazan, Il compromesso, trad. di Ettore Capriolo, Mattioli 1885, 2012, pp. 400, euro 18)

“Canova. Il segno della gloria” a Palazzo Braschi

Dal 5 dicembre 2012 al 7 aprile 2013 Palazzo Braschi, sede del Museo di Roma, ospita la mostra Canova. Il segno della gloria, costruita attorno al ricchissimo patrimonio di disegni del celebrato artista veneto. Ne sono esposti 79: studi preparatori di alcune delle opere scultoree più note, una pittura a olio, quattro tempere, due terracotte, due marmi e quindici acqueforti di mano di alcuni incisori che ritraggono le sculture realizzate.

L’esposizione, curata da Giuliana Ericani, è organizzata da Metamorfosi e Zétema Progetto Cultura in collaborazione con il Museo Civico di Bassano del Grappa che acquisì, alla metà del XIX secolo, l’inestimabile patrimonio di disegni dello scultore, grazie al lascito del fratellastro Giambattista Sartori Canova. Questi donò alla struttura, dieci album e otto taccuini di disegni, bozzetti, modelli e corrispondenze del Canova, tutto ciò, quindi, che si riferisse al momento progettuale della sua produzione artistica.

A poca distanza cronologica dalla mostra romana dedicata ai disegni michelangioleschi per la realizzazione delle pitture sistine, si torna dunque a insistere sull’importanza, e certamente sul fascino, del momento preparatorio alla creazione del capolavoro vero e proprio, spiando l’idea sul nascere e osservando le numerose evoluzioni estetiche che conducono l’artefice alla gloria della forma artistica definitiva.
 


Nell’offrire i disegni agli spettatori, la mostra segue un criterio espositivo molto chiaro, quasi didattico, che certamente facilita la partecipazione di un pubblico nuovo o quasi all’argomento. La produzione figurativa viene qui ripercorsa lungo tre direzioni tematiche: l’esplicazione della ricchezza e della varietà del disegno dello scultore tramite l’esposizione di fogli selezionati da tutto l’arco temporale della sua carriera, il rapporto con la statuaria antica studiata soprattutto, ma non solo, nel contesto delle ricche collezioni antiquarie romane, fino all’appropriazione e alla personale rielaborazione del linguaggio artistico classico, e infine i legami con alcuni degli uomini e delle donne più potenti del suo tempo, in onore e su commissione dei quali, Canova ha scolpito. Quest’ultima sezione della mostra, in particolare, si presenta estremamente consistente, a testimoniare il prestigio e l’ammirazione di cui lo scultore godette dalla realizzazione dell’opera che lo consacrò definitivamente, il monumento sepolcrale per Papa Clemente XIV, inaugurato nel 1787, fino alla fine dei suoi giorni.
 


Roma, luogo privilegiato della formazione artistica e culturale di Antonio Canova, che vi giunse nel 1779, torna quindi a omaggiarlo con un’esposizione consistente e significativa, che racconta i pensieri, i ripensamenti e i travagli nascosti dietro la composta perfezione formale dei suoi marmi, con l’unico limite di implicare una spesa economica forse non alla portata di tutti.

 

Canova. Il segno della gloria
Palazzo Braschi. Roma.
Dal 5 dicembre 2012 al 7 aprile 2013.

Per ulteriori informazioni:
www.museodiroma.it

Lucio Piccolo, poeta tra le ombre

«Magnificent». Questo è stato il commento di Ezra Pound quando si è trovato tra le mani le 9 Liriche di Lucio Piccolo, barone solitario, nato a Palermo nel 1901 e autore di versi mirabili di cui si è persa per lungo tempo memoria.

Piccolo trascorse una vita d’isolamento dall’intensa coloritura letteraria. Dopo la fuga del padre a Sanremo con una ballerina, negli anni Trenta si era trasferito, e quindi segregato, in una villa in stile ottocentesco sulle colline di Capo d’Orlando e aveva fatto giuramento di non sposarsi mai insieme con i fratelli Casimiro e Agata Giovanna.

«Il palazzo di Capo d’Orlando più che una casa sembrava una favola campata in aria. Onde marine, nubi, folate di vento, gabbiani, corvi, gatti neri, spiriti, anime di crociati, anime in pena e santi vagabondi stanchi di paradosi dividevano con il nostro poeta quella solitudine dorata» (Gonzalo Alvarez Garcia, Le zie di Leonardo, Scheiwiller, Milano, 1985).

Nella solitudine della villa ben discosta dalla vita di paese, protetti dalle maschere che fanno ancora bella mostra sulla doppia rampa di scale dell’ingresso, i tre fratelli si dedicavano a studi esoterici e allo spiritismo, tentando di entrare in contatto con le anime dei defunti. «Pertugi, sgabuzzini, ambienti / nascosti tra le quinte / dove monomania / di specchi in ombra / accolse i sedimenti / d’epoche smorte, di fasi sbiadite / che il riflusso dei giorni in un torpore / lasciò fuori del sole» (“Gioco a nascondere”, in Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano, 1960). Casimiro era convinto anche di poterli immortalare in fotografie e riproduceva poi le sue visioni in pregevoli acquerelli di gnomi, elfi ed ectoplasmi. Agata Giovanna aveva cura del giardino, in cui arrivavano piante rare da tutto il mondo, e del cimitero dei cani, unico in Italia e tra i pochi in Europa.

«Quando viene l’oscurità, e la casa si interiorizza, diventa ombra, spazio in cui andiamo errando e ritrovando le figure care, persone care che ci sono state vicine», aveva dichiarato Lucio in un’intervista rilasciata nel 1967 a Vanni Ronsisvalle per la RAI, Il favoloso quotidiano.

Villa Piccolo, con i suoi soffitti alti e decorati e le sue stanze affacciate su un verde lussureggiante, ospitò per diversi mesi Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cugino dei Piccolo da parte di madre, garantendo la quiete e il silenzio necessari per la stesura di alcune parti del suo Gattopardo, la cui versione manoscritta, dopo il rifiuto di Mondadori del 1956 e prima dell’insperata fortuna, rimase a lungo nella Villa, abbandonata su una consolle.

Sul rapporto di Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi, intervenne ancora lo stesso Piccolo nell’intervista a Ronsisvalle. Il passo che segue ci introduce anche alle letture del poeta, oggi conservate nella biblioteca della Villa che conta circa diecimila volumi in diverse lingue. Piccolo si concentrava soprattutto sugli autori europei suoi contemporanei e del secolo precedente (Keats – di cui tradusse “Ode To a Nightingale” all’età di sedici anni – Mallarmè, Valéry, Oscar Wilde, Yeats – di cui si definiva “discepolo” e con cui intrattenne un rapporto epistolare – Maeterlinck, Heredia, Kahn, Joyce, Proust, Montale) che avrebbero influenzato sensibilmente la sua produzione in particolare nella scelta degli aggettivi usati per dare forma e sentire umano agli oggetti e agli elementi della natura.

«C’era fra di noi una sorta di gara, a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d’Irlanda che fui io il primo a leggerlo prima ancora di Lampedusa […] E così ci siamo accaparrati tutta la letteratura contemporanea europea, tedesca, francese. Ricordo anzi che fu proprio Lampedusa a introdurre a Palermo, nella Palermo colta, Rilke […] Poi passarono Joyce, Proust. Di Proust mi ricordo che una volta mi disse “Sai, c’è uno scrittore francese il quale per fare due passi da lì a qui ci impiega dieci pagine”. La prima immagine che io ho avuto di Proust è stata questa».

