“Scintille” di Laura Sicignano

Per narrare la storia un buon metodo è narrare storie. Concetto semplice, apparentemente banale ma, a considerare i palinsesti televisivi e teatrali, non così tanto. Le storie della storia sono scintille che illuminano la storia. Esattamente come i personaggi della vicenda narrata da Laura Curino. I personaggi di questa storia sono scintille che la illuminano. Due ragazze e una madre di una famiglia immigrata negli Stati Uniti d’America in cerca del grande sogno americano. La vita grigia che vi trovano diviene tuttavia la loro prigione. Queste vite, che somigliano alle migliaia partorite dal “sogno americano”, possono essere illuminate solo nel momento in cui la storia si inginocchi e forse si sieda per un attimo a contemplare lo sfacelo di ciò che può produrre l’uomo. Peccato che illuminare una vita grigia richieda il sacrificio di qualcuno. Questo qualcuno, in questo caso, è la donna. La donna di inizio ’900 diventa improvvisamente funzionale al capitalismo. C’è odore di contestazione in giro. La donna vuole un suo posto nella società. Che posto sia, ma con produzione. La donna richiede il riconoscimento sociale che la incatenerà alla logica produttiva allo stesso modo in cui incatenava l’uomo prima di lei. Una catena d’oro che potrà scintillare solo grazie alle grida di orrore di donne morte sul lavoro. È a questo punto che entrano in gioco le scintille che illuminano la storia con il loro dolore. Diciotto minuti d’inferno in una fabbrica di camicie illumineranno per un attimo la condizione delle operaie immigrate in America. Poi il buio. Perché la storia richiede sangue per parlare di verità. In mezzo emozioni e piccoli gesti di una vita quotidiana in cui le donne assumono tutta la concretezza del reale. Gettandosi nel vuoto o bruciando vive non muoiono personaggi storici della pagina stampata, ma donne con cui, tramite Laura Curino, abbiamo svolto un intenso percorso di vita. Una sola voce per tre personaggi, Laura Curino riesce nel difficile compito di addomesticare un testo che potrebbe facilmente portare allo sbilanciamento dei ruoli nell’intreccio. Il suo corpo sa reagire ai cambiamenti di personaggio con grande duttilità vocale e mimica.

D’altra parte appaiono limitate e talora retoriche le soluzioni registiche messe in scena da Laura Sicignano. Se da una parte la macchina per cucire riesce a dar forma alla scala d’emergenza dell’impianto industriale in fiamme, dall’altra è una chiosa non certo scintillante l’accendere un lume per le donne-scintille ormai spente. Allo stesso modo scarsa è la varietà introdotta dalle luci, che pure avrebbero un ruolo non secondario in una messa in scena fissa nello spazio e nel tempo. Retorica appare anche la supplica di non dimenticare la vicenda narrata rivolta al pubblico, posto nella posizione di quella storia che non ha esitato a osservare staticamente il sacrificio delle sue figlie. Questo momento spezza la tensione narrativa senza d’altra parte fornire altri strumenti allo spettatore. Un messaggio indimenticabile ha davvero bisogno di dirsi tale? Una scintilla che davvero illumini ha davvero bisogno di proclamarsi illuminante?

 

Scintille
testo e regia di Laura Sicignano
con Laura Curino

“Caproni!” di Andrea Renzi e Federico Odling

«Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa».

La bestia feroce che si aggira tra le parole di Giorgio Caproni, il male assoluto, è forse l’altro lato della realtà, quello indomabile, incolmabile, che continua a sfuggire a un anonimo cacciatore in un bosco/selva di segni. Si tratta dell’insieme di sensi che la parola rosa non riesce a decomprimere quando viene pronunciata. È in quella compressione feroce che forse risiede la “Feroce Bestia” protagonista del poemetto dello scrittore genovese, Il Conte di Kevenhuller. Perché è la bestia sconfinante, perturbante, ma anche corporale, viscerale, pure nel suo non lasciarsi incontrare. La bestia deve dunque tracimare dalla carta e insinuarsi nella musica, nel teatro, nella poesia, che squarciano il pallido velo omogeneo inciso dall’inchiostro per approdare a ciò che dietro si nasconde. Recitare Caproni, cantare Caproni, suonare Caproni, dunque. È esattamente ciò che si propongono Andrea Renzi e Federico Odling. Così come Caproni frantuma la metrica, Andrea Renzi tenacemente frantuma la narrazione teatrale, ne fa creta da modellare sulle forme dello scrittore.

Momenti di dissennata angoscia si accavallano nell’incontro con la Bestia Feroce, poi la superficie torna calma e si naviga sui versi dedicati alla madre dello scrittore. Un concentrato Andrea Renzi padroneggia alla perfezione testi e atmosfere del Caproni più ostico, senza mai indietreggiare di fronte alle serie sfide linguistiche e interpretative che il genovese pone. Un rapporto di corrispondenza tra lo scrittore e l’attore sembra aleggiare in una scena, in cui il primo di volta in volta alza il livello di complessità di un’ulteriore spanna, facendo del sonetto un feticcio su cui imprimere a fuoco il proprio marchio di irriducibilità dell’emozione. Il secondo, da parte sua, non può che usare qualsiasi mezzo per seguire la musica che il primo lascia suonarsi: percussioni, bicchieri, sono dunque ben accetti. Uno spettacolo che sprigiona amicizia e complicità, non solo tra Federico Odling e Andrea Renzi, ma anche tra questi e Giorgio Caproni. Un continuo gioco di rimandi tra gli uni e gli altri, in cui anche il pubblico finisce per essere attivamente partecipe, rimandando le proprie sensazioni su un palco sempre pronto a ricevere il prossimo caldo applauso. Il pubblico è immerso in un rito che ha lo scopo di far librare la poesia di Caproni, l’interprete si dissolve sulla scena, mentre rimane avvolgente la parola sempre mancante (ma mai mancata) dello scrittore. E forse proprio il teatro che rimanda a ciò che non è (di)mostrabile è il teatro che sa riuscire più vigorosamente.


