“Il corridoio di legno” di Giorgio Manacorda

La poesia è una forma di rivolta. Perché sceglie le parole solo per scassinarle. Le manomette, ovvero appoggia la mano per turbare quell’ordine scabro in cui le ha trovate. La poesia, quella vera, quella che non cola da una rima baciata e non è una stalattite d’inchiostro su un biglietto d’auguri, ecco, quella poesia sa benissimo che gli equilibri s’affacciano per essere rotti e cercati di nuovo. La poesia si ribella, alla morale della sintassi, alla morfologia di una pagina. Ed entra solo per sconvolgerla. Come fa l’amore. Come fa la rivoluzione. Non bussa, non avvisa. Scardina e basta.

E se la poesia è una forma di rivolta, forse anche la rivolta può essere una forma di poesia. L’autore incorniciato in queste righe, s’intende di entrambe. Perché camminano dentro il suo sangue. Settantuno anni di vita letteraria, di grandi incontri, di storia intensa. Figlio di un partigiano, poeta e amico di Pasolini, Moravia, Zavattini e Bassani. Di uomini impegnati a esserlo e non a portarsi in giro sperando che qualcuno li indichi per strada. Giorgio Manacorda, esperto e docente di letteratura tedesca, critico e scrittore, campeggia quest’anno tra i finalisti dello Strega con il suo Il Corridoio di legno (Voland).

Romanzo crudo, di quelli che non scivolano in gola, se non dopo molti bicchieri d’attesa.

Un poliziotto sbarca a Berlino per un’indagine, una di quelle che travalicano fin dall’inizio il perimetro euclideo del proprio lavoro. Il collegio in cui approda è lo stesso in cui ha inchiodato la sua adolescenza, quei mattoni lo hanno visto tremare, leggere e sorridere. Sono stati il teatro delle sue prime amarezze.
Esattamente lì è cresciuto insieme ad Andrea e a suo fratello Silvestro. Andrea appartato e intelligente, Andrea inadatto alla ginnastica, troppo magro e friabile, vittima da applauso, obiettivo eccellente di tutte le angherie del gruppo, di quelle frustrazioni calcificate nelle vene. Che dovevano fluire, per non schiacciarli tutti. Andrea portato in bagno nella notte, attraverso il corridoio, spogliato come se non fosse già abbastanza nudo, arroventato con l’acqua più calda e poi ghiacciato dal getto contrario. Andrea che dopo aver subito non è stato più lo stesso. Andrea che ha capito di dover fare il salto, di coprire quel dirupo con un volo. Di doversi ribellare, di scrivere i suoi versi sov-versi-vi. Nella sua storia e in quella maggiore.
Andrea, una volta in Italia, ha abbracciato la lotta, quella armata. E così ha fatto anche Silvestro, col carattere adatto per essere un leader, per abbattere il Sistema. Ma chi combatte, come chi sceglie la poesia, manipola rischi, anche quando riposa, anche quando non lo sa. Chi combatte non può dire “domani” con troppa certezza. Silvestro sparisce, inghiottito da una bolla di ipotesi vaghe.
E Andrea torna a Roma dopo un esilio di tormento, per capirne di più. E mentre setaccia risposte, pesca altre domande. Qual è la verità e dove abita realmente? Chi ha ragione, colui che si sente in diritto di uccidere per un ideale? O colui che reputa la vita un valore superiore a tutti gli altri, esorbitando da ogni magnifico scopo supremo? E cosa sono gli ideali, un surrogato di Dio per chi non gli crede? Un altare di ferro e pallottole? E cosa resta dopo l’utopia, dopo gli scontri e il furore? Solo il terrorismo? O peggio ancora la polvere?

Dubbi che diventano tagli, graffi sulla mente di Andrea e su quella dell’agente che indaga. E ovviamente sul lettore.

Una scrittura maestra, piena e matura, che sa dosare ritmi e battute. Una scrittura che conosce il potere della poesia anche quando tocca la prosa. Una scrittura a cui bastano pochi tratti per pennellare il dolore, la disfatta che comincia dall’interno, prima di farsi sociale, un «male privato che si trasforma in pubblico».
Una vicenda sapiente, che racconta comunque il premio di scrivere. Al di là di quello che deciderà lo Strega.


(Giorgio Manacorda, Il corridoio di legno, Voland, 2012, pp. 159, euro 13)

“Ivan il terribile” di Alcìde Pierantozzi

Ivan il terribile è la storia di un’adolescenza difficile; l’adolescenza di Ivan, di Sara e di Federico, sbocciata su terreni familiari disgraziati e infelici e che ha reso i giovani protagonisti del romanzo aspri, cinici, a tratti cattivi nei gesti e nelle parole.

Riconsiderando a fine lettura il romanzo di Pierantozzi nella sua totalità, lo stato d’animo che permane, lasciando altresì un sapore amaro, è quello di un’inquietudine di fondo che trae origine dalla capacità dello scrittore di saper cogliere e descrivere, nella loro crudezza, scenari di miseria materiale ed emotiva contro i quali si staglia, dibattendosi, la già tormentata, e nel contempo fragile, temperie adolescenziale.

Ivan, Sara e Federico sono la risultante di due differenti realtà: la prima, quella sociale, che plasma e permea l’essere umano dotandolo di un determinato bagaglio culturale; la seconda quella intima, personale, che si nutre di speranze, aspirazioni, desideri, inseguendo i quali il singolo individuo emerge dalla massa distinguendosi per attitudini sue particolari o particolari qualità.