Queste dichiarazioni hanno uno straordinario valore documentario proprio per la rarità delle apparizioni in pubblico del barone e per la sua riservatezza. Solo una volta, nel 1954, si era convinto a far stampare privatamente in sessanta copie 9 liriche e a mandarlo a Montale. («Un libriccino stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili», avrebbe scritto Montale a riguardo, scatenando l’ira del tipografo, sig. Zuccarello di S. Agata Militello (ME) che, irrimediabilmente offeso, aveva urlato: «Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!»). Montale, entusiasta per i risultati raggiunti da quello che credeva essere un giovane poeta, lo aveva invitato a partecipare a Gli incontri letterari, manifestazione organizzata nel comune di San Pellegrino Terme e presieduta da una decina di scrittori già affermati (oltre a Montale, tra gli altri, Cecchi, Ungaretti, Comisso, Repaci, Bellonci e Alvaro) che presentavano ciascuno uno scrittore o un poeta inedito (oltre a Piccolo, quell’anno, Calvino, Lopez, Bassani, Zanzotto, Parise, Ballistani) per poi consegnare un primo e un secondo premio di 500 e 200 lire. Il barone era arrivato in treno, accompagnato da un servo muto e dall’immancabile cugino. E aveva vinto il primo premio.

«Quella coppia stranissima di titolati siciliani, goffi e un po’ traballanti, suscitò immediatamente la curiosità di ognuno: quasi un’apparizione carnevalesca di piena estate, un intermezzo in costume con due personaggi di fine secolo in cerca di autore».

Il primo capitombolo bislacco nel mondo letterario degli eletti contribuì sicuramente a far conoscere Lucio Piccolo e a suggerirlo all’attenzione della critica italiana, ma non giovò a porre le giuste premesse per un’indagine pacata e approfondita sul valore dei suoi versi. La produzione poetica del barone giungeva infatti in un momento storico e in un clima letterario che erano forse i meno propizi ad accogliere con favore una poesia unica, che rompeva con gli schermi del neorealismo e che nulla aveva in comune nemmeno con le prime prove della neoavanguardia.

Le 9 Liriche, con l’aggiunta di altre dieci poesie e con il titolo Canti barocchi e altre liriche, presero comunque posto nella prestigiosa collana Poeti dello “Specchio” Mondadori con prefazione di Eugenio Montale. Seguì nel 1960 una ripubblicazione con in più la sezione Gioco a nascondere e, nello stesso anno, una piccola diffusione della raccolta Plumelia da parte dell’editore Scheiwiller di Milano. Poi più nulla per molto tempo. Così Piccolo rimase appollaiato e ingufito sulla sua poltrona (u cuccu, “il gufo”, lo chiamavano in famiglia) e da lì non si mosse più fino alla sua morte, giunta all’improvviso nel maggio 1969.

«La casa era quieta, il resto del mondo lontanissimo. Fu così che mi resi conto come per Villa Piccolo passasse un meridiano come a Greenwich. Il meridiano della solitudine».

Osservò la cultura dall’esterno attraverso i segnali che questa, gentilmente, era solita recapitargli direttamente a casa. Dopo la pubblicazione del 1956 di Canti barocchi e altre liriche, Villa Piccolo, con i suoi abitanti e la sua storia, stimolò la curiosità di molti e divenne un cenacolo di cultura frequentato da amici, letterati, giornalisti, scrittori e fotografi. Tra i tanti visitatori ricordiamo Cesare Zavattini, Mario Soldati e Vincenzo Consolo.

«Frequentai Piccolo per anni, andando da lui, come per un tacito accordo, tre volte la settimana. Mi diceva ogni volta, congedandomi: “Ritorni, ritorni, Consolo, facciamo conversazione”. E la conversazione era in effetti un incessante monologo del poeta che io ascoltavo volta per volta ammaliato, immobile, nella poltrona davanti a lui. Era per me come andare a scuola da un grande maestro, a lezione si letteratura, di poesia, impartita da un uomo di sterminata cultura».

Piccolo sentiva di avere una memoria ancestrale e cantava un’umanità spoglia di attributi sociali e abiti storici attraverso la gloria degli elementi naturali, che si offrono all’uomo in forme ora chiare, ora velate e misteriose, ma con il dono eterno dell’autenticità. L’essere umano invece, soggetto con i suoi moti alla sozzura della storia e al lavorìo implacabile della memoria, è deformato dal tempo. Il suo essere autentico ha una durata effimera, impalpabile, che non lascia traccia nel mondo; per questo motivo il rapporto con l’autentico della natura risulta estremamente difficile e si inserisce in una generalizzata impossibilità di conoscere le cose che, con il tormento che ne deriva, Piccolo ha in comune con Montale, di cui non tralasciava di dichiararsi lettore con «devozione e grande attaccamento […] per il poeta e nobilissimo uomo al quale spiritualmente io tanto debbo; la sua opera è stata per me una di quelle forze che ci aiutano, che ci sono necessarie per la conoscenza e la conquista di noi stessi».

Vengono riproposte da Piccolo parole tipicamente montaliane come cuspide, turbine, spore, sottobosco, flussi, nocche e montaliana è anche la tendenza a collocare l’asserzione nella parte finale del componimento dopo una fase descrittiva caratterizzata da un procedere a elencazione.

Nel mondo poetico di Piccolo si incontrano cristianità, paganesimo e religioni orientali, in un intreccio di simboli così potenti da innalzare la poesia a unica religione in grado di creare l’agognato contatto con una realtà altra. Nel momento in cui la pagina scritta illuminata dalla candela è imbevuta dai versi, si compie il trasferimento della percezione dal reale al surreale attraverso l’unicità dell’atto creativo, che è pratica quotidiana, necessaria perché costruttrice di senso. «Scrivevo versi come altri passeggia o sta alla finestra: era un fatto naturale».

Caratteristiche del verso sono la musicalità e il ritmo, il gioco delle rime, delle assonanze e delle dissonanze, delle parentesi, dei frequenti interrogativi che l’uomo spoglio si pone davanti alla lussuria della natura in Canti Barocchi, davanti alle ombre in Gioco a nascondere: si tratta di ombre fisiche e concrete, ricavate dalla proiezione delle cose, ma anche di ombre sognanti ed evanescenti, provenienti dall’ignoto («Hai visto come al varcare la soglia / il lume ch’era nella mano manca / mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo / leggero dal vetro s’è spento. / Tardo il passo né fu colpo di vento, / forse ha soffiato qualcuno, un volto / subito svaporato nell’aria? […] Ma non c’è nessuno / e sai che non bisogna tentare / il buio: rimemora, ha nostalgie, imprevisti, / l’ombra e le ombre, meglio pregare / a quest’ora, quel che gioco / sembra di giorno fa vero / di notte la notte che sogna – […] I morti / non hanno cifre per i nostri tesori, / singulti hanno in noi, / veglie / di fiamme basse, aneliti, / d’angoscia verso un nodo di vita / incompreso, e a volte una sera / che scende dall’alto a candori infiniti»). Si definiscono così i due poli dell’indagine metafisica di Piccolo: da una parte l’esterno, la natura, che ammalia e seduce («L’arbusto che fu salvo dalla guazza / dell’invernata scialba / sul davanzale innanzi al monte / crespo di pini e rubi […] la plumelia bianca / e avorio, il fiore / serbato a gusci d’uovo su lo stecco, / lascia che lo prenda / furia sitibonda / di raffica cui manca / dono di pioggia, / pure il rovo ebbe le sue piegature / di dolcezza, anche il pruno il suo candore»); dall’altra l’interno, la coscienza, che si materializza nell’esterno attraverso i simboli, nel labirinto e nella metafora della casa, e in un momento preciso, che è quasi sempre quello del crepuscolo, con la presenza imperante della memoria ingannevole e di Mnemosine, sua dea («Mobile universo di folate / di raggi / d’ore senza colore, di perenni / transiti, di sfarzo / di nubi: un attimo ed ecco mutate / splendon le forme, ondeggian millenni. / E l’arco della porta bassa e il gradino liso / di troppi inverni, favola son nell’improvviso / raggiare del sole di marzo»).

