“Una questione privata” di Beppe Fenoglio

«La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo».

Inizia così Una questione privata, il lungo racconto di Beppe Fenoglio. E si tratta di un incipit di quelli indimenticabili, di quelli che si possono ripetere all’infinito per l’effetto suggestivo che procurano leggendoli o recitandoli. Un inizio semplice eppure essenziale. Sono presenti, infatti, quasi tutti gli elementi cardine della storia: l’innamorato Milton, la sua amata Fulvia, le colline intorno ad Alba. Scopriremo poco dopo un ulteriore, importante particolare: siamo nel bel mezzo della guerra civile, quando i partigiani e i fascisti si fronteggiavano, senza pietà, per la propria presunta giusta causa.

Milton, Fulvia, le colline di Alba, la guerra civile. E Giorgio Clerici, l’altro pretendente di Fulvia. Anch’egli partigiano, ma di famiglia benestante, sempre solitario e distaccato, quasi combattesse una guerra personale contro il mondo intero.

Milton, Fulvia, le colline di Alba, la guerra civile, Giorgio Clerici. E poi la donna che un tempo badava alla giovane ragazza e che ora, invece, sta, vecchia e disillusa, a guardia della villa. È lei che insinua in Milton il seme del dubbio, che lo alimenta con i suoi racconti lasciati a metà, fino a trasformarlo, quel seme, in un’orticante, nera gelosia. Da allora in poi per Milton niente conta più della risposta a quell’un’unica domanda: Fulvia e Giorgio sono stati amanti quando lui era a Roma, in quei giorni terribili prima dell’armistizio di Cassibile?

Con Fulvia nascosta chissà dove a Torino, l’unico in grado di dar sollievo o tormento a Milton risulta essere proprio Giorgio, l’altro pretendente. E così potrebbe essere se non fosse che una schiera di fascisti ha catturato Giorgio, all’improvviso, causa la forte nebbia delle Langhe. Hanno inizio allora peripezie e eventi di ogni genere. Episodi di umana crudeltà e di devastante compassione. Il finale a sorpresa conclude degnamente quella che è, senza dubbio, una delle storie d’amore possibili e impossibili tra le più belle della letteratura del Novecento.


(Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi)

“Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas

«Impreco, ma lo amo. Non so di cosa sia fatto questo amore. Credo che nessun genitore possa rispondere facilmente a questa domanda. A volte è sepolto. A volte è semplicemente sentire la vita che ti attraversa: è partita da un punto, tu la prendi in consegna e la passi a qualcuno».

Una storia commovente e avvincente ma, soprattutto, una storia vera. Andrea e Franco, un figlio e un padre, e un viaggio speciale in America: Stati Uniti prima, Guatemala, Panama e Brasile poi. Franco decide di partire per far “vivere” Andrea. Un viaggio che scorre tra ricordi e dettagli: la vita di Andrea fatta di rituali e di piccoli gesti ripetitivi come sminuzzare la carte, il suo esprimersi attraverso i colori, il suo comunicare con i genitori scrivendo parole sul computer. Primo fra tutti i ricordi, la diagnosi del dottore, che piomba come un macigno sulla vita tranquilla di Franco: Andrea è autistico.

«Andrea mi scuote, mi rovescia le tasche, cambia le serrature delle porte».

Questo ragazzino ripete solo alcune parole, quando una cosa gli piace dice che è bella e ogni tanto abbraccia qualche sconosciuto (da qui il titolo, bellissimo), soffre e lo dice lui stesso in alcuni dialoghi al computer, ma la sua sensibilità è la sua bellezza, la sua rarità. Per questo Andrea rovescia le tasche, abbatte le difese.

E per entrare nel mondo di Andrea, in quel mondo di delicatezza e di piccole cose, il padre decide di partire per un viaggio che non ha meta, la rotta si sceglie liberamente durante il cammino.

«Il mondo di Andrea non si può comprendere con un unico sguardo, con una sola vita. Dovrò rinascere e seguire Andrea altre mille volte prima di capire i suoi gesti eleganti, il loro mistero».

In loro compagnia il lettore viaggia per tutta l'America, potrebbe addirittura capitare di ritrovarsi a consultare la cartina geografica e dire: là ci andrò. Perché con uno stile semplice e pulito, ma non per questo poco curato, l’autore ti trasporta con sé, in un viaggio che è più di un viaggio: entri nelle loro vite, non puoi farne a meno. E non puoi fare a meno di emozionarti, di ridere e piangere su queste righe, di riflettere. Sulla diversità e sulla normalità. 

Perché Andrea deve diventare come “gli altri”? Chi può sapere se sarà più felice o se non lo sarà?

Questo viaggio ci ricorda quant’è bello il vento che ci accarezza il viso, il rumore del mare, il silenzio della natura che ci permette di ascoltare la nostra anima. Questo viaggio lascia il segno.

«Funziona che la vita sta tutta sotto una grande curva a campana, con al centro disturbi e ai lati stravaganze di ogni sorta. La vita è diluita nel mezzo e troppo densa ai lati… La vita è imperfetta, ma ha una sua forza»

 

(Fulvio Ervas, Se ti abbraccio non aver paura, marcos y marcos, 2012, pp. 320, euro 17)

“Luigi Tenco. Una voce fuori campo” di Luca Vanzella e Luca Genovese

Essere italiani vuol dire convivere con misteri di cui non sapremo mai il finale. Ma essere italiani significa anche avere un passato musicale pari a pochi. In rari casi le due vie si incontrano, come per  Luigi Tenco. I modi per indagare ulteriormente attorno al tragico epilogo della sua esistenza, nel tentativo di svelarne gli oscuri anfratti, possono essere svariati: speciali tv, documentari, nuove inchieste. Certamente il contributo offerto dal libro Luigi Tenco, Una voce fuori campo è tra i più interessanti e innovativi. Raccontare la storia del cantautore tramite graphic novel è una splendida intuizione, anche perché il disegno – un ritratto, una tavola – esprime spesso molto più di tante parole.

Nel bianco e nero usato dagli autori Luca Vanzella e Luca Genovese, noti da anni al pubblico del fumetto italiano, traspare la drammaticità di quella dannata notte sanremese tra il 26 e 27 gennaio 1967.