Caproni!
di
Andrea Renzi e Federico Odling
testi di Giorgio Caproni

:duepunti edizioni: un libro, una biblioteca

La punteggiatura è importante quanto quello che separa. Detta pause, solennizza, disegna degli angoli in cui le parole si sentono comode, contornate da pareti che conoscono.

I due punti, ad esempio, servono a tracciare una distanza, a prendere fiato per riporlo in quello scarto. Costruiscono un’attesa, lo spazio stringato di un desiderio, perché quello che spunterà subito dopo merita ancora più attenzione.  

È il progetto di una riga, che si pettina al meglio per essere letta. Per battezzare un discorso.

In questo caso :duepunti è anche il nome di una casa editrice, fondata a Palermo nel giugno 2004 per iniziativa di Andrea Libero Carbone, Giuseppe Schifani e Roberto Speziale. La loro storia si affaccia nel ’96, prima come rivista (4 numeri, distribuiti nellambiente universitario underground), poi con l’omonima associazione culturale e prosegue con la realizzazione di eventi letterari,  happening,  e sperimentazioni sul web con il sito www.duepunti.org. È comunque una storia semplice,  nata attorno a un tavolo.

Un tavolo di amici che hanno scelto di «creare, scambiare, condividere suggestioni, frammenti, scritti in un gioco costante di rinvii e rilanci», come sostengono loro stessi.

E intorno a un tavolo ci si mette in discussione, si confrontano visioni e prospettive, si cerca una forma in cui riconoscersi. Come suggerisce l’immagine assurta a motivo ispiratore del gruppo, quella creata da Egon Schiele in occasione della quarantanovesima mostra della Secessione Viennese. Una manciata di uomini seduti intorno a un’idea. L’idea è quella di realizzare «un catalogo simile a una grande biblioteca personale di libri anomali», perché ogni libro è un mondo a parte, una proposta di senso non replicabile, un’intersezione di coordinate uniche che esiste per dialogare. Con i lettori, con altri testi. Per rinnovare il circuito ed esplorarlo ancora. Per scoprire quartieri di titoli e punti di vista. Per formulare la propria indipendenza. Compito dell’editore è selezionare criticamente, individuare con cura autori e tracce, ampliare quel tavolo iniziale e trasformarlo in un laboratorio. E il logo scelto racconta il mestiere: un pesce radiografato che rievoca e omaggia il delfino simbolo della casa editrice di Aldo Manuzio.

 

La casa editrice :duepunti decide quindi di specializzarsi in opere di narrativa e saggistica di scrittori poco noti sul mercato, ma annovera anche titoli meno conosciuti di autori di rilievo come Roberto Alajmo, Emma Dante, Jean- Marie Gustave Le Clézio, Giuseppe Genna, Patrick Ourednik e Boris Vian.

Il catalogo, che ha raggiunto gli ottanta titoli e che quest’anno consta di diciassette nuove uscite, si compone di otto collane:

Terrain vague, la collana principale improntata sul principio dell’elemento unificante, dell’influenza che ogni testo esercita sul proprio vicino. Perché ogni libro respira anche la linfa di quello che gli sta accanto; Zoo. Scritture animali, diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini, che impiega la forma del racconto per proporre autori della narrativa italiana contemporanea, come Fulvio Abbate, Vanni Santoni, Davide Enia e Nicola Lagioia; Argonauti, imperniata sulla cultura visuale, sulla creazione ed evoluzione delle immagini; Cronografie, che include saggi riguardanti tematiche sociali, politiche ed economiche; Posizioni, incentrata sulla critica letteraria e coordinata da un folto numero di firme, tra cui Andrea Cortellessa e Domenico Scarpa; Dossier, collana di italianistica; Punti di fuga, costola editoriale dedicata alle graphic novel; Ex libris, che mira a rivalutare testi datati o dimenticati.


:duepunti si concentra molto anche sulla letteratura straniera, traducendo dall’inglese, dal francese, dal tedesco, dal ceco, dal bulgaro e dal giapponese.

All’interno del sito internet duepuntiedizioni.it, spicca soprattutto hypercorpus, piattaforma digitale inaugurata nel marzo di quest’anno, che fornisce una vasta riflessione sull’universo editoriale, replicando alle sfide che la tecnologia rivolge ogni giorno a qualsiasi punto della filiera. Da chi legge a chi emette.

Perché un libro è comunque un’avventura, resta se stesso al di là della carta, dell’eterno fascino gutenberghiano che ci lascia tra le mani. Anche smaterializzato, liquefatto, divenuto un paesaggio d’inchiostro elettronico, rimane pur sempre un patrimonio condivisibile, soggetto a passaggi e mutazioni.

E hypercorpus serve proprio a questo, a lanciare una scommessa a ciascun attore sulla scena, a declinare la cultura come esperienza eclettica, in costante trasformazione.

Ora siamo noi a scrivere i due punti, a interporre una finestra in cui affacciare i titoli per noi più rappresentativ, anche in questo caso senza indicare alcuna gerarchia:

Il verbale, di Jean-Marie G. Le Clézio, scritto nel 1963 e riproposto nel 2005 e nel 2008 dalla casa editrice siciliana. La vicenda di Adam Pollo, antieroe d’eccellenza  e disertore mentale, che fugge da un mondo preconfezionato e inutile, ritirandosi in una villa disabitata della Costa Azzurra dove sopravvive diventando un occhio, con cui registrare i dettagli dell’apocalisse a cui assiste di continuo. Ideando un codice frenetico e sconnesso con cui ritrarre ciò che accade.

Europeana, di Patrick Ourednik, storia senza virgole del XX secolo in cui dati, incidenti e slogan vorticano come fantasmi sul continente europeo seminando il sospetto che tutto il Novecento sia stato un inganno.

Scritti Patafisici, di Alfred Jarry, raccolta straordinaria di soluzioni immaginarie, antologia di testi difficilmente reperibili che hanno mosso e alimentato scrittori come Queneau, Vian e Pennac.

Noi abbiamo scritto i due punti, ora spetta a voi stabilire come proseguirà il discorso, come s’intitolerà il vostro prossimo viaggio a bordo di questa casa editrice.

