“La marcatura della regina” di Giovanni Di Giamberardino

«Le api vivono la loro vita senza chiedere nient’altro che quell’unica cella indistinguibile, dove sono nate, dove moriranno e dove saranno sostituite. L’ape vola senza essere libera. Per tutta la vita fino alla fine del mondo.»

Con sguardo da entomologo, Giovanni Di Giamberardino scruta le esistenze dai contorni sfumati dei personaggi, marcati stretti dalla solitudine e dalla morte, del suo romanzo d’esordio, già finalista al premio Calvino 2009 con il titolo che allora era ancora più bucolico (nel senso di virgiliano) di Aristeo e le sue api.

Ora le Edizioni Socrates lo ripropongono, come seconda uscita nella collana di narrativa breve Luminol, con il titolo, all’apparenza più ambiguo per chi non è apicoltore professionista, de La marcatura della regina, riferendosi a quella tecnica utilizzata dagli allevatori di api per distinguere dalle altre l’ape regina, marcandola con una goccia di colore indelebile e vivace, preferibilmente appena dopo essere stata fecondata all’inizio della primavera o dell’autunno.

Ma il romanzo del giovane scrittore romano non ha niente a che fare con gli ameni paesaggi e la semplice vita rurale di virgiliana memoria. Si tratta infatti di un noir italiano, anzi di ambientazione romana che dalle api riprende il principio costruttivo ad alveare, racchiudendo in ventiquattro celle, quante sono le ore di una giornata, i pensieri, le visioni e le ansie di personaggi di varia natura, dalla zanzara alla prostituta, dall’eroinomane al tassista separato con prole, da un medico legale a una cameriera, da un barbone alcolizzato a un nero bengalese, da un giardiniere a un commissario di polizia di cui non si sa quanto fidarsi. Nessuno è protagonista anche se tutti avrebbero le caratteristiche per divenirlo della propria storia tanto che i ventiquattro capitoli potrebbero benissimo essere considerati ventiquattro racconti.

C’è però un filo rosso come il sangue che li unisce tutti senza che questi si incontrino o meno: in qualche modo sono tutti testimoni diretti o indiretti dell’occultamento del cadavere di una donna assassinata, sembra sgozzata, e poi gettata in un cassonetto di via Nomentana a Roma, davanti all’ambasciata afghana. Sembrerebbe profilarsi addirittura un caso diplomatico ma in realtà il luogo del ritrovamento c’entra ben poco. La vicenda attira l’attenzione dei media anche per via di un video che gira su YouTube che lascia intravedere l’attimo in cui un uomo dal cappotto verde getta qualcosa di molto pesante somigliante a una persona nel secchione.

La marcatura della regina è però un noir sui generis perché le indagini rimangono a fare da sfondo alle vicende di esistenze ordinarie, di vite indistinguibile e interscambiabili proprio come le laboriose api che si aggirano in un’arnia-mondo, brutto, sporco e cattivo, artificiale e assetato del dolore altrui spettacolarizzato (Vespa docet) e razzista (primo indiziato è un extracomunitario).

In questo romanzo che la giuria del premio Calvino ha definito «una odierna sociologia della solitudine», la maestria del suo autore sta nel rendere, con frasi brevi e uno stile lucido e rapido nel passare da un registro all’altro, le inquietudini e le ansie, la solitudine e la sofferenza dei vari personaggi.

Il lettore passa da una vicenda all’altra in un vortice centripeto che porta verso quel corpo nudo gettato tra i rifiuti procedendo in una vera e propria peregrinatio mortis perché gli eventi, alla fine, come in ogni giallo che si rispetti, prenderanno una piega inattesa. Al termine della storia il dolce miele delle api si scioglierà nell’amara constatazione dell’inafferrabile ubiquità del dolore nell’esistenza umana.


(Giovanni Di Giamberardino, La marcatura della regina, Edizioni Socrates 2012, pp. 194, euro 9)

“Lonerism” dei Tame Impala

Una one man band australiana con il nome ispirato all’antilope africana, secondo voi, che tipo di musica può fare? Pop commerciale, classico rock, cantautorato, metal pesante? No, niente di tutto ciò. Fortunatamente.

I Tame Impala fanno dell’originalità e dello stile unico il marchio di fabbrica: un indie-psichedelico avvolgente e ipnotico, figlio del groove degli anni ’60, salito alla ribalta due anni fa grazie al fortunato esordio Innerspeaker.

Con il seguito, Lonerism, Kevin Parker – mente e anima del progetto – conferma le buone premesse, senza spostarsi troppo dai lidi del primo disco. Sicuramente è più accentuata la parte elettronica, finalizzata a rendere il suono più corposo e definito. Per il resto, la batteria  implacabile di Jay Watson tiene sempre il controllo della situazione. Poi le chitarre, sintetizzate e distorte, spesso tendenti al prog, accompagnano i fulminanti ritornelli.

Due i modelli lampanti nel secondo disco: i Beatles lennoniani di “I Am the Walrus” e i Flaming Lips più allucinati, con cui il gruppo ha recentemente duettato nella visionaria “Children of the Moon”, contenuta nell’ultimo lavoro dei padri americani Flaming Lips and Heady Fwends.

Ascoltando le tracce, colpisce di più il Lato B: “Why Won’t They Talk to Me?” è molto probabilmente la traccia simbolo dell’album, con l’introduzione elettronica e il nebuloso cantato, prima che la ritmica e i suoni portino al pieno coinvolgimento dell’ascoltatore. Altrettanto bella e particolare è la seguente “Feels Like We Only Go Backwars”, molto suggestiva e vagamente Beach Boys. Altro pezzo forte della seconda metà del lavoro è “Elephant”, martellante e irrefrenabile, già vittima di remix da parte dei numerosi estimatori. E mentre il piano di “Sun’s Coming up (Lambingtons)” avvia Lonerism alla conclusione, non possiamo che consigliare l’ascolto di questo disco, ideale per chi vuole scappare dal mainstream musicale globale e rifugiarsi nel paradiso musicale onirico e fantastico proveniente da Perth, Australia, già crogiolo di una scena artistica che si spera presto farà parlare di sè. In positivo, ovviamente. 
 