La sera del 26, la canzone “Ciao amore, ciao” eseguita da Tenco insieme a Dalida viene clamorosamente eliminata dal Festival della Canzone italiana. Poche ore dopo, una pistola spara; Lucio Dalla sarà il primo ad accorgersene. Luigi Tenco si è sparato in testa. O almeno così dicono. Dopo l’esplosione infatti si crea il caos; indagini di polizia condotte ai limiti del comico con errori grossolani e mass media inferociti e subito pronti a urlare la notizia. Fattori predisposti a creare ancora più confusione sulle misteriose ultime ore del cantautore di Cassine. Fin qui è la cronaca, ma nelle tavole del libro non c’è solo questa.

A trasparire tra i tratti della china è anche l’umore torvo e l’amarezza del protagonista.  Sono parte stilistica visibile della pagina e grazie ai flashback è possibile rivivere parte del passato: le relazione con Dalida e Valeria, l’infanzia, gli anni del periodo milanese, i primi successi oltreoceano, l’incontro con tanti personaggi – De Andrè su tutti. Verso il finale, dopo le drammatiche e icastiche pagine nere, la graphic si fa meno storia e più inchiesta. Troppe le domande e i dubbi attorno al suo presunto suicidio, riconfermato dalla recente riesumazione del cadavere. Ma soprattutto, poche le risposte attorno a questo “Assurdo destino”, citando la pregevole prefazione di Luzzato Fegiz, perfetta per introdurre il lettore negli intenti e gli sviluppi dell’opera.

Certo, dovremmo convivere ancora per molto tempo con la misteriosa e drammatica morte di Tenco, ma almeno, dopo la lettura di, Luigi Tenco, Una voce fuori campo, possiamo dire di conoscerla meglio.

 

(Luca Vanzella – Luca Genovese, Luigi Tenco, Una voce fuori campo, BeccoGiallo, pp. 144, euro 15)

“Gli scheletri nell’armadio” di Francesco Recami

È arrivata l’estate, con un po’ di ritardo, ma sta recuperando terreno con “Caronte” e “Minosse”. Infatti, ce ne siamo accorti tutti, penso, la colonnina di mercurio, come dicono gli esperti, quelli bravi, è salita vertiginosamente in tutta Italia. E per gli sfigati rimasti in città durante i giorni feriali si boccheggia. Ma nel week end orde di coraggiosi, armati di ombrelloni, sdraio, ciambelle, tavolini da picnic e panini imbottiti della immancabile fettina panata, come si usa dalle mie parti (giusto per lasciare leggeri i pupi così possono fare il bagno e prendere una congestione per bene…), si incolonnano sulle strade del mare in cerca di refrigerio e rilassamento. E allora cosa c’è di meglio, una volta raggiunto il nostro agognato posto al sole, che portarsi da leggere un bel giallo, magari leggero e brillante?

Gli scheletri nell’armadio di Francesco Recami (Sellerio, 2012) è un giallo sui generis. Non ci sono morti ammazzati, né sangue versato. Ci sono degli scheletri, sì, ma non si sa a chi appartengano e hanno una particolarità che verrà svelato solo alla fine. Chi indaga su di essi non è né un commissario, né un poliziotto o un investigatore privato con licenza di uccidere, bensì un semplice tappezziere in pensione, vedovo, appassionato collezionista di articoli di cronaca nera, alle prese con i capricci dell’amato nipotino Enrico e la scomparsa del suo Bubu, con la gelosia e la ferrea disciplina della figlia e con il bisogno di raccontare le proprie memorie della vicina d’appartamento, con cui ha un intrallazzo amoroso. Non ci sono inseguimenti, né sparatorie, il ritmo non è incalzante ma lento e compassato. Lo scenario poi è assolutamente statico. Anzi il vero protagonista del romanzo non è un individuo, ma un condominio con i suoi inquilini pieni di magagne e un po’ pettegoli. La casa di ringhiera, in cui «oscuri destini si intrecciano», è un tipico caseggiato della periferia milanese con le sue corti ed è anche il titolo del primo romanzo uscito nel 2010. Con questo secondo, infatti, si inaugura una nuova serie noir. I riferimenti a La casa di ringhiera e al delitto della Sfinge di Lentate, risolto dall’Amedeo Consonni, questo il nome dell’ex tappezziere, sono del resto frequenti ne Gli scheletri nell’armadio, senza che ci vengano svelati i fatti e relative soluzioni (dunque se partite, come me, dal secondo romanzo e vi piace, non potete non procurarvi anche il primo).

Sotto la lente indagatrice, a volte meschina, più spesso compassionevole, del narratore onnisciente, che ne sa più dei personaggi, tanto da essere il solo depositario del disvelamento finale, scorrono, nelle sei giornate in cui si svolgono gli avvenimenti, grigie esistenze confinate entro il microcosmo della casa di ringhiera con i suoi ballatoi a fare da luoghi di appuntamenti e incontri.

I condomini sono i tasselli di una commedia umana che riflette il tessuto sociale, popolare o piccolo borghese, di un’Italia contemporanea eppure pervasa da un’atmosfera d’antan vagamente anni ’50-’60. C’è la ficcanaso, che dalla sua finestra tiene sotto controllo tutti alla ricerca di scandali da rotocalco, ma che vive nel terrore di una visita fiscale che scopra la sua falsa invalidità. Ci sono la giovane avvenente divorziata, l’informatico alcolizzato lasciato dalla moglie, l’anziano appassionato di auto che si lascia sedurre da una BMW Z3 3.2 24 valvole, tradendo la sua Opel, e finirà vittima di un raggiro da parte di un parente, l’insegnante in pensione alla ricerca di un’anima che ascolti la sua storia.

Con la leggerezza dell’ironia, Recami ci parla di vite che con il passare del tempo sono diventate sempre più infelici, sprofondando in uno stato di tacita irritazione verso se stessi e gli altri, o magari perché hanno capito che il matrimonio e i figli non portano solo gioia, ma possono diventare un peso. Nella sua indagine sugli scheletri recapitatigli in casa in una angoliera da un suo ex collega di lavoro, Consonni si troverà a far visita a persone ancora dolenti per lutti lontani nel tempo eppure ancora vivi nelle loro menti e nei loro cuori, come sospese in un limbo in cui rimanere inchiodati infinitamente al proprio dolore.

Questo giallo all’italiana in cui i detective sono figure anomale, racconta anche di una città, Milano, con la sua gente e le sue atmosfere. L’autore compone un vivace affresco, non disdegnando l’uso di inserti dialettali tra un parlato pacato e affabile e uno humour alla Andrea Vitali.