 

Per ulteriori informazioni:
http://www.duepuntiedizioni.it/

“Black Mirror” di Charlie Brooker e Jesse Armstrong

La tecnologia non è né buona né cattiva, dipende solo dall’uso che ne facciamo. Certo è che negli ultimi anni ci ha incalzato sempre più, è entrata nelle nostre case e ha invaso la nostra privacy violentemente, da ogni parte, attraverso i social network.

Cosa succederebbe se questa situazione arrivasse alle estreme conseguenze? Ha provato a immaginare la risposta il giornalista Charlie Brooker, ideatore di Black Mirror, una mini-serie in tre episodi proveniente dalla Gran Bretagna, prodotta da Endemol e andata in onda su Channel 4 lo scorso anno.

La prima particolarità è una struttura originale: manca infatti una trama che unisca le tre vicende narrate, completamente staccate l’una dall’altra (c’è addirittura un cast differente per ognuna delle tre). A legare il tutto è solo il tema di fondo, ossia l'esasperazione raggiunta dallo sfruttamento della tecnologia e della rete globale e la proposizione su schermo di cosa potrebbe seguire a un evento del genere.

I primi minuti di “The National Anthem” sono forse la migliore spiegazione di tutto ciò che Black Mirror vuole dimostrare. La prima scena ci mostra infatti il primo ministro inglese, Michael Callow, raggiungere in piena notte il suo staff e prendere atto del rapimento della principessa Susannah (membro fittizio della famiglia reale), scoperto grazie a un video inviato dal terrorista che la tiene prigioniera. Il primo grande colpo di scena è la scoperta della richiesta di riscatto: per rivedere di nuovo la ragazza viva il primo ministro dovrà avere in diretta su tutte le reti nazionali un rapporto sessuale completo con un maiale. Una condizione quanto mai singolare, a cui Michael e il suo staff vogliono evitare di sottostare, cercando di organizzare subito un’operazione di salvataggio in gran segreto.

Ma come tenere il segreto se il video non è giunto direttamente al primo ministro ma è stato pubblicato su Youtube per essere visualizzato e salvato da decine di migliaia di utenti prima di essere cancellato? Quando il popolo di internet riceve la notizia il passaparola è inevitabile, e anche i canali televisivi (ai quali era stata vietata la messa in onda di ogni notizia riguardante il rapimento) si piegano al volere degli spettatori lanciando lunghe dirette sull’accaduto.

In questo caso l’accento sembra evidentemente posto sulla facilità con cui Youtube, Facebook, Twitter e in generale le nuove frontiere di internet hanno reso fruibile l’informazione al popolo della rete in tempi sempre più brevi, prima di quanto possano fare televisioni o giornali.

Ma se il primo episodio sembra quello più aderente alla realtà e più verosimile, i due successivi si spingono sicuramente oltre i limiti mostrando punti di vista più grotteschi e fantascientifici.

Nel caso di “15 Million Merits” vengono chiamati in ballo alcuni dei compagni più fedeli dell’utenza dal ventunesimo secolo. Siamo in un mondo chiuso, di cui non ci viene mostrato un eventuale esterno, e tra le mura in cui vivono tutti i presenti l’unica attività disponibile è correre su delle cyclettes e accumulare i “Merits” con cui comprare qualunque cosa, dal dentifricio all’ingresso ad “Hot Shots”, la più grande competizione canora evidente parodia del celeberrimo “X-Factor”. Tra gli sparatutto in prima persona da giocare non più con i joystick ma coi sensori di movimento e il porno pubblicizzato come un programma in prima serata, non c’è posto per tutti gli obesi, considerati cittadini di seconda fascia e costretti a lavorare come inservienti o ridicolizzati in tv in game shows di dubbio gusto.

In questo mondo si muove Bing Madsen, un ragazzo di colore che si innamora di Abi, una nuova arrivata, e della sua voce e che arriva al punto di comprarle l’ingresso ad “Hot Shots” (da segnalare la presenza di Rupert Everett come guest star nel ruolo di uno dei tre giudici) per dimostrare tutto il suo valore. Ma la sua audizione non andrà proprio come sperato…

Si cambia totalmente registro in “The Entire History Of You”, unico episodio alla cui realizzazione non ha preso parte Charlie Brooker ma Jesse Armstrong.

La grande novità presentata in questo terzo episodio è la presenza del grain, una sorta di microchip impiantato dietro l’orecchio quasi di chiunque, che consente di registrare e rivedere qualsiasi evento della propria vita proprio come è stato vissuto, rendendolo una sorta di immenso hard disk dei ricordi di ogni individuo.

Come già premesso nelle primissime righe l’obiettivo di Black Mirror non vuole e non deve essere quello di demonizzare il progresso tecnologico, ma piuttosto quello di sensibilizzare e invitare alla riflessione per far sì che tutto ciò che accompagna la nostra vita non arrivi un giorno a circondarla del tutto e conquistarla completamente.

La serie, arrivata in Italia solo il mese scorso su Sky Cinema 1, ha generato molte polemiche e un prevedibile dibattito; tutto questo non ha comunque frenato Endemol, che ha annunciato la produzione di una seconda stagione nella prossima estate (le date di messa in onda sono ancora incerte).

 

 

“A est dell’Occidente” di Miroslav Penkov

A est dell’Occidente, di Miroslav Penkov, è un libro di racconti intenso e profondo, di un autore giovane ma di evidente talento, capace di raccontare e intrecciare con grande abilità mondi mai vissuti, mondi quotidiani e la sua esperienza di straniero in terra straniera. Ogni racconto ci fa l’effetto di un cortometraggio: le sue descrizioni, le sensazioni che evoca, il loro inizio in medias res che sembra riempire lo schermo poco dopo i titoli d’apertura e la loro ultima pagina, che provoca in noi un leggero smarrimento, l’impressione di essere lasciati come in sospeso.