Il simbolismo piccoliano non affonda le radici esclusivamente in quello francese. Efficace e decisiva l’influenza dei poeti italiani come Gozzano, Rebora, Campana e Govoni, ma soprattutto delle religioni orientali e delle scienze esoteriche (numerose le presenze di rose, garofani, scale fuochi, specchi e numeri, in particolare il tre).

Volumi pubblicati postumi avevano convogliato l’interesse critico verso la poesia di Lucio Piccolo sollevando problematiche filologiche che però richiedevano, per essere approfondite e risolte, la rilettura delle bozze e dei manoscritti e le carte, a più di dieci anni dalla sua morte e malgrado i numerosi tentativi, continuavano a essere precluse agli studiosi per vicende giudiziarie legate all’eredità del patrimonio Piccolo. Sembrava che se ne fossero definitivamente perse le tracce.

«Inediti? Non ce n’è. Manoscritti? Non ce n’è. Lettera di Montale? Non ce n’è. Niente c’è. Nenti sacciu. Così rispondeva puntualmente, duro e deciso, a studenti e giornalisti e critici l’amministratore dei baroni Piccolo».

Solo nel 1981 è stato possibile analizzare il materiale esistente: oltre alle bozze, opere incompiute, progetti di opere, appunti, saggi completi su argomenti letterari, ma anche scientifici, filosofici e musicali, elenchi lessicali in varie lingue (arabo, greco, inglese, tedesco). La scoperta che di sicuro è più degna di nota è il manoscritto incompiuto L’esequie della luna, che ha ispirato Lunaria di Vincenzo Consolo, edito da Einaudi nel 1985, e un’opera teatrale diretta da Francesco Pennisi e rappresentata per la prima volta nel 1991 alle Orestiadi di Gibellina. L’esequie della luna, insieme ad altre quattro brevi pagine (L’orologiaio prodigioso, Il libro, La bussola, L’eclisse nella stanza)costituisce la prova in prosa dell’autore e racchiude tutto l’immaginario piccoliano. È una narrazione « volutamente barocca e ingenuamente romantica» che disorienta il lettore per la presenza fitta di simboli e le descrizioni malinconiche che si allontano dalla trama in digressioni che sembrano quadri astratti. Il protagonista del racconto è un viceré spagnolo che una notte sogna la caduta della luna dal cielo; il giorno seguente, tra lo stupore dei contadini, la luna cade davvero in una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Gli astronomi di corte cercano inutilmente di spiegare il fenomeno e di rimettere a posto i pezzetti di luna, ma nel cuore del viceré la luna, che qui assurge a simbolo del potere, è caduta per sempre. La città descritta è una trasfigurazione fantastica della Palermo che Piccolo ha visto da bambino e che ora rivede con contorni sfumati, a metà strada tra il sonno e l’allucinazione. Su questo sfondo si muovono figure fiabesche e con nomi comuni (il Villano, il Capitano, le Dame, il Notaro).

Come non pensare allo Spavento notturno di Leopardi, frammento del 1819, in cui Alceta racconta a Melisso di aver sognato proprio la caduta della luna dal cielo?

(«Odi, Melisso / io vo’ contarti un sogno / di questa notte, che mi torna a mente / in riveder la luna»).

Reperire le opere di Lucio Piccolo risulta oggi molto difficile. Attendendo nuove edizioni e una maggiore diffusione della sua opera, invitiamo i lettori a visitare la Villa Piccolo di Calanovella, sita in C/da Piano Porti a Capo d’Orlando che oggi è un museo aperto al pubblico e affidato alla Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella.

«Ci sono uomini che in determinate epoche arrivano alla perfezione, sciogliendosi dall’ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo, assumendo coscienza della fine e salvandosene nel distacco, nella superiorità, nell’autosufficienza. E in questo senso, Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua vita come nella sua poesia» (Leonardo Sciascia, “Le soledades di Lucio Piccolo”, in La corda pazza, Einaudi, Torino, 1976).

 

Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella.
Sito internet : http://www.fondazionepiccolo.it/

Contributo di Vincenzo Consolo in Il barone magico, in Manifesto. Obliqui egregi nella storia e nel tempo, sezione di antologia e critica letteraria del sito di Oblique Studio: http://www.oblique.it/manifesto_piccolo.html

Gli acquerelli di Casimiro Piccolo. Contributo youtube con immagini dei quadri e della villa: http://www.youtube.com/watch?v=A32hgm0qMro




“Eresia pura” di Adriano Petta

È da qualche anno che siamo assaliti più del normale da romanzi pseudo-storici che ricamano narrativa di intrattenimento su tematiche e fatti presumibilmente accaduti nel corso dei secoli. Romanzi i cui antesignani sono Il Codice Da Vinci e Angeli e demoni di Dan Brown, ma forse ancor prima i celebri Il dio del fiume e Il settimo papiro di Wilbur Smith.

Poi capita che esce un libro come Eresia pura (La Lepre edizioni, 2012), che invece un fondamento di storicità ce l’ha davvero e rischia però e comunque di finire nel calderone. Ed è un proprio un peccato. Soprattutto se compone l’interessante “trilogia sul libero pensiero” insieme a Ipazia e Roghi fatui.

Il terzo libro – anche se in realtà è il primo dei tre, già edito dai tipi di Stampa Alternativa – del romanziere, saggista e studioso di storia della scienza Adriano Petta, ci riporta indietro di molti secoli, precisamente a un’afosa estate del 1207, quando Giordano Nemorario, giovane converso del monastero di Nemi, assiste, non visto, a un colloquio sconvolgente tra due personaggi di non poco conto: Papa Innocenzo III e Armand-Amaury, abate di Cîteau. Argomento dell’incontro è la necessità di estirpare i Catari dalla Provenza, mediante una crociata contro gli “eretici”, in cambio di reciproci favori e concessioni.

Un banale incidente fa sì che il giovane venga scoperto. A questo punto non gli resta che una fuga precipitosa, il più lontano possibile: ha inizio così il suo “calvario”. Il fatto notevole è che egli non è un povero giovane ignorante, bensì uno studioso, appassionato di matematica e amante della conoscenza.