Recami sembra divertirsi nello smontare e rimontare le ipotesi che via via Consonni elabora, rivelando solo alla fine e unicamente ai lettori la fallacia delle sue deduzioni. La verità non esiste, esistono tante verità di cui ognuno è portatore, come diceva Pirandello in Così è (se vi pare).

È forse questo aspetto originale e spiazzante a lasciare la sensazione di qualcosa di non concluso e irrisolto che magari verrà svelato nella prossima puntata. To be continued


(Francesco Recami, Gli scheletri nell’armadio, Sellerio, 2012, pp. 232, euro 13)

“Lo schiaffo” di Christos Tsiolkas

Melbourne. Casa di Hector e Aisha. Lui greco, lei indiana. Una bella coppia, una bella casa, due figli. Tutto è pronto per il delizioso barbecue tra colleghi e amici. Sono arrivati. I convenevoli, le presentazioni.

Prendono ordinati il loro posto come una compagnia di attori sapientemente istruita: battute a memoria, le entrate, le uscite. I bambini guardano un DVD, i mariti bevono birra. Manoli, il padre di Hector, controlla la brace. Cinque minuti ed è fatta. Lavoro, figli, scuole pubbliche e private. Stuzzichini, lenticchie, musica jazz. Per una ventina di pagine.

Sapientemente nascosto da un manto erboso perfettamente tosato, tra le pieghe delle camicie di lino, a bordo piscina, all’ombra di gonne che si muovono leggere nella frescura di un tardo pomeriggio estivo, un’altra esistenza può procedere melmosa, in un intrico di relazioni clandestine, sigarette perfide, parole interrotte, bicchieri di vino e pasticche di Valium. E basta uno schiaffo a sviscerarla e a insozzare la scena.

Capitolo dopo capitolo, l’autore ci sbatte nello stomaco dei personaggi e da lì ci lascia osservare il bel quadretto al profumo di semi di aneto che si autodistrugge spietatamente. Ci fa voyeur ed è voyeur con noi, regolando i flussi delle coscienze ipocrite e scegliendo la colonna sonora per la loro messa a nudo: parte da Armstrong e Benny Goodman e passa per i Public Image e i Joy Division, spiando con un sorriso beffardo le sue creature che si muovono convulse, che cercano di salvarsi.

Quella di Christos Tsiolkas, romanziere australiano di origini greche che arriva con Lo schiaffo alla sua terza fatica, è una prosa appuntita, sporcata da un linguaggio che, grazie alla traduzione di Marco Rossari, sentiamo incredibilmente nostro. Le informazioni sono snocciolate poco alla volta, anticipate spesso da curiose spie, e questo lento avvicinarsi di pezzetti di verità invoglia il lettore ad attraversare rapidamente quasi cinquecentocinquanta pagine senza registrare rallentamenti del ritmo o cali di tensione narrativa; senza provare sentimenti di rabbia e di compassione, che sarebbero forse scontati davanti alla bruttura di certi rivolgimenti, ma accendendosi invece di quella stessa straniante attrazione che si può provare davanti a ciò che è legalmente o moralmente scorretto.

Vi lascio con un interrogativo che può sembrare banale, ma credetemi, non lo è. Di chi è il piede rimasto nudo in copertina?


(Christos Tsiolkas, Lo schiaffo, trad. di Matteo Rossari, Neri Pozza Editore, 2011, pp.535, euro 18)

Il Borges di “Fervore di Buenos Aires”

«È questo, e forse l’otterremo in cielo, / attingere l’eccelso: / non lodi né vittorie, / soltanto essere ammessi / come parte di una Realtà innegabile, / come le pietre e gli alberi».

Come Gogol’, anche Borges si è interessato a suo tempo di cappotti, ed è a questi che Fervore di Buenos Aires deve forse parte della sua iniziale fortuna.

Infilando buona parte delle copie stampate della sua prima opera in versi nelle tasche dei cappotti appesi nell’anticamera della sede della rivista Nosotros, Borges diede inizio a una circolazione sfacciatamente e innocuamente clandestina che permise al testo di arrivare a molti interessati lettori di Buenos Aires. Un gesto in qualche modo di gentile avanguardismo per una poesia che delle avanguardie europee si è nutrita durante la sua gestazione.

Difatti il Borges del 1923, anno della pubblicazione di Fervore, reduce dell’esperienza europea, torna in patria con la volontà di ricongiungersi con la sua città: «Questa città che credevo il passato / è il mio avvenire, il mio presente; / gli anni vissuti in Europa sono illusori, / io sono stato sempre (e starò) a Buenos Aires». Un punto di partenza che segue probabilmente l’ideale convinzione borgesiana della ricerca di un principio – parziale, poiché individuale – necessario per poter seguire il proprio percorso ideale e poetico.

Parlare del primo Borges significa parlare anche di Ultraismo, movimento poetico debitore della poesia europea che coinvolge il giovane poeta in prima persona, ma da cui egli stesso si allontanò per seguire un percorso decisamente personale. Non a caso Néstor Ibarra, traduttore e amico del poeta, sarà il primo a dire che il periodo ultraista di Borges finì con le prime poesie ultraiste che scrisse.

Certo è che tracce di questa fase – in cui si compone poesia cercando di utilizzare come primo elemento creativo la metafora, veicolo di suggestione costruito e usato per evitare digressioni e aggettivazioni inutili – sono giunte anche in Fervore, ma per la maggiore sono da rintracciare in quelle poesie che Borges andò escludendo, anni più avanti, quando si accinse a «limare le asperità» nei suoi versi, dando poi alle stampe le edizioni revisionate dell’opera. Non bisogna però vedere questa operazione come una presa di distanza o come la negazione di un passato poetico-espressivo. C’è da tener presente invece che il periodo della prima poesia di Borges combacia con la certezza del bisogno di una ricerca linguistica, tematica e semantica tutta in divenire, che acquista di senso anche perché segue un percorso grazie al quale potranno nascere le tematiche tipicamente borgesiane che caratterizzeranno la sua scrittura. Non a caso, lo stesso Borges dirà che tutto ciò che scrisse dopo Fervore non è stato altro che lo sviluppo dei temi che lì aveva trattato per la prima volta, come se il resto della sua vita l’avesse passata a riscrivere quell’unico libro.