“Assassini” di Philippe Djian

Il fiume di Sainte-Bob fluisce, corposo, attraverso la cittadina francese di Héno­ch­ville; sembra di vederlo: si ingrossa poi si assottiglia, sempre un po’ irregolare e border line. Fluisce come il senso di colpa che rende inquiete le dita, mentre sfogliano le pagine riempite da Philippe Djian. Quel rumore materico, che si dice vezzeggiare gli orecchi del lettore, in questo caso raggiunge prima dell’udito, quella zona d’ombra, che sta in una qualche plaga del dentro, quel lago – lago d’ombra – sorpreso da un alito, tremulo. Assassini, suona il titolo e suona l’accusa. Assassini. E il senso di colpa striscia nello stomaco. Chi sono gli assassini?

Quello che la casa editrice romana Voland consegna nelle mani del lettore è un noir dissimulato, che non allestisce una vetrina di bocche sanguinolente, occhi pendenti, youknowI’mnogood e coltelli, contravvenendo ad alcuni cliché del genere. In effetti non facilmente si collocherebbe Assassini in un genere preconfezionato: sfugge alle classificazioni tanto comode per chi vuole succhiare dal libro una storia emozionante, ore snocciolate con piacimento e possibilmente un lieto fine in questa valle di lacrime. Assassini è un noir rovesciato, convesso, che sfonda la parete della fiction ed entra a gamba tesa nella dimensione del lettore. Una metà d’uovo sulla copertina. Assassini: chi sono gli assassini?

Il libro, tradotto da Daniele Petruccioli, è il primo di una trilogia inedita in Italia, composta da Criminels e Sainte-Bob: Assassini ha come protagonisti gli abitanti che sono sulla riva sinistra del fiume; Criminels quelli della riva destra; ma solo in Sainte-Bob si scopre che il narratore è uno scrittore e si sciolgono molti quesiti sospesi. A proposito di questa trilogia, Djian ha dichiarato su la Repubblica: «Dopo così tanti anni posso dirlo, forse c’è la pre­scri­zione. Con­fesso: all’ini­zio non avevo in mente nes­suna serie. Antoine Gal­li­mard, dopo aver letto Assas­sini, aveva com­men­tato che era un romanzo troppo breve, quasi incom­piuto. Rimasi sor­preso e, improv­vi­sando, risposi che in realtà si trat­tava di una tri­lo­gia. Ma fino a quel momento non ci avevo asso­lu­ta­mente pensato».

Al di là del plot, che racconta una vicenda che potrebbe accadere ovunque, il lavoro sullo stile assume una grande rilevanza. Certamente nella lingua originale questo studio si coglie e assapora meglio, ma anche nella traduzione di Petruccioli l’opera conserva la sua tridimensionalità e non si appiattisce sulla storia. Nei molti dialoghi Djian riesce a dare il meglio di sé, rendendo riconoscibile la voce di ciascun personaggio, come fosse reale. Allora li senti Patrick, narratore in prima persona, il suo migliore amico Marc, Thomas e Jackie, l’ispettore Victor Brasset, li vedi. Vedi la Camex-Largaud, la fabbrica mostruosa in mezzo al verde montano di Héno­ch­ville, con i suoi fumi e i rifiuti tossici, riversati nel fiume di Sainte-Bob. Il livello di inquinamento è talmente alto che i pesci muoiono e le persone si intossicano: «Riguardo ai pesci morti, certo, lo ritenevo un assassino. Ma non meno di me o Thomas, non meno di un qualsiasi impiegato della Camex-Largaud, non meno del più piccolo negoziante della città. Tutto qui. Eravamo invischiati in questa situazione da talmente tanto tempo che preferivamo non pensarci». Il Ministero dell’Ambiente manda un ispettore, Brasset, che si ritroverà sequestrato e chiuso in una baita, ad opera di Patrick e di Marc, entrambi operai della fabbrica. La Camex-Largaud, fonte di reddito per tutto il paese, era troppo importante per essere chiusa. Nella baita si ritrovano anche Thomas, Jackie e l’insegnante di inglese, coinquilina di Patrick, mentre fuori imperversa un violento diluvio e il fiume inquinato si gonfia, diventando sempre più minaccioso. Con le finestre serrate pensano di essere al riparo: ma è all’interno della baita che si consuma l’apocalisse. In mezzo a candele, manicaretti e bevande raffinate, i personaggi iniziano a scaricarsi addosso a vicenda la propria insoddisfazione, ciascuno tenta di colpire l’altro nel suo punto debole: mariti e mogli, amanti, amici, tutti vi prendono parte. Emergono le frustrazioni, le recriminazioni, i desideri mancati.

Assassini, chi sono gli assassini? La risposta, con questi elementi, potrebbe sembrare tra le più banali. Ma poi si legge: «Mi sono sempre chiesto se la vita offra davvero una possibilità. Vorrei proprio sapere se sono stato io incapace di coglierla o se non si è presentata affatto». Ci si accorge che c’è qualcos’altro. E senti il senso di colpa che striscia nello stomaco, fluisce come il fiume di Sainte-Bob, le dita che sfogliano, inquiete, il rumore materico.

«Un assas­sino è chi uccide una vita che avrebbe voluto vivere», ha detto Djian a la Repubblica. «Mel­ville diceva: “Resta fedele ai sogni della tua gio­vi­nezza”. Pur­troppo capita molto rara­mente. Siamo tutti degli assas­sini. Ucci­diamo len­ta­mente la per­sona che non riu­sciamo a essere».

Assassini, chi sono gli assassini? La risposta l’ha data Djian. Forse.

