“Italiani di domani”: a tu per tu con Beppe Severgnini

Non capita tutte le sere di bere una tisana con Beppe Severgnini discorrendo del suo ultimo libro Italiani di domani. 8 porte sul futuro, edito da Rizzoli. È stata l’occasione per discutere di giovani, di Italia, di crisi e di futuro. Le 8 porte sul futuro, indicate dalle 8 parole che iniziano con la T – Talento, Tenacia, Tempismo, Tolleranza, Totem, Tenerezza, Terra e Testa –, ci mostrano le infinite possibilità che la vita ci può offrire e ci danno la speranza concreta di potercela fare, nonostante la tempesta, nonostante la pressione che ci impongono i viticoltori. Ma queste cose diventeranno chiare più avanti.

«Lei è il più vecchio di noi e non il più giovane di loro».


La costruzione del libro attraverso otto parole che hanno come iniziale la lettera T è una trovata molto divertente, oltre che funzionale per la suddivisione dei capitoli. Tutte parole semplici e allo stesso tempo illuminanti, ma quella che mi ha colpito di più è la Tolleranza. Che cosa vuol dire? Noi “italiani di domani” siamo un po’ rigidi.

L’idea delle otto T, che può sembrare infantile, io la chiamo l’applicazione alla saggistica della tecnica del cibo cinese. Il cibo cinese si tagliuzza, perché la gente lo mastichi e lo digerisca meglio e siccome la gente legge poco i libri in genere, se si offrono delle porzioni non facilmente commestibili, non lo avrebbe letto nessuno. Se questo libro fosse stato di 700 pagine, con 10 capitoli da 70 pagine, scritti fitti, non lo leggeva nessuno. Mi sono accorto che le cose che volevo dire si potevano sviluppare sotto alcuni macrotemi e ho deciso di chiamarli con parole che iniziassero con la lettera T. Per dare un consiglio a quelli della vostra generazione, perché di fatto questo libro è un consiglio per persone più giovani di me, però le parole “consigli” e “giovani” sono assenti, per fortuna. C’è il Talento, la Tenacia, il Tempismo, che non è opportunismo, ma avrei potuto chiamarle in altro modo. Mi sono accorto che le T potevano essere memorabili e non a caso anche tu ti sei accorta e ricordata di questa cosa. Poi ho giocato con il numero 8: è una sorta di confezione, se fai un regalo a qualcuno, l’importante è che il regalo sia bello e offerto con amore, ma vuoi anche metterlo in un bel pacchetto. Questa è l’operazione che ho fatto in questo libro e che in generale è la chiave della saggistica. Gli americani sono più bravi di noi a fare questo, ma avendo imparato un po’ di cose da loro, ho acquisito l’importanza di una buona presentazione, così da non far scappare il lettore medio.

La Tolleranza è, tra tutte la T, più difficile da spiegare, perchè dire a un ragazzo o a una ragazza di capire il proprio talento perché sarà il proprio valore aggiunto e che se non si è portati per qualcosa ci si troverà a competere con persone che invece lo sono, oppure che ci vuole Tenacia, Tempismo e Tecnica è più semplice, ma dire che c’è bisogno anche di Tolleranza, è più difficile. Per alcuni è sinonimo di sopportazione e dire adesso che si deve essere tolleranti può essere inteso come un invito a sopportare l’insopportabile ed essere paziente con gente, situazioni o condizioni che invece non dovrebbero essere sopportati. Quella che intendo io è una Tolleranza intelligente e bisogna capire che la parola compromesso non è una bestemmia, ma che qualche volta è il modo per evitare un conflitto. Le persone intelligenti devono capire che il compromesso giusto è una qualità. Il compromesso buono è quello che puoi rendere pubblico, senza imbarazzo, il compromesso sbagliato è quello che non è riferibile, che comprende azioni immorali, illegali o illecite. Una delle chiavi della Tolleranza è l’ironia, che è una grandissima qualità che bisogna imparare presto nella vita, perché se nel mondo del lavoro per esempio ti dovessi trovare davanti a un capo che ha l’abitudine di urlare, se riesci a vederlo in maniera ironica, come una delle tante stranezze della vita, diventa una forma di igiene mentale. L’ironica è una grande igiene mentale ed è una delle forme della Tolleranza.


Durante le presentazioni di questo libro lo ha definito «un libro per i nostri ragazzi, quindi anche per noi», facendo molta attenzione a evitare la facile etichetta di “consigli per i giovani”. I suoi libri sono letti da tutti, ma a chi stava pensando durante la stesura?

Io credo di averlo scritto per quelli che vogliono riprogrammare la propria vita, ragionare sull’uso del proprio Talento, sulla Tolleranza, sul Tempismo, sulle tecniche della vita quotidiana. Questo libro si può leggere anche a cinquant’anni, ma non c’è dubbio che il destinatario abbia un’età che comincia per 2. Ritengo che gli anni che cominciano per 2 siano fondamentali nella vita. Sto leggendo un libro che si chiama The Defining Decade, la decade che definisce, e penso che molte delle scelte che facciamo negli anni che vanno dai 20 ai 29 sono quelle che di fatto ci condizionano la vita: scelte di lavoro, scelte familiari, qualcuno dice anche scelte riproduttive. C’è tempo dopo e prima, ma questi sono gli anni fondamentali. Quindi ho voluto provare a rivolgermi a una generazione che non ha avuto ancora tempo di commettere grandi errori e che ha davanti grandi possibilità. La vera forza dei libri è questa: improvvisamente qualcuno di offre, attraverso delle pagine, un punto di vista, una voce dal nulla che ti può aiutare. Quando si legge un grande romanzo, e non è il mio caso, io sono un saggista, improvvisamente ci si accorge che ci sono nuove prospettive su un pezzo di mondo che magari non avevi preso in considerazione. Un libro è un po’ come un amico che sbuca dal nulla e che ti dice la frase giusta nel momento in cui ne hai bisogno. Non succede sempre, ma ogni tanto arrivano.

La settimana scorsa sono stato all’Università di Pisa per parlare con i ragazzi e ci hanno fatto vedere un film documentario girato da un regista cresciuto a Pisa, ma di madre materana e di padre londinese, Roan Johnson. Ha scritto anche un libro molto carino che si chiama Prove di felicità a Roma Est. Questo documentario tratta degli studenti universitari di Pisa, ragazzi tra i 20 e i 25 anni, e si chiama l’«uva migliore». Un ragazzo che studia agraria esordisce all’inizio del film dicendo: «Io ho studiato una cosa strana: quando la vite viene messa sotto pressione, o è in condizioni atmosferiche o di terreno difficili, fornisce l’uva migliore. Mi auguro che la nostra generazione, che è oggettivamente messa in grandissima difficoltà non per colpe nostre, possa fare come la vite, offrendo il nostro meglio». È una bellissima metafora. Noi viticoltori, della mia generazione, non dobbiamo usarla come scusa e non possiamo strangolare questa vite per obbligarla a dare l’uva migliore. Non siamo orgogliosi della condizione in cui vi abbiamo messo con il 37% di disoccupazione. Avete messo la barca in mare nel bel mezzo dell’uragano Sandy.


Queste riflessioni ci danno qualche speranza, perché se seguiamo il nostro Talento, usando Tempismo, Tolleranza, Testa e Tecnica in qualche modo ce la faremo. Sono pagine ottimistiche, molto rare quando si parla di giovani e di crisi.

Bisogna imparare a distinguere tra quelli che alla fine ti vogliono fregare e quelli che invece ti vogliono aiutare davvero. Qualcuno esiste, anche se la situazione è drammatica. I professori dovrebbero essere dei “minatori di talenti”, lavorandoci per farli emergere, perché vedere i propri studenti che sbocciano, è una grande soddisfazione, quasi egoistica. Ho cominciato questo lavoro con Montanelli e quando mi sono trovato a ringraziarlo lui mi ha detto: «Non devi ringraziarmi, perché mi hai consentito di dire di essere oltre che un grande giornalista, uno storico, un direttore di giornale, uno che capisce e riconosce un talento quando lo vede».


Avendo un’età che comincia per 2, mi sento coinvolta da questi argomenti e avendo messo la barca in mare durante la tempesta insieme agli altri ragazzi di Flanerí, vorrei provare con lei a ricostruire le nostre 8 parole, ma questa volta con la lettera P di Passione, che è quella che ci spinge a coltivare questo progetto. Mi aiuta?