Consideriamo innanzitutto il tema della città. Il modo in cui Borges ci fa conoscere Buenos Aires è attraverso il ritorno a essa, alla Buenos Aires dei sobborghi, lontana dal rumore metropolitano, immergendosi nella realtà di quelle strade «quasi invisibili per l’abitudine» che dipinge nella sua prima poesia, “Le strade”. Diviene questo il punto partenza di quel lento processo di riappropriazione reciproca che avviene tra la città e il poeta, quasi come se entrambi ricominciassero lentamente a percepirsi e a riconoscersi.

Borges sfrutta il dato della ricongiunzione fisica con la città, mostrando come da questo si possa accedere al sentimento che i luoghi possono suscitare. Il sobborgo non è altro che «il riflesso del nostro tedio», fatto di quelle piazze e quelle strade che fanno da ponte per l’emotività dell’uomo che sente quei luoghi, uomo che qui è Borges ma che al tempo stesso è tutti gli uomini che vivono quegli isolati «differenti e uguali / come se tutti fossero / monotoni ricordi perpetui / di un unico isolato». E mentre la città spesso provoca una riflessione sul suo stesso essere – in poesie come “Il ritorno”, “Piazza San Martin”, “Un patio” o “Strada sconosciuta” – altre volte invece sarà dipinta dai versi quasi come in un quadro espressionista in cui le albe e i tramonti dominano lo spazio e scandiscono il tempo.

La Buenos Aires dei sobborghi non è soltanto quella del vissuto giovanile del poeta, quella da ritrovare, ma è soprattutto quella in cui può avviare il processo di mitizzazione personale e collettiva. È simbolo personale come anche traccia viva di un passato ancora sensibile dove è il patio, con il suo mostrarsi come tramite tra terra e cielo, forse uno dei simboli più forti di questa mitologia. «Il patio è il declivio/ per cui si spande il cielo nella casa./ Serena,/ l’eternità è in attesa a un crocicchio di stelle», i patios sono costruiti in armonia con l’universo e per essere da questo penetrati, mediatori o templi di divinità non dichiarate, «i patios così certi e antichi/ i patios che hanno fondamenta/ nella terra e nel cielo».

Il problema della lettura della poesia di Borges, e anche la sua bellezza, sta però nel non essere ferma al solo obiettivo della rappresentazione, e questo poiché segue la volontà di toccare una molteplicità di temi che si servono della realtà in primis come strumento allegorico, sfruttando soprattutto il suo potenziale metaforico. Borges, infatti, che ha dovuto anche affrontare problemi di cecità fin dall’infanzia, è stato spinto a guardare alle cose in una maniera via via sempre meno realistica, parlando sempre più per immagini o più esattamente attraverso simboli.

La città, che come abbiamo visto è tema poetico in Fervore, è anche cornice al cui interno il poeta inserisce in piccola parte anche il tema storico-politico (vedi “Rosas”, poesia che ritrae il dittatore argentino «famosamente infame / quel nome fu desolazione nelle case / idolatrico amore fra la gente gaucha / e orrore di morir sgozzati») poiché a questo tema lega particolari significati quale quello mitico-eroico della sua discendenza; tutto però assume un ruolo di secondo piano o semmai diviene funzionale all’intento filosofico che vediamo guidare la raccolta.

Quella di Borges è infatti poesia filosofica, ricca di riferimenti intertestuali che si esprimono attraverso una voce e un lessico immediati. Se la cecità ha impedito la penetrazione del suo sguardo nella realtà in maniera chiara, allora Borges capisce che può tentare la ricerca della rappresentazione di qualcosa di meno tangibile e osservabile, ma che della realtà è parte. Soprattutto il “tempo”, come categoria filosofica, è ossessione centrale perché, per Borges, questo contiene tutto ciò che esiste attorno all’uomo e attraverso il quale, usando un lessico borgesiano, l’umanità scrive il suo libro. Il tempo si lega inesorabilmente all’uomo perché in esso vive – e il verbo presente segue esattamente il punto di vista borgesiano – tutto ciò che l’uomo ha generato e, soprattutto, tutte le persone che è stato l’uomo.

Nel tempo il poeta è se stesso. Borges sa di essere Borges, come al tempo stesso sa di essere qualcun altro prima di lui; come Omero nel cantare del destino umano, come Dante a cercare la visione del tutto, come Whitman che dice “myself” e canta ogni uomo, come in una partita a carte un giocatore diviene quello che replica una mossa già compiuta: «E giacché le alternative del gioco / da sempre si ripetono, / i giocatori di questa notte / copiano antiche prese».

Bisogna allora immaginarselo, il tempo di Borges. Rinunciare a quella che diventa l’illusione del “qui e ora” creata dalla scansione degli orologi (come in “Fine d’anno”) e non tener conto della fine del vivere attraverso la morte, perché «è giusto aggiudicare all’ombra tali orpelli / e il marmo non dica quando tacciono gli uomini. / L’essenziale della vita terminata / – a tremula speranza, / il miracolo implacabile del dolore e la sorpresa del piacere – / continuerà per sempre. / Reclama ciecamente permanenza l’anima arbitraria / giacché le vite altrui gliel’assicurano, / giacché tu stesso sei la replica e lo specchio / di quanti non raggiunsero il tuo tempo / e altri saranno (e sono) la tua immortalità su questa terra».

Fervore di Buenos Aires ha un ruolo capitale all’interno dell’opera di Borges, quello di farci conoscere quei simboli che saranno poi tipici nella sua scrittura (come il labirinto, lo specchio o il libro), e che a questa sua bùsqueda del tempo sono rivolti soprattutto per i significati e i concetti che gli attribuirà.

Borges attraversa questa ricerca del senso del tempo e del vivere che risiede in esso: «Vibrante nelle spade e nell’ardore/ e assopita nell’edera,/ solo la vita esiste./ Sono sue forme spazio e tempo,/ sono strumenti magici dell’anima,/ e quando questa si spegnerà,/ si spegneranno insieme spazio, tempo e morte,/ come al cessare della luce/ si estingue il simulacro degli specchi/ che l’imbrunire aveva quasi spento». È così perché il tempo di Borges è anche quello di Schopenhauer e di Berkeley («Nella profonda notte universale / che a stento contraddicono i lampioni […] Attento all’ombra / e intimorito dalla minaccia dell’alba / rivissi la tremenda congettura / di Schopenhauer e di Berkeley / che afferma essere il mondo / un atto della mente / un sogno delle anime, / senza base o intenzione o volume»), dove la vita si mostra all’uomo con le cose, attraverso il tempo, finché delle cose si avrà ricordo, contatto mentale, anche il solo saperle nominare; mentre invece senza la percezione del tutto, il tutto svanisce e anche la morte smette di esistere. In quest’ottica anche il sogno, altro tema di grande rilevanza che lo ha lungamente impegnato, acquista con Borges una particolare capacità, quella di confondersi o mischiarsi con la realtà come se in essi non ci fossero separazioni o differenze, poiché davanti agli occhi così come nel sogno «sono l’unico spettatore di questa strada; se smettessi di vederla svanirebbe».