Egli ha saputo dal colloquio che il papa ha consegnato ad Armand-Amauri libri preziosi, contenenti fondamenti della scienza profana e rivoluzionaria, secondo la Chiesa, e quindi non vanno divulgati, ma custoditi gelosamente da mani fidate. Giordano, per tutta la vita, cercherà ossessivamente quei volumi, consapevole dell’importanza della conoscenza e memore delle parole che, in sogno, egli ha udito indirizzare da Anania, antico maestro del 600 d.C., al discepolo Aser: «Se il cammino della scienza non fose stato interrotto da Roma e dal Cristianesimo ci sarebbe stata una civiltà diversa, migliore, libera».

Beziers è il luogo dove Giordano si rifugia, al servizio di un mercante ebreo. Qui ha modo di avvicinarsi ai Catari, di cui impara ad apprezzare l’integrità e lo spirito di carità. Ma dovunque regnano incertezza e timore: tutti sanno che Innocenzo III porterà a termine il suo piano, a ogni costo.

La trama, di per sé avvincente e non priva, a tratti, di pathos,  si accompagna a un tipo di scrittura fluido, elegante e armonioso. Tali elementi, insieme con il susseguirsi delle vicende personali e storiche, magistralmente amalgamate, riescono a tenere vivo, c’è da giurarci, l’interesse del lettore dall’inizio alla fine. Davvero consigliato per chi ama il genere del romanzo storico ma che non ne può più di avvenimenti mistificati e di misteri inventati a tavolino.
 

(Adriano Petta, Eresia pura, La Lepre edizioni, 2012, pp. 318, euro 22)

“Flash”: a tu per tu con gli Speedliner

Iniziamo questo 2013 parlando di una band emergente del panorama musicale italiano, gli Speedliner, tra Polaroid e fotografie rubate al mondo. Originari della provincia di Brescia, esplorano sonorità new wave anni '80, rock e brit pop, unendo a esse testi che trattano di vita quotidiana con estrema lucidità. Mai scontati e in qualche occasione cupi, sembra proprio che trovino il loro essere/leitmotiv in questi scatti istantanei della realtà circostante, spesso non tutta rose e fiori. Senza troppi giri di parole, andiamo subito a vedere cosa ci dice Matteo a proposito della band e del loro disco Flash, uscito pochi mesi fa.

 

Matteo, parlaci degli Speedliner: le vostre origini, la formazione attuale e le esperienze precedenti.

Tutto ha inizio con una “stupida e vecchia chitarra acustica” trovata in mezzo ad altre cose in cantina, io (Matteo, voce) avevo 10 anni e fui subito affascinato da qualcosa che ancora non conoscevo. Messe le mani quasi a caso uscì una nota armonica, malinconica, profonda…fu il mio primo accordo, quello che poi scoprii essere un MI minore. Dopo alcuni anni e qualche progetto musicale fu il momento dei The Oranges, adrenalinico r’n’r d’oltremanica suonato da me e altri compagni. Finita l’esperienza, culminata con la pubblicazione di un EP e un album (Hit The Centre-Polka Dots, 2008), io e Simone (anch’egli ex componente dei The Oranges) ci ritrovammo con la voglia di ripartire, cambiare e ricreare qualcosa di nuovo per noi, qualcosa di meno impulsivo, qualcosa di più ricercato…Nascono così gli Speedliner che con Alessandro e Andrea trovano e iniziano a esplorare nuove sonorità, è il 2011.

 

Quali sono i gruppi e i generi di riferimento?

I riferimenti variano in base ai componenti ma trovano affinità sonora con il lavoro di tutti e quattro e il non limitarsi a prese di posizione sui generi distinti che ci hanno seguito durante gli anni di formazione. Non si smette mai di imparare, la musica è un pianeta che ruota a 360° e richiede continui ascolti anche di cose che meno affascinano. Io prediligo la New wave dei Cure e dei Depeche Mode, Simone nasce e viene dall’hard rock oltre che dalla scena già da me menzionata, Alessandro è amante della new wave disperata dei Joy Division, del brit rock dei Blur ma anche del punk ’77 e del mod revival anni ’60, mentre Andrea ama la scena della west coast degli anni ’90.

 

Come si riesce a coniugare la musica elettronica con il rock?

Il lavoro di rifinitura nasce in sala prove e trova forma nella fase delle produzioni in studio. Secondo noi la musica è adrenalina in un irrazionale ma lucido sfogo di emozioni, la chiave è il rock ma l’equilibrio è il suono limpido dei “Lead”. Rendere il suono compatto è un po’ come cercare un’alchimia tra ordine e caos. Noi cerchiamo di essere spontanei ma precisi nell’utilizzo delle gamme sonore, quando il songwriting lo permette ne usciamo col sorriso, quando questo non accade lavoriamo su ciò che ci sembra dissonante.

 

Come nasce l'album Flash ed in particolare il brano "La mia periferia"?

Flashma anche il nome Speedliner hanno un significato da ricondurre alla concezione fotografica, un’estemporanea immobile e immutabile nel tempo. Non abbiamo cercato in modo saccente o presuntuoso di fare un’opera major, al contrario abbiamo cercato di essere noi stessi, di scattare 10 estemporanee di una fase della nostra vita, dieci umili immagini per raccontare stati d’animo e situazioni. “La mia periferia” nasce una sera di inverno, è una critica anche introspettiva, è la necessità di uscire e fare cose, cose che non sempre servono a renderti felice ma almeno ti aiutano a non pensare. Ci si confonde tra le persone diventando un’ombra anche noi stessi, ci si perde nella notte tra volti annoiati e ci si nasconde nella perdizione per non riflettere…e poi? E poi succede che guidi la tua auto verso casa e pensi che alla fine scappiamo dalle “campagne” alla ricerca della vita metropolitana, di quell’underground che la nostra “piccola” ed egoistica mente non riesce neanche a vivere con lucidità…Sono contento di rispondere a questa domanda, perché non riesco ancora oggi a spiegarmi come io periferico abitante della mia periferia non sia in grado di vivere a pieno la mia realtà con serenità.

 

Quanto vi ha influenzato e vi influenza il vostro luogo di nascita?

Seppur distribuiti su tutta la provincia di Brescia le nostre origini ci influenzano nel mood. Abbiamo tante possibilità di svago e di eventi da seguire, non è un posto dove la noia può stringerti come una morsa ma tutti sappiamo che non si vive di solo svago.

 

Nell'attuale panorama italiano, quali sono i vostri modelli?

Oltre a gruppi che gravitano nella scena indipendente i riferimenti più diretti sono sicuramente gli Afterhours, i Verdena e i Tre allegri ragazzi morti per quanto riguarda il rock, per quanto riguarda il pop ci sono parecchi gruppi che stimiamo e prendiamo come riferimento ma anche cantautori (Velvet, Negrita, Caparezza e Subsonica)

 

Quali sono i problemi di chi decide di investire la propria vita nella musica?

Mi sembrerebbe assurdo rispondere con la parola “precarietà”, siamo purtroppo in un periodo dove troppe e tante cose sono offuscate dalle incertezze economico-lavorative in tutti gli ambiti.
Se diventasse un problema di natura mentale faremmo fatica ad andare avanti con determinazione ma la verità è che la vita è fatta di discese e salite…alti e bassi…i problemi sono sicuramente al di fuori della musica per quanto ci riguarda perché la musica è la cosa più dolcemente vera che abbiamo.