Passione: di certo non vi manca, sennò non saremmo qui a parlarne, state facendo una cosa anche un po’ in controtendenza. Prospettiva: pensate che potrebbe diventare un lavoro. Pazienza: sarebbe la mia Tenacia, ricordate che i risultati non arrivano subito. Polso: bisogna essere solidi, ci deve essere un merito anche alla costanza. Principi: mi sembra che abbiate le idee molto chiare su cosa volete essere, le cose che volete e anche quelle che non volete. Personalità: siete diversi dagli altri, sennò fareste le cose che fanno tutti. Percorso: la strada è lunga e tortuosa, ma sicuramente porterà a cose buone. Potenziale: perché non sapete ancora che cosa può diventare questa cosa, però avete già capito che ha un certo potenziale. Ecco, abbiamo fatto dei ragionamenti seri, legati al progetto a cui tenete in un modo intellettualmente stimolante, facendo giocare le mie 8 T con le vostre 8 P.

«Voi non potete sognare, dovete farlo. Questo è l’unico ordine. Gli altri erano solo consigli».


Grazie Beppe, spero a presto!

(Beppe Severgnini, Italiani di domani. 8 porte sul futuro, Rizzoli, 2012, pp. 180, euro 15)

Chi ha scritto il “Don Chisciotte”?

Per rispondere alla domanda del titolo, le notizie che abbiamo non lasciano spazio a dubbi. Si tratta di una normale informazione storica, relativa a un passato neanche troppo lontano, della quale non vi è motivo di dubitare. Miguel de Cervantes Saavedra, poeta spagnolo vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, fa stampare nel 1605 presso la casa di Juan de la Cuesta, noto editore del tempo residente a Madrid, la prima parte del suo romanzo Don Quijote de la Mancha, con il nome El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha. Dicevamo, dunque, che motivi reali e legittimi per dubitare di tale informazione non esistono, ma se vogliamo, possiamo prendere in considerazione una teoria, per quanto fantasiosa, riguardo a un altro scrittore del tempo, non certo meno famoso di Cervantes: William Shakespeare. Egli è considerato il padre della letteratura inglese quanto Cervantes lo è di quella spagnola, e circostanza vuole che pare siano morti lo stesso giorno, il 23 aprile del 1616, sebbene il primo a Stratford-upon-Avon, in Inghilterra, e il secondo a Madrid, in Spagna. Come non si devono avere dubbi sulla certezza dell’autore del Don Chisciotte, così non se ne dovrebbero avere riguardo alla certezza che sia stato proprio Shakespeare a scrivere tutte le opere a lui attribuite. Tuttavia esiste chi sostiene che dietro l’autore dei testi teatrali e dei sonetti si nasconda un’altra persona, dando così vita alle cosiddette “teorie complottiste”. Senza addentrarci in queste teorie, è bene notare come, in linea assolutamente teorica, ma anche non legittima per quanto ne sappiamo, la stessa cosa potrebbe capitare in futuro a Miguel de Cervantes. Curioso anche come prima dell’uscita della seconda parte “ufficiale” del romanzo (nel 1615 con il nome di El ingenioso caballero don Quixote de la Mancha) fosse stata pubblicata un anno prima a Tarragona la continuazione apocrifa delle gesta di Don Chisciotte. Il nome di questa seconda parte era Segundo tomo del Ingenioso Hidalgo don Quijote de la Mancha, e la vera identità del suo autore, ossia Alonso Fernández de Avellaneda, non è mai stata conosciuta.Nulla più di un gioco e di una suggestione per iniziare a prendere in considerazione un aspetto interessante, ossia l’identità dell’autore, del narratore, del curatore o del traduttore delle peripezie di Don Chisciotte.

Se si trattasse di un normale romanzo il tema non si porrebbe neanche, ma Cervantes vuole donare alla sua opera un aspetto reale, vuole farci credere che le gesta del suo eroe e del suo scudiero Sancho Panza siano accadute realmente e che abbiano fondamenta storiche, nel suo proposito di scimmiottare i libri della tradizione cavalleresca. Secondo le notizie che abbiamo possiamo affermare che la prima parte è stata pubblicata, come si diceva, nel 1605, e inoltre Cervantes, nel capitolo VI di questa prima parte, ci lascia forse un indizio. Ci troviamo nella biblioteca del fantasioso nobiluomo e il curato e il barbiere la vogliono esaminare per “pulirla” da quei libri che tanto male hanno fatto al loro compagno, temporaneamente addormentato. Due sono le cose interessanti in questo capitolo. La prima è il presunto indizio: nessuno tra i libri citati è posteriore al 1591, il che ci suggerisce questo come l’anno possibile dell’inizio della composizione da parte di Cervantes; dunque un altro dato storico, che un filologo può confrontare con i dati biografici dello scrittore. La seconda è che tra i libri presi in esame e giudicati dai due, in un fantastico e modernissimo esercizio di critica letteraria all’interno di un’opera di fantasia, si trova La Galatea, il cui autore è proprio Miguel de Cervantes!

Il vero punto cruciale per analizzare questo gioco che si sviluppa a metà strada tra realtà e finzione è il capitolo IX. Il capitolo VIII, infatti, si chiude con il dubbio che il resto dei testi nei quali si continuavano a narrare le imprese del nostro eroe siano andati persi. Il narratore non vuole credere che nessuno si sia preso la briga di mettere per iscritto avventure tanto appassionanti e non ne fa mistero al lettore, in un continuo gioco delle parti. È nel capitolo IX però che ci viene raccontata la sorte del narratore, che incappa al mercato di Toledo in dei fogli scritti a mano in carattere arabo, venduti da un ragazzo. Subito si scopre che su quei fogli è raccontata la storia di Don Chisciotte dallo storico arabo Cide Hamete Benengeli. Il narratore si affretta dunque a comprare il manoscritto e ne affida la traduzione verso la lingua castigliana a un moro battezzato, affinché sia il più fedele possibile. L’operazione dura circa un mese e mezzo e avviene, secondo quanto ci è detto, a casa del narratore, per il prezzo di venticinque libbre d’uva passa e due staia di grano.

Provando a credere alle parole di Cervantes ci troviamo di fronte a tre diversi punti di vista che operano sulla storia: il narratore, ossia Cervantes stesso, apparentemente solo un tramite; lo storico arabo, al quale dobbiamo tutti i fatti che da qui in poi seguiranno fino alla fine; il traduttore del manoscritto, “assunto” dall’autore.

Prima di passare all’analisi dello stratagemma del manoscritto, vediamo un po’ chi è questo Cide Hamete Benengeli. Sappiamo che è musulmano e scrive in arabo. È subito tacciato dal narratore di essere un “cane” e, in quanto arabo, tendente alla menzogna. Tuttavia nella seconda parte l’autore acquisisce una presenza maggiore e un ruolo più strutturato, nonostante le continue imprecisioni: difatti quella che all’inizio era invettiva diventa ironia, di pari passo con l’acclararsi della superiorità della coppia narratore-lettore. Cervantes ci lascia intendere che Cide Hamete Benengeli è fin troppo esaustivo nella sua narrazione e se ne prende gioco, replicando, in chiave parodica, un atteggiamento tipico dei narratori dei cantari e dei romanzi cavallereschi, cioè la sistematica insistenza su dettagli concreti, forniti allo scopo di avvalorare una narrazione inverosimile. La distanza culturale tra narratore e primo autore, che è superiorità del primo sul secondo (perché infedele), è sfruttata per rafforzare il valore di una riflessione filosofica. Dietro la maschera del moro il lettore può intravedere il volto del vero autore: un pensiero intuitivamente giusto e saggio, come la tragica finitezza dell'uomo, diventa, proprio perché espresso da una fonte sospetta, universale.

All’inizio del capitolo XXVIII abbiamo il passaggio più lungo nel quale si nota come sia il narratore e non l’autore a parlare, acuendo la sensazione fittizia di una storia accaduta veramente e raccontata successivamente: è qui che il narratore parla della «storia veritiera di lui, ma anche dei racconti e degli episodi di essa» per riprendere il resoconto dello storico arabo poco dopo. Anche se non sempre esplicitata, questa dualità è costante lungo tutta la narrazione. L’iniziale triangolo di persone che intervengono sulla storia è in pratica ridotto a due persone, poiché viene data per scontata e mai messa in discussione l’affidabilità della traduzione. Poco affidabile invece, come si diceva, è lo storico nella seconda parte; a confronto con una prima parte in cui è colpevole solo di una imprecisione minore (nel capitolo XVII quando Don Chisciotte, dopo aver bevuto il balsamo di Ferabraccio, viene descritto prima «sollevato e guarito» e dopo «ammaccato e rotto»), nella seconda si possono contare almeno dieci occasioni in cui l’autore mente, si contraddice o giudica male i personaggi (ad esempio nel capitolo XLVII riguardo al presunto contadino di Miguelturra). Continui sono anche i passaggi in cui Cervantes sottolinea le mancanze del moro, riferendosi anche indirettamente all’autore con l’espressione «la storia racconta», prendendosene contestualmente gioco. Le mancanze e le imprecisioni dello storico coinvolgono non solo il corpo dei capitoli della seconda parte, ma anche i titoli stessi, a volte banalmente frivoli: un esempio è il capitolo VI, definito «uno dei più importanti capitoli di tutta la storia», ma che tuttavia, per quanto interessante, mai potrebbe essere annoverato tra i più importanti. In definitiva l’oggetto dell’ironia, che nella prima parte era rappresentato dall’eroe stesso e dalle sue avventure, nella seconda parte si sposta sull’autore del manoscritto. In questa maniera il tono comico mantiene un livello costante per tutto il romanzo.