Quello che si potrebbe dire è che il tempo serve a Borges per raccontare, come Borges serve al tempo per raccontarsi. Il suo è un racconto comunque aperto ai sentimenti che nutre e che riscopre nel momento in cui percepisce quella realtà, poiché, se questa ha valore in quanto risultato del tempo, allora vorrà dire che sarà la sua memoria a rivestire il ruolo fondamentale nel dar senso a ciò che sta vivendo nella ritrovata Buenos Aires. Se la memoria è ciò che porta fuori i punti su cui Borges struttura il suo discorso, sarà sempre da questa che si partirà per il recupero di qualcosa di perduto ma di ancora percepibile, come l’amore.

Buenos Aires è anche il luogo in cui Borges conosce Concepción Guerrero – a cui probabilmente molte delle poesie di Fervore fanno riferimento – primo grandissimo amore che sarà destinato poi a vivere in quel ricordo che animerà le poesie della raccolta. Anche in queste è interessante notare come sia il tempo a scandire il modo in cui si esprime il sentimento, con il suo mostrarsi attraverso la memoria e attraverso il confronto con la realtà, perché è la memoria a dar sostanza al tempo.

La solitudine si esprime attraverso le immagini di una città che acquista sempre più valore simbolico ed evocativo. In tutti i luoghi «come ciechi si cercano le nostre solitudini», e l’assenza è soltanto una condizione, qualcosa che determina lo stato esteriore delle cose poiché c’è nella realtà più di un segno che ridona vita a ciò che si è perso ma che non rinuncia a “essere”. In “Assenza” appaiono i segni dati dalla persistenza delle cose nel tempo e nella memoria, capaci anche di determinare il proprio futuro («Dovrò di nuovo erigere la vasta vita, / specchio di te ancora», «Sere che ti hanno accolto come nicchie, / musiche dove trovavo te ad attendermi, / parole di quel tempo, / dovrò distruggervi con queste mani. / In quale baratro potrò celare l’anima / perché non veda la tua assenza, / fulgida come un sole orribile / che non tramonta mai, spietata, eterna?»), e il contatto con la realtà non spezza ma anzi aggiunge consapevolezza all’amore dal momento che il ritorno significa poter rivivere ciò che altrimenti non potrebbe essere vissuto: «Nel nostro amore c’è una pena/ che assomiglia all’anima. / Tu, / ieri soltanto tutta la bellezza / sei anche tutto l’amore, adesso».

Contenere tutto questo non lo può semplicemente un libro, e forse è per questo che Borges ha sempre avuto la convinzione di non aver fatto altro che riscrivere per tutta la vita Fervore di Buenos Aires. Ma anche se questa fosse una delle verità dell’esperienza poetica di Borges, bisogna accorgersi che alla base sta la semplicità con cui il percorso si è generato: «Il cancello del giardino / si apre arrendevole come la pagina / che una frequente devozione interroga / e dentro non occorre / che lo sguardo si fissi sugli oggetti, / precisi già nella memoria».

Sembra difficile parlare di Borges se non con le parole di Borges. Forse questo però dipende dal fatto che con Fervore di Buenos Aires egli non fa altro che farci arrivare alla consapevolezza che quelle sue stesse parole avremmo potute utilizzarle noi, ed essere quindi altri Borges, se l’ironia del caso non avesse voluto diversamente. Ed è quello stesso caso che ha voluto Borges come padre dei versi che leggiamo e non noi, che siamo invece destinatari, eventuali e fortuiti, come ci dice nel prologo «All’eventuale lettore: Se le pagine di questo libro offrono qualche verso felice, mi perdoni il lettore la scortesia di averlo usurpato io per primo. I nostri nulla si differiscono poco; è banale e fortuita la circostanza che di questi esercizi sia tu il lettore e io il redattore»; ed è ancora lo stesso caso che adesso, come allora, ci fa scoprire, controllando le tasche del cappotto, lo scherzo del caso e di Borges.

[Strega 66] Vince Alessandro Piperno con “Inseparabili”

Alla serata conclusiva della 66° edizione dello Strega lotta all’ultimo sangue per i gelati del buffet. Per quanto riguarda lo spoglio delle schede, i favoriti sono rimasti tali: se la cinquina vedeva primo Emanuele Trevi con Qualcosa di scritto (92 voti), secondo Gianrico Carofiglio con Il silenzio dell’Onda (70), terzo Alessandro Piperno con Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi (68), poi Marcello Fois con Nel tempo di mezzo (64) e Lorenza Ghinelli con La colpa (38), il testa a testa della finale è stato tra Piperno e Trevi, con una rimonta di Carofiglio nell’ultima – decisiva – tornata. Fino all’ultimo, infatti, Trevi era dato per vincitore: nello stacco tra i 350 e i 400 Piperno ha guadagnato i due voti che l’hanno portato in trionfo, accecato dai flash mentre beve a canna dal bottiglione giallo. La parola Mondadori assume una vena complottistica, c’è chi sostiene che il premio, come sempre, si riduce a un duello tra Mondadori e Rizzoli – a questo si dovrebbero i pochi voti a Fois, macchiatosi di guerra fratricida Einaudi contro Mondadori. Gian Paolo Serino si appella a Carlo Feltrinelli e dice tutta la verità sul sito di Satisfiction; un altro modo per avere il polso della situazione è cercare su twitter #strega2012. Molti ospiti illustri, tra cui il sindaco Alemanno che avrebbe sottolineato come tre romanzi dei cinque candidati si svolgono a Roma. Anche se secondo Marco Salvati avrebbe poi dichiarato:«Ne ho appena finito di colorare uno».

“Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson

Alcuni l’hanno definita la Spoon River dei vivi. O più semplicemente la Spoon River in prosa. E in tutto questo qualcosa di vero c’è se il lavoro di Edgar Lee Masters è stato pubblicato nel 1915 e la scrittura dei Racconti dell’Ohio avviene tra quello stesso anno e il 1916. Da una parte i fiumi Sangamon e Spoon e i villaggi di Petersburg e Lewistown, nell’Illinois. Dall’altra parte Clyde, in Ohio. Da una parte i luoghi dell’infanzia di Masters. Dall’altra il villaggio che accompagna la crescita di Anderson, tra gli otto e i diciotto anni. Microcosmi di un paio di migliaia di abitanti nell’America del Midwest.

E una parte non secondaria del fascino dei Racconti dell’Ohio – o di Winesburg, Ohio decisamente più fedele al titolo originale – risiede proprio in questo forte realismo di fondo. Le strade, gli abitanti, i negozi, la struttura della stessa Winesburg/Clyde sono i luoghi di Sherwood Anderson. Quelli vissuti dall’autore e rivissuti con il filtro di uno stile letterario immediato. Lessico mai complesso. Frasi mai troppo lunghe. Descrizioni essenziali che però non finiscono mai per diventare fredda cronaca. Anderson parla di tic, delinea modi di vestire e gesticolare, descrive sentimenti, vite, paure che caratterizzano universalmente personaggi e persone. Quella di Winesbug/Clyde è gente che «vive e respira: è bellissima», come scrive William Faulkner.

Ecco allora l’ex maestro Wing Biddlebaum accusato ingiustamente di condotta illecita verso i suoi alunni. Il dottor Percival, senza pazienti. Enoch Robinson, pubblicitario che vive e conversa con amici immaginari. Wash Williams che spiega le cause del suo odio verso le donne. Il reverendo Curtis Hartman ossessionato dalla maestra del villaggio, Kate Swift. Ed è sempre una umanità inadeguata, vecchia, che soffre se non fisicamente moralmente a causa di solitudine e abbandoni.

Fatti, storie, personaggi, gente dell’America dei villaggi. Su cui aleggia il grande cambiamento: l’industrializzazione, la meccanizzazione e la conseguente fine di quel tipo di mondo rurale. E in questo senso che deve essere letta la partenza di George Willard. La partenza verso qualcosa d’altro, qualcosa di diverso. Verso la città. Come stava accadendo a molti giovani nell’America di Theodor Roosevelt. E non a caso all’addio di George viene dedicato un interno racconto. L’ultimo: “Partenza”. George è il figlio di un albergatore e di una madre premurosa e perennemente malata. Giornalista del Winesburg Eagle. Presenza costante in tutti i racconti. Romanzo di formazione quello di Sherwood Anderson se letto sotto quest’ottica. «C’è un tempo nella vita di ogni ragazzo in cui per la prima volta egli guarda la propria esistenza trascorsa. Forse è proprio quello il momento in cui passa il confine e diventa un uomo. Il ragazzo sta camminando per strada nella sua cittadina. Sta pensando al futuro e al ruolo che giocherà nel mondo. Ambizioni e rimpianti si risvegliano in lui».

Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters ma anche Vinicio Capossela. L’album è Da solo, decima traccia. “La faccia della terra” è la traduzione in musica delle storie di Winesbug/Clyde. Poesia in note che finisce così: «E gli uomini e le donne come talpe cieche/ le costole continuano a intrecciare/ e desideri muti travolgono le loro vite/ sulla terra nudi e bisognosi / e continuano a / lasciarsi ciechi storpi e soli/ sulla nera nera terra a cercare/ sulla nera nera terra a / cercare/ sulla faccia della terra a cercare».


(Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio, trad. di Giuseppe Trevisani, Einaudi)

“Ucciderò Sherlock Holmes” e “30 Duke Street”

Ucciderò Sherlock Holmes e 30 Duke Street.

Un doveroso omaggio, anzi due, a Sir Arthur Conan Doyle, creatore del celeberrimo investigatore, da parte di Metamorfosi Editore. Due testi già noti e ora giustamente riproposti per la freschezza delle storie raccontate.

Ucciderò Sherlock Holmes (titolo italiano dato alle “memorie” autobiografiche dell’artista) si muove fra mito e realtà, in un viaggio personale avvincente e legato alla peculiarità delle esperienze vissute in contesti nazionali e internazionali. La lettura, di una piacevolezza scandita da rapidi tocchi di ironia, coinvolge appieno attraverso una profondità legata ai momenti significativi di circa mezzo secolo inglese ed europeo (tra fine XIX e prima parte XX secolo). Avvenimenti in cui non di rado Doyle si è trovato in posizione di primo piano, sia in ambiti di estrema delicatezza (come testimoniano le sue proposte su tattiche militari e uso delle armi in guerra), sia in situazione più genuinamente curiose.

Nota è ormai la sua presenza nello sfortunato episodio (scenario: Olimpiadi di Londra del 1908) accaduto al corridore Dorando Pietri. Conan si commuove di fronte al dramma sportivo del generoso atleta italiano crollato a un passo dall’oro nella maratona e sorretto da mani generose (dello stesso Doyle, si sarebbe scoperto vari anni dopo) mentre taglia il traguardo. Sempre lo scrittore promuove la sottoscrizione di un premio di consolazione che lenisca il dolore di Pietri per l’inevitabile squalifica. È solo un esempio delle innumerevoli avventure che hanno costellato la vita di questo robusto e fiero avventuriero.

Medico, appassionato sportivo, cercatore costante della verità in ogni campo del sapere in cui si sia imbattuto, Sir Doyle deve la fama (probabilmente eterna) alla creazione del personaggio Sherlock Holmes e alla sua capacità di risolvere enigmi apparentemente insolubili. Un’icona che ancora oggi conserva potente tutto il suo fascino.

C’è solo un problema, a dire il vero piuttosto grosso: l’oggetto della sua stessa fortuna, Sherlock Holmes, a un certo punto diventa quasi una zavorra per Doyle. Già, perché in realtà l’identificazione Holmes-Doyle, oltre ad essere a volte quasi reale, impedisce all’autore (a suo dire) di essere apprezzato maggiormente per opere su cui punta particolari risorse e ingegno: i saggi e i romanzi storici, i trattati sullo spiritismo. Ebbene, questo odio-amore per Sherlock Holmes lo porterà a tentare di “uccidere” il suo stesso personaggio, facendolo magari sparire o morire in uno degli episodi. Non ci riuscirà: il favore popolare di cui gode il detective e perché no i quattrini che gli rende, impediranno a Doyle di portare a termine il gesto.