 

(Philippe Djian, Assassini, Voland, traduzione di Daniele Petruccioli, 2012, pp. 106, euro 14)

Il destino di Edipo nei “Dialoghi con Leucò”

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». È il 27 agosto del 1950. Cesare Pavese annota il suo ultimo messaggio su una copia dei Dialoghi con Leucò. Lo scrittore ha deciso di interrompere, vivendolo, quel «vizio assurdo» che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Come racconta l’amico e biografo Davide Lajolo, il suicidio ha sempre attratto Pavese trasformandosi ben presto nel dolore di uno spasmo dovuto all’incapacità di abbandonarvisi completamente. Nonostante l’unica premura dello scrittore fosse una richiesta di riserbo, il suicidio divenne la lente d’ingrandimento con cui osservare l’immagine dell’uomo, deformandola e oscurando quel continuo tentennare tra fedeltà e tradimento. S’indagò nella sua vita privata, nei timori di un’inadeguatezza sessuale, tra le piaghe di sentimenti tormentati. Delusioni d’amore, una crisi identitaria o forse un atto di forza, una protesta, estrema, contro un’impotenza culturale? Sull’Avanti! Fortini scriveva: «Cesare Pavese è il primo caduto della terza guerra mondiale», un conflitto silente combattuto nella spietata e tragica insicurezza del «disagio della civiltà». Che sia un caso o meno, lo scrittore decise di affidare quelle poche righe del suo congedo a un’opera accolta con freddezza dal pubblico e con perplessità dalla critica, ma che ha in sé i cardini della sua poetica del mito snodata attorno ai concetti di «selvaggio» e di «destino».
Nel dicembre del 1945, in quell’officina d’idee che animavano la casa editrice Einaudi, Pavese inizia a scrivere dei dialoghi ispirati alla mitologia greca. Lontana da un percorso dotto e filologico, nonostante la solida impalcatura culturale, l’opera interpreta il mito come incarnazione di sentimenti, paure, affanni che da sempre animano la natura umana. Con chiari riferimenti a Vico e Kerényi, la poetica del mito si risolve in un esercizio esplorativo verso il mondo delle origini, «primitivo e selvaggio» che, tradotto sul piano culturale, corrisponde ai concetti di rito e di simbolo. Un mito, quello di Pavese, che è allo stesso tempo «necessario e impossibile». La vita infatti implica sempre un investimento di senso e di superstizione in cui la conoscenza scaturisce da una primordiale emozione poetica, mitica. Secondo Pavese è nell’infanzia che si conosce «per la prima volta». La sospensione temporale fa sì che il bambino, senza saperlo, produca le immagini simboliche che tesseranno la trama del proprio mito. In seguito, la conoscenza si trasforma in un riscoprire, richiamare alla memoria, chiarire quanto si è appreso. Tuttavia, il passaggio all’età adulta, afferrando il significato, lo distrugge. Tale contraddizione emerge nei dialoghi, dove il discorso è rilanciato nella sfera dei contenuti esemplari che mostrano l’aporia fondamentale tra la violenza fine a sé stessa e lo sforzo di liberarsene attraverso la legge, il logos. «Potendo si sarebbe fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo», scrive Pavese nell’introduzione. Il tentativo è quello della ricerca, o ancor meglio della riscoperta, di quel sostrato culturale comune, irrinunciabile e costitutivo che è il mito.
Il dialogo si presta a essere l’ideale punto di partenza da cui smagliare una trama che non sempre interpreta i termini maieutici e, in un certo senso, dicotomici tipici di questa forma letteraria e filosofica. Detto altrimenti, nei dialoghi di Pavese, non sempre è chiaro chi sia portatore di verità e chi viva nell’errore, così attraverso l’incontro di due personaggi si sviluppano i temi che richiamano l’intrinseca essenza di ogni individuo, in cui l’angoscia e la disperazione che si nascondono tra le idee ne drammatizzano lo scambio.
In La strada, il centro della riflessione è costituito dal concetto di destino, un filo conduttore di tracce nascoste, agente sotterraneo che rende inconsapevole la natura degli avvenimenti, trasformando ogni singolo personaggio in un semplice esecutore. Quando il fato si mostra nella sua potenza incontenibile, la tragicità dell’esistenza si manifesta nella propria insensatezza. Il dialogo è concepito come una sorta di coda del mito stesso che Pavese includeva, nei suoi appunti, sotto la voce di «tragedia di uomini, assoggettati al destino ineluttabile». Un Edipo anziano e cieco vagabonda tra le strade e incontra un mendicante.
Per il figlio di Laio, il peso non sta nella sua vicenda, ma nell’impossibilità di sfuggire a ciò che è già stato deciso prima della nascita stessa. «Vorrei essere l’uomo più sozzo e vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro. Che cos’è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto…? E la mia febbre è il mio destino – il timore, l’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa. Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede d’inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia». 
Nel cortocircuito, la percezione di una profonda insensatezza si lega all’impossibilità di compiere liberamente una scelta. In questo movimento circolare l’inizio tende a coincidere con la fine, dimostrando come la salvezza sia possibile solo per colui che tornando nei luoghi dell’infanzia non ne subisce la fascinazione. «Tutti abbiamo una montagna dell’infanzia. E per quanto che ci si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo». Edipo è quindi la storia di un ritorno verso casa. Per dirla in termini freudiani, «la situazione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo», e che nel mito è raggiunta attraverso la via più breve, ricadendo nella propria origine, nel grembo materno, evitando l’abbandono all’autoaffermazione, la fatica che richiede la maturazione dell’individualità.
C’è un’analogia profonda tra la struttura del racconto (di ogni racconto) e la struttura archetipica del mito di realizzazione di sé che è dentro ciascun essere umano: il mito della crescita e della realizzazione della persona, del viaggio della vita, della trasformazione e dello sviluppo attraverso situazioni di passaggio e di morte-rinascita. Tuttavia, nell’Edipo pavesiano neppure la saggezza acquisita, l’aver compreso la natura ineluttabile del destino, porta a una qualche forma di conciliazione, anzi, Edipo è attanagliato, si potrebbe dire ossessionato, dall’insensatezza della vita; a tale consapevolezza non si arrende, non si dà pace e alimenta il conflitto. Nella lotta tra il mondo titanico (caos) e il mondo degli dei (la norma) si inserisce un nucleo primigenio di violenza e sesso che è insieme presa di coscienza di un limite ed esperienza della morte. Per quanto il rapporto tra il «mestiere di scrivere» e il mito sia allusivo e a tratti imperscrutabile, Pavese ne modella le determinazioni attraverso un linguaggio simbolico in cui il «rintocco del destino» sulla pagina risuona come condanna e insieme salvezza dell’uomo.  