Torniamo dunque al manoscritto da cui vengono i fatti narrati. Anche qui vi è una nuova parodia della tradizione della letteratura cavalleresca, secondo cui i poemi erano sempre tradotti da manoscritti latini, greci o di altre lingue difficili da identificare. Ancora una volta realtà e finzione si accavallano, parodia e narrazione vanno di pari passo: lo stratagemma del manoscritto non serve solo come piatta imitazione, ma contribuisce a moltiplicare i punti di vista sulla storia. Riassumendo, i fatti presenti nel libro pubblicato nel 1605 sono accaduti o no? Chi li ha raccolti, Cervantes o il misterioso storico arabo? A chi si può credere e a chi no?

Anche successivamente, in periodi differenti, lo stesso espediente del manoscritto è stato usato in letteratura. Per fare due esempi italiani, possiamo citare I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e Il nome della rosa di Umberto Eco. Nel primo caso le somiglianze sono più di una, sia dal punto di vista della forma (Manzoni immagina di trovare uno scritto di un anonimo seicentesco), sia secondo la maniera di declinare questo topos (ad esempio ritroviamo l’inaffidabilità dell’autore). Per quanto riguarda il secondo esempio, anche qui abbiamo un manoscritto: è di Adso da Melk e racconta dell’avventura avuta da novizio in una abbazia dell’Italia settentrionale. L’incipit del romanzo, che si apre con il titolo piuttosto esplicito, «Naturalmente, un manoscritto», è quindi dedicato alla spiegazione di come Umberto Eco ne sia venuto in possesso. Il fortunato e suggestivo meccanismo del manoscritto possiede la capacità di ricordare al lettore di essere di fronte a una storia raccolta da altri in tempi antichi, conferendone autenticità e autorevolezza, lasciando al tempo stesso sospesa e ambigua la posizione della persona presente sul frontespizio del libro.

Abbiamo aperto parlando di suggestioni e concludiamo alla stessa maniera. Nel 1985 lo scrittore americano Paul Auster pubblica il romanzo City of Glass, che uscirà due anni dopo in una raccolta intitolata The New York Trilogy, della quale faranno parte anche Ghosts e The Locked Room. Al centro dell’analisi di questi romanzi c’è il tema del doppio, dell’identità e della realtà. In City of Glass il protagonista si chiama Daniel Quinn (non casualmente le iniziali sono DQ, come il Quijote della Mancia). Di mestiere fa lo scrittore, scrive i suoi romanzi sotto uno pseudonimo e si identifica totalmente con il protagonista dei suoi libri. Già ci troviamo di fronte a un singolare caso di sdoppiamento multiplo. Gli sdoppiamenti continuano quando, più avanti nella storia, DQ si trova a fare i conti con Paul Auster, un altro personaggio della storia, che egli crede essere un investigatore privato, ma che ha lo stesso nome dello scrittore del romanzo che stiamo leggendo. Anche nella storia Paul Auster si rivela essere uno scrittore (come il protagonista e lo scrittore stesso del romanzo) e DQ ha con lui una certa affinità. I due si trovano a casa di Auster e parlano di un saggio che il padrone di casa sta per pubblicare in una raccolta: un saggio su Don Chisciotte. Dopo aver concordato sul fatto che il Quijote fosse uno dei loro libri preferiti, Auster dice che si tratta più o meno di un gioco letterario riguardo alla paternità e alla modalità di scrittura del capolavoro. Continua dicendo che Cervantes, al fine di mettere in guardia i lettori dal pericolo di false letture, insiste sull’autenticità del manoscritto arabo del quale era venuto in possesso. Tuttavia Cide Hamete Benengeli, che dovrebbe esserne testimone, non compare mai sul luogo in cui si svolgono i fatti: la teoria del saggio di Auster è che Benengeli sia in realtà un misto di quattro persone. Una è Sancho Panza, sempre presente ma incapace di leggere o scrivere; le altre due sono il barbiere e il curato, amici di Don Chisciotte e autori della storia in castigliano, sotto dettatura dello scudiero; la quarta persona è lo studente di Salamanca, Sansone Carrasco, che provvede a tradurre il manoscritto dei tre, poi trovato da Cervantes, in arabo. Questi quattro avrebbero architettato tutto questo per curare il loro amico Don Chisciotte e farlo rinsavire, avendo precedentemente fallito con l’esame della sua biblioteca e col seguente rogo dei libri. L’Auster protagonista del romanzo dice che non è finita qui. Il saggio continua sostenendo che in realtà Don Chisciotte non era così pazzo; anzi, preoccupato di tramandare le sue gesta, avrebbe architettato tutto per far sì che proprio i suoi tre amici fossero i cronisti delle sue vicende, e addirittura si sarebbe abilmente mascherato in maniera tale da essere egli stesso, al mercato di Toledo, la persona che Cervantes assume per tradurre la sua stessa storia. Perché, domanda Daniel Quinn a Paul Auster, Don Chisciotte avrebbe dovuto rovinarsi la vita per un inganno simile? La risposta è che stava conducendo un esperimento, per vedere fino a che punto e perché qualcuno si spingerebbe verso avventure inventate, al fianco di un pazzo visionario che scambia i mulini a vento per giganti. Il risultato dice che il limite è il divertimento. Se la cosa ci diverte possiamo accettare quasi tutto, sebbene falso e inventato. È per questo che ancora leggiamo il capolavoro di Cervantes, conclude Auster, ed è questo quello che cerchiamo in un libro.

Chi è l’autore di questa teoria, Paul Auster scrittore del romanzo o Paul Auster protagonista della storia? Notevole, in ogni caso, la suggestione di un Don Chisciotte mascherato che si avvicina a Miguel de Cervantes nel mercato di Toledo. Dove avviene questo incontro, nella realtà dei secoli passati o sulle pagine di un libro? La differenza a pensarci bene non è molta. Torniamo a City of Glass: alla fine del romanzo scopriamo che il narratore della storia è un amico del Paul Auster personaggio che ha ricostruito tutta la storia grazie al taccuino di Daniel Quinn. Piuttosto suggestivo, anche volendo evitare paragoni diretti con il testo di Cervantes. La domanda apparentemente troppo banale rimane sempre lì: chi ha scritto il Don Chisciotte?

“Passeremo per il deserto” di Diego Zúñiga

Il titolo originale di Passeremo per il deserto (Caravan edizioni, 2012), del giovane autore cileno Diego Zúñiga, è Camanchaca. Un nome intraducibile, persino folcloristico per chi non ha dimestichezza con la geografia dell’America Latina: la parola si riferisce infatti a un particolare tipo di nebbia, molto fitta e umida, che cala improvvisa sul deserto di Atacama, in Cile. Una nebbia torbida, che occulta ogni cosa senza lasciare punti di riferimento.

Proprio come l’omertà della generazione di cileni che hanno vissuto sotto il regime di Pinochet: si abbatte sulla memoria comune per non lasciare ricordo delle violenze impunite e degli innumerevoli lutti rimasti insepolti.

È con questo silenzio compulsivo, con le mutilazioni della verità che si trova a fare i conti il giovane protagonista del breve romanzo di Zúñiga, un adolescente goffo e introverso, figlio di divorziati, che intraprende un viaggio in macchina con il padre, da Santiago del Cile fino a Iquique e poi Tacna, in Perù, passando attraverso il famigerato deserto di Atacama. Lungo il percorso ripensa e domanda. Interroga il padre, riflette sulle risposte della madre, che è rimasta a Santiago, intrappolata nelle sue nevrosi perverse. Ascolta i deliri apocalittici del nonno, interpreta i diversi racconti sulle misteriose scomparse dello zio Neno e della cugina.

«Mi piaceva in particolare la storia di uno dei suoi fratelli. Si era sposato molto giovane, aveva tre figli e poi era scomparso lungo la strada che univa due paesi, nel sud del Cile. Non ricordo il suo nome, ma si era perso. Secondo la mamma, lo avevano rapito gli UFO. Era questo che diceva mio zio. Anche se a volte mamma cambiava la sua versione e raccontava che lo avevano arrestato i militari».

In secondo piano rispetto alla storia familiare, quasi a voler riempire i vuoti lasciati dal non detto, Zúñiga racconta due episodi di cronaca ormai entrati nell’immaginario comune cileno: la vicenda dell’“empapado Riquelme”, persosi nel deserto e morto probabilmente di ipotermia, e il caso dello “psicopatico di Alto Hospicio”, un serial killer che tra il 1998 e il 2001 ha ucciso quattordici giovani donne. Ma anche in questi due casi la verità non trova mai il medesimo riscontro.