Le storie dei giovani protagonisti sono molto diverse tra loro, ma in verità molto simili: ognuno alle prese con una vita familiare turbolenta, ognuno aggrappato a un sogno e determinato a realizzarlo, per fuggire da una condizione soffocante e avvilente. Ivan, figlio di un disabile, orfano di una madre che lo ha abbandonato in tenera età e uscito da poco da un riformatorio, convive con una rabbia interiore che lo divora, ma sogna di fuggire lontano con un amico conosciuto in carcere, anche lui un disadattato, l’unico, fino a quel momento, ad aver aperto una breccia nella dura corazza di Ivan; Sara, figlia di una donna senza qualità, si guadagna da vivere lavorando in un maneggio, dividendosi tra lo studio, il lavoro, la sua migliore amica e la sua cavalla, allenandosi con impegno per gareggiare in corse equestri che immagina di vincere trionfalmente per riscattarsi da una vita che detesta; Federico, benestante, figlio di una nota artista internazionale, scrive soggetti cinematografici, si nutre di letture colte e, pur provenendo da un ambiente molto distante da quello in cui vive e studia, dimostra grande umiltà e saggezza, una sensibilità spiccata e una maturità insolita per i suoi sedici anni che lo aiuterà a elaborare il lutto per la perdita di sua sorella e a convivere, a causa della stessa, con gli squilibri mentali di sua madre, devastata dal dolore.

La storia, narrata in prima persona e a fasi alterne da Sara e Federico, ruota principalmente intorno alla figura di Ivan, bello, tenebroso e indomabile, che tanta parte avrà nella vita degli altri due protagonisti e che condurrà l’intero plot a un epilogo inatteso e scioccante, svelando d’un colpo chi realmente si cela dietro i soffici riccioli neri e gli occhi verde smeraldo così tanto amati e adulati per l’intera vicenda dai suoi compagni.

«Ivan […] non mi mollava il braccio, sempre con la faccia premuta sul mio orecchio e una mano dietro la schiena che cercava di tirare via la bottiglia. Per un attimo sono rimasto a guardarlo di sbieco senza rispondere niente, senza nemmeno ribellarmi. Ho sentito che il suo alito sapeva di fumo e di latte. I suoi occhi erano pieni di un odio profondo. Erano foglie di menta o monete sporche di muschio in chissà quale lago».


(Alcìde Pierantozzi, Ivan il terribile, Rizzoli, 2012, pp. 324, euro 19)

“Pirati! Briganti da strapazzo” di Peter Lord e Jeff Newitt

Dio non smetta di salvare la regina e i suoi sudditi, la plastilina e il silicone (ma solo per certi usi), la fantasia e le invenzioni rimarchevoli che danno gioia d’essere al mondo e di vedere un film d’animazione con la stessa frenesia emotiva che prende a un bambino. Gente seria e lodevole questi inglesi. Talmente seria da fare la differenza nel realizzare prodotti a diffusione mondiale, o di intrattenimento di massa che dir si voglia, ma non in serie; esemplari di umorismo ed eccentrica leggerezza che sanno coniugare meccanismi comici antichi e rodati e commistioni di tecniche sia nuove che collaudate. Gente così seria da riuscire a prendersi in giro e irridere le proprie sacre istituzioni (la regina, l’impero britannico, l’ideologia coloniale, il patriottismo, il culto dei propri personaggi di culto) e un manipolo di figli suoi (Charles Darwin e altri scienziati radunatisi a corte) attraverso un “semplice” cartone animato. Funziona così il mondo di Pirati! Briganti da strapazzo. Lo studio Aardman Animations di Bristol che ha fatto conoscere il suo marchio originale in precedenti creazioni (Galline in fuga, Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro, e i più recenti Giù dal tubo; Il figlio di Babbo Natale) per l’uso della plastilina, stavolta ha superato se stesso con una complessa macchina d’animazione all’insegna dell’uso simultaneo di più tecniche (plastilina, ma anche silicone per creare i personaggi animati a mano fotogramma per fotogramma; stop-motion ma anche, per la prima volta, computer grafica per dare una completa impressione di realtà, profondità, proporre scenari e animazioni di ampio respiro in precedenza impensabili), della cura minuziosa dei dettagli, del gusto della storia e della capacità di realizzare un equilibrio perfetto tra sceneggiatura, effetti speciali e soluzioni visive. A differenza dei precedenti, stavolta la trama è ricavata da una serie di romanzi dello scrittore Gideon Defoe che si è occupato della sceneggiatura. È nata così la storia di Capitan Pirata, imbranato e bonaccione filibustiere, e della sua ciurma piuttosto sgangherata e caotica. Capitano ambisce al titolo di Pirata dell’anno ma deve vedersela con concorrenti ben più dotati, capaci di predare davvero e collezionare ricchi bottini. Finché non si scopre la “gallina dalle uova d’oro”, che poi gallina non è trattandosi di Polly, la pappagallina di bordo, sempre sulla spalla del capitano o nascosta sotto la sua barba. Dopo una serie di esilaranti arrembaggi fallimentari, l’incontro della ciurma con un giovane Charles Darwin che si rivela accigliato, infido, inibito nell’incontro con le donne e monomaniacale nel suo approccio etologico al mondo, accompagnato da una scimmia maggiordomo che parla usando bigliettini, permetterà di scoprire in Polly un prezioso e raro esemplare di Dodo. Dire altro non si può né si deve. Sgorgheranno a fiumi le complicazioni (oltre alla birra bevuta nei pub), le peripezie e le avventure che porteranno i nostri eroi dall’isola sanguinaria alla nebbiosa Londra vittoriana. Fino a corte, a tu per tu con una frivola e detestabile regina Vittoria, acerrima nemica della pirateria, bulimica di cibo stravagante, cultrice di banchetti eccentrici a base di rarità, come di oro e averi. Si ritroveranno poi tutti sulla nave della regina, la Queen Victoria 1, in una esplosione di umorismo, fantasia, canzoni rock, stravaganze fino alla surreale resa dei conti finali con la sovrana stessa. Nel doppiaggio italiano si riconoscono le voci di Christian De Sica e Luciana Littizzetto contro gli originali Hugh Grant e Imelda Staunton. La casa di produzione inglese Aardman Animations, nata nel 1976 si è fatta conoscere e ricordare nel panorama dell’animazione, dominato da colossi mondiali, per l’uso di una tecnica inconfondibile: la stop-motion che, a differenza di altre forme di animazione, si basa sull’uso di set in miniatura costruiti a mano per intero, modellini realizzati con infinita cura e rivestiti da costumi dettagliatissimi, illuminazione di stampo cinematografico, infinita dose di pazienza per modellare gli incantevoli personaggi da loro creati. Se non è arte questa! Casa Aardman è inconfondibile anche per la cosiddetta Claymation, l’uso di modelli di plastilina, perfezionata nel corso degli anni fino ad arrivare ora all’uso congiunto del latex. Sforna quindi film che si fanno attendere anche anni perché richiedono lunghissima preparazione. Per realizzare quest’ultimo di anni ce ne sono voluti cinque. Che atmosfera differente rispetto alle produzioni statunitensi, a certi pirati dei Caraibi e dintorni! Qui gli eroi sono tali proprio perché antieroi, simpatici falliti; vincono perché impacciati, maldestri, pasticcioni. Se alla perizia artigianale che va contro le logiche e i tempi del mercato, si aggiunge la sapidità che solo il british style sa conferire a una storia (per l’humour, le trovate, le citazioni sottese, la comicità muta, la simpatia dei personaggi), ecco il perché di tanto entusiasmo “filibustiere”. Anche un cartone può essere una geometria perfetta.