 

La scelta di cantare in italiano.

È una necessità comunicativa, deriva dalla voglia di esprimere e, dove è possibile, di dare delle emozioni agli ascoltatori. Non è una scelta per puntare al successo, è un modo di essere sinceri con noi stessi e con chi trova interesse in ciò che facciamo.

 

Prospettive per il futuro?

Attualmente oltre a promuovereFlash e aver lanciato un singolo con rispettivo video, stiamo lavorando a brani nuovi per un disco nuovo e stiamo cercando di organizzare un mini o maxi tour per portare in giro il nostro lavoro. Ovviamente quando parliamo di “maxi tour” non siamo seri, sarebbe meraviglioso ma stiamo cercando di imparare a volare e per il momento è opportuno volare basso…stay tuned!

“La scoperta dell’alba” di Susanna Nicchiarelli

Presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma nella sezione Prospettive Italia, La scoperta dell’alba è l’opera seconda della regista, sceneggiatrice e attrice Susanna Nicchiarelli, già premiata nel 2009 a Venezia con il premio Controcampo italiano per il film d’esordio Cosmonauta.
Dopo la morte della madre, Caterina (Margherita Buy) e sua sorella Barbara (Nicchiarelli) decidono di sbarazzarsi della casa al mare ormai inutilizzata. Mentre traslocano i ricordi di una vita, Caterina, spinta da improvviso istinto, decide di provare a comporre il numero della casa d’infanzia sul vecchio telefono a disco che giace in un angolo ricoperto di polvere. Quando dall’altro capo sente rispondere una bambina non vuole crederci. In qualche modo si è aperto un varco temporale e Caterina si trova ora a parlare con la sé stessa degli anni ottanta. È l’occasione per capire che fine abbia fatto il padre Lucio Astengo,  professore universitario sparito all’improvviso trent’anni prima, forse rapito dalle Brigate Rosse, forse scappato con una nuova donna.
L’indagine trans-temporale che Caterina avvia la porterà a rivelazioni inattese sul genitore scomparso, lontano da quell’immagine di perfezione che il ricordo familiare e le postume celebrazioni accademiche avevano fornito in tutti quegli anni.

Partendo dall’omonimo romanzo di Walter Veltroni e cambiandone, in parte, la materia narrativa (nel libro il protagonista è Giovanni, figlio unico di Lucio Astengo, padre a sua volta di due figli), Nicchiarelli ha confezionato un film che affianca al nucleo centrale del libro della ricerca storica, individuale e collettiva, un nuovo livello d’indagine sulle figure di padre e uomo che prende il sopravvento. Le rivelazioni cui Caterina giungerà con la collaborazione della se stessa bambina mostrano un padre distante e freddo che la gloria della cronaca e del mistero avevano nascosto agli occhi dell’infanzia.
La ricerca di Caterina non è rivolta solo a individuare la realtà dei fatti ma a trovare un senso per quella figura reale di uomo che è mancata, e continua a mancare, nella sua vita e in quella della sorella. Entrambe sono coinvolte in amori con uomini a metà, un infantile sperimentatore interpretato da Sergio Rubini per Caterina, un timido e remissivo chitarrista della band di cui è manager per Barbara, entrambe sono perennemente alla ricerca di una figura che sappia conciliarle con il passato (così Caterina finisce a letto con il figlio di una vittima di terrorismo, Barbara si illude di ritrovare il padre scomparso in un misterioso impresario tornato dopo trent’anni dall’Argentina).

Nonostante l’originalità della materia di partenza (relativa, se si pensa a un precedente come Frequency di Gregory Holbit del 2000, dove padre e figlio comunicavano via radio a trent’anni di distanza) e l’efficacia delle modifiche apportate in riscrittura, la Scoperta dell’alba è un film che delude e finisce per annoiare. Tutto sembra fuori posto, dagli attori, mai interamente calati nelle parti, alla colonna sonora elettronica di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, quasi imposta in primo piano per tutto il film.
Nel tentativo di creare tensione nell’inchiesta attraverso tempo e memoria di Caterina, Nicchiarelli finisce per mettere in scena una storia sconnessa, lenta, con un ritmo altalenante e la perenne minaccia della banalità in dialoghi triti e situazioni stereotipate.
Mantenendo la sua regia sulle stesse note di nostalgia e memoria (le canzoni pop anni ottanta, da “99 lutfballons” a “Video killed the radio star”), alla regista non sono però riuscite le stesse mosse che avevano fatto di Cosmonauta una sorpresa inattesa.

(La scoperta dell’alba, Susanna Nicchiarelli, 2012, drammatico, 92’)

“Il tempo è un dio breve” di Mariapia Veladiano

Siamo in tempo di madri sempre più morbosamente affettuose, di affetti inquinati da insicurezze e vigliaccherie, di famiglie che stanno insieme per inerzia o che si dividono silenziosamente. Il relativismo della nostra epoca mette a rischio il più idolatrato dio della modernità, la comunicazione, incrinando i rapporti, e il senso dei rapporti. In tutto questo sembra necessaria una ridefinizione delle priorità morali, a cominciare da un tema arcaico, innestato sul moderno spirito cattolico: il dolore. Perché soffrono i bambini? Perché siamo destinati al fallimento degli affetti? Come salvare la carità di Dio davanti lo scempio del male?

Il tempo è un dio breve, secondo romanzo di Mariapia Veladiano si interroga su presupposti di questo tipo, mettendo in scena un padre che rinnega il figlio, una famiglia evanescente e un Dio imperscrutabile e oscuro. In tutto questo, Ildegarda, protagonista della storia, affronta le umiliazioni e le prove del suo Dio con ribelle rassegnazione fino a un morbido martirio finale nella splendida cornice alpina della Croda di Luna. Le interrogazioni che la madre disperata rivolge al Signore cui non può rinunciare passano per gli articoli del giornale cattolico con cui collabora e le discussioni con Dieter, pastore luterano incontrato in vacanza, che diverrà il padre putativo del piccolo Tommaso.
L’opera seconda della Veladiano, recensita su spazi di primo piano e tenuta a battesimo da un padrino d’eccezione come Cesare Segre (Il Corriere della sera, 15 novembre 2012) scorre via con lo stile fluido e fin troppo naturale che sempre più ci sembra la meno confondibile marca del team einaudiano. La storia oscilla fra le temperanze di una marcia di fede e l’impatto shock di un realismo senza mezzi termini, meno riuscita questa seconda parte. Il grande respiro di questa opera che gioca a confondere le tre carte di laicità, ortodossia ed eresia, va lentamente diminuendo il perché si soffre? della premessa, in un non meno nobile perché soffro io? della conclusione.