«Primo: lei non parla mai della nipote come se fosse morta. No. Sua nipote è scomparsa. Sua nipote, secondo lei, prima o poi tornerà. Di questo è sicura, perché non crede alla storia dello psicopatico di Alto Hospicio».

Passeremo per il deserto, di Diego Zúñiga, è una testimonianza allegorica della nuova generazione di cileni, di coloro che cercano risposte su un passato agghiacciante per ridare un senso al presente. Una generazione che non si lascia anestetizzare, ma che, anzi, scava nelle ferite del paese cercando di ripulirle dal pus lasciato dalla dittatura.

 

(Diego Zúñiga, Passeremo per il deserto, a cura di Vincenzo Barca, Caravan Edizioni, 2012, pp. 144, euro 11,50)

[AutoFocus] Le fiabe in 3D del nuovo cinema d’animazione

Cosa resta di noi tutti senza le belle credenze universali e senza tempo? Che non sono i mobili dove riporre stoviglie disegnate a mano dalla trisavola, ma le suggestioni collettive sentite fino alla fede; le leggende che danno profondità al reale, lo rendono fantastico, permettono di elaborare emozioni e addomesticare paure ancestrali.

Senza meraviglia, sogni, speranza, capacità di scorgere oltre le apparenze, ma anche senza memoria, la vita è una successione di scene prive di senso proiettate su uno schermo piatto.

Questo e altro sembrano voler suggerire le proposte cinematografiche del Natale 2012, in particolare due scelte nel mucchio, Le cinque leggende e Un mostro a Parigi, per non andare a parare là dove tutti si aspetterebbero che si andasse a parare, Lo hobbit. Proposte rivolte ai bambini, ma capaci di adescare famiglie o tronconi scomposti di esse. La morale è sempre quella, ma occorre ripeterla e aggiornarla in altri modi, effetti speciali compresi: la luce vince il buio e le tenebre; la gioia e il coraggio sono più forti della paura; veramente mostruoso è ciò che di oscuro in noi proiettiamo nell’alone luminoso altrui tacciandolo pure di malvagità.

I film indicati esaltano le categorie del fiabesco, del fantastico; assolvono funzioni ritualistiche collettive, persino totemiche. Amplificano messaggi e suggestioni multiple utilizzando, dalla sceneggiatura alla costruzione delle immagini, una tecnica simile a quella che, riguardo alle modalità di esprimersi dei sogni, Freud definì “condensazione”. Abbiamo alle spalle tanto di quel sapere e tante di quelle svolte evolutive: perché mai non utilizzare un tale concentrato con finalità certo di botteghino ma che nel contempo attivano capacità trasformative tradizionalmente attribuite alla fiaba? Nell’età che è stata definita con formule lapidarie (epoca delle passioni tristi, della liquidità, della tecnocrazia) il villaggio globale manifesta un enorme bisogno di riallacciarsi al mito, alla leggenda, alla fiaba avvalendosi del cinema come strumento privilegiato per sottrarci alle paure, non già di fine del mondo, ma di perdita di orizzonti ideali, perdita dell’infinito in ogni uomo-bambino, estraneità a se stessi.

Se come scrisse lo psicoanalista Bruno Bettelheim, «la fiaba dà voce ai conflitti psichici del bambino e ne suggerisce possibili mediazioni, fornendogli modelli di identificazione», figuriamoci cosa può un racconto animato.

La fiaba non è mai morta, magari ha sonnecchiato o si è camuffata; risorge sia pure in versione fantasy, videogioco, cartone, con le implicazioni antropologiche e sociologiche che sottende. Sigmund Freud, negli stadi iniziali della teoria psicoanalitica, riteneva che per interpretare i sogni fosse necessario riconoscere i simboli e i temi presenti nel folklore e poi attinse al mito fino a farla diventare categoria classificatoria e diagnostica. Qualcosa del genere avviene in queste complesse macchine narrative.

Ne Le cinque leggende, produzione squisitamente letteraria perché tratta da un libro fantasy per ragazzi scritto da William Joyce, si attinge a una tradizione di genere che pone le sue radici nelle favole: c’è un “raduno” di classici e meno classici personaggi simbolici e leggendari, sia pure con connotati cambiati o aggiornati, in veste di spiriti del bene, “guardiani” dell’infanzia ma soprattutto dei sogni dei bambini. Babbo Natale chiamato Nord, la Fatina dei denti, Il Coniglio pasquale e Sandman (di tradizioni prettamente anglosassoni), quindi Jack Frost, un Peter Pan in versione folletto delle nevi. Babbo Natale non è il bonario vecchino di maniera ma un taglialegna nordico d’accento russo con tatuaggi sulle braccia e un seguito di elfi e yeti sfruttati per produrre regali; Sandman, è lo spirito dei sogni circondato da sabbie dorate; Calmoniglio (il Coniglio pasquale) pare più un ninja; Dentolina (la Fatina dei Denti) è un colibrì umanoide.

Chi vuole instaurare un dominio di terrore per spegnere per sempre i sogni dei bambini e popolare le loro notti di incubi e disperazione è l’Uomo Nero (come non poteva mancare), Pitch Black. C’è anche un Uomo della Luna che incarica il dispettoso ragazzino che ha perso memoria del proprio passato ed è perciò invisibile ai bambini di fare da quinto guardiano: così potrà ricostituire la sua identità. La sceneggiatura va a insistere sulle paure ancestrali e sul bisogno di poter credere in qualcuno per agganciarsi a un’identità stabile e centrata. Cercare l’identità e il proprio ruolo nel mondo equivale a trovare il proprio centro suggerisce Nord, ovvero vedere ogni cosa con gli occhi pieni di meraviglia mista a senso dell’umorismo. Se anche solo un bambino continua a credere nei sogni, l’umanità sarà salva.

Cartone raffinato e delicata favola retrò, Un mostro a Parigi insegna a diffidare della propria “mostruosità” invece che di quella attribuita ad altri, a sviluppare accettazione e tolleranza.
 


 

Per un incidente di laboratorio, una pulce diventa un enorme scarafaggio volante e canterino, dall’animo buono e dalla voce incantevole. Chi lo perseguita, un bieco prefetto in cerca di consenso politico, è il vero mostro. Il rimando alla categoria del mostruoso declinato dall’antichità in tante forme e modi è esplicito fin dal titolo. I richiami anche favolistici e letterari sono tanti (in prevalenza al Fantasma dell’Opera).

Al centro di miti, leggende e fiabe a ogni latitudine (ci risiamo) il mostro nelle sue tante incarnazioni o andava combattuto o rispettato perché, al di là delle apparenze, manifestazione del sacro e del divino, perciò dotato di facoltà extrasensoriali, poteri magici o soprannaturali.

Il potere più invincibile, suggerisce il cartone, è quello della bontà e della grazia declinate in forme creative. Scriveva Carl Gustav Jung: «Non si diventa illuminati immaginando scenari luminosi, ma portando alla luce le proprie oscurità interiori». Con la scusa dei film di Natale per bambini si portano alla ribalta gigantesche ombre gettate in fondo al pozzo. Da “illuminato”, Jung poneva l’attenzione sul cuore della faccenda umana, vexata quaestio che ritroviamo anche alla voce intrattenimento per bambini: «L’incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito».

“La mancanza di gusto” di Caroline Lunoir

L’essenzialità e la raffinatezza espositiva della giovane autrice francese Caroline Lunoir smentiscono fin dalle prime righe l’impressione che il titolo del suo primo romanzo può suggerire al lettore. La mancanza di gusto (66thand2nd, 2012), di nome, ma non di fatto, dunque, è l’esordio letterario di un’avvocato penalista che vive e lavora a Parigi e che in un centinaio di pagine dipinge lo scenario immutato e nostalgico di una vacanza estiva in un castello di famiglia.

Dopo alcuni anni di assenza, Mathilde ritorna, come da tradizione, a trascorrere la settimana di Ferragosto nella casa del bisnonno dove ogni estate si raduna il “clan”: quattro generazioni organizzate in modo gerarchico e dominate, principalmente, dalla casta delle prozie. Il suo ritorno non è solo un percepire di nuovo gli spazi, le luci e i sapori di un luogo familiare e impassibile ai mutamenti, ma anche un ritorno a sé stessa e alle sue origini, a un tempo a lei sconosciuto che ha però contrassegnato inevitabilmente la sua esistenza e il suo posto nella società.