“Malacrianza” di Giovanni Greco

Un senso di malessere che prende allo stomaco e che sale a ogni pagina, e la voglia. La voglia di andare a stanare i fatti nel punto in cui tutto si inceppa, la luce si spegne e viene svelato lo scandalo di una verità indicibile e inascoltabile. È lì che si annida la violenza, intrisa della smemoratezza di qualsiasi dignità umana. Storie di un’infanzia tradita e senza diritti che si intrecciano confondendo volti, volti innocenti, volti violati, che non hanno più lacrime da versare, volti violenti, spudorati, affamati, volti perduti per i quali il domani non è diverso da ieri.
Malacrianza, romanzo d’esordio dell’attore, regista teatrale, poeta e ora anche narratore Giovanni Greco, Premio Calvino 2011 e finalista al Premio Strega 2012, non è una lettura rilassante. Fa di tutto per mettere a disagio il lettore. E lo fa assumendo, nella prima parte, una prospettiva distaccata e priva di pietismo con la terza persona; nella parte centrale quella interna dei piccoli protagonisti, utilizzando la prima persona, per poi passare al tu nell’ultima parte: «Hai ricordato il futuro, per un attimo. Il bruco che si ricorda della farfalla. E poi hai dimenticato il futuro perché quello che non si ricorda è quello che si è». Il futuro è l’inevitabile destino di morte. Dimenticare qualcosa che non è ancora accaduto è indispensabile per poter vivere anche una vita piena di sbagli. «Che cosa stai facendo?» è la domanda ossessiva che ritorna in corsivo in quasi tutte le storie, atto di accusa di un mondo adulto che con le sue regole dispensa solo divieti.
Mala creanza è la cattiva educazione, ma criança in portoghese è la creatura, il bambino che ha finito per assumere l’accezione dispregiativa di “bambino di strada”, “bambino cattivo”. La creanza è nel dialetto napoletano pure lo scarto, il rimasuglio di cibo lasciato nel piatto dal bambino inappetente, che il genitore impone di finire. Si va così dalle ripicche domestiche alle violenze più atroci come lingue tagliate, elettroshock, poliziotti brasiliani che uccidono il piccolo delinquente all’ordine di «Acaba com a crianza», «Finisci la creatura». Questo caleidoscopio di significati attraversa tutta la complessa architettura costruita dall’autore. Frammenti di vite che si rincorrono, si spezzano e si ricongiungono, sfumando identità e confondendo il lettore, inducendolo a dubitare sulle sue stesse capacità di distinguere i vari personaggi. In fondo il protagonista di queste storie è uno solo, un unico corpicino dolente, immagine universale di un’infanzia maltrattata, calpestata, mutilata e venduta.
Malacrianza è un viaggio allucinante in un inferno dantesco geograficamente sconfinato che abbraccia tutta la terra, dalle favelas sudamericane alle fogne dei paesi dell’est, dal nostro meridione al Medio Oriente. Inutile affidarsi alla ragione. Non c’è niente di ragionevole, né Greco dà al lettore il conforto di un Virgilio. Si dice di una realtà che è solo violenza, prevaricazione, annientamento, paura, fame e povertà. Un’atmosfera dickensiana aggiornata drammaticamente all’oggi. A differenza del grande cantore dei bassifondi londinesi qui non c’è redenzione, non c’è riscatto come anche in grandi scrittori come Dostoevskij o Victor Hugo. Malacrianza è erede di un delitto senza castigo come Il processo di Kafka. I bambini sono vittime di soprusi ma non sanno il perché né si autocommiserano. Non conoscono il male tanto da confonderlo in un bisticcio linguistico con l’immagine ben più rassicurante del mare: «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal mare… per anni aveva pregato così, di liberazioni dal mare: vedeva le onde, le barche, ci metteva delle nuvole e del vento per spaventarsi un po’ di più, perché a lui in realtà il mare piaceva, qualche lampo e qualche tuono per rendere tutto più minaccioso, ma proprio non capiva perché tra le tante cose importanti da chiedere a dio ci dovesse stare pure la liberazione dal mare – lui nuotava bene e tutti quelli che conosceva, pure, e si divertiva al mare».
Sono proprio tali storpiature linguistiche e grammaticali a sdrammatizzare le scene più efferate. Questi bambini in fondo conservano l’innocenza proverbiale della loro età. Non c’è però salvezza. Anche l’anjo de guarda, quando c’è, non è che uno dei tanti sfruttatori di questa infanzia tradita.