“I figli di Hansen” di Ognjen Spahić

Un piccolo universo concentrazionario chiuso in un recinto più grande. Detto in una formula semplice potrebbe essere questo, a un primo sguardo, il resoconto de I figli di Hansen, romanzo dello scrittore montenegrino Ognjen Spahic, tradotto dalla benemerita Zandonai di Rovereto, cui dobbiamo la conoscenza di un drappello di autori poco noti al distratto pubblico dei lettori italiani (un raccontino di Spahic ispirato a Raymond Carver era apparso un paio di anni fa sulla rivista Crocevia, numero 13-14 dedicato al Montenegro).
La prigione è in realtà un lebbrosario – l’ultimo di cui si abbia contezza in Europa, mentre nell’introduzione Claudio Magris afferma che parrebbero esisterne nel mondo ancora 700. Lo spazio che lo circonda è nientemeno che uno stato totalitario, quella della Romania di fine regime, anno 1989. Nell’imminenza dell’agonia di una tirannide dai tratti raramente così grigi, la «terra sterile» che cinge il disgraziato ospedale non sembra molto più allegra. Eppure, nonostante Ceausescu – la cui agonia è imminente – chi sta fuori, al confronto, non può che rallegrarsene.

«Nell’immaginario collettivo la lebbra era collegata principalmente a due cose: in primo luogo alle scene del Ben-Hur di Wyler – una colonia di lebbrosi che si aggira per il pianeta come castigo di Dio, condannata all’odio e alla morte dolorosa in caverne isolate, lontano dalle città; in secondo luogo, la paura del mostro biologico, l’intruso del ventesimo secolo, manifestatosi in questi tempi per un fatale errore della natura oppure per giustizia divina». Così scrive il narratore, parte della esigua schiera del lebbrosario,undici uomini e una sola donna, considerati dagli «ottusi contadini rumeni» alla stregua di «derelitti marchiati del genere umano». Fin qui, a parte l’anacronismo del lebbrosario, saremmo in un curioso documentario. Ma se qualche piccolo passaggio didascalico non manca, ciò che rende interessante il romanzo del quarantenne montenegrino – (musulmano liberal-democratico, ci avverte Magris) – è la vita che pure vi si agita. Escrescenze e protuberanze non impediscono ai derelitti di cercare con le forze residue di strappare quel che possono: persino i piaceri della carne. Ben dice lo sgomento del narratore lo spettacolo di due compagni di sventura avvinti in una pazzesca intimità sopra materassi imbottiti di lana grezza: al primo, un ammasso di gobbe, manca il naso e un piede, all’altro sono saltate tutte «le giunture degli arti» per cui il suo movimento  sembra quello di «una bambola sovradimensionata nell’oscurità delle confusioni infantili». Ma, come sempre, il contesto cambia di segno un passaggio che facilmente si presterebbe alla lettura compiaciuta di uno scenario freak (nel senso di Tod Browning o del grande Leslie Fiedler). Al divieto (!) di provare emozioni, i lebbrosi rispondono con tutta la gamma di sentimenti all’opera. Il narratore riceve splendidi regali di compleanno (il più prezioso: l’album bianco dei Beatles), da un amico carissimo che ha contratto la lebbra fra le prostitute di Amsterdam. La storia della loro amicizia muove il romanzo e gli dà un’energia insospettabile. Spinge la vita morente verso il fuori, letteralmente, a caccia del sole, del mondo verso cui si tenta di fuggire. Non mitiga minimamente la durezza della loro condizione ma esprime fra l’evidenza dell’orrore, dei corpi marcescenti il bisogno di richiamare attraverso l’immaginazione un qualsiasi barlume di «incanto» – impossibile, ma essenziale, decisivo per tentare la vita anche quando nessuno più oserebbe nemmeno nominarla. Dall’Europa orientale hanno qualcosa da dirci, ma le major non lo sanno.

(Ognjen Spahić, I figli di Hansen, trad. di Ljiljana Avirović, Zandonai, 2012, pp 167, 13,50 euro)

“NEON. La materia luminosa dell’arte” al MACRO

Fino all’11 novembre, nella ricorrenza del centesimo anno dell’invenzione di Georges Claude, il MACRO di via Nizza ospita la mostra Neon. La materia luminosa dell’arte.  L’esposizione, ideata da David Rosenberg in cooperazione con la Maison Rouge di Parigi, nella sua edizione romana coinvolge in qualità di curatore Bartolomeo Pietromarchi, direttore della struttura, assieme allo stesso Rosenberg. Enel, che festeggia il cinquantesimo anniversario della fondazione, è partner del museo ed è infatti nella sala intitolata all’azienda che si svolge la maggior parte del percorso espositivo. Le opere in mostra sono settanta, per cinquanta artisti internazionali tra cui Bruce Nauman e Jason Rhoades. Molte di queste sono firmate da italiani – tra cui Maurizio Nannucci, Massimo Bartolini e Maurizio Cattelan – a testimonianza del grande fascino esercitato da questo materiale anche sui nostri connazionali, che hanno contribuito in maniera importante e specifica alla sua fortuna.
Nonostante il tempo e lo spazio che separano le opere, le prime prodotte negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, queste vengono collegate l’una con l’altra all’interno di movimenti concettuali tra i quali lo spettatore viene condotto alla scoperta della materia luminosa/artistica. Già dall’ingresso le parole luccicanti si comportano come lo stregatto di Carroll, inviando brevi e confortevoli messaggi allo spettatore.
 

Pietro Golia, Welcome, 1974
 

Nella grande sala si fruisce in prima battuta dell’interpretazione artistica dell’insegna (Andrea Nacciarriti, R.I.P., 2009) e si interagisce con la grande opera di Rhoades che fa pensare a La madre de le sante del Belli.
 

Jason Rhoades, Untitled, 2004
 

Proseguendo le opere si fanno più complesse e la luce viene incanalata lungo percorsi geometrici che si rivelano in grado di emozionare (Piotr Kowalski, Pour qui?, 1967). Aiutandosi con gli specchi gli artisti rimandano all’infinito il messaggio veicolato dall’opera invitando lo spettatore a cedere le proprie riserve e lasciarsi ingannare (Paolo Scirpa, Ludoscopio, 1977). Il significante acquista importanza pari al significato quando l’istallazione riporta piccoli messaggi scritti (Massimo Bartolini, Anche oggi niente, 2006) e più sottili si fanno le tracce, più grafico si fa il segno, maggiormente l’occhio coglie la poesia laddove la poesia manca (Maurizio Nannucci, The missing poem is the poem, 1939) fino ad arrivare ad istallazioni che ingannano l’occhio e replicano con la sola luce la sensazione di pieni e vuoti architettonici.