Nei diciassette brevi capitoli che scandiscono il racconto in prima persona della protagonista, Mathilde lascia trasparire la sua volontà, in un certo senso passiva come l’atmosfera che si respira nell’intera storia, di indagare e capire il sistema di valori che gli è stato trasmesso dalla sua famiglia e la rassegnazione che ciascun membro di essa, come anche il mondo che li circonda, ha perpetuato nel corso del tempo. I privilegi e i pregiudizi, spesso e volentieri celati, di una classe borghese un po’ fuori dal tempo in una Francia “della crisi” dei giorni nostri vengono svelati e messi in dubbio dalle acute osservazioni della protagonista e, in particolare, tramite il racconto di un episodio simbolico. Tutto si ricollega alla novità di quest’anno: una meravigliosa piscina fatta costruire dal generoso capofamiglia, il nonno di Mathilde, e la possibilità che lui decide di concedere a Rosana, custode del castello insieme al marito e al figlio, di bagnarsi nella piscina in assenza della famiglia. La sua personale iniziativa scatena, tuttavia, un risentimento e una diffidenza nel resto del clan, a parte Mathilde, e porta la custode a rinunciare autonomamente al diritto che le è stato concesso.

Attraverso questo episodio apparentemente irrilevante l’autrice, tramite le riflessioni e i commenti di Mathilde, sembra voler mettere in luce la condizione di permanenza dei privilegi, dell’inevitabile separazione esistente non solo tra le diverse classi sociali, ma anche tra le generazioni che qui si trovano a confronto. La chiave di analisi di questa separazione non proviene dalla consapevolezza di prendere parte a uno scontro, di portare avanti una lotta, come avveniva in passato per le generazioni dei genitori, dei nonni e bisnonni di Mathilde, ma dall’inerzia e dalla passività di fronte alla comodità e al benessere vissuto dalla sua generazione nel presente. E di questo Mathilde ne è pienamente consapevole: «Mi abbronzo, ma ho paura. Paura di questa abbronzatura facile. Paura di questa vita senza lotta. Paura della disinvolta logica del clan di cui sono un degno prodotto. […] Non c’è niente che io debba strappare al mondo per esistere. Ho conosciuto sempre e soltanto il benessere. Ho avuto in dote tutto il necessario per perpetuare la mia classe».

Altro spunto interessante e profondo presente in questa lettura apparentemente troppo snella e concisa, ma in realtà ricca di riflessioni sul rapporto che abbiamo con la nostra famiglia, è quindi la percezione che hanno di sé le generazioni “quasi adulte” di oggi, come quella di cui fa parte Mathilde. L’età della narratrice è, infatti, quella di passaggio alla piena autonomia di fronte alla propria famiglia e all’acquisizione di uno status di adulto a tutti gli effetti, che comporta anche un confronto definitivo con i valori e gli equilibri famigliari e la scelta di condividerli pienamente o distanziarsene.

La mancanza di gusto è un romanzo dai tratti satirici, essenziale e piacevole da leggere, ricco di spunti di riflessione importanti, proposti in un modo leggero e mai presuntuoso. Un esordio promettente quello di Caroline Lunoir, che merita di essere seguita con curiosità e anche un po’ di autoironia.
 

(Caroline Lunoir, La mancanza di gusto, trad. di Maurizia Balmelli e Elena Malanga, 66thand2nd, 2012, pp. 107, euro 12)

laNuovafrontiera: a tu per tu con Marta Corsi e Maia Terrinoni

La settimana scorsa vi avevamo raccontato la collana Cronache di FrontieraPer concludere il nostro viaggio tra le pagine della casa editrice laNuovafrontiera, abbiamo parlato del progetto con Marta Corsi e Maia Terrinoni. Non ci resta che augurarvi buona lettura.


Una domanda immediata che non può che essere la prima. Qual è la vostra Nuova Frontiera? A cosa si riferisce un nome tanto evocativo?

Al momento della nascita della casa editrice nel 2001 scegliemmo di porre la nostra attenzione su confini letterari più nuovi e meno frequentati, per questo ci concentrammo sulla pubblicazione di autori tradotti dallo spagnolo e dal portoghese, seguendo queste due lingue in America Latina e nelle tante letterature africane d’espressione lusofona e sondammo queste “nuove frontiere” da cui deriva appunto il nome.

Com’è nata questa passione per la letteratura di lingua spagnola e portoghese e cosa vi ha spinto a intraprendere un percorso che la valorizzasse?

Quando siamo nati, dieci anni fa, le letterature di lingua spagnola e portoghese erano evidentemente relegate in secondo piano, con un predominio angloamericano quasi assoluto nelle traduzioni. Il desiderio quindi era permettere ai lettori italiani di conoscere le voci contemporanee più interessanti di due bacini linguistici e culturali un po’ trascurati. Oltre a questo, con il passare degli anni, abbiamo anche voluto recuperare opere più classiche – sempre mantenendo la specializzazione linguistica del progetto editoriale – a volte inedite, altre volte riproposte in una nuova veste grafica e con traduzioni particolarmente curate.

Oltre alla quello del giornalismo narrativo, che esplorate con la collana Cronache di Frontiera, presentata nella seconda puntata di DietroLeQuarte a voi dedicata, c’è un altro progetto in cui vi muovete da pionieri e attraverso il vostro blog letterario, quello dei Diari di traduzione.

In effetti i Diari di traduzione, costituiscono un’iniziativa originale che si propone di valorizzare e dare maggiore visibilità alla difficile e mai sufficientemente apprezzata arte del tradurre e alla figura dei traduttori, troppo spesso trascurati. Ci piaceva l’idea che i lettori potessero guardare dietro le quinte dei nostri romanzi e seguire tutto il lavoro di traduzione, attraverso dei post, un vero e proprio diario, che il traduttore pubblica spiegando e raccontando dubbi e difficoltà, ma anche le soluzioni creative che incontra nel rendere in italiano passaggi difficili o giochi di parole.

La vostra proposta comprende un ricco catalogo interamente dedicato ai bambini, La Nuova Frontiera Junior, che unisce sapientemente fiabe classiche, coloratissimi libri pop-up in tre dimensioni e nuove storie illustrate, con un’attenzione particolare alla sensibilizzazione dei piccoli lettori verso temi di attualità quali l’integrazione interculturale e il bullismo e all’introduzione a discipline che avranno tempo per approfondire come la filosofia e la storia, il tutto in modo affascinante e giocoso. Quanto è importante, oggi, avere quest’attenzione? Siete contenti della risposta del giovane pubblico?

Il nostro catalogo junior è articolato in diverse collane, ma un principio a cui cerchiamo di mantenerci sempre fedeli è ben espresso dalle parole di Astrid Lindgren, che spesso prendiamo a prestito: «per scrivere libri per bambini (e per pubblicarli) è necessario solo essere stati bambini e poi cercare di ricordarsi come è stato». A questo si aggiunge anche il desiderio di sensibilizzare grandi e piccoli a temi di attualità, attraverso il gioco o con storie divertenti, come gli albi Il signor G. o Il mio vicino è un cane, che è un bellissimo esempio di come parlare dei pregiudizi. Oggi quest’attenzione, che non vuole essere un preciso intento educativo, ci sembra particolarmente importante. E vediamo che soprattutto i più piccoli sono molto sensibili e ricettivi e, spesso, proprio le loro impressioni o le domande che rivolgono agli autori sono la soddisfazione più grande del nostro lavoro.

Le sorprese non finiscono. Da un paio di mesi a questa parte abbiamo visto spuntare i vostri libri nelle piazze, al mercato, in spiaggia, tra i cesti di frutta e gli aperitivi, grazie all’iniziativa #LettoriFuori, che esplode come un flash mob durante il quale i vostri inviati propongono ai passanti di leggere ad alta voce un testo. In generale, purtroppo, si legge meno e si acquistano meno libri, quanto sono importanti iniziative parallele come queste per riavvicinare tutti alla lettura?

Le iniziative a cui vi riferite per noi hanno molta importanza, sono dei modi altri per far conoscere i nostri libri e portarli fuori da spazi consueti, in Italia si legge pochissimo ed è necessario in questo momento incentivare il più possibile la lettura.

Grazie a Marta e Maia per averci raccontato il progetto nei dettagli. Concludiamo qui la nostra esplorazione della Nuovafrontiera, sperando di aver esaurito tutte le vostre curiosità.
DietroLeQuarte vi dà appuntamento a gennaio!

“L’infinito” di Tiziano Scarpa

Cosa succederebbe se un personaggio storico si ritrovasse catapultato improvvisamente dal suo passato al giorno d’oggi? È evidentemente una domanda a cui hanno già risposto in molti, sia in ambito letterario, che teatrale, che cinematografico. Tiziano Scarpa ci riprova, con L’infinito, che già dal titolo indirizza alla volontà di considerare la celebre poesia di Giacomo Leopardi. Quest’ultimo improvvisamente si ritrova a ventun anni a casa di Andrea, uno studente alle prese con l’esame di maturità. Fin dall’inizio è evidente l’ovvia distanza linguistica che separa Andrea da Giacomo, pur tuttavia accomunati dalla curiosità di scoprire l’altro. Il prevedibile intreccio porterà Giacomo ad aiutare Andrea ad affrontare l’analisi del testo de “L’infinito” all’esame di maturità. Critica all’accademia e viraggio verso lo spontaneismo nella lettura dei classici. Andrea, affascinato dal mondo delle discoteche e dell’immagine, “imprevedibilmente” dialoga con Giacomo, giovane relegato in un borgo di periferia, sottomesso agli umori del “signor padre”. Ogni tanto balenano concetti leopardiani, ma la rilettura di Tiziano Scarpa appare semplicistica, a tratti del tutto scontata.