(Giovanni Greco, Malacrianza, Nutrimenti 2012, p. 268, euro 18)

Medeski, Martin & Wood in concerto a Roma

Il nucleo centrale della musica del trio Medeski, Martin & Wood, andata in scena sabato 28 aprile all’Auditorium di Roma, è rappresentato da una concezione artistica che riafferma l’assioma impressionistico di una tavolozza pittorica usata istintivamente, dalla quale emergono figure che si stagliano informi su di un flutto tempestoso e continuo di materiale sonoro. Pennellate violente di organo, basso e batteria dipingono la realtà per impressioni soggettive esaltando, quali protagonisti assoluti della serata, le emozioni ed i sentimenti suscitati dal reale, senza i quali, per dirla con Baudelaire, l’oggetto artistico sarebbe assolutamente privo di valore. Nella musica del trio americano si riflette, così, il sole che sorge sul porto di Le Havre visto da Monet, lo sguardo di Turner sull’incendio alla Camera dei Lords e il ballo al Moulin de la Galette di Renoir. Impressionismo in salsa fusion.

Musicalmente siamo di fronte ad un incrocio tra l’accademico e il visionario, tra il folle e il retorico. Il jazz dei be-boppers incontra il funk di James Brown e di Maceo Parker, mentre la fusion del Miles Davies di Bichtes Brew (Columbia, 1970), strizzando l’occhio alla psichedelia americana e al progressive rock europeo, si mescola al free-jazz di Ornette Coleman. Si ritrovano poi, sparsi qua e là con maestria, echi del Billy Cobham di Spectrum (Atlantic, 1973), di John McLaughlin e della Mahavishnu Orchestra, di Marcus Miller e di Chick Corea. Il tutto viene amalgamato e ancorato a terra saldamente, splendidamente, da un groove fangoso e sublime, sporco e ammaliante al tempo stesso, frutto di un inter-play prossimo alla perfezione. Dai diamanti non nasce niente, diceva il poeta, dal letame nascono i fior.

John Medeski è il signore indiscusso dell’Hammond B3. Arroccato dietro quella sua roccaforte fortificata si ingegna con ogni tipo di diavoleria tecnologica applicata al mondo dei tasti bianchi e neri. Suona come un tarantolato che raggiunge nuove vette lisergiche assaporando i suoni dei suoi moog, dei suoi sintetizzatori e dei suoi piani elettrici: suoni paludosi come non mai. Sembra come se Medeski incarnasse tutta una serie di stili musicali che richiamano alla mente molti grandi tastieristi del passato senza però identificarsi mai in uno in particolare. La sintesi è, in questo modo, unica e personale. Nel suo linguaggio ritroviamo importanti influenze jazz-fusion, come quella di Keith Jarrett, il quale, prima di intraprendere la via del jazz luminoso ed iridescente degli ultimi anni, era alla corte di Miles Davis durante quell’epico concerto del 20 agosto 1970 all’Isola di Wight, quando il jazz incontrò il rock di fronte ad un pubblico ammutolito ed estasiato. Forte è anche la presenza di Joe Zawinul, indimenticato tastierista dei Weather Report, e dell’Herbie Hancock elettronico degli Head Hunters. Ma vi sono anche forti richiami a tradizioni più tipicamente europee, come lo stile barocco di Keith Emerson degli Emerson, Lake & Palmer e, a tratti, addirittura le tastiere da ambizioni cosmiche del Klaus Schulze di Irrlicht (Ohr, 1972).

Dall’altra parte del palco, simmetricamente e concettualmente opposto a Medeski, troviamo Billy Martin, che rappresenta l’altro-da-sé essenziale nella definizione identitaria del trio. Egli incarna più che mai quell’ideale di musica giocata ben rappresentato dalla morfologia delle lingue anglosassoni: tamburi e piatti, ma anche giocattoli, ninnoli, maracas e fantasiosi e molteplici oggettini metallici rappresentano il bagaglio percussivo a cui questo batterista-bambino si affida. Martin sembra quasi un batterista pascoliano che esplora, colora e disegna una intricatissima e spensierata ambientazione forestale, insinuandosi nel cuore di tenebra delle più spericolate evoluzioni ritmiche. Tra i due poli della palude e della foresta si insinuano i giri di basso gattonati di Chris Wood, che si muovono tra ovattate neurosi elettriche e ipnotiche oscillazioni contrabbassistiche, nelle quali l’archetto è usato con così tanta fantasia e improprietà di linguaggio da far sobbalzare sulla sedia gli insegnanti di conservatorio presenti in sala. Dimenticatevi l’idea del trio jazz classico. Nessuna somiglianza, ad esempio, con la cristallina trasparenza esecutiva del trio Jarrett-Peacock-DeJohnette, che è forse l’incarnazione moderna più famosa della sintassi piano-batteria-contrabbasso. Leggerezza e assenza di peso da una parte, impasto di terriccio fertile dall’altra.

In questo modo questi tre sperimentatori americani, cresciuti nella New York anni novanta della sbronza funky e hip-hop, inclinano a piacere il materiale sonoro. Lo modellano, lo plasmano esibendosi in un contorsionismo musicale che rende docile la materia e onnipotente il musicista suo creatore. Si edifica così un monumento dinamico e cangiante, sempre mutevole, che dà vita ad un unicum sonoro nel quale sembrano scomparire le classiche divisioni tra momenti solistici e ritmica. Risultano estremamente sfumate anche le differenze tra i diversi momenti strutturali dei brani, tanto che spesso risulta difficile riconoscere persino il tema principale dei pezzi, che si confonde e diventa tutt’uno con l’improvvisazione, dilatando l’esperienza estetica. La musica si fa quindi visiva, ipnotica. Perdendo quel barlume di orizzontalità che la lega al tempo essa sfuma indistintamente in continue e ripetute discese e salite verticali. Queste ripidità umorali, rompendo continuamente un equilibrio che fingevano di aver raggiunto in precedenza, ricordano molto da vicino le tecniche compositive di uno dei più grandi compositori jazz della storia: quel genio pazzo e arrabbiato che risponde al nome di Charlie Mingus, punto di riferimento obbligato per tutta la musica improvvisata contemporanea, al quale i tre musicisti americani rendono un omaggio atteso e forse dovuto eseguendo una versione magmatica e molto personale di “Nostalgia in Times Square”.