 

Maurizio Nannucci, The missing poem is the poem, 1939
 

La sensazione è che la sorprendente architettura di Odile Decq entri in risonanza con il materiale in mostra che viene sapientemente distribuito nello spazio con il gusto di tendere un agguato allo spettatore. Fuori dalla grande sala, infatti, le istallazioni aspettano di essere trovate e lo spettatore, mai pago, percorre i corridoi sospesi con entusiasmo per scoprire punti luminosi nei tavolini sulla terrazza che sovrasta l’auditorium del museo, pittogrammi del nuovo millennio in attesa di speleologi da ascensore e interrogativi particolarmente calzanti – Bik Van der Pol, Are you really sure that a floor can’t also be a ceiling?, 2010 –  sotto l’uragano Andrea di Bros, psichedelica sovrapposizione di pellicole trasparenti che fanno sognare, apocalittiche quasi quanto la video arte di Delphine Reist. Della pioggia di meteoriti di neon ci si accorge solo alla fine. Il ritmo dei crolli è udibile quasi da ogni punto del museo, ma solo quando restano poche luci si percepisce la suspense del countdown e, quando anche l’ultima luce si spegne, è il momento di tornare a casa.

 

NEON. La materia luminosa dell’arte
Dal 21 giugno all’11 novembre 2012 presso il MACRO, Museo d’Arte Contemporanea Roma.

 

Per maggiori informazioni:
http://www.museomacro.org/it/neon-la-materia-luminosa-dell’arte

“Io e te” di Bernardo Bertolucci

Bernardo Bertolucci torna al suo mestiere e a parlare di giovani, di quel tumulto emotivo che vivono un corpo e un animo in crescita, unico ed eccezionale nella sua singolarità.
Sono passati dieci anni da The Dreamers, dieci anni di Storia e una difficile malattia che hanno portato il regista emiliano a raccontare le sue storie da una sedie a rotelle e a vivere quei disagi e quelle paure che tanto lo avvicinano con i suoi protagonisti.
Lorenzo e Olivia, i due protagonisti di Io e te, sono due fratellastri accomunati dal violento bisogno di solitudine e da un legame paterno totalmente assente che si concretizza in una inevitabile mancanza di figure di riferimento e di equilibrio. I due si trovano a condividere lo spazio buio e claustrofobico di una vecchia cantina in cui entrambi combattono le proprie lotte: Lorenzo si nasconde per dare libero sfogo agli innocenti vizi di un ragazzino vittima delle pressioni materne e che non riesce a integrarsi con i suoi coetanei; Olivia si trova a lottare contro la tossicodipendenza e l’apatia emotiva che questa porta con sé. Una settimana di convivenza forzata che porta i due fratelli a ritrovarsi e a cercare nell’altro quella chimica atipica che li estranea dal resto del mondo e che forse solo un legame sanguineo può generare. In una cantina dove tutto è vecchio, i due giovani costruiscono il loro futuro e riscoprono l’essenzialità di un rapporto spontaneo di complementarietà.
Lo stile registico asciutto e se vogliamo un po’ demodé, privo di patinature e forzature, mette in risalto l’emotività dei personaggi che emergono al punto da farsi universali: la storia che seguiamo sullo schermo non è più quella di Lorenzo e Olivia, ma quella di due anime, di due caratteri in fase di rivoluzione, rilegati in una cantina senza luogo e senza tempo. La vera location del film diventano i due corpi che ospitano il racconto dell’evoluzione e della scoperta del proprio essere e dell’amore per sé,  strettamente legata all’amore verso l’altro. L’ingenuità del Super Io di Lorenzo che lo illude di essere autosufficiente, diventa la medicina per il male fisico ed emotivo della dipendenza di Olivia. Il quattordicenne ancora  ignaro e fino a quel momento protetto dalla malvagità della vita, è costretto a un brusco risveglio e all’obbligo di vivere quella crescita che lo porterà ad attraversare la soglia dell’età adulta. Olivia al contrario, offuscata da un egocentrico senso di vittimismo e di odio per la vita, si lascerà contagiare dall’innocenza del fratello e riscoprirà il gusto di vivere serenamente le proprie debolezze.
Bertolucci, forzato dalla sua malattia a guardare la vita da un’angolazione diversa, predilige uno sguardo che viene dal basso, privo di giudizi o di forzature, volto a far emergere con naturalezza la vera natura del personaggio.
Il film, anche se tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti, assume uno sguardo proprio e unico, un’opera altra, con una vita propria che si palesa nel finale positivo e diverso rispetto a quello del libro.
La colonna sonora accompagna in ogni singola nota e parola la crescita dei personaggi e lo sviluppo del loro rapporto, diventando un narratore esterno tutt’altro che invasivo, ma perfettamente integrato con il visivo.
La scelta di affidare il ruolo di protagonisti a due attori sconosciuti, alla loro prima esperienza davanti alla macchina da presa, può essere letta come una pecca narrativa allo sguardo di un occhio poco attento. In realtà anche questo aspetto va a sommarsi a tutti gli altri nella volontà di rendere il racconto universale e scollegato dalla fisicità dei corpi. Se al posto dei promettenti Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco ci fossero stati due volti già conosciuti al grande schermo, si sarebbero persi quel candore  e quella forza che i due volti nella loro unicità portano con sé. Dalla loro recitazione emerge con chiarezza la presenza di un maestro capace di guidare i propri attori e la loro abilità, senza forzature e con un naturale e spontaneo controllo direttivo.
Lorenzo e Olivia si discostano enormemente dalle figure di adolescenti che la televisione e gli altri media ci hanno insegnato a conoscere. La loro crescita è attraversata da un’inquietudine più adulta che adolescenziale, forse più cruda ma senza dubbio più autentica.
Io e te va a sommarsi all’attuale tendenza del cinema italiano di raccontare storie di giovani atipici e dei loro nuclei familiari non proprio “Mulino Bianco”, nel tentativo di far emergere alcune delle problematiche spesso sottovalutate da adulti troppo impegnati a combattere crisi economiche e sociali, piuttosto che a proiettarsi sul futuro.
Io e te è il racconto di due giovani che si trovano a crescere senza modelli, costretti a combattere le proprie battaglie senza una guida. È una critica al bisogno egoistico di sentirsi autosufficienti e indipendenti da ogni legame. È la prova che in un “noi” è racchiusa la forza che porta a rivedere la luce e a uscire dalla buia  prigione del Super Io.