Abbinare due temi triti quali la necessità di rivedere i classici in chiave moderna e meno artefatta e lo scacco che grandi del passato subirebbero nell’attualità è un compito non facile, soprattutto considerato l’abuso che Leopardi ha subito nel corso del tempo. Tiziano Scarpa si accoda docilmente alla lunga fila di coloro che hanno fallito, forse addirittura creando ulteriore danno all’immagine del poeta. La regia di Arturo Cirillo non riesce mai a sollevarsi dal testo, non brilla nemmeno per interessanti soluzioni di scena, perdendo la pur lontana possibilità di dare spessore e atmosfera a un testo prevedibile. Anche nel ruolo di attore (Giacomo Leopardi) Cirillo manca l’appuntamento con il pubblico, essendo sempre poco incisivo, privo del marchio di fabbrica che aveva caratterizzato i suoi precedenti lavori. Leopardi appare infatti monodimensionale, totalmente desumibile dal contesto in cui è calato, senza alcun tratto che riesca a porlo realmente al di là del personaggio studiato e immaginato sui banchi di scuola. Andrea (Andrea Tonin) e la fidanzata Cristina (Margherita Mannino), attratta dal secolare fascino di Leopardi, sono, se possibile, personaggi ancora più piatti. Questi ultimi sono immersi in una recitazione che tenta di riprodurre gli stilemi del giovane moderno medio, senza però andare oltre un mero esercizio linguistico. Gli ideali, le sofferenze, la complessità di Andrea e Cristina sono indagati poco e solo secondo un punto di vista esterno, quello che sa segnarne esclusivamente la pochezza culturale e lo scarso calibro ideologico. Nel complesso dunque una messa in scena povera nei contenuti e nell’interpretazione, che forse ha l’aggravante di aver sfidato con poche armi temi già abusati da altri.

L’infinito
di Tiziano Scarpa
regia di Arturo Cirillo

Visto presso la Sala Assioli di Napoli il 6 dicembre 2012.

“Memorie di un uomo in pigiama” di Paco Roca

Tratti netti, semplici, colori non invadenti, non sgargianti, sfumature pastello. Didascalie e fumetti equilibrati, tutto a misura, preciso, niente di straordinario, anzi. Tutto perfettamente equilibrato al contenuto, alle scene di vita quotidiana che si raccontano. Memorie di un uomo in pigiama (Tunué, 2012) di Paco Roca è proprio questo, una raccolta di brevi episodi, bozzetti autoconclusivi, che scandiscono la tranquilla vita di un uomo che un po’ per scelta un po’ per obbligo, lavora da casa, comodamente seduto alla sua scrivania, in pigiama.

Roca racconta la semplicità, il quotidiano, l’ordinario, con il talento di applicarvi uno sguardo mai banale, ma anzi il punto di vista acuto e disilluso che sempre contraddistingue i suoi lavori. Dopo il successo di quel piccolo capolavoro che è Rughe (Tunué, 2009), il fumettista ha inaugurato una rubrica settimanale per il quotidiano valenciano Las Provincias, intitolata appunto Memorias de un hombre en pijama: singole strisce che ora sono raccolte in volume, e danno vita a piccoli esilaranti bozzetti. Una maniera alternativa di fare giornalismo, quindi, restituendo al fumetto il suo ruolo e valore originario, con il pregio di documentare, ogni volta, un frammento di un’esistenza che non è solo quella del fumettista, ma si può facilmente applicare oggi a molti. Così Julián Quirós, direttore di Las Provincias, racconta l’esito della rubrica: «Paco Roca ha iniziato quindi a fare giornalismo, solo che l’oggetto di questa attività era lui stesso, la sua persona e i suoi pensieri, le cose che via via gli succedevano. […] Volevamo annunciare il suo ingaggio in pompa magna con un’intervista sul giornale, in tv e sul sito web. E lui si è presentato con addosso un elegantissimo pigiama che avvolgeva il suo corpo magrissimo e il suo sorriso contagioso. E così, in pigiama, è apparso sul supplemento domenicale settimana dopo settimana. Fino a che non si è stancato».
 


 

Il pigiama è, quasi per antonomasia, il contrario della socialità, e diventa per Roca il simbolo di quell’alienazione sperimentata nelle lunghe ore di lavoro solo davanti a un computer. Quella raccontata dal fumettista spagnolo è una quotidianità che ha perso ormai il senso del quotidiano: gli orari sono dilatati, le relazioni intermittenti, le comunicazioni iperveloci e le giornate, d’improvviso, lente e monotone.
 

 

Con un umorismo contagioso, Roca sfrutta questi spunti autobiografici per affrontare tematiche forse già viste e riviste, ma non per questo meno attuali: il precariato, l’eterna giovinezza, la paura di diventare genitori, i litigi quotidiani. Il tutto, però con uno sguardo fresco e con un’ironia – a tutti gli effetti autoironia – spesso così elementare e innegabile che è impossibile non riconoscersi, non condividerla. Ed è in quel momento che dalla spensieratezza che caratterizza il fumetto ci fermiamo a pensare, costretti a chiederci se a quel pigiama di cui sempre ci lamentiamo, forse, non siamo poi terribilmente affezionati.
 


(Paco Roca, Memorie di un uomo in pigiama, trad. di Stefano Travagli, Tunué, 2012, pp. 80, euro 14,90)

“Flanerí Awards”: premi di Mid Season

Ve li avevamo promessi e siamo stati di parola. Prima di salutarvi fino al prossimo anno Flanerí vi propone i suoi personali Awards di questa prima metà di stagione ormai giunta al capolinea.

Tra i trionfatori ovviamente non poteva mancare Breaking Bad, la nostra serie dell’anno e una delle colonne della televisione americana in questi ultimi anni (alla ripresa dei lavori vi diremo tutto quello che c’è sapere su questo magnifico show portandovi alla scoperta dei cult, ossia di tutti quegli show come si suol dire “senza bisogno di presentazioni”, ormai parte della storia più o meno recente della televisione).

Prima di farvi scoprire tutti i vincitori nelle tante categorie che abbiamo voluto premiare è il caso di fare una piccola precisazione: le nostre scelte riguardano le serie televisive del 2012, ma ovviamente tengono conto della programmazione italiana di queste; non stupitevi quindi di trovare tra i vincitori Black Mirror, andata in onda nel 2011 ma arrivata qui da noi soltanto nell’ultimo anno.

Vi lasciamo a tutti i premiati, in attesa di rivederci nel 2013. Buone feste a tutti!

 

“FLANERÍ AWARDS” 2012: premi di Mid Season

Serie dell’anno: Breaking Bad

Miglior serie emergente: Hell On Wheels

Miglior serie drama: Homeland

Miglior mini-serie/film per la TV: Black Mirror

Miglior serie comedy: How I Met Your Mother

Miglior attore protagonista (drama): Bryan Craston (Breaking Bad)

Migliore attrice protagonista (drama): Claire Danes (Homeland)

Migliore attore protagonista (comedy): Jim Parsons (The Big Bang Theory)

Migliore attrice protagonista (comedy): Zooey Deschanel (New Girl)

Migliore attore non protagonista (drama): Michael Pitt (Boardwalk Empire)

Migliore attrice non protagonista (drama): Taissa Farmiga (American Horror Story)

Migliore attore non protagonista (comedy): Max Greenfield (New Girl)

Migliore attrice non protagonista (comedy): Alyson Hannigan (How I Met Your Mother)

Migliore antagonista maschile: Giancarlo Esposito (Breaking Bad)

Migliore antagonista femminile: Jessica Lange (American Horror Story)

Migliore colonna sonora: Boardwalk Empire

Migliore regia: Michael Cuesta, “Eroe di Guerra” (Homeland)

Migliore sceneggiatura originale: Breaking Bad

Migliore sceneggiatura non originale: The Walking Dead

“Il condottiero” di Georges Perec

Sebbene muti di forma col passare del tempo, l’interesse per Georges Perec resta sempre alto. Ne è una dimostrazione il fatto che il mercato continui, oltre a riproporre le sue opere, la pubblicazione di libri inediti, come in questo caso.