«Che cosa tiene legato un uomo alla terra o all’acqua, mi chiedo, se non quello stesso uomo?» L’attaccamento dell’autore alla Bulgaria, sua terra natale, è un’ingombrante presenza che permea tutti i racconti: i suoi protagonisti, fortunati vincitori di una green card o novelli esploratori di una sorta di terra promessa, presto si accorgono del pesante fardello che si portano sulle spalle fin dall’arrivo nel Nuovo Continente, il fardello dell’esule, del solitario, del nostalgico che sente la mancanza della propria famiglia, dei propri vecchi e dei propri morti. Eppure non vi è nulla al mondo magnetico come gli Stati Uniti: l’autore, che vi risiede dal 2001, ha ceduto ai suoi personaggi le proprie aspettative, i propri desideri e le proprie speranze e forse – ma questa resterà una semplice congettura – ha riversato in loro le proprie paure. Tutti questi temi sono sparsi per tutte le 245 pagine del libro, ma sono evidenti in due brani in particolare. Il primo è quello che dà il titolo al libro e che ci apre gli occhi su un piccolo universo: a est dell’Occidente, infatti, troviamo una Bulgaria afflitta dal regime comunista che guarda con curiosità e invidia agli stati liberi, a quelle persone che vivono oltre confine e che, un tempo, erano bulgari, parte di una “Grande Bulgaria” compianta, ormai inesistente. L’Occidente, meta ambita, in Penkov si rivela in fin dei conti una delusione, il luogo dove si può vivere bene unicamente a patto che ci si scrolli di dosso il proprio passato e la propria identità. Questo è quanto emerge chiaramente anche da “Devshirmeh”, l’ultimo racconto di questa raccolta, e il secondo che meglio si presta alla presentazione dei temi principali del libro. Qui marito e moglie, bulgari emigrati negli Stati Uniti, e divorziati dopo poco tempo dal loro arrivo, non potrebbero vivere due esistenze più diverse: il primo ha lasciato una parte di sé in Bulgaria, nella speranza di quello che, un po’ banalmente, oggi definiremmo un ricongiungimento familiare, e si esprime quanto più possibile nella propria lingua materna, insegnandola alla figlia perché non dimentichi le sue radici. L’altra invece, totalmente occidentalizzata, parla solo inglese, non vuole assolutamente che la figlia utilizzi il bulgaro, in nessun caso (rovinerebbe il suo inglese), e si atteggia da “nuova ricca”, sempre pronta a spacciarsi per chi non è: grazie all’abbandono dell’identità precedente, alla scissione della sua persona, delle sue origini e della sua storia, ha potuto godere di un’emancipazione che le permette di vivere al meglio la sua esperienza da neo-occidentale, senza rimpianti e senza rimorsi.

Come l’America non si dimostra la panacea di tutti i mali, nemmeno la Bulgaria esce indenne dall’analisi dell’autore: politici corrotti, che possono dire qualsiasi aberrazione purché chiedano scusa subito dopo – un’immagine a dir poco attuale –, fame e povertà, pregiudizi e invidia. Miroslav Penkov è spietato nei confronti di tutto quanto circonda i suoi personaggi, li lascia in un limbo, perfettamente al centro dell’odi et amo delle loro emozioni e dei loro desideri, alla mercé della nostalgia, di quel “richiamo del sangue” che è il comune denominatore di tutti i racconti. Racconti che narrano degli anni della Bulgaria comunista, degli Stati Uniti attuali, di epoche passate in cui la Bulgaria era la “Grande Bulgaria”, quel paese in grado di inorgoglire i più fieri nazionalisti, e che lo fanno in un modo schietto, che si potrebbe definire, osando un po’, neutrale, con un climax di stati di apprensione e angoscia che sono una prova evidente della capacità narrativa dell’autore e della sua traduttrice.

 

(Miroslav Penkov, A est dell’Occidente, trad. di Ada Arduini, Neri Pozza, 2012, pp. 245, euro 16,50)

“I libri ti cambiano la vita”, a cura di Romano Montroni

Cento scrittori evocano cento titoli, opere diverse che hanno lasciato un segno nella loro vita. Alcuni tornano molto indietro nel tempo agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza: «Leggevo sempre, soprattutto nelle estati che sembravano non finire mai. Di giorno e di sera, fin quando la mamma non piombava nella stanza e per farmi smettere chiudeva drastica l’interruttore della luce», scrive Corrado Stajano e un po’ mi ritrovo anch’io in questa sensazione, infatti è proprio nell’estate del mio sedicesimo anno, in vacanza al mare, che ho letto il libro che ha cambiato la mia di vita: Uno nessuno e centomila di Pirandello. E lo sconvolgimento che provocò nel mio animo fu un moto totalmente interiore e invisibile, infatti come scrive Elena Varvello: «Una di quelle piccole epifanie che cambiano tutto, dentro di noi, senza che nessuno di quelli che ci stanno attorno e che ci vogliono bene se ne accorga davvero».

I libri sono«capaci di uscire dalla carta e di creare scompiglio, movimento, rivoluzioni nella vita reale, nelle epoche, in intere generazioni». Quest’opera fortemente voluta da Romano Montroni può essere considerata un vero e proprio dibattito cultural/letterario sul tema annunciato dal titolo stesso I libri ti cambiano la vita – Cento scrittori raccontano cento capolavori (Longanesi, 2012). Ci sono opinioni favorevoli e contrarie, alcuni sostengono tale tesi e, rincarando la dose, citano più di un testo/libro che ha influito in momenti e circostanze diverse nella loro vita. Altri intellettuali invocano il potere della letteratura come scoperta di una vocazione: «La letteratura era entrata nelle nostre vite e non ne sarebbe più uscita». Attraverso la parola scritta si fa strada, si manifesta il talento nel senso evangelico del termine, l’idea di trovare la propria missione come una chiamata alla scrittura.

Dalla lettura dell’opera si evince che i libri ci rendono persone migliori poiché esortano all’azione o svelano verità nascoste che improvvisamente si manifestano davanti ai nostri occhi, in ogni caso è necessaria una ricerca tenace e costante. L’infaticabile Vittorino Andreoli esprime quasi un desiderio personale: «Spero nel libro che non c’è e che vado a cercare in libreria, e ora lo confesso, poiché non lo trovo, tento io stesso di scriverlo».