Il carattere romanzesco della vita di Arthur Conan Doyle è tale che la tentazione di farlo diventare personaggio, nel senso letterario del termine, è troppo forte. Ci ha pensato John R. Watson, (da non confondere col fedele compagno di avventure di Sherlock), pseudonimo di un giornalista e scrittore italiano e autore dell’apocrifo sherlockiano 30 Duke Street.

Prima edizione nel 1987, ad oggi non perde il carattere di giallo avvincente in cui Sherlock Holmes e Watson possono ancora dispiegare la propria passione per la risoluzione degli enigmi più intricati. In più, spicca la presenza appunto “reale” di Conan Doyle, il che non solo dona una piacevole originalità, ma sembra la naturale evoluzione del “personaggio-creatore di personaggi” Doyle. Il tutto valorizzato da una chicca in pieno stile investigativo; una chicca involontaria, visto che salta fuori da una frase, riferita a Conan Doyle, in cui si racconta che «era famoso per un suo gesto alle Olimpiadi di Londra del 1908, quando aveva sostenuto il maratoneta Dorando Pietri all’arrivo…».

Dunque quell’uomo ritratto nella nota fotografia accanto allo sfortunato atleta sorretto in prossimità del traguardo, deve essere proprio Conan Doyle. Involontariamente John R. Watson ha risolto l’arcano, semplicemente credendo di «riconoscere lo scrittore nella celebre foto…». I giornali inglesi (e non solo) gli avrebbero dato ragione.

Arthur Conan Doyle: una vita e una produzione letteraria tra finzione e realtà. L’una quasi confusa nell’altra, con una inesauribile curiosità intellettuale a fare da collante. Basti pensare a quante volte, incontrandolo per strada, i passanti lo hanno chiamato Mr. Holmes.

 

(Arthur Conan Doyle, Ucciderò Sherlock Holmes, Metamorfosi, 2012, pp. 191, euro 15)

(John R. Watson, 30 Duke Street. La penultima avventura di Sherlock Holmes, Metamorfosi, 2012, pp.156, euro 14)

Addio a Walter Mauro

Walter Mauro lo conobbi in un pomeriggio di primavera, mentre con la sua andatura filiforme e vacillante si avvicinava alla Casa delle Letterature, dove avremmo di lì a poco presentato la mia ultima raccolta di poesie. Di una persona generalmente osservo le mani per prima cosa e fu così anche con lui, mi colpirono molto perché erano l’esatta ecografia della sua vita. Su quelle rughe e dentro quelle vene che si scorgevano passavano la musica, la resistenza, l’insegnamento, la scrittura, nelle venature della sua pelle c’era il segreto di una tradizione critica che aveva grandi fondamenta. Era molte cose Walter Mauro ma il tratto che ne emergeva era il suo essere “insegnante”, non professore, ma educatore garbato e sognante, che sapeva con un sorriso aprire le tutte le porte della letteratura trasformandola da stanza asfittica in cortile aperto. Amava l’immaginario, amava solcare quel confine flebile che esiste tra vivere veramente e «sognar talmente tanto da mescolar veglia ad incanto», per questo ogni qual volta ti fermavi a parlar con lui, che fosse una presentazione o un momento ritagliato a un Premio sapeva prenderti per mano e portarti da un’altra parte, per altri mari, per altre terre, che tu, umile cadetto, non sapevi neanche che esistessero. Ma aprire gli occhi al nuovo, al diverso, alla scoperta per Walter Mauro non era un esercizio di sapienza e di retorica bensì erano motivo di vita e quindi non occorreva difendersi da tutta quella conoscenza, ci si poteva lasciare trasportare lentamente nel mare «del so di non sapere».
Credeva che l’amore fosse «una sostenibile leggenda», una parte del quotidiano che sapeva sublimarsi solo se abbandonava i suoi legami, solo se sapeva far cadere la scala e riusciva ad aggrapparsi all’Iperuranio.
Walter Mauro aveva un dono che viene concesso ad alcune persone, sapeva esserci, sapeva contaminare, sapeva far diventare la vita delle persone che lo incontravano una meravigliosa avventura. Penso che abbia fatto tutto nella vita, la Resistenza col Partito d’azione e il conseguente carcere a Bari, la musica, il cinema, il calcio, l’arte, le macchine, l’insegnamento, gli incontri importanti, ha vissuto la morte come la vita, ha incontrato quelli che questo mondo lo hanno elevato da postribolo di idee a universo di cambiamento, ha saputo sempre stupire vivendo e non facendo finta. In un’epoca di mercificatori del sapere e di meretrici della cultura, il suo insegnamento rimane un monito, un’essenza di vita e di forza. È stato un rivoluzionario, senza proclami, con la semplicità di un sorriso, con la pratica della sua vita, un uomo semplice e straordinario che ci ha lasciato forse nel momento più difficile per la nostra società, ci ha forse lasciati un po’ più soli, ci ha forse lasciato un po’ spiazzati perché da lui ci saremmo aspettati che anche questa volta lo avremmo rivisto a un premio, a una presentazione, per un’intervista o semplicemente lo avremmo incontrato su un treno o per la strada.
Invece non sarà così, perché la porta dell’aula si è chiusa e adesso se chiudiamo gli occhi lo vediamo camminare lungo il corridoio verso l’uscita, mentre magari fischietta “Stardust” di Armstrong e ondeggia così, semplicemente come un filo d’erba, ebbro di vento e di immaginario. Un filo d’erba che rimane come rimangono le radici. 

“Chadži-Murat” di Lev Tolstoj


Questo breve romanzo storico di Tolstoj narra le gesta di un uomo forte e coraggioso. Un eroe in grado di cambiare la storia di un intero popolo. Chadži-Murat è un condottiero ceceno che, spinto dalle vicende politiche e personali, deve battersi per gli ideali di libertà e indipendenza. Il protagonista fa della propria vita una leggenda attraverso episodi di grande valore che vengono narrati: «Per tutto il pranzo si parlò solo di Chadži-Murat. Tutti, interrompendosi l’un l’altro, elogiavano il suo coraggio, la sua intelligenza, la sua magnanimità». 