(Io e te, regia di Bernardo Bertolucci, 2012, drammatico, 97’)

“Stranieri alla terra” di Filippo Tuena

La copertina di Stranieri alla terra di Filippo Tuena rappresenta il primo contatto rivelatore che stringiamo con l’autore. La ruota di una motocicletta in movimento che scorre veloce verso una meta ignota e, impresse sulla foto, le parole manoscritte del libro ci riconducono alla metafora della narrazione come viaggio e del viaggio come memoria autobiografica. Ed è proprio un autentico viaggio Stranieri alla terra, che in ogni pagina ci proietta in un luogo diverso, laddove i personaggi stessi rappresentano dei mondi da sondare.

La prima metà del libro prende vita dalle ceneri di quattro grandi uomini del passato: Ernest Hemingway; Théodore Géricault; il generale “Stonewall” Jackson e il cornettista Bix Beiderbecke. I quattro personaggi sono accomunati dal conflitto che intraprendono con il mondo che li circonda che culminerà con l’annientamento delle loro vite. L’antidoto contro l’oblio delle esistenze di questi uomini è rappresentato dalla “memoria” intesa sia come ricordo sia come ricostruzione autobiografica. È attraverso di essa che i personaggi ricostruiscono la propria vita fino al drammatico epilogo della morte.

Il libro si apre con Hemingway che, ormai avanti con l’età, perde la memoria e cerca di ricostruire le trame della sua esistenza attraverso un dialogo con una donna misteriosa. La corrida, che da sempre lo aveva ossessionato, diventerà la funesta prefigurazione della sua fine: egli si immedesima nel toro, che giunto allo stremo delle forze, continuamente vessato dal torero, decide di incontrare la spada di sua spontanea volontà. Il colpo finale rappresenta una gloriosa via di fuga, una suerte suprema.

Il generale Jackson, accidentalmente colpito dal fuoco amico durante un’azzardata operazione di guerra nel 1863, si trova a lottare tra la vita e la morte. Nella fede in Dio se ne va però serenamente: raggiunto all’ospedale dalla famiglia, spira mormorando parole che rievocano la sua gioventù. Sarà la moglie a tentare di ricostruirne le gesta dando alle stampe, in seguito, un libro di memorie. La storia del generale viene ricostruita tramite il racconto di un soldato che probabilmente fu tra quelli che spararono contro le proprie truppe in ritirata credendole nemiche. Egli viene contattato dalla vedova Jackson perché testimoni assieme ad altri sugli avvenimenti di quella fatidica notte. Chiamato a Lexington, città natale del generale, il soldato entra in contatto con il paese, i luoghi e le persone che Jackson aveva conosciuto da giovane. Nei pressi della stazione un piccolo fiume, il Maury River, e un boschetto ricondurranno il soldato ai giorni drammatici della guerra: le ultime parole di Jackson erano state proprio: «Di là dal fiume e tra gli alberi».

La storia del musicista alcolizzato Bix Baiderbecke, invece, può essere letta in parallelo con quella del pittore Théodore Géricault. Bix e Géricault sono tormentati dal loro stesso Genio: il tormento a cui sono sottoposti in vita li porterà a consumare in fretta i loro giorni. Entrambi entrano in un conflitto con la realtà che li circonda, rimanendone schiacciati. Ossessionati dalla morte, per acquisire una macabra familiarità con essa si recheranno alla morgue, uno in quella di Parigi e l’altro in quella di New York, come in un viaggio nell’oltretomba prima del tempo.

Le immagini e le foto che incontriamo nel libro ci rimandano costantemente al centro della scena narrata e ce ne restituiscono le forme, i personaggi e le ambientazioni. Nella parte dedicata a Bix Baiderbecke la musica la fa da padrona: la storia di Bix ci farà rivivere le cupe atmosfere jazz newyorkesi degli anni del proibizionismo, quando l’alcool era bandito dalla legge e proprio per questo in giro se ne trovava molto di più. Si tratta di uno sfondo musicale che nel complesso rende questo libro un potente strumento audiovisivo.

La seconda parte del libro si apre con le memorie dell’autore: la sua moto lo porterà a ripercorrere i ricordi e i luoghi del suo passato. Ripercorrere le tappe della memoria è per lo scrittore un po’ come ripercorrere le tappe di un viaggio: egli sentirà improvvisamente l’esigenza di lasciare la sua Milano e mettersi a cavallo della motocicletta per raggiungere Roma, spinto da un insopprimibile bisogno di partire. Proprio nella Città Eterna il protagonista sente di dover rivedere dei luoghi ben vividi nei suoi ricordi d’infanzia. Si avverte sempre più come la scrittura, l’arte e il viaggio siano tutti dominati da un’unica grande potenza misteriosa e immortale slegata dalla propria volontà.

L’ultimo viaggio descritto dal narratore è quello che egli compirà a Firenze, al cospetto delle statue di Michelangelo che si trovano a San Lorenzo. Perché è proprio Michelangelo a chiudere questa traversata? Viene da pensare a come l’artista lavorava il blocco di marmo. Partendo da una massa informe, lo scultore non faceva altro che estrarre gradualmente l’immagine racchiusa nella materia finché essa poteva dirsi liberata. Tutto sommato, allora, il lavoro dello scrittore non è dissimile da quello dello scultore: non si tratta di creare dal nulla, ma di dar vita a un’idea preesistente in sé, estraendola dall’oblio in cui è involta e conferendole una forma compiuta e intelligibile. In ultima analisi, saranno proprio i ricordi dell’autore a riportare alla luce gli spazi della memoria rimasti assopiti, poiché essi non aspettano altro che rivivere nelle pagine di un libro affinché non vengano più dimenticati.

Se il narratore è un viaggiatore, il lettore è il suo compagno di viaggio. Il loro sodalizio durerà per tutte le pagine del libro e in moltissime occasioni il lettore avrà il piacere di sostituirsi, come in un sogno, al narratore o al personaggio che questi ha creato. Ogni libro, in realtà, rappresenta un viaggio che il lettore compie lasciandosi guidare da chi ha deciso di impugnare il timone o la penna. Dunque aveva ragione Proust nel dire che il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi. Saremo dei veri viaggiatori solo quando impareremo a guardare anche con gli occhi degli altri.