Per altri autori l’incontro con il libro viene descritto come una storia d’amore, fatta di corteggiamento romantico, ritrosie, ecco come Silvia Avallone parla di In Cold Blood di Truman Capote: «Puntualmente ha continuato a finirmi tra le mani in tutte le librerie e le biblioteche. Come accade per i grandi amori dei feuilleton ottocenteschi, la casualità e il fato tramavano per farci incontrare». E non posso non pensare ai versi ironici e disincantati della poetessa Szymborska che in questi termini evoca la fatalità dell’incontro tra due innamorati: «Li stupirebbe molto sapere / che già da parecchio tempo / il caso giocava con loro. / Non ancora pronto del tutto / a mutarsi per loro in destino, / li avvicinava, li allontanava».

Vorrei proprio manifestare il piacere che ho provato nel leggere questo libro, che non avendo un ordine cronologico, una successione di eventi, può non esser letto dalla prima all’ultima pagina. Come esclama il Piccolo Principe: «Et si c’était par la fin que tout commençait?» 

Ho iniziato la mia lettura proprio dall’ultimo capitolo in cui Giovanna Zucconi sembra contraddire, ma solo in apparenza, nell’incipit il titolo stesso dell’opera affermando: «Il libro che mi ha cambiato la vita non me l’ha cambiata, la vita. Non è andato come sarebbe potuto andare. Sliding doors, deviazioni, capricci del destino».


(I libri ti cambiano la vita – Cento scrittori raccontano cento capolavori, a cura di Romano Montroni, Longanesi, 2012, pp. 348, euro 14,90)
 

“Sick City” di Tony O’Neill

Da alcune brutte vicende, se sei fortunato, ne esci vivo. Se, oltre a essere fortunato, sai anche scrivere, da certi percorsi terribili puoi ricavare un romanzo. Un gran romanzo.

È capitato a Tony O’Neill, ex musicista, ma soprattutto ex tossicodipendente, salito alla ribalta letteraria nel 2006 grazie a Digging the Vain, un’opera marcatamente autobiografica e incentrata per l’appunto sulla dipendenza dalle droghe pesanti. Dopo Down and Out a Murder Mile (2008) è il turno di Sick City, pubblicato in Italia da Playground.

La città malata del titolo è la Los Angeles cupa, viziosa, torrida e criminale molto vicina all’habitat dei poliziotti ossessionati del maestro del noir James Ellroy. È una città-gabbia, fornace di disperazione e palcoscenico per attori destinati a tragici eventi. Un posto dove malavita e traffici illeciti si palesano sotto la luce di un sole che, anche in ciò che sembra degno dello star-system di Hollywood, nasconde il nero cancro del vizio.

In questa palude di perdizione si sviluppano le vicende dei due protagonisti: Randall e Jeffrey. Il primo è figlio di una potente famiglia della cinematografia americana, abituato fin dall’infanzia a vedere in giro per casa gente del calibro di De Niro. Quando lo incontriamo nei primi capitoli del libro apprendiamo che il fratello, per l’ennesima volta, gli ha tagliato i fondi: se vuole vedere di nuovo i soldi deve smetterla di drogarsi con qualsiasi sostanza in circolazione. L’unica soluzione possibile per Randall è intraprendere la via del centro di disintossicazione, dove incontrerà l’altro pilastro del libro, Jeffrey, un bad boy di origine irlandese con un passato turbolento scappato troppo velocemente dall’Inghilterra. Anche lui sceglierà di disintossicarsi in clinica dopo l’improvvisa morte del compagno più grande di lui. Ed è proprio nella clinica che incontreranno l’emblema dell’ipocrisia e della falsità del sistema: il dottor Mike, medico di successo divenuto mito catodico grazie al programma Disintossicare l’America, un reality dove vip in declino mettono davanti alla telecamera i propri problemi.

Per quanto le luci della scenografia possano brillare e rendere il dottore un eroe agli occhi del pubblico, le sue torvi vocazioni non sembrano appagarsi, fino ad arrivare a un esito drammatico.

Intanto Randal e Jeffrey fanno amicizia e Jeffrey confida al compagno di stanza un segreto. La narrazione cambia marcia: scopriamo che l’ex compagno defunto di Jeffrey possedeva un video originale in cui Sharon Tate – l’ex moglie di Polanski uccisa da Charles Manson – appariva intenta in un’orgia assieme a miti del cinema come Steve McQueen. Vendere quella bobina alle persone giuste sarà il loro riscatto e la loro via di fuga. Ma una volta finita la rehab le cose fuori dalla struttura prenderanno una brutta piega, soprattutto per merito dei personaggi secondari tra cui spicca il cattivo della vicenda, un criminale brutale e spietato di nome Pat.

A livello romanzesco O’Neill non inventa nulla di nuovo: siamo di fronte alla miscela perfetta tra le pure vicende pulp tarantiniane e i personaggi deviati e subdoli di Breat Easton Ellis, con venature di quell’ironia corrosiva tipica di Palahniuk. Gli aspetti che rendono Sick City un romanzo importante sono altri. Il primo è lo stile: l’autore possiede un espressionismo visivo fotografico in grado di trasmettere al lettore delle istantanee choc: «Riesce a vedere la città davanti a sé: luccicante e vuota, proprio come una puttana appena pagata». Il secondo è la capacità di rendere l’inferno della dipendenza e dell’astinenza dalla droga in maniera implacabile e secca, raccontandolo con gli occhi e l’anima di chi quel baratro l’ha frequentato per troppo tempo. Indimenticabile e terribile è la descrizione degli allucinati murales dipinti sulla stanza del motel dove Randal trova un Jeffrey semimorto mentre dalle finestre provengono i più disperati strilli e rumori.

Il sottofondo di una città malata. In tempi malati. Da cui fortunatamente a volte si riesce a scappare.

(Tony O'Neill, Sick City, traduzione di Gaja Cenciarelli, Playground 2012, pp. 330, 18 euro)

“The 2nd Law” dei Muse

Il ritorno di Matt Bellamy e soci era qualcosa di molto atteso in questo 2012. La promessa di una svolta musicale senza precedenti e la buona riuscita di una delle canzoni dell'album come singolo apripista per le Olimpiadi di Londra (“Survival”), lasciava molto incuriositi sulla nuova prova in studio dei Muse.