Dopo l’uscita di Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Voland arricchisce il proprio catalogo con un nuovo titolo del noto membro OuLiPo. Romanzo postumo, il libro in questione è Il Condottiero, scritto dal giovane Perec tra il ’57 e il ’60, pubblicato a trent’anni dalla sua morte e uscito da qualche mese in Francia in quella che sembra essere – almeno nelle intenzioni dell’autore – la stesura definitiva. La quarta riscrittura di quello che lo stesso Perec considerava come il suo primo romanzo compiuto.

Gaspard Winckler – nome già noto a chi conosce l’autore – è un pittore che non si occupa di dipingere per se stesso. È un falsario che ha speso la maggior parte della propria vita nella produzione di quadri che, come è costretto ad ammettere, si è preoccupato di attribuire a altri. La professione di falsario è innalzata a emblema di una sorta d’impersonalità, un grigiore esistenziale, con cui il protagonista è costretto a confrontarsi per giungere, parole di Perec, a una «presa di coscienza di sé». Il romanzo inizia con l’atto più significativo a questo fine, l’omicidio del committente, prima «vera azione» nella vita del protagonista, e che servirà all’autore per sviscerarne la figura, ripercorrendo ricordi e sensazioni. Ciò nonostante la personale impersonalità viene dichiarata e ribadita sin dalle prime pagine, in cui ci si muove tra scenari e atmosfere da poliziesco, e dove l’aspirante scrittore Perec mostra sin da subito le sue abilità narrative.

Il romanzo è caratterizzato da una duplice voce: quella del narratore e quella del protagonista, che si accavallano in continuazione e che, soprattutto all’inizio del romanzo e assieme a un intreccio di tre tempi verbali, contribuiscono a rendere in maniera vivida la figura del protagonista, il suo sguardo sulle cose, le sue ansie e frustrazioni. Purtroppo, l’autore non riesce a mantenere una così potente tensione narrativa lungo tutto l’arco del romanzo, e la seconda parte del testo disegna improbabili dialoghi ridondanti che a lungo andare risultano quasi imbarazzanti. E difatti, nel novembre del 1960 l’editore Gallimard ne rifiutò la pubblicazione, nonostante un «soggetto interessante e svolto con intelligenza» che però non riusciva a sostenere tutto il peso di «un eccesso di goffaggini e di chiacchiere». Parole forse condivisibili ma che non negano l’importanza della pubblicazione, oggigiorno. Perché leggerlo, dunque?

Ciò che appare realmente interessante di questo testo è soprattutto la possibilità di utilizzarlo come strumento per guardare, forse più a fondo, di certo da un punto di vista altro, nuovo, una figura di spicco del novecento letterario internazionale quale Perec. In esso, ad esempio, è già possibile ritrovare elementi propri che connaturano la voce matura dell’autore. Elaborazioni più o meno grezze di aspetti che renderanno Perec quello che successivamente è diventato, almeno in alcune declinazioni di uno scrittore dalle molteplici sfaccettature. Ne Il Condottiero emergono tematiche e stilemi che in seguito saranno riversati in romanzi quali L’Uomo che dorme e W o il ricordo d’infanzia; tutto un apparato di credenze e prassi che gravitano, per Perec, attorno alla scrittura. Inoltre, leggendo sembra quasi che le voci narranti, al di là del loro incessante mescolarsi, possano essere viste come una sovrapposizione che dà spessore a un unico, coerente discorso: forse il dialogo che il giovane Perec intratteneva (o aveva intrattenuto) con se medesimo. Lo stesso dubbio che il testo lascia sull’effettiva presa di coscienza da parte del protagonista forse riflette la mancanza di una piena consapevolezza autoriale. L’assenza di una capacità matura a gestire funzioni e tecniche narrative di cui pure il giovane Perec aveva un’idea, forse fumosa, e che tentava goffamente di manovrare. E che sembrano essere alla base della mancata riuscita totale del libro.

Tuttavia, questi sono giudizi che vanno lasciati al lettore, resta il fatto che ci troviamo di fronte un’opera che di certo contribuisce a ricomporre un quadro unitario della figura in divenire di un così importante scrittore. E da questo punto di vista Il Condottiero può essere considerato come una gran bella sfida per il lettore realmente interessato a comprendere Georges Perec.


(Georges Perec, Il Condottiero, trad. di Ernesto Ferrero, Voland, 2012, pp.170, euro 15)

“Il quaderno perduto di Agatha Christie” di Jacopo Bezzi

Pensavo che la mia preparazione sul giallo si fermasse alla signora Jessica Fletcher, eroina indiscussa delle mattinate televisive a casa per vere o presunte influenze che rimandavano a quel tanto agognato “oggi niente scuola”. O al Cluedo, tra amici, soluzione estrema di serate con ragazze per cui (giustamente?) erano indigesti il Risikoo lo Scarabeo.

La dimora Tudor Hall me la sono immaginata per anni; avevo davanti gli occhi ogni stanza, ogni personaggio british style di questo imperituro gioco. Ecco quindi il colonnello Mustard e la signora Scarlett con le armi del delitto in mano, un apparente innocuo candelabro o una argentea rivoltella. «So chi è l’assassino», chissà quante volte l’avrò detto (poche), chissà quante volte l’avrò sentito dire (molte, anzi troppe).

Poi è arrivato Soriano con il suo Marlowe «triste, solitario e finale» a cui manca il morto e a cui rimane solo la farsa della morte, nessun mistero ma soltanto la ridicolezza, l’irriverenza e la teatralità del saluto finale. Perché è con la parodia, con la presa in giro, con il rivoltare tutto che in fondo si capisce realmente un genere.

Infine ti dicono, una sera d’Inverno: «Vieni a vedere il nostro spettacolo» e ti dicono di cosa si tratta ma tu non ascolti e ti ritrovi ad accettare, senza sapere a cosa stai andando ad assistere (percepisci che è qualcosa su Agatha Christie), tanto ti fidi di uno degli attori, l’attrice Nicoletta La Terra, perché l’hai vista all’opera e sai che è brava davvero. E aggiungono pure: «Arriva presto, non all’ultimo, non ti fanno entrare». Tu non capisci il motivo ma cerchi di arrivare puntuale nonostante Roma, il traffico, il natale che incalza ed eccoti alla Lungara, vicino al carcere, sulla coda di Trastevere a cercare via della Penitenza, prima, il teatro poi. E credi di trovarlo subito ma quando tentenni di fronte al cartellone dello spettacolo ti capiscono, ti scrutano e ti dicono: «Esca, questo è l’Agorà, Stanze Segrete se lo trova uscendo sulla destra». 

E così ti avvicini mesto, per paura di sbagliare e ti ritrovi in un teatro che non è teatro ma che proprio per questo odora di vita e di reale. C’è una stanza ammobiliata, niente palco, scruti la scrivania, una scala e il ritratto della regina indiscussa del genere giallo. Per sederti fai slalom tra le sedie, cercando di passare inosservato, ti metti dietro, pensando che qualcosa non quadra. 

Un po’ in ritardo – complice un ragazzotto che non aveva capito l’antifona di non arrivare all’ultimo – comincia tutto e ti ritrovi all’interno della storia e capisci già che qualcosa deve succedere, un morto ci deve pur stare, altrimenti manca il sale. Ma bisogna aspettare, prima c’è il tempo delle presentazioni: due editori, soci, maschio & femmina, lui un po’ tonto, lei avveduta, si ritrovano in un luogo imprecisato – distaccato però dalla città – e in una locanda che locanda non è, ma un museo. E sta chiudendo.

Ma di che museo si tratta? Ecco il punto. Un museo che commemora la figura di Agatha Christie. Qui anni prima passò, dimorò e forse scrisse un diario, un quaderno, il tredicesimo. Quello mancante nella “personale bibliografia” della scrittrice.

Ad attenderli c’è Gioele Ferretti, il locandiere, colto e raffinato, che li accoglie bruscamente per poi ammorbidirsi, in parte, quando spiegano le loro intenzioni. Una chiamata anonima li ha portati lì, promettendogli la via aurea del ritrovamento (gran pubblicazione sarebbe).E qui inizia il giallo. E il mistero. Classico temporale e isolamento del telefono. Qualcuno taglia i fili della batteria della macchina. Si cercano i colpevoli, entrano di soppiatto altri personaggi. Un ragazzone alto che prima parla poco poi si capisce che ci capisce, scusate il gioco di parole, e una bionda che pare scema ma tanto scema non è neanche lei.

I convenevoli non sono dei migliori ma fuori piove e bisogna pur mangiare e dormire e fuori (naturalmente) è tutto chiuso e disabitato. Si dividono le stanze e in una eccolo là, il morto. Al piano di sopra c’è un tizio con un buco in fronte seduto sul divano. Qui gatta ci cova, bisogna trovare l’assassino. Ma dove va cercato? Dentro o fuori?