(Filippo Tuena, Stranieri alla terra, Nutrimenti, 2012, pp. 352, euro 18,50)

[BioSong] “Amico fragile” di Fabrizio De André

Ci sarebbe piaciuto pensare a Faber come a un poeta maledetto, un artista oscuro e malinconico alla Kurt Cobain, uno che prende in mano la chitarra solo quando sa di non essere completamente cosciente. Invece no. Lui era uno serio, uno all’antica.
Al di là della socievolezza del carattere e della sua infinita curiosità per il mondo e per gli altri, De André quando componeva era metodico e pignolo. Nel momento di scrivere un testo, si sedeva a tavolino e convocava a sé tutte le conoscenze accumulate in anni di studio e meticolose letture che in poche ore prendevano corpo in tre, quattro strofe destinate immancabilmente a passare alla storia. Le sue canzoni venivano innanzitutto dalla testa.
Una delle poche eccezioni la fa “Amico fragile” che è con grande probabilità la canzone più intima, spassionata e per questo significativa che il nostro ci abbia regalato. Stando ai suoi stessi ricordi, una sera d’estate del ’74 il cantautore si trova con la moglie Puny ospite in un salotto borghese della costa sarda. Quando cerca di intavolare una conversazione riguardo ciò che stava accadendo in quel periodo in Italia (qualcosa circa delle affermazioni di Paolo VI sull’esorcismo e l’esistenza del diavolo), i padroni di casa lo ignorano chiedendogli invece con insistenza di cantare per loro. Di fronte a tanta ipocrita superficialità, De André decide che è troppo: si prende «una sbronza terrificante» (cit.), se ne va sbattendo la porta e si rintana nel garage di casa. Il mattino dopo Puny lo ritroverà lì, intento a finire di scrivere “Amico fragile”.
I veloci arpeggi che pizzicano la chitarra ci accolgono nell’atmosfera onirica della nuvola rossa in cui Faber è evaporato, ci guidano sul filo dei pensieri in apparenza sconnessi con cui si esprime un Io finalmente libero da ogni vincolo sociale e culturale. Eppure il cuore della canzone si lascia intuire, afferrare, ed è non solo chiaro, ma coerente con tutta la filosofia deandreiana. Sulla scia del mito e mentore, l’artista francese George Brassens, i testi dell’autore genovese lasciano spesso trapelare l’ideale anarchico, oltre al senso della lotta contro l’ipocrisia e le convenzioni sociali, espressi qui anche con toni di un’ironia quasi crudele.
I meccanismi impiegati per tradurre in canzone questa ideologia ribelle erano sempre stati sofisticati, in senso letterario. Evitando accuratamente di esprimersi in prima persona, i pensieri erano stati di volta in volta, di album in album, messi in bocca a uno dei tanti personaggi della vasta commedia umana di cui si compone la sua poetica, da quelli biblici di  La buona novella ai morti della collina di Spoon River, in Non al denaro, non all’amore né al cielo. Anche le traduzioni dallo stesso Brassens o da Leonard Cohen hanno la stessa funzione di cantare con parole di altri temi condivisi. Ma qui per la prima volta i fumi dell’alcol lasciano che Faber si esponga con una sincerità nuova e unica.
De André è un borghese in rivolta, che fa del sovvertimento dei canoni il fulcro della propria vita e della propria poetica. Contro ogni pensiero del sistema, più che mai in questo testo egli decide di denunciare una classe sociale che vive fuori dal mondo, in un continuo affanno per conservarsi nei secoli, nel disinteresse per qualsiasi discussione culturalmente concreta. Il disgusto e il senso di sconfitta che ne derivano generano un testo come “Amico fragile”, dove invece la genuinità dell’amore per la musica e il sentimento di libertà che solo un artista può provare trovano un ultimo riscatto. La rivincita diventa però un sussurro interiore, il farfugliare di un ubriaco allucinato le cui parole sono molto più vere di qualsiasi discorso retorico.

(Fabrizio De André, “Amico fragile”, Volume 8, 1975, 5’29’’)

 

“La madre” di Bertold Brecht

Dov’è il padre? Dov’è il mio nome se non in quello di mio padre? Se il mio nome non è mio padre forse una rivoluzione materna potrà darmi un nome. C’è una madre denominata Vlassova che ha un nome che rimanda a un padre, Vlassov. Ma non c’è un padre. Mi arrangerò con una rivoluzione. La mia rivoluzione avrà il volto di mia madre e la speranza di un padre. E una volta che avrò un nome renderò il mio nome alla rivoluzione di mia madre. Renderò il nome e la vita. Mia madre ha il cognome di mio padre con l’aggiunta di una a e di una femminile tendenza a proteggere un figlio troppo giovane per rivoluzionarsi alle porte di una rivoluzione. Cercherò quindi il mio nome tra i compagni di lavoro. Il mio nome forse potrò trovarlo nell’operaio che proprio di fronte a me batte un martello schiumando di fatica. Se il mio nome saranno gli altri allora io sarò la loro rivoluzione. Eppure una madre non può permettere che il peso di un nome schiacci impunemente suo figlio. Che il nome di questa rivoluzione sia dunque il mio: Vlassova. Che la rivoluzione prenda il mio nome e che il suo nome marci con le sue insegne sul mio corpo. Ma se il nome che marcia è quello degli esclusi, non c’è altro che caduta per le insegne che tentano di scagliarsi contro l’omogeneità del potere. Il potere ha nomi che solo apparentemente possono essere pronunciati. Il potere è niente e di niente può nominarsi. La famiglia russa di ricchi proprietari terrieri di turno non è altro che un velo del potere. Come un velo è la vita del giovane figlio Vlassov, un velo presto squarciato dalla violenza del nome che porta. Anche la madre si accascerà presto sotto il peso di questo nome. Il nome della storia che passa per la rivoluzione russa. Imma Villa è l’interprete di questo corpo senza nome. Perché il nome della donna che ha portato il nome della rivoluzione è solo la a aggiunta al nome di un uomo assente dalla scena. Una società che ha perso i suoi padri, trucida i suoi figli e schiaccia le sue madri, vittime dell’unica lettera che le definisce. Tuttavia, madre Vlassova va oltre la donna e oltre l’uomo, per aderire all’ideale del nome della rivoluzione. Piange per le sue sofferenze, ma retta è la barra del timore delle idee. E Imma Villa muta con lei sulla scena. Il trucco sbiadisce tra le lacrime miste al sudore, ma allo stesso tempo il suo volto segue alla perfezione i rintocchi della sorte. Vlassova si stringe alla bandiera, il suo corpo macilento è ormai una sola cosa con la stoffa rossa. Il suo nome perde di importanza, la lettera che rende giustizia alla sua femminilità si perde nella tenace forza che la contraddistingue. Vlassova è una donna senza nome che è riuscita a dar nome alla rivoluzione operaia. Vlassova ha la forza del padre che il figlio Pavel non ha avuto. Dov’è il padre? Il padre è in scena. Era il nome di una società che tracannava i corpi martoriati dalle fabbriche. Era il nome della Russia. Il nome che è ora stato cancellato dal coraggio di Pelagia Vlassova.