Non è tutto oro quello che luccica. La famosa svolta sperimentale non è altro che un ripescaggio di suoni anni ottanta e varie sonorità rubate ad altre band, Queen e U2 in primis; un disco strano che sembra più una compilation di cover che un vero e proprio album.

Ci sentiamo comunque di salvare qualcosa: “Madness”, pur ricalcando molto gli U2, è un bel pezzo che sicuramente suonato dal vivo farà ballare e divertire grazie ai campionamenti dance che lo contraddistinguono. “Follow me” contiene il suono del battito cardiaco del figlio di Bellamy che, con l’aggiunta di una dolce melodia, resta una delle prove migliori del disco. “Animals” è la traccia che più riprende le vecchie sonorità della band e che, insieme ad “Explorers”, rende questo disco appetibile per i fan di vecchia data. Grazie all’ottima prova canora da parte del bassista Chris Wolstenholme, “Save me" è davvero una piacevole sorpresa: nel testo si possono rintracciare riferimenti autobiografici alla disintossicazione dall’alcool che rendono il brano ancora più coinvolgente.

I Muse con questo disco hanno provato a non essere i Muse, hanno cercato l’innovazione senza rendersi conto di quanto il loro sound fosse stato già in passato qualcosa di diverso per il rock e anche per il progressive.

Forse anche loro, come gli U2 ai tempi di "Pop", hanno voluto giocare con il loro sound, ma la band irlandese ha creato dal nulla un suono che ha fatto epoca.

Ai Muse non è rimasto altro che riempire i loro brani con innovazioni altrui.

 

 

“Il Supermaschio” di Alfred Jarry

«Il Supermaschio è probabilmente il più bel romanzo Art Nouveau».

Così scrisse il dimenticato Alfredo Giuliani, critico troppo libero per poter fare scuola, non casualmente a suo agio con un irregolare come Alfred Jarry (1873-1907), scrittore assimilato dai posteri alle prime avanguardie europee e in realtà battitore libero che, nonostante gli apprezzamenti smaccati, sarebbe stato stretto nei dettami surrealisti di A. Breton.

Per alcuni aspetti nei suoi libri presuppone qualcosa del surrealismo, lo anticipa, lo indovina. Ma Jarry vale un po’ tutto il surrealismo letterario preso in blocco (almeno quello che ufficialmente si proclamava tale). Perché nel movimento di Breton, come spesso accadeva con le avanguardie, non si seppero evitare quelle soluzioni didascaliche, dimostrative, che sono sempre state il limite di un movimento, di una corrente che per aderire ai suoi stessi principi finisce non raramente per ingabbiare la creatività dei singoli.

A Jarry non poteva succedere. Perché egli era l’antidoto di se stesso. Si autoscavalcava, non per frenesia ideologica, ma per inclinazione naturale alla rivolta. «Non avremo distrutto nulla finché non avremo distrutto anche le rovine» scrisse da qualche parte. Nicciano in versione stramba e deforme, ma ludica, sapeva che – ben lo dice Giorgio Agamben nella postfazione a questa bella edizione de Il Supermaschio – affermazione e distruzione coesistono, che la massima potenza di un sesso infinito, replicabile senza posa, coincide con il vuoto, con il nulla: laddove resta solo il riso.

Jarry è noto a un pubblico più vasto (si fa per dire) soprattutto per l’invenzione del mostruoso Ubu, il re fuori misura, grottesco, rablesiano che farà la gioia del teatro novecentesco (ma nasce nell’Ottocento, Jarry era poco più che un ragazzino) e per la patafisica del dottor Faustroll. In realtà sono molti i personaggi pazzeschi e abnormi creati dalla fantasia di Jarry. Fra essi, Il Supermaschio accentra su di sé il principio portante della modernità: l’energia tesa verso l’infinito, l’inesausta vitalità della ripetizione erotica che però, proprio perché può replicarsi senza posa, perde di significato; che per questo rende le fatiche dell’eroe inutili, comiche. Curioso destino per un uomo (per l’uomo) che, ancora modernisticamente, niccianamente, concentra nell’ispirazione di una virilità illimitata, il destino della tecnica fatta dio. Dove lo scacco che lo aspetta non è il risultato di un fallimento, di una riuscita impossibile, ma della scoperta della sua inutilità.

Ma il lettore vorrebbe forse informazioni più semplici. Bon, sappia che troverà motivi di divertimento in questo libro. Che André Marcueil trascorrerà l’infanzia e l’adolescenza cercando prima di combattere la sua deformità, poi di comprenderla facendo anche «esperienze contro natura, salvo accorgersi di quale abisso separasse la sua forza da quella degli altri uomini». Sottoponendosi alla scommessa del secolo: superare il numero di amplessi dell’indiano descritto da Teofrasto. Mentre accadono, accanto a lui, cose altrettanto straordinarie. Tra l’assurdo, la fantascienza e le chiacchiere del gran mondo francese di fine Ottocento.

(Alfred Jarry, Il Supermaschio, traduzione e postfazione di Giorgio Agamben, introduzione di Sebastaino Vassalli, Bompiani, 2012, pp. 146, euro 16)

La rivolta dei suffissi

Comincia tutto a buon mattuccio. Alle sette trillo di sveglia: pianel pianello su le lenzotta, i piedi alle pantoccie, e via di corsa verso il bagno. Aperta l’acqua al lavandotto, mano al pennetto al rasante e al sapoccio e, come ogni giorno, barba di pelo e contropelo. Doccia, fon, pantalocchi, camicia a righettuccie e son fuori di casa. Uff, zerbotto storto: è certo il mio vicetto, maldestro come pochi ma in fondo non ne ha colpa: mille manovre col bambotto in passeggetto e… ci sta, che sposti tutto un pocolacchio.