Alla fine del concerto si esce decisamente frastornati, quasi allucinati. Il sorriso sulle labbra e la voglia di muoversi fanno capire che il groove è stato il protagonista indiscusso della serata. L’indagine ritmica, punto fermo della proposta musicale di Medeski, Martin & Wood, viene concepita come collegamento umorale tra musica e corpo che va a creare un movimento incessante e mobile, martellante e fluido al tempo stesso. Così travolgente che ad un certo punto sembrava addirittura che tutta la struttura dell’Auditorium si muovesse a tempo, in una fantastica e surreale alleanza tra architettura e musica. Il rischio di cadere dalla sedia è stato altissimo.

Il concerto di Medeski, Martin & Wood è andata in scena sabato 28 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

L’io poetico di Vittorio Sereni

Vittorio Sereni è uno degli autori che ogni aspirante poeta o scrittore, in genere, dovrebbe avere sul comodino. In lui ritroviamo la trasparenza linguistica, i temi e la dialettica sofferta tipici della grande poesia. La coscienza, spesso sotto forma di poesia intimistica, costituisce, per l’autore, un macigno ineludibile, quell’ostacolo invalicabile dal quale non si può prescindere. I conti risultano sempre aperti e sono lo spunto di una profonda autoanalisi, di un’accurata disamina storica e sociale. Sereni aveva preso parte alla seconda guerra mondiale ed era stato prigioniero in Algeria, fatto personale e storico alla base della raccolta Diario d’Algeria. Inoltre, uomo più intellettuale che mondano e politico, aveva sempre sofferto il fatto di non aver preso parte alla guerra partigiana. Da questo evento, nasce il senso di colpa dell’appuntamento mancato nei confronti della storia. Rimpatrierà in Italia solo nel 1945. La sua concezione del nemico, come in Ungaretti, Pavese e De Andrè – penso a “La guerra di Piero” – è un sentimento di pietas nei confronti di un uomo che, pur indossando un’altra divisa, condivide la stessa identica miseria.

L’appuntamento mancato è, ad ogni modo, alla base della frantumazione dell’io, la cui coscienza è vigile e torna sempre a bussare alla porta. L’io poetico si manifesta sotto varie forme: dalla riflessione autobiografica a quella incentrata sul fatto storico, dall’abbozzo paesaggistico alla speculazione intimistico-filosofica fino ad arrivare alle varie sfumature del “tu”. Il “tu”, come spesso accade, può essere l’alter egodel poeta ma non è cristallizzato e, in molti casi, coincide con il tentativo di dialogo con una persona cara, una donna o a un grande amico. L’amicizia, appunto, è un valore assoluto e universale corrispondente, nel nostro autore, alla coscienza dell’esistere, costituisce il “contrappeso” al fluire del tempo, alle fatiche e sofferenze del quotidiano. L’affanno psicologico sempre vigente in lui è, lo ribadiamo ancora, legato al senso di colpa nei confronti delle negligenze storiche, dell’appuntamento mancato. La colpa, malgrado più volte meditata e rielaborata, non giunge mai all’espiazione ma, semmai, può essere solo accettata e dolorosamente pacificata.

Le colpe, l’impegno sociale e personale nel quotidiano sono come i versi che vengono fatti per «scrollarsi un peso/ e passare al seguente». Ne discende un atteggiamento verso la vita fatto di pragmatismo e speculazione il cui contrappeso è costituito dall’amicizia. Il «fastidioso debito» è sempre presente e la sua ammissione non ha nessuna funzione redentrice né salvifica, ma altri non è che la coscienza spietata che tutto riannoda. In buona sostanza, assistiamo a una parabola civile in cui testimonianza e disamina storico-autobiografica costituiscono i due poli della poetica.

Altro punto fondamentale della poesia di Sereni è costituito dalla topografia: se da un lato abbiamo a che fare con il mero scenario in cui si svolgono gli eventi, dall’altro la scelta dei luoghi non è mai casuale ed è caricata di una funzione simbolica. La Cisa, Zenna, Creva, Belgrado, l’Algeria, Via Scarlatti e Luino sono le tappe che scandiscono l’esistenza del poeta, i varchi che portano da un momento all’altro della storia ricostruendo il quadro di un’esistenza singola e di un intero periodo consegnato alla storia. L’attenzione alle classi sociali e alle loro difficoltà (“Una visita in fabbrica”) così come il riguardo verso i fatti storici più eminenti (“Frammenti di una sconfitta”, “L’otto settembre”) è costante, una vera vocazione.

La poesia di Sereni è una lirica profondamente intima, pragmatica e scandita da un linguaggio semplice, soppesato e, per lo più cristallino, ma mai scontato. Nella sua vita, come nella sua opera, ci sono molti influssi novecenteschi che, a tratti, il poeta cerca di superare.

In conclusione, la poesia di Sereni ha un’indubbia aspirazione al diarismo e al romanzo in versi in cui, l’io (e le sue innumerevoli sfaccettature) è il protagonista assoluto della narrazione. La lirica dell’autore è, in una parola, «onesta», come avrebbe detto Umberto Saba, portatrice di valori universali e mediata da uno spirito dolorosamente pacificato. Sereni si era sempre tenuto fuori dalla querelle letteraria, preferendo il silenzio e il lavoro alle luci della ribalta e mondanità. Tra i suoi estimatori c’erano Attilio Bertolucci, con il quale condivideva l’aspirazione al romanzo in versi (La camera da letto) ed Eugenio Montale che del poeta lombardo apprezzava la coerenza linguistico-discorsiva, l’incisività dei frammenti e la tendenza al canzoniere, inteso sia sul versante amoroso che con l’accezione di cronistoria della vita di un uomo.
 