 

 

La madre

di Bertold Brecht

regia di Carlo Cerciello

con Imma Villa, Antonio Agerola

 

In scena al Teatro Elicantropo di Napoli, dall’11 ottobre al 2 dicembre 2012.

“La notte dell’oblio” di Lia Levi

Ancora leggi razziali, delazioni, forni. Ed è giusto. È giusto che se ne scriva e che se ne legga perché noi dimentichiamo troppo facilmente. L’uomo ripone il (mis)fatto nella casella storica e va avanti. Intanto, dopo sessant’anni appena, sentiamo di movimenti xenofobi e partiti estremisti che si diffondono in Europa in maniera sempre più preoccupante.

Il nuovo libro di Lia Levi La notte dell’oblio, edizioni e/o, narra la scelta del silenzio di una madre, Elsa, che si reinventa sarta nella Roma del dopoguerra, ma che, per tutelare le figlie e il ricordo del coniuge, decide di nascondere loro la verità sull’arresto del marito Giacomo, tradito dal commesso italiano interessato al loro negozio di stoffe. Purtroppo però, la storia non concede sconti e torna intempestiva a turbare la quiete fragile di questa famiglia. Dora, la figlia minore, «colei a cui è mancato il tempo per crescere piano come fa un tronco che pensa lentamente», meno bella della sorella Milena, ma più viva e consapevole inizia a sentirsi finalmente parte del mondo quando si innamora di Fabrizio, figlio del delatore. Dora esplode e grida tutta la sua rabbia nell’impossibilità di ottenere giustizia, rompe «l’allucinata quotidianità» e il silenzio, quello che «trasmetteva una specie di dolore arido che sbarrava l’ingresso ai sogni». L’amore puro e fiducioso fra due giovani innocenti si rivela impossibile.

Una tragedia moderna, senza scampo come quelle antiche, causata dal bisogno di dimenticare il dolore e la sopraffazione totale subita da un popolo che si vergogna e dall’urgenza di una riappacificazione nazionale suggellata dall’amnistia di Togliatti per tutti i reati commessi dal ’43 alla fine della guerra. L’Italia, che ha tradito e fa capolino dalle spalle della Germania assassina, rimuove e non racconta col rischio incombente dell’oblio e intanto vittime e carnefici vivono negli stessi edifici e percorrono le stesse strade.

Un libro subito coinvolgente che scorre placidamente, ma con la tensione avvincente di un thriller. Lia Levi conferma la grande capacità di narrare, quasi con leggerezza, le verità di un periodo terribile che ha visto con i suoi occhi da bambina, che ha rielaborato da adulta e che trasmette senza pedanteria.


(Lia Levi, La notte dell’oblio, edizioni e/o, 2012, pp. 192, euro 18)

“Uscita di Emergenza”, regia di Pierpaolo Sepe

Uscita di Emergenza di Manlio Santanelli è un lavoro importante perché storicamente segna l’inizio della nuova stagione del teatro napoletano post-Eduardo. Siamo nel 1980 e, nonostante non sia ancora avvenuto il triste terremoto irpino, Santanelli ci parla della solitudine e delle angosce di due terremotati. Pierpaolo Sepe rilegge il testo e lo affida a due grandi protagonisti della scena napoletana, Rino Di Martino ed Ernesto Mahieux ma, purtroppo, la condizione interiore dei due personaggi fatica a uscire fuori nel corso dello spettacolo.

Cirillo e Pacebbene si sono trovati improvvisamente senza casa e decidono di andare a vivere in un quartiere di Napoli disastrato dal terremoto, isolato e vuoto. Vanno a vivere in una casa lesionata, precaria, che rispecchia, in realtà, quel che sono loro dentro. Tutto quel che fanno si sviluppa all’interno del loro appartamento, non riescono a concretizzare nulla. Parlano di fuga, di andarsene lontano, ma riescono a stento ad arrivare alla parte opposta della casa, a spostare i rispettivi letti. Si combattono, il loro è un continuo gioco al massacro, affrontano il vuoto del proprio quotidiano solo dalla propria angolazione e finiranno schiacciati, come spiega Pierpaolo Sepe nelle note di regia, dalla loro stessa miseria.

Ma è anche la storia di una città terremotata, lacerata, duplice, che vorrebbe fuggire da se stessa ma mostra solo i segni della stanchezza e del proprio dolore morale.

Uscita di Emergenza, purtroppo, è un lavoro che, nel 2012, inevitabilmente, mostra le rughe ma che comunque Pierpaolo Sepe non ha saputo ringiovanire nel giusto modo. La regia è inesistente, gli attori sono lasciati a se stessi e i pochi inserti sonori appaiono fuori luogo. Inoltre la trovata di mostrare il trucco del teatro, spogliando il palco di tutto e lasciandolo nudo, è vecchia, provata e riprovata, ed è ingiusto riportare in scena il testo di Santanelli in questo modo. Rino Di Martino è sempre presente, riempie la scena, sopperisce anche le mancanze di un Ernesto Mahieux dalla battuta talvolta impastata, troppo spesso spaesato, ma non basta. Qui manca la struttura, non è stata fatta alcuna operazione filologica di spessore, e non si capiscono le scelte scenografiche (ancora il titolo dello spettacolo in bella mostra, come per Anna Cappelli, perché?). Insomma, la proposta di Sepe, sulla carta, è promettente ma, in concreto, è apparsa soporifera e fiacca. Peccato.


Uscita di Emergenza
di Manlio Santanelli
regia di Pierpaolo Sepe
con Rino Di Martino, Ernesto Mahieux

In scena al Piccolo Bellini di Napoli, dal 23 al 28 ottobre 2012.