Via per il portoccio, passo spedito lungo il vialello ed eccomi giù in strada. C’è un nuovo cartellotto: «Utilitaria full optional 5 sportucci a soli Euro 10.000»… Belletta, ma carella. Ecco le strisce: meglio attraversare lì, ché a tagliar la strada è pericolotico… Dietro il ponticiazzo s’erge il bar: cappucciocchio e cornello ma una goccia di latte freddo, per favanza, che è bolloso! E di poi verso l’ufficio. Sigarella, sì: sugli scalucci, ovvio, ma solo dopo aver timbrato (conta ogni attimello!) il cartelletto.

8:30 inizia il tutto: un’occhianza alla posta inevaduta, due tre telefonie al celluloso e tutto scorre come prassi all’intervaccio e pausa pranzo. Due spaghelli carbonata, pot-pourridi zucchette e carciofelli; pane due fettelle, acqua effervesciosa a garganetta e il pranzo è bell’e andato. Avanzano tre ore: ma si sa, dopo le pappe tutto è scorrante, quasi rilassico: il più è fardotto del mattello, e al pomeriggio si rivede, si progetta…

Strada a ritroso verso casa: e il programmetto della seranza? Per certo un cinemucchio, magari assieme ad Antonecchio che non vedo da una vita, sempre affaccendente com’è. Cena al cinesello, spettacolo seroso e, non ci scappi una fanciotta rimorchiata lì per lì, a letto presto a sogni pari.

Eccovi servita, lettare e lettenti di queste righe irriveriche e scombinose, la giornata in cui impotato e sorridoso io assistetti… alla prima rivolta dei suffetti.  

In memoria dell’aggettivo schizzinoso, costretto a fine prematura dalla spocchia arrogante e un po’ banale / d’un funesto choosy ministeriale.

“Robert Doisneau. Paris en liberté” al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Un francese medio, di media statura anche, con nessun segno particolare se non una macchina fotografica che comunque tende a non esporre qualora non necessario. Questo è il modo che un fotografo timido ha trovato per descrivere se stesso. Gli scatti di Doisneau, come sottolinea Sylvain Roumette in un’intervista all’artista, sono privi di avvenimenti, elemento, questo, che deriva probabilmente dall’idea del fotografo che esistano ambiti segreti in cui non si deve entrare e da quella sua timidezza che impone una distanza con i soggetti. Questa lontananza è inizialmente un tratto imposto dal carattere, lo stesso Doisneau ammette che i primi scatti sono rivolti a mucchietti di sassi e a uno steccato ricoperto da poster rotti perché non ha il coraggio di avvicinarsi troppo alla gente. Ma questo spazio che si viene a creare tra lui e i soggetti diventa, poi, un tratto caratteristico della sua fotografia, ricercato volutamente. Nelle sue immagini vi è sempre stato un tentativo di trovare tra le persone uno spazio interno ed è questo, insieme a una certa organizzazione dell’immagine a renderla leggibile. A questo si aggiunge, infine, il fascino. Uno degli aspetti fondamentali dell’opera di Doisneau è quel qualcosa di misterioso che è entrato per caso nella foto, definibile come una sorta di profumo che si sprigiona nel tempo. È quello che avviene secondo lui con le immagini di Kertész: hanno la capacità, alcune delle sue fotografie, di invecchiare bene e di rilasciare un fascino impossibile da analizzare, destinato a impreziosirsi sempre di più con lo scorrere degli anni.

Oltre a Kertész, non si può non menzionare l’ammirazione per Brassaï e per Atget. Entrambi i fotografi sono noti per i loro ritratti di Parigi: architetture, strade, angoli e realtà più nascoste, come ciò che si schiude e si agita durante l’accattivante notte parigina. Brassaï è stato un narratore appassionato della vita notturna della città, delle sue vie vuote e piazze deserte e dei suoi bar pieni di personaggi di ogni tipo, animati da prostitute, ballerine, coppiette, clochard. Doisneau, anche, ama passeggiare per Parigi di notte alla ricerca dei margini spaziali e sociali della realtà urbana, poiché è attratto dalle presenze più periferiche, meno considerate, come gli stessi operai, soggetto che comincia a studiare a partire dalla sua occupazione come fotografo alla fabbrica Renault. È un momento importante sul piano del lavoro e della formazione, che segue il periodo di apprendistato presso André Vigneau, fotografo, disegnatore, scultore, uomo dalle idee rivoluzionare che apre all’artista le porte di un nuovo mondo, quello dell’avanguardia, della cultura e degli artisti del tempo, pittori, scrittori – a questo periodo risale l’inizio dell’amicizia con Jacques Prévert – soggetti futuri dei suoi scatti. È in questo momento – è il 1932 – che decide di comprare la sua prima macchina fotografica, una Rolleiflex, con cui si aggira per Parigi e nella periferia di Gentilly. Inzia qui la sua vocazione di fotografo della strada.
 


Doisneau è questo. Un fotografo di vita e di strade, di una città, Parigi, assaporata, trasmessa nei suoi tratti quotidiani, offerti e condivisi a chi li voglia conoscere, perché le fotografie non si fanno per sé, «ma di sicuro solo per condividerle», diceva. Il suo intento, però non è quello della trasmissione, non vuole immortalare la città in modo che la sua opera diventi una testimonianza, ma lo fa perché ama osservare, camminare, perché si interessa.

Robert Doisneau. Paris en liberté, la mostra ora presente al Palazzo delle Esposizioni di Roma, ristabilisce proprio questa dimensione: quella di una passeggiata per la città francese. Gli scatti esposti sono davvero molti, più di duecento e presentano una visione ampia e sfaccettata di Parigi, negli anni che intercorrono tra il 1934 e il 1991. Quello che si segue nella camminata è un ordine tematico che mostra i diversi oggetti su cui si è soffermata l’attenzione del fotografo: innumerevoli istantanee che ritraggono persone comuni, impegnate in azioni comuni o personaggi illustri del mondo della cultura, dell’arte, del cinema e della moda: Doisneau ha operato anche in questo ambito, lavorando per la rivista Vogue, ingaggio questo che gli ha permesso di entrare in contatto con quei circoli dell’alta società a cui però non si è mai legato, sempre più dedito alle vicende comuni e alla gente semplice incontrata per strada.
 