“Raep – racconto del presente” di Mauro Santopietro

«Le delusioni sono unite dalla ferrovia», dentro la gola di Flavio Giurato.
E non perché chiunque, a distanza di porte e paesi, si trova a sbuffare per un convoglio in ritardo, per un arrivo sgraziato o una partenza impigrita. Come una cerniera che non fa che tossire ad ogni passaggio.
Le delusioni scorrono, come un plasma avariato, un umore di sabbia che affanna le vene, perché i treni sanno congiungere i destini.
Quando viaggiano e quando si fermano. Nello spettacolo Raep – racconto del presente di Mauro Santopietro andato in scena al teatro Argot di Roma, i vagoni si arrestano due volte, perché forse sono l’eco della stessa fermata.
Un operaio (Mauro Santopietro) muore, sprofondando nel dirupo del tratto ferroviario Roma-Napoli, nell’occhio scuro della terra. E il rumore della fine pesa quanto una caduta. Si assorbe con l’alba, sibila al vento le ultime briciole. Muore perché è facile, non ci vuole niente. E la sua opera verrà sudata altrove, sulle valli di altre mani. Con altri lamenti, che sembrano di ferro, giusto un secondo prima di evaporare.

Sullo stesso palco, tra reti e sentieri disciolti nell’aria, uno studente (Tiziano Panici) si suicida a Roma, presso la stazione della metro Tiburtina e anche lui dura l’attimo dell’urto, è il sapore di uno schianto di vent’anni, condensati nella vasca dell’impatto.
Una vita strappata, come un cerotto, su una pelle con troppe ferite. Provengono da mondi diversi, da età che i costumi inchiodano agli antipodi, ma a cucire le impronte ci pensano i binari. E un dilemma comune: il lavoro.
Perché entrambi ne sono schiacciati. Il primo procede a testa bassa, infila un gesto dopo l’altro mentre aspetta la luna, fatica, parla poco, sparge fango sui suoi giorni e inzuppa i panni di dolore.
L’altro non fa che studiare, materie lontane dalla materia, quindi non fa che ignorare la pratica, cresce allevato da illusioni di successo.
Perché l’infanzia consumista sa abituarti al meglio, te lo mostra ogni giorno, ti racconta tra le righe di uno spot la bella vita che non potrai permetterti.
È il metro in dotazione per contare i centimetri della tua felicità.
L’altro impara una lingua che lo risucchia, che gli insegna soltanto a punteggiare il suo buio di troppe etichette, a ingolfarlo di suoni sperando si rischiari. Ma il lavoro non c’è. Galleggia come un sogno sulla bocca di un inganno. Lo chiamano “lavoro”, continuano a farlo, ma quello che intendono si traduce con miseria, sfruttamento, frustrazione. È un lavoro senza attrezzi, sdentato, scoperto, vulnerabile.
Contratti di cera, che si sciolgono facili, ore malpagate, ore recintate da collane di formule.
Attività a progetto, quando il solo progetto su piazza diventa sopravvivere. E allora tutti progressi, quei chilometri di scioperi e battaglie che hanno creato lavoratori lasciandoli uomini, prima di ogni ordine e organigramma, tutto il furore fatto conquista, rischia di deragliare. O forse lo ha già fatto.
E quell’ignobile passato, notti prime prima delle lotte, adesso ci somiglia troppo. E abbiamo bisogno di jeans e cappuccio per capire quale sia il nostro tempo. Ci aiuta il rap, la favola storta e sincopata che lo studente snocciola durante la sua strada. Perché dopo una laurea inutile, un master che odora di beffa, tutte le belle parole ingoiate vanno sputate fuori.

Cercando assonanze, cercando la rima, con un gioco sottile e potente, dimostrando come i vocaboli sappiano affratellarsi, a volte più degli uomini, per costruire un senso.
«Solo opinioni mai soluzioni» è il motto di questo presente, mentre parole di luce appaiono in scena, a ricordarci quello che dovremmo essere. Mentre una lampadina oscilla dall’alto, guardata come si guarda Dio, con la stessa angoscia, con l’ansia che freme dal basso, con la paura che il cielo ci umili, o ci schiaffeggi ancora una volta. Mentre il violino all’angolo di Sina Habibi accarezza tutti i momenti, i monologhi che sembrano dialoghi e i dialoghi che in fondo sono monologhi alternati.

Una regia semplice e intelligente. Uno spazio pulsante, uno spazio a ridosso che inghiotte il pubblico. Ma il pubblico è già lì. È la stessa carne offerta in pasto al giorno dopo. È il teatro delle occasioni perdute. E di quelle ancora buone, ancora vive, per salire su un treno e trovare qualcuno o qualcosa ad aspettarci al sole.

 

Raep – racconto del presente
di
Mauro Santopietro
con Sina Habibi, Tiziano Panici, Mauro Santopietro.

Andato in scena dal 17 al 29 aprile 2012 presso il Teatro Argot di Roma. 

“Il mondo nuovo” del Teatro degli Orrori

Ci ho messo un po’ a scrivere questo articolo. Non per particolare inerzia, pigrizia e poco stimolo. No, affatto. Ci ho messo un po’ perché Il Mondo Nuovo del Teatro degli Orrori è un disco profondo e complesso. Bello e difficile. Da ascoltare parecchie volte e poi un’altra ancora. Un lavoro con intenti comunicativi e un messaggio ampio da recepire. Da scavare livello dopo livello. Tutto ciò all’inizio può sconfortare, deludere; spinge l’ascoltare debole e superficiale a lasciar perdere. Sia l’ascoltatore che il critico. Ho letto con attenzione recensioni e articoli – alcuni molto autorevoli – su questo prodotto musicale: opinioni completamente divergenti e distanti l’una dall’altra. La critica s’è divisa: o disco non riuscito come si doveva o capolavoro assoluto. Io, ma ci ho messo un po’ a capirlo, ho optato per la seconda possibilità.