La Veladiano, vicentina, laureata in Filosofia con una Licenza in Teologia (leggiamo sul suo sito personale, mariapiaveladiano.com) collabora con Repubblica, Avvenire eIl Regno. Con La vita accanto, suo esordio sempre per Einaudi, si è aggiudicata il Premio Calvino e nel 2011 è arrivata seconda allo Strega.
Ci troviamo insomma di fronte un’ottima scrittrice, inserita nei meccanismi dell’editoria forte, agguerrita, preparata (per molti anni insegnante, dirige ora un istituto comprensivo a Rovereto) che sa rivolgersi a un pubblico immaginabile, senza tuttavia escludere il lettore occasionale o non inquadrato. Le duecentoventicinque pagine di questo suo ritorno in libreria offrono momenti di piacevole coinvolgimento, calando sul finale, trascinato per tutta l’ultima sequenza (l’annuncio del tumore alla protagonista) in un tentativo di chiudere i conti con le aspettative lasciate in ballo.
Aspettando il terzo capitolo di questo piccolo ciclo, non escludiamo che la vicenda possa strappare qualche lacrima al lettore meno insensibile, in virtù del suo teatro di personaggi veri e per bene, persi davanti l’ineluttabilità della storia, aggrappati al filo di una fede ora forte, ora a rischio, mai abbandonata.

(Mariapia Veladiano, Il tempo è un dio breve, Einaudi, 2012, pp. 225, euro 17)

“Tom Waits, Il fantasma del sabato sera” di Paul Maher Jr.

Più che Il fantasma del sabato sera, Tom Waits è la voce e l’anima degli emarginati. Dei reietti, dei disperati, dei bizzarri. Dalle prostitute ai folli, dagli alcolizzati ai senzatetto. Rain Dogs, insomma, usando l’espressione da lui stesso coniata per descrivere le persone senza una casa, pronte a dormire nei pianerottoli dei palazzi durante i temporali. E non solo. Proprio per capire meglio come abbia fatto l’autore di Pomona a plasmare queste storie, il libro curato da Paul Maher Jr. – tradotto in italiano da Claudia Durastanti – è una guida imprescindibile per chi vuole navigare nello sterminato oceano della musica di Waits. Il volume è infatti un’ampia raccolta di numerose interviste lasciate dall’artista negli anni e divise per album. È come scoprire la biografia di Waits ascoltandola dalla sua stessa voce. Una voce così unica e atipica che viene più volte trattata nel libro e che trova nell’espressione di un bambino la descrizione migliore: «La tua voce è un incrocio tra un petardo e un clown».

E così, seguendo la cadenza cronologica discografica, si conoscono le tappe e gli episodi più significativi del musicista. La prima parte – che tratta da Closing Time a One from the Heart – è sicuramente incentrata sull’adolescenza e su come l’artista sia riuscito a raggiungere la possibilità di incidere un disco. Ovvio, non bisogna aspettarsi da Tom Waits la solita storiella lineare, narrata senza alcun intoppo: è lampante sin dalle prime battute come il protagonista sia riluttante – molto spesso indisposto – nel dare interviste e nel raccontare la sua vita, aggirando il tutto prendendosi gioco dell’intervistatore con aneddoti strampalati e fuorvianti. Ricordiamoci che lui stesso una volta ha cantato: «Ti dirò tutti i miei segreti ma mentirò sul mio passato».

Quello di cui siamo certi sono la presenza del padre insegnante di spagnolo – e con un particolare che Waits dirà solo in tempi recenti –, gli svariati lavori prima di prendere in mano seriamente la carriera musicale, gli sfiancanti viaggi in pullman per raggiungere i primi palchi, la vocazione per le stanze d’albergo squallide, i bar malfamati e per il jazz, genere che segna il suo stile fino all’epico Swordfishtrombones, disco che apre la seconda parte del libro e della sua parabola artistica. Una seconda sezione davvero interessante, sia per i dischi – oltre al già citato capolavoro dell’83 come non menzionare l’altrettanto mitico Rain dogs di due anni dopo ? –, sia per la proficua collaborazione con il mondo del cinema, vissuta spalla spalla con personaggi che vanno da Francis Ford Coppola, all’underground per eccellenza Jim Jarmush. Per non citare la parte biografica, con l’incontro più importante nella vita di Waits: la moglie Kathleen Brennan. Fino alla terza e ultima parte del volume, quella del Waits ormai celebrato e osannato, che ricorda con simpatia gli estenuanti tour che doveva subire in giovinezza. Sicuramente il disco più importante del periodo è il grande Mule Variations ( il cui titolo nasce da un divertente battibecco tra coniugi): esordio con una casa discografica indipendente che venderà un milione di copie e gli farà vincere il secondo Emmy.

Insomma, meglio non svelare troppo: anche perché a farlo ci pensa Tom Waits. Con la sua voce, le sue parole e la sua musica. E chiedere di più sarebbe davvero troppo.


(Paul Maher Jr., Tom Waits, Il fantasma del sabato sera. Interviste sulla vita e sulla musica, Minimum Fax, 2012, pp. 409, euro 16)

“Chiòve” di Pau Mirò

Calze sfilate e un vestitino blu elettrico poco sopra. Ci si arrampica su fianchi stanchi, il seno va messo in risalto e il cliente compiaciuto ma non troppo, perché bisogna pur esser lente per far trascorrere tempo, se il tempo coincide col denaro. Succede talvolta che questi gesti diventino improvvisamente veloci, affrettati, non più cadenzati e danzanti, ma incespichino gli uni sugli altri, come bambini in fila in attesa di dolciumi. Troppi movimenti si affollano, specchi di pensieri che non riescono più ad esser filtrati. Si affollano pezzi d’amore in una lorda camera dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Eccoli tracimare dalla finestra, in cerca di un modo per fuggire, magari sulle ali di un gabbiano inoltratosi all’interno dei vicoli più colmi d’ombra. I pensieri e i gesti rotolano un po’ ovunque nella camera, ma solo i secondi appaiono al cospetto di colui che tutto ciò ha scatenato. Un cliente dall’aspetto gentile, ricercato, ma anche colmo di dolore per la morte della moglie. Gli anni sono trascorsi e un semplice cliente è stato capace di affrettare i gesti della prostituta che si fa chiamare Lali (Chiara Baffi). Eppure era stato messo del denaro tra l’uno e l’altra. A cosa possono mai servire i vestitini e le parrucche, gli smalti e i tacchi alti, se non a creare quella seduzione che nel suo palese eccesso misura la distanza contrattuale tra cliente e prostituta? Nessuna distanza è forse mai bastata per negare l’intimità che lega due sofferenze così diverse. Quella di una donna che vede la sua immaginazione relegata tra le poche righe di frasi di Baci Perugina. Quella di un uomo che è ormai così distante dalla calda corporeità delle dinamiche amorose da potersi permettere solo l’osservazione di una prostituta.

Davide (Enrico Ianniello) non ricercava certo il Ballantine’s scadente di Lali e forse nemmeno  il suo corpo martoriato dalle continue sottolineature della sua carnale bellezza. Forse stava semplicemente cercando quello scarto di sé che finisce per essere così prezioso quando lo spoglio reale dell’essenza di ciascuno emerge. Simmetricamente si pone Carlo (Carmine Paternoster), compagno di Lali: un uomo che vive con/di un rasoio legato a un braccio. Rabbia incompiuta che sa di cheeseburger. Rabbia irrisolta che nel sorriso di Lali trova il suo balsamo. Quanto stabile è questo sistema amoroso? Più di quanto si possa credere, sarà la risposta del regista Francesco Saponaro.

Se è vero che Lali cambierà, è pur vero che il suo ruolo di ago della bilancia è scritto sul suo corpo, che continuerà ad urlare la sua innocenza, la sua spontaneità. Incarnare queste ultime dimensioni del personaggio di Lali è senza dubbio il compito più arduo e allo stesso tempo più riuscito di Chiara Baffi. Una recitazione attenta e meticolosa invece quella di Enrico Ianniello e Carmine Paternoster, che riescono abilmente a tracciare il solco in cui far scorrere tutta la straripante vitalità che deve mantenere Lali.

Si assiste dunque a un lavoro corale, suggestivamente quanto semplicemente articolato da Saponaro, alle prese con la crescente tensione tra i due poli maschili della messa in scena. Se le strade personali convergono dunque verso un prevedibile scontro tra maschi per il controllo della femmina di turno, il testo di Pau Mirò sa sfuggire alla retorica per approdare a una soluzione delle dinamiche amorose che inizia a luci accese e sa farsi veramente comprendere solo a luci appena spente.


Chiòve
di Pau Mirò
regia di Francesco Saponaro
con Chiara Baffi, Enrico Ianniello, Giovanni Ludeno e Carmine Paternoster.

“ESC - Quando tutto finisce”: a tu per tu con Mauro Maraschi

Con più o meno scetticismo, tutti abbiamo aspettato che arrivasse il 21 dicembre 2012. Chi con un po’ d’ansia, chi per togliersi la soddisfazione di dire «Te l’avevo detto» a qualche amico catastrofista. Al di là di ogni profezia, c’è chi la fine del mondo l’ha immaginata davvero. ESC – Quando tutto finisce (Hacca, 2012), a cura di Rossano Astremo e Mauro Maraschi, raccoglie undici personalissime versioni dell’apocalisse. Undici giovani autori italiani focalizzano un unico evento, o meglio la reazione a un evento, la fine di tutto, con una lente diversa e sollevando, più che vere e proprie catastrofi, il velo che nasconde le nostre piccole apocalissi quotidiane. Il risultato, oltre a essere un’abile rassegna della narrativa italiana contemporanea, è un mix vertiginoso e imprevedibile. Di certo, c’è che di fronte all’idea del nulla poche sono le pulsioni che restano intatte, e tutte portano all’unione: sesso, famiglia, dialogo e contatto con l’altro.

Carola Susani apre la raccolta trasportandoci in un mondo parallelo, un futuro dal sapore antico, minacciato da uno tsunami. Con Stefano Sgambati e Fabio Viola ci addentriamo nella Roma ricca e benpensante. Gabriele Dadati propone un’apocalisse inaspettata, gelida. Emilia Zazza, Federica De Paolis e Paolo Zardi scelgono, con esiti differenti, di approcciare il tema attraverso il filtro dolceamaro della famiglia. Per Vins Gallico l’apocalisse è un segreto inconfessabile; per Cinzia Bomoll una vendetta; mentre Giordano Meacci – difficile riassumere meglio che con il titolo la ricchezza del suo racconto – propone tredici improbabili ipotesi di fine. Brillante la conclusione affidata a Flavio Santi, che sdrammatizza le nostre paure in una sorta di colossale Truman Show.

Passato il 21 dicembre, dunque, non ci resta che leggere le storie di chi la fine del mondo l’ha immaginata per noi. Ne abbiamo parlato con Mauro Maraschi, uno dei due curatori del volume.

Quando è nato il progetto?

Un anno fa, quando mi sono trasferito a Roma. Conoscevo Rossano tramite il suo blog letterario, Vertigine, nel quale è riuscito a coinvolgere, tra i tanti, Moresco, Pincio, Genna, Lagioia, Mozzi e Wu Ming i, dando anche molto spazio agli emergenti. Avevo apprezzato le sue curatele, Libro sui libri (Lupo, 2010) e La letteratura non conta niente (Citofonare Interno 7, 2011) e insomma, sono andato a scovarlo al Chiccen, il locale del Pigneto nel quale ha organizzato un centinaio di presentazioni di spessore (c’è stato persino Jack Hirschman). Tra una Tennent’s e un amaro abbiamo deciso di mettere insieme le forze, lui con la sua esperienza ed io con la mia determinazione. Direi che abbiamo fatto bene.

Come mai una raccolta di racconti?

Perché amiamo la forma racconto, piuttosto bistrattata dal mercato editoriale, e perché crediamo che un buon progetto antologico possa contribuire a rendere onore a questa forma, che solo in ultimo luogo si differenzia dal romanzo per una questione di brevità: il racconto segue un’altra logica, ha uno scheletro diverso, è un’altra specie biologica. (Sull’argomento mi piacerebbe segnalare una bella indagine di Loris Righetto, qui). E poi c’era il precedente delle due curatele che ti dicevo: godibili, ironiche, intense, ma soprattutto coese. Non è scontato che un’opera collettiva abbia un’identità forte. Credo che con ESC ci siamo riusciti. Qualche instradamento, qualche vincolo, il tutto nel rispetto delle singole cifre. Ma facendo un passo indietro, devo ringraziare Rossano: io, da solo, non sarei riuscito a mettere insieme una simile squadra.

Come l’avete scelta, la squadra?

È venuta fuori piuttosto spontaneamente, cercando tra quegli autori di cui abbiamo letto tutto o quasi tutto. Perquanto ci interessino le nuove voci, infatti, nessuno dei nostri autori è esordiente. Hanno tutti alle spalle pubblicazioni con case editrici come Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, minimum fax e così via, ma soprattutto sono tutti caratterizzati da una forte riconoscibilità.

Quanto ha giocato a vostro favore la scelta di un tema chiacchierato come la fine del mondo? Avevate le idee chiare fin dall’inizio o avete valutato anche altre possibilità?

Un paio di altre idee c’erano, e ci sono, ma questa era prioritaria. Sapevamo che ci sarebbero stati tanti progetti affini, ma avevamo anche chiaro il processo per far sì che il nostro fosse quanto di più lontano da un instant book. E ci tengo a puntualizzare che lo è, che affronta il tema in modo mai spettacolare, che non c’è bisogno dei Maya per raccontare un evento ipotetico che ha, da sempre, affascinato scrittori e lettori.

Mi interessa molto il lavoro di editing che sta dietro un’antologia: come vi siete mossi? Sincronizzare così tante menti non dev’esser stata impresa facile: la determinazione di cui sopra non ha mai vacillato?

La parte più delicata è, a mio parere, il coordinamento degli autori, soprattutto per evitare che vengano raccontate storie simili: Sgambati e Zardi, ad esempio, si sono contesi (con cavalleria anacronistica, devo dire) un soggetto simile, prendendo poi strade molto lontane. Per quello che riguarda l’editing, si è trattato di una formalità: lavorando con autori formati e consapevoli, è stata sufficiente qualche suggestione, ma il merito è tutto loro: diciamo che ci siamo affidati al loro mestiere.

Parliamo di contenuti: la fine del mondo c’è, ma di fatto non c’è, o meglio, assume quasi una dimensione quotidiana, intima. Sgambati, nel suo racconto, la definisce «qualcosa di cui tutti gli scrittori hanno scritto ma che nessuno ha mai raccontato davvero». ESC lo fa?

Direi di sì, ed è esattamente ciò che volevamo. In diversi racconti si accenna a terremoti, eruzioni vulcaniche o altro, ma ciò avviene quasi sempre tramite i media, o per sentito dire. E anche laddove lo tsunami si vede non è comunque protagonista. Persino nel racconto di Gallico, quello più sismico, la fine del mondo è meno temibile della verità. Idem per quello di Federica De Paolis, nel quale la fine è un pretesto per scavare a fondo in un rapporto di coppia. E se la fine di Meacci è la fine di un mondo, quella di Bomoll è addirittura virtuale.

I racconti sono molto diversi gli uni dagli altri, ma come suggerisce Marcello Fois nella prefazione, sono raggruppabili per scelte prospettiche. Quali sono i rimandi interni che fanno di ESC un continuum narrativo?

Entrando nello specifico, potrei ribadire i nessi tra il racconto di Sgambati e quello di Viola (uno su tutti, il “terrazzo su Roma” come status symbol), o tra le famiglie ritratte da Zardi, Zazza e De Paolis. Ma il fil rouge che lega tutti i racconti non è la fine in sé, quanto ciò che essa comporta: la caduta della gerarchia di tutti i valori, etici, sociali e affettivi. I personaggi di ESC non devono fronteggiare la prospettiva della propria morte (che non nega, in sé, i surrogati dell’immortalità ultraterrena o intellettuale, o della discendenza sanguigna, o dell’appartenenza all’opinabile concetto di umanità), bensì l’assenza del giudizio dei posteri, una voragine tanto spaesante quanto unica reale prerogativa del libero arbitrio.

Un aggettivo per ognuna di queste undici fini?

In ordine di apparizione: involutiva (Susani); viscerale (Sgambati), ipotermica (Dadati), nevrotica (Zazza), dissacrante (Gallico), conflittuale (De Paolis), s-radical chic (Viola); amorale (Zardi); enigmistica (Meacci); anarchica (Bomoll); cosmicomica (Santi). Tanto è solo un gioco, no?

(Aa.Vv., ESC – Quando tutto finisce, a cura di Rossano Astremo e Mauro Maraschi, Hacca, 2012, pp. 224, euro 14)

Voland: un percorso di qualità

«…Che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. Ecco l’ombra della mia spada». Così sentenzia Woland, il diavolo de Il Maestro e Margherita, capolavoro inamovibile di Michail Bulgakov. Ed è proprio la sua presenza misterica, il chiaroscuro del suo potere, a consentire la salvezza e la rivincita del Maestro, a strapparlo dalla persecuzione della Mosca oscurantista degli anni ’30. Woland è uno spirito bizzarro, energico, magico. Entità mefistofelica, inafferrabile, superiore. Strutturalmente libera e castigatrice della cattiva letteratura.

Voland, tradotto anche con la “V”, è dal 1995 anche il nome di una casa editrice piccola e preziosa. Nata a Roma, in primavera, in una traversa di via Nazionale, per volere della slavista Daniela Di Sora. La missione di Voland, il senso profondo della sua direzione, è quella di riscattare universi poco conosciuti, diffondere titoli e autori della letteratura slava, non solo per la professione della sua fondatrice, per l’affinità elettiva che la lega a quel mondo, ma anche perché in Italia sembra allora, e forse anche adesso, non esserci abbastanza spazio, abbastanza occhi, per l’inchiostro di quelle latitudini. Si comincia con tre libri: Dall’Italia di Gogol’, Il ladro di pesche del bulgaro Emiljan Stanev e Per Anna Karenina di Lev Tolstoj. Poi lo sguardo si dilata, la casa editrice cresce e il «percorso di qualità» prosegue abbracciando nomi mai scontati, come lo spagnolo Josè Ovejro, il brasiliano di origine russa Moacyr Scliar e la portoghese Maria Dulce Cardoso. La consacrazione giunge con la francese Amélie Nothomb, che Voland sceglie e lancia per prima in Italia, tanto che la scrittrice da sei milioni di copie vendute solo in Francia le resterà fedele e affezionata.

Il catalogo, ormai vastissimo, si compone di otto collane.
Amazzoni, composta e nutrita dalla scrittura femminile; mai dimessa, mai sottotono, come suggerisce il suo stesso nome. Tra le sue abitanti spiccano Rachel Wyatt, Brigitte Reinmann e Silvana Maja.
Confini, dedicata ai viaggi come “perversione umana” più prolifica ed essenziale. Un titolo tra tutti è Breviario per nomadi di Vanni Beltrami, in una veste illustrata e di grande pregio grafico.
Intrecci, che propone suggestioni di altre geografie, meridiani e paralleli d’intensa narrazione in cui è facile impigliarsi. Oltre a Julio Cortazar e a Georges Perec, molto interessante è Alcuni dei miei amici sono bianchi del «guerrigliero zulu in giacca e cravatta» Ngcobo Ndumiso. Tra gli italiani pubblicati figurano Ugo Riccarelli, Giorgio Manacorda e Francesco Campora.
Sìrin, concentrata solo sulla dimensione slava. Trae spunto dalla creatura mitologica omonima, metà donna e metà uccello, capace di stregare gli uomini con la dolcezza del suo canto. Al suo interno campeggiano Jordan Radickov, Alex Popov e il già citato Emiljan Stanev.
Sìrin classica, costituita da prestigiose traduzioni di grandi autori russi. Un esempio per tutti è quello di Paolo Nori, che si è confrontato con Tolstoj e Dostoevskij.
Finestre, per proiettarsi al di là della letteratura, verso orizzonti di arti visive, architettura, memorie. Da segnalare Il libro dell’assenzio di Phil Baker e l’ironico Come diventare un malato di mente di Pio Abreu José Luis.
Teatro, con quattro pubblicazioni importanti, tra cui Ploutos o della ricchezza di Ricci/Forte.
Supereconomici, la nuova collana di tascabili.
Nella partitura di attività svolte dalla casa editrice, di notevole valore è, per passione e necessità, quella delle traduzioni, rappresentata e comunicata dall’idea della “bottega”, non solo per la cura artigianale della sua realizzazione, ma per lo scopo di «creare un gruppo di persone che condividano gli stessi principi e portino avanti un metodo di lavoro comune, pur nelle differenze individuali», costruendo intorno al progetto Voland  dei veri e propri laboratori, «una rete di competenze a cui eventualmente lavorare».

E ora è il momento delle nostre cinque scelte, dei testi per noi più incisivi della “diabolica” creatura editoriale.
Imperdonabili di Philippe Dijan. La storia di Francis, scrittore di successo che finisce risucchiato in un gorgo di cinismo come sola soluzione per sopravvivere al dolore della perdita. Capolavoro di bellezza irreversibile e di letale solitudine.
Diari di pietra di Carol Shields, autrice canadese di straordinaria forza espressiva, ci racconta della vita apparentemente semplice di Daisy Goodwill e delle sue infinite venature emotive.
Nostalgia di Mircea Cartarescu, autore rumeno fortemente censurato in patria.  Un inventario di sogni e ossessioni spalmati sullo sfondo di Bucarest.
Arpagoniana di Konstantin Vaginov, uno dei maestri russi dell’assurdo. Un itinerario nei grottesco attraverso i bassifondi di San Pietroburgo.
Stupori e tremori di Amélie Nothomb. Discesa agli inferi di Amélie attraverso gli automatismi della multinazionale giapponese in cui inizia a lavorare. Vertigine caustica e trascinante.
In questo caso la selezione non è stata affatto semplice, perché lo spirito Vola(nd) alto e ci offre sempre avventure in cui vale la pena tuffarsi.