Persino i suoi antichi nemici, che una tregua inaspettata ha trasformato in alleati temporanei, non possono fare a meno di riconoscere le sue doti eccezionali.


Il teatro della vicenda è l’impero zarista della metà del XIX secolo nelle mani di un governante vanesio e debole che cela la propria incapacità politica e militare dietro una cortina di sfarzo e feste galanti e al tempo stesso si abbandona ad atti di crudeltà estrema verso coloro ai quali rifiuta ogni confronto leale. La figura di Nicola I emerge in tutta la sua pusillanimità, ecco perché nel corso degli anni il libro ha subito più volte la censura.


Questo romanzo è soprattutto il confronto tra due mondi, due culture, due popoli con radici comuni ma in forte contrasto tra loro. Le lotte fratricide per il predominio della terra dilaniano intere generazioni: da un lato i ceceni, la vita nomade soggetta ai ritmi della natura, le notti sotto le stelle, le corse a cavallo per steppe sconfinate; dall’altro la raffinata corte dello zar, gli intrighi di palazzo, un esercito blasonato composto di cadetti «in brillanti uniformi».


Tuttavia non si può far a meno di notare il capovolgimento di prospettiva: non sono i potenti russi a ispirare la nostra simpatia ma le minoranze etniche ai confini dell’impero, accusate di barbarie e inciviltà, ma portatrici di valori inviolabili quali l’onore e la famiglia. 


Nonostante la guerra sia crudele e spietata, c’è sempre chi è pronto a elogiare l’uso delle armi e lo scontro a fuoco, Tolstoj attribuisce al giovane soldato Butler «un piacevole sentimento di gioia di vivere» alla vigilia di un agguato: «La guerra se la immaginava solo così, si esponeva al pericolo, alla possibilità di morire, e con ciò guadagnava decorazioni. L’altro lato della guerra: la morte, le ferite dei soldati, per quanto possa sembrare strano, non si presentava alla sua immaginazione. Egli inconsciamente, per conservare la propria raffigurazione poetica della guerra, a volte non guardava neanche i morti e i feriti».


È un romanzo cruento e crudele quello di Tolstoj e riporta alla mente Salammbô e il grido poetico di Flaubert: «Soyons féroces». Infatti i due romanzi illustrano le atrocità della guerra senza risparmiare i particolari più raccapriccianti. Ma che si tratti di Cartagine contro i mercenari all’indomani della prima guerra punica, o dell’impero russo contro i ribelli al confine, entrambi mettono in evidenza il ruolo degli interpreti. Questi grandi mediatori hanno un compito delicato poiché dalle loro parole dipendono le sorti delle nazioni. Chadži-Murat parla diverse lingue eppure deve affidarsi a un interprete.


Così come in Salammbô la rivolta dei mercenari scoppia in seguito all’uccisione degli interpreti:«Gli interpreti, che dormivano all’esterno, non sorsero in piedi né si mossero. Giacevano per terra supini, con gli occhi sbarrati, la lingua stretta fra i denti e il volto livido; un muco bianco colava loro dalle nari, e le membra erano irrigidite, come se il freddo notturno li avesse congelati».


Nonostante le stragi, i fiumi di sangue versato e la ferocia degli uomini contro i propri simili, una delle scene più toccanti lascia al canto degli uccelli l’ultimo commento: «Gli usignoli, che durante la sparatoria erano rimasti muti, si rimisero a cantare, prima uno vicino, e poi altri da un angolo lontano». Perché nessuna parola può realmente descrivere l’orrore della guerra. In Mattatoio n. 5, di Kurt Vonnegut, dopo il bombardamento di Dresda nel 1945, il canto degli uccelli echeggia nell’aria: «Poo-tee-weet». L’onomatopea del cinguettio esprime l’incomprensibile inutilità di ogni massacro.


 
(Lev Tolstoj, Chadži-Murat, trad. di Paolo Nori, Voland, 2010, pp. 198, euro 10)


“Moffie” di Carl André van der Merwe

Pagine dure, queste. Dalla prima all’ultima.
Pagine di tenerezza e di crudeltà che si alternano, spiazzandoti. 
L’autore (al suo primo romanzo) riesce a farci immergere nel mondo del giovane protagonista con un realismo freddo, davvero molto efficace, a volte persino straziante, stemperato però sempre da pennellate di speranza e da una vena ironica che getta luce sulle vicende drammatiche e ti fa tirare un sospiro di sollievo.

All'età di diciannove anni, nel pieno della giovinezza dunque, Nicholas van der Swart è chiamato alle armi dall'esercito sudafricano: siamo negli anni ’80, durante la guerra al confine tra Namibia e Angola contro gli indipendentisti dei due paesi. La guerra è già di per sé un contesto estremo, complicato da affrontare e da vivere in prima persona. Peggio che essere un soldato, però, è essere una soldato omosessuale. Nick è proprio uno di loro, è un moffie, termine con cui gli Afrikaner indicano con disprezzo gli omosessuali: è un ragazzo delicato, sensibile, che non vuole combattere.La vita nell’esercito è impossibile, è un sistema che per la violenza e l’assurdità dei rituali, uccide i soldati per sfinimento ancora prima di mandarli al fronte.

Il romanzo si sviluppa per giustapposizione delle esperienze umilianti di Nick all’interno dell’esercito e dei relativi ricordi di quand’era bambino, della sua casa e della sua vita prima. Quasi tutti i ricordi dell’infanzia sono episodi spiacevoli con suo padre, che vede in Nick una “femminuccia” e lo redarguisce in continuazione.
Suo padre è uno di quegli Afrikaner che sostiene la rigidità della Chiesa riformata olandese, che costringe suo figlio a guardarlo mentre uccide con sadismo animali selvatici. Ma suo figlio non è come lui: «Mio padre ha mandato nell’esercito un ragazzino dall’omosessualità velata e ha avuto indietro un omosessuale consapevole».

Guerra e omosessualità sono dunque i due grandi temi di questa storia, con la conseguente sofferenza emotiva e fisica che ne deriva. Però, nonostante le tematiche impegnative e la storia poco romanzata, la lettura scorre grazie ai numerosissimi dialoghi e al linguaggio semplice ma evocativo dell’autore, che attenua la brutalità dei fatti.

 

 

(Carl André van der Merwe, Moffie – Un gay in guerra nel Sudafrica dell’Apartheid, trad. di Valentina Iacoponi, Iacobelli editore, pp. 288, euro 16)