Per chi non li conoscesse, Il Teatro del Orrori sono una delle poche rock band italiane a potersi fregiare con onore di questo titolo. Nati dalle basi solide degli One Dimensional Man, per molti, non solo per i fan, sono gli unici a potersi definire tali. È comunque un fatto inappuntabile che i loro due album – Dell’Impero delle Tenebre e A Sangue Freddo – sono già entrati negli annali rock nostrani. Pierpaolo Capovilla ha il carisma, la cultura e la bravura per farsi seguire da legioni di fan, sempre pronte a urlare a squarciagola i testi dei loro brani nei live. Insomma, l’attesa e le aspettative per il loro terzo atto erano alte, se non altissime.

Procediamo parlando dell’album Il Mondo Nuovo, dalla stupenda copertina con l’opera “Face Cancel” di Roberto Coda Zabetta. Musicalmente le basi noise-rock tipiche del gruppo sono confermate e rilanciate alla grande. La tecnica e la verve compongono un contesto sonico impressionante. La batteria di Valente è incessante e furiosa, accompagnata al basso dallo stile ormai inconfondibile di Favero. Capovilla alterna urli da stadio a recitazioni degne del “suo Teatro”, popolato dai citati Pasolini e Slavoi Žižek, solo per fare qualche nome.
Bisogna soffermarsi sul fatto che il disco sia un concept. Un concept sviluppato nel quale – dopo il bellissimo trittico iniziale “Rivendico”, “Io cerco te”, “Non vedo l’ora” – la dolente “Skopje” inizia a tratteggiare le coordinate e i lineamenti di questo Mondo Nuovo, in cui il fenomeno dell’immigrazione è molto di più di un abitudinario tema da pagine di cronaca. È un fenomeno sociale, frutto della globalizzazione, del capitalismo, con ricadute evidenti nella nostra vita di tutti i giorni.

Inizia così il viaggio attraverso “Gli Stati Uniti d’Africa”, con l’inedita apertura tribale, passando per la lentezza desolante di “ClevelandBaghdad”. Da qui in poi, se si esclude “Cuore d’oceano”(pezzo tra i più potenti dell’album con la collaborazione di Caparezza), “Dimmi addio” e il finale di “Vivere e morire a Treviso”, parte la lista dei nomi dei cittadini di questo Mondo. C’è “Ion”, ovvero Ion Cazacu, l’operaio rumeno ucciso a Varese nel 2000, c’è “Martino”, “Monica”, “Pablo”, “Nicolaj”, “Doris” (versione rivisitata dell’omonima canzone degli Shellac) e “Adrian”. Sono loro le persone a cui questo disco dà la voce e la degna musica con cui potersi esprimere, ma soprattutto una nuova vita. Una vita da cittadini liberi.

Andando a concludere, è vero, il disco è molto lungo; i brani sono sedici e si supera l’ora di ascolto. Ma come dicevamo questo è un concept e tale lavoro va per forza sviluppato con i tempi che merita. Non capisco chi si lamenta della sua eccessiva lunghezza; sarebbe come voler togliere svariate pagine a I Fratelli Karamazov: abbrevi il tutto, ma ne perdi il senso e la bellezza del complesso. Il Mondo Nuovo è quindi il disco più ardito e complesso del Teatro degli Orrori, meritevole di tempo e ascolto, capace di comunicare ciò che solo la grande musica può permettersi di raccontare.
Così, quando la band sentirà nei concerti i fan cantare il verso di “Skopje” «non posso fare a meno di voi», sapranno che quel verso è rivolto a loro.


(Il Teatro degli Orrori, Il Mondo Nuovo, La Tempesta, 2012)

La donna agenda

Mi chiamo Giancarlo. Sono un ingegnere di trentanove anni. Lavoro per una società di quelle satellite, cioè per una società che lavora per un’altra società più quotata che lavora a sua volta per un grande cliente statale, o per dirla diversamente: lavoro per una delle terze parti di una multinazionale aggressiva che ha in appalto un progetto ministeriale. Potrei continuare per ore a cercare di ridefinire il mio lavoro senza aggiungere nulla. La cosa importante è che il vecchio manager è sparito da un mese, si dice che sia in Tibet in ritiro spirituale. Troppo stress o forse un’offerta migliore. Nel mio lavoro succede spesso che le persone spariscano da un giorno all’altro. Il brutto è che riusciamo a vivere la notizia senza eccessiva partecipazione. Diciamo che l’indifferenza è forse la caratteristica più marcata della consulenza. Insomma, tornando a me, non faccio il mio vero mestiere: all’università ho studiato il sistema per innalzare ponti, costruire canali d’irrigazione e ricordo ancora tutte le virtù del cemento armato, ma adesso mi ritrovo a fare l’impiegato nell’universo informatico. Cioè ho gli occhi arrossati che guardano il mio personal computer IBM per dieci ore al giorno.
Cosa faccio?
Aspetto…
Cosa aspetto?
Aspetto che “girino” programmi infiniti che rimescolano dati.
Sì, ma cosa faccio?
Aspetto.
È davvero un circolo vizioso. Aspetto… aspetto che le ore scorrano senza misericordia. Se mi dice male alla fine succede una catastrofe, due o tre signori con la cravatta vengono da me. Hanno studiato quando ancora si usavano i cavalli come mezzi di locomozione. Hanno il telefonino dell’ultima generazione nella tasca della giacca sopra la camicia con le iniziali, ma non trovano il tasto per rispondere alle chiamate. Ebbene questi personaggi vorrebbero sapere un “compenso”, un “consuntivo”, un “fatturato”. Sono il loro oracolo, faccio previsioni di Business Intelligence e non smetto di tenere il naso sul PC per due giorni di seguito nel tentativo di capire cosa stia facendo veramente. D’altra parte, se mi dice bene lavoro dieci minuti la mattina e poi, invece di decifrare il sudoku del quotidiano o scambiare messaggi on-line con quarantacinquenni in menopausa che fingono di avere venticinque anni, come molti miei colleghi fanno, beh io leggo su internet le poesie di Walt Whitman:


O me! O vita! Domande come queste mi perseguitano,
D’infiniti cortei d’infedeli, città gremite di stolti,
Io che sempre rimprovero me stesso, (perché più stolto di me, chi di me più infedele?)
D’occhi che invano anelano la luce, scopi meschini, lotta rinnovata ognora,
Degli infelici risultati di tutto, le sordide folle ansimanti che in giro mi vedo,
Degli anni inutili e vacui degli altri, e io che m’intreccio con gli altri,
La domanda, ahimè, che così triste mi persegue – che v’è di buono in tutto questo, 
      o vita, o me?
Risposta.
Che tu sei qui – che esistono la vita e l’individuo,
Che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un tuo verso.


Di versi non ne ho trovati molti tra i corridoi dritti e stretti del palazzo cubico dove lavoro. In compenso ho conosciuto prima e sposato poi una “donna agenda”. Mia moglie è il nuovo manager del progetto, dopo che il vecchio è sparito, e io non ho alcun rispetto per l’autorità. Non ne ho mai avuto e oggi meno che mai, soprattutto sto perdendo la speranza e il rispetto di me stesso. Ricordo tutto fin troppo nitidamente: ero stufo di faticare a trovare uno scopo, e m’illusi di raccogliere il significato della mia vuota esistenza sulle scale. Era bellissima, ma era anche il mio capo. I capelli corti, gli occhiali con la montatura scura appena poggiati sul naso, il fisico snello e sensuale, il profumo delle gerbere in un lago. Erano le 21.15 di un lunedì piovoso. Piangeva sulla rampa di scale del secondo piano, eravamo ancora a lavoro. Quando le sono passato accanto non ho resistito, credendo che fosse una persona diversa dalle altre. Non mi aveva nemmeno sfiorato l’idea che ero ancora lì per un ordine che lei s’era ricordata di infliggermi all’ultimo minuto. Per l’intero pomeriggio avevo guardato le nuvole annerire la volta celeste e poi mi era toccato rinchiudermi fino a notte fonda per una delle solite “catastrofi”. Le avevo chiesto se voleva una mano. Mi aveva confidato di essere in dolce attesa, di un uomo sposato e che non amava. Mi diceva che era ormai al terzo mese di gravidanza, di colpo aveva paura della vita: per la prima volta aveva paura della sua vita. Mi parlava di lenzuolini, di dover colorare di nuovo le pareti di una stanza vuota, mi diceva che ce l’avrebbe fatta, e che avrebbe smesso con .xls, .ppt, .prj. Allora credevo che fosse sincera. Oggi posso aggiungere amaramente di essere stato un ingenuo e di essere diventato un cinico. Sembrava davvero convinta di parlare delle problematiche che ha una famiglia, sembrava capace di essere comprensiva, dolce, e non invece una delle tante che incontravo a lavoro, una di quelle che ti inseriscono tra una lezione di Yoga e un’uscita a teatro, che ti fanno sentire un “aperitivo” mentre loro assomigliano tanto a… un’agenda.
Sì, ho sposato una donna agenda: una fitta rete di spazi bianchi da riempire con attività disparate, curiose, avventurose, inutili forse, ma soprattutto frenetiche attività. Donne che si auto-definiscono single, ma si ritrovano col compagno, l’amante, l’autista, il marito. Donne che segui a fatica, soprattutto se tu hai molto tempo, se ti piacciono le passeggiate lunghe e non parli troppo, ma vorresti ascoltare. Queste donne sono abituate a flussi di dati considerevoli, cascate, valanghe di informazioni, hanno tre cellulari, due portatili, sono capaci di iniziare il sabato mattina andando di corsa a lezione di pianoforte, fare la doccia in palestra, cambiarsi, suonare il primo movimento di una sinfonia di Chopin, tornare in palestra, cambiarsi di nuovo, fare una lezione di full-contact, rilassarsi con una sauna, sopravvivere con una carota, inforcare gli occhiali da sole d’inverno in un giorno di pioggia, telefonarti mentre salgono in macchina e poi incontrarsi con le amiche per un pomeriggio di shopping. Tutto rigorosamente annotato sulla loro inseparabile agenda. Così nel sabato fitto di impegni tu sei una voce, diventi lo striminzito momento di pausa, la tregua dalle fatiche di una corsa veloce. Credevo che mia moglie fosse diversa, ma era il mio capo in ufficio, ora lo è diventato anche a casa. È capace di arrabbiarsi in una riunione e di organizzare già il lavoro di una settimana; speravo che avesse capito che non contava l’etichetta di un vino pregiato, ma che fossero importanti la famiglia, il senso materno, la dolcezza!
Non so bene come, né precisamente quando, so solo che in uno di quei modi in cui un venditore di auto usate ti rifila un catorcio facendoti credere che sia una fuoriserie, ebbene… alla fine la famiglia e compagnia bella, le poppate, i ruttini, le pappine, i bagnetti, l’asilo, la scuola elementare, tutto si è incastrato perfettamente, per ispirazione divina, manco a farlo a posta, in modo organizzato e preciso, tutto è finito sulla sua agenda nuova. Un’agenda elettronica. Ironia della sorte. Di qui la mia frustrazione irrisolta. Mi tocca dividere il letto con il mio capo, due gemelli maschi piccoli, modello elementari nella stanza accanto che fanno partite di calcio nel salotto. Unisco tutto al fatto di aver smesso di fumare