Vi sono, dunque, ritratti di Picasso, di un intenso Giacometti, di scrittori suoi amici come il già citato Prévert e Blaise Cendrars, vi sono personaggi di spicco del mondo dell’alta moda, Coco Chanel, Jean Paul Gaultier, una lunga carrellata di nomi e volti noti, ma anche foto di bambini, innamorati, persone che semplicemente passeggiano e vivono la loro giornata. Vi sono “I fratelli” che giocano a camminare facendo una verticale, “La vetrina di Romi” che espone un’immagine maliziosa di una donna nuda che i passanti si soffermano a osservare con reazioni diverse – una disamina divertente sullo sguardo, questa – e anche il famoso scatto che ritrae il bacio a l’Hotel de Ville. Doisneau si apposta, attende e prende all’amo immagini, termine non a caso utilizzato essendo il fotografo un appassionato di pesca; alcuni scatti sono ricostruiti, è vero, come nel caso del “Baiser Blotto”, due ragazzi che si baciano su un risciò: quelle nella fotografia sono infatti due comparse e questo può far pensare all’assenza di spontaneità nella realizzazione dello scatto; ma è da aggiungere che riproducono un’azione vista in precedenza dall’artista che non aveva avuto il consenso da parte dei veri interessati a poter diffondere l’immagine, visto che si trattava di un bacio rubato da un garzone alla figlia del padrone.
 


Quello che resta e si respira in questa mostra è una città, un modo di vederla, di sentirla e di viverla. Doisneau ha girovagato per Parigi e ne ha raccontato quasi tutto. La capitale francese è sicuramente un palcoscenico che ha favorito questa narrazione, ripensando alle parole di Nietzsche «come artista, un uomo non ha altra patria in Europa che Parigi»; ma è vero che la bellezza e la particolarità della quotidianità di questa città non avrebbero mai potuto desiderare un cantore più abile.

 

Robert Doisneau. Paris en liberté
Dal 29 settembre 2012 al 3 febbraio 2013 presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma.

Per ulteriori informazioni:
http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-023

“I Figli di Baal. La guida rossa” di Francesca Costantino

Se si volesse scegliere ogni volta una colonna sonora per accompagnare le nostre letture, quella de I Figli di Baal. Una guida rossa della esordiente blogger e giornalista Francesca Costantino, in uscita presso la Armando Curcio Editore, sarebbe The house of the rising sun degli Animals, la Casa del Sole Nascente, cavallo di battaglia nella fiction romanzesca dei Baalym e simbolo dell’avvento di una nuova era per l’umanità che però, come dice la canzone, potrebbe rappresentare anche l’inizio della rovina.

Questo urban fantasy cattura come la soave armonia di una melodia. Con uno stile semplice e chiaro, Francesca Costantino, attingendo a molteplici suggestioni, dai giochi cult anni ’90 D&D, nati nell’ambito del wargame anni ’70 e ispirati alle opere di scrittori quali Tolkien, Lewis, H. P. Lovercraft, A. E. van Vogt, Fritz Lieben, Jack Vance, alla teosofia, dalla magia all’esoterismo new age, imbastisce una trama dai risvolti oltre che fantastici anche sociologici e da thrilling.

L’ambientazione è tra New York prima dell’attentato dell’11 settembre e Aurigard, l’immaginaria Città d’Oro, situata sulla più grande delle isole di un arcipelago adimensionale e atemporale, una sorta di Triangolo delle Bermuda formatosi in seguito all’inabissamento di Atlantide provocato dal conflitto fra gli dei Mephisto e Baal. Questi fanno parte dei Sette della Stirpe divina (che comprende anche Haziel, Mystra, Talja, Arel, Kali) provenienti dal pianeta Venere e giunti sulla Terra e tra gli uomini grazie al tetraedro a stella, una sorta di astronave. Sono alti tre metri e sono stati protagonisti di azioni lodevoli ma anche malvagie. In loro bene e male convivono inestricabilmente. Per esercitare le loro influenze sugli esseri viventi fondano sette, come quella dei Figli di Baal, tramite dei loro sacerdoti o guide spirituali.

Baal, divinità di origini antichissime, secondo la mitologia sumera, era invocata per propiziare i raccolti e la semina, nonché per ingraziarsi il suo favore durante le battaglie di conquista. Dal conflitto con Mephisto (prima guerra fra dei) esce diviso in tre parti che si reincarnano in due gemelli, Jason e Sean, e una ragazza, Victoria, destinate a non incontrarsi mai perché sospese in dimensioni diverse. Infatti Sean lo troviamo a inizio romanzo immerso nella più malfamata New York City fine anni 80, fra i grattaceli e lo sbrilluccichio delle mille luci di locali saturi di cocaina. La giovane coraggiosa e determinata sedicenne Victoria è invece alle prese con un matrimonio combinato dai suoi che non s'ha da fare in un luogo e in un tempo imprecisati. Jason infine è scaraventato dalla dimora dorata del Sommo Sacerdote di Aurigard agli Inferi.

Questa è solo la premessa che si ricostruisce grazie anche alle schede in appendice di una serie di vicende di amore e odio, avidità di potere e generosità, che compongono solo la prima puntata di una trilogia fantasy destinata ad appassionare soprattutto un pubblico di young adult alle prese con il loro processo di maturazione fisica e affettiva; proprio come l’eroina del libro dotata di una forza che a stento lei stessa conosceva e che ha difficoltà a dominare. Vicende che vedranno Sean, dapprima abile piedipiatti alle prese con un pluriomicida che dissangua le sue vittime, indagare tra bassifondi e sette sataniche e poi diventare leader di una band di musica rock di grande successo, , i Baalym, e Victoria fuggire dalla nativa città celtica per andare incontro al suo destino di maga guerriera.

Molti altri personaggi, elfi, mezz’elfi, maghi e creature senza redenzione come arpie affollano questo romanzo a ritmo di musica rock in cui le matrici plurime che sottostanno al corpo testuale vengono fuse dall’autrice in modo originale senza scimmiottare gli anglossassoni là dove l’inaudito confina con il possibile.

(Francesca Costantino, I Figli di Baal. Una guida rossa, Armando Curcio Editore, 2012, pp. 512, euro 16,90)