Noi da qui, solo appena fuori dalla stanza, vediamo tutto e osserviamo le reazioni dei personaggi. Poi ognuno chiede all’altro e sappiamo di tutti e tutto (compreso del museo che visitatori non ne ha molti, anzi nessuno). Si parla del quaderno e, guarda caso, iniziano a essere interessati tutti alla materia. Esiste o non esiste? Qualcosa esce fuori, anche grazie al locandiere factotum (attore bravissimo tra l’altro) e al ruolo che tutti, volontariamente o meno, hanno in questa storia. Poi come in un meccanismo cinese si scopre che la realtà che vediamo noi è un po’ diversa, che c’è dell’altro e un po’ tutti nascondono qualcosa.

Quando finisce il tutto e si può indirizzare l’indice verso uno di loro, si sente il tanto sospirato «lo sapevo». Io no: il mio assassino era diverso e sono felice di questo. Non mi sono tolto la sorpresa.

Il quaderno perduto di Agatha Christie è un bello spettacolo, buona l’idea, la rappresentazione e bravi gli attori (Massimo Roberto Beato, Nicoletta La Terra, Silvia Mazzotta, Lorenzo Venturini, Giacomo Rabbi). Bella anche l’aria che si respira quando si entra nel teatro (casa?), che sa di qualcosa che è fatto con il cuore, l’impegno e la capacità. Ci si diverte e molto perché i condimenti funzionano alla perfezione. Peccato, forse, che si vada un po’ di corsa nel finale: quelli come me hanno bisogno di tempo per sbagliare varie volte il tanto agognato autore del misfatto.


Il quaderno perduto di Agatha Christie
regia e sceneggiatura di Jacopo Bezzi
con Massimo Roberto Beato, Nicoletta La Terra, Silvia Mazzotta, Lorenzo Venturini, Giacomo Rabbi, Eugenio Marinelli.

Dal 4 al 23 dicembre 2012 presso il Teatro Stanze Segrete, via della Penitenza 3 (zona Trastevere), a Roma. 

“Wassily Kandinsky. Dalla Russia all’Europa” al Palazzo Blu di Pisa

«Il nome Der Blaue Reiter lo trovammo davanti ad una tazza di caffè sotto il pergolato di Sindelsdorf: a tutti e due piaceva il blu. A Marc i cavalli, a me i cavalieri».
La passione di Kandinsky per l’immagine medievale e fiabesca del cavaliere e l’inclinazione di Marc per la bellezza estetica della figura del cavallo, unite all’importanza che riveste il colore – quello azzurro si riferisce alla spiritualità – sono gli elementi che ispirano i due artisti nel dare il nome al movimento da loro fondato, “Il Cavaliere Azzurro”, appunto. Siamo negli anni 1911-12 e in questo periodo Kandinsky (Mosca 1866-Neully-sur-Seine 1944) è già approdato a una nuova pittura, quell’astrazione esito dell’armonizzazione di forme e colori che è nota come la serie delle “Improvvisazioni”. L’utilizzo libero del colore è qualcosa che approfondisce poco prima, durante il soggiorno presso un paese delle Alpi bavaresi, Murnau, grazie principalmente all’influenza del pittore Jawlenskij, importante esponente dell’avanguardia di primo Novecento: “Murnau (paesaggio d’estate)” del 1909 mostra chiaramente il ruolo chiave assunto dal colore utilizzato in modo espressionista; nel dipinto, infatti, i toni accesi con i quali viene raffigurato lo scenario montuoso si uniscono a una resa sintetica propria della nuova arte affermatasi nell’occidente europeo.

 


 

Inizia il distacco da riferimenti naturalistici: le “Improvvisazioni” sono appunto espressione della natura interiore, ben diverse da altre serie quali le “Impressioni”, che derivano invece dalla realtà esterna. Ma se l’artista russo prende la via dell’astrazione, divenendone uno degli esponenti più illustri, vi è un legame che lo tiene sempre stretto alla tradizione e alla cultura popolare. Anzi, le riflessioni sulla composizione del quadro provengono proprio da questo sostrato, la posizione teorica espressa ne “Lo spirituale nell’arte” deve, infatti, molto alla tradizione letteraria e alla mistica russa.

La mostra Wassily Kandinsky. Dalla Russia all’Europa, ospitata presso la sede di Palazzo Blu a Pisa fino al 3 febbraio 2013, si concentra esattamente su questo aspetto dell’arte del pittore. È un Kandinsky meno noto: sono esposte opere riconducibili al ventennio 1901-1922 e vi è un confronto anche con altri esponenti dell’avanguardia tedesca e russa e con manufatti dell’arte popolare del suo paese d’origine. Una rassegna che comprende, dunque, diverse sezioni: vi è una parte dedicata alla tradizione delle fiabe che tanto hanno influenzato il pittore fin da piccolo, in cui sono presenti opere di Bilibin, Burliuk, Stelletsky che riconducono a questo tema; sono poi esposti reperti del folklore e della cultura contadina russa che si collegano agli studi e agli interessi etnografici e antropologici di Kandinsky, fortemente impressionato dall’arte popolare: «Non dimenticherò mai», scrive, «le grandi case di legno ricoperte di incisioni […]. Esse m’insegnarono a muovermi nel quadro, a vivere in esso». Una parte è poi dedicata ai contatti con i movimenti europei, dal simbolismo della Secessione di Monaco a quelli parigini: sono inseriti confronti, dunque, con altri artisti quali Gabriele Munter, Alexej Jawlensky, Marianne Werefkin e Arnold Schönberg, rivoluzionario inventore della dodecafonia, entrato nelle fila del “Cavaliere Azzurro” per la grande attenzione che il movimento rivolgeva alla ricerca di corrispondenze tra linguaggio musicale e pittorico.

Risulta interessante, in effetti, la proposta di voler indagare le fondamenta, le radici del lavoro dell’artista: l’intento è quello di scoprire l’elemento costitutivo del suo operare. È una scelta del curatore, Eugenia Petrova, la quale propone un certo tipo di approccio: l’approfondimento. È fuorviante, però, definirla propriamente una mostra su Kandinsky, almeno non solo, soprattutto la prima parte; si potrebbe dire che si tratta di un’esposizione che si concentra su una temperie artistica e culturale, quella russa tradizionale e quella d’avanguardia europea, soprattutto tedesca, della quale egli ha fatto parte.
 


 

Vi sono, comunque, dei momenti di maggiore focalizzazione sull’artista, su quelle opere che vedono le forme farsi astratte, tra cui “Improvvisazione 11” o “Composizione su bianco”, su quelle realizzate ad olio su vetro, come “Nuvola dorata” e “Amazzone sui monti”, colorati dipinti fiabeschi del 1918, e sulla fase della partecipazione al Bauhaus presso cui è chiamato a insegnare dal fondatore Walter Gropius nel 1919 fino al 1933 (anno in cui il Nazismo ne decreta la chiusura). Partecipa a tutte le fasi di vita della scuola, quelle di Weimar, Dessau e Berlino. La mostra, però, sembra più sussurrare che esclamare questa centrale esperienza, momento di formazione e fase davvero importante a livello di definizione teorica e pratica: insegnando, Kandinsky riflette e questo studio lo conduce a concentrarsi sempre più sugli elementi fondamentali della forma fino all’elaborazione di un altro scritto decisivo per l’arte contemporanea, «Punto, linea, superficie». L’esperienza al Bauhaus è testimoniata da riferimenti al suo corso di pittura murale e da lavori quali una tazzina in ceramica, esempio di una dimensione produttiva che riconduce ad anni antecedenti, quando, a Murnau, aveva dedicato attenzione all’artigianato locale e alle arti applicate.

La mostra si conclude con una delle icone del Bauhaus, la sedia progettata da Marcel Breuer, chiamata appunto “Wassily”. La posizione di questo oggetto di design è particolare: ha il ruolo di chiudere questa esposizione, quasi come a definire un confine.


Verrebbe quasi da sedersi e stare lì in attesa: in attesa di capire cosa hanno lasciato tutti gli stimoli disseminati lungo il percorso, in attesa di qualcosa che viene dopo, ma che in mostra non c’è. Questa rassegna, si è detto, è incentrata su un certo periodo dell’arte kandinskyana e non si può dunque dire che sia incompleta solo perché non riporti l’intera opera del maestro russo. Tuttavia, si ha comunque la percezione che dopo quella sedia si debba dispiegare altro, una sensazione, questa, che all’inizio lascia insoddisfatti. Una volta interiorizzata e metabolizzata, però, è vero anche che quel retrogusto un po’ amaro, lascia emergere quel senso di sospensione che rende il fatto atteso ancor più grande nella mente, ancor più imponente. Forse l’obiettivo era quello. Forse.

 

Wassily Kandinsky. Dalla Russia all’Europa
Dal 13 ottobre 2012 al 3 febbraio 2013 al Palazzo Blu, Pisa.

Per ulteriori informazioni:
http://www.palazzoblu.org/index.php?id=771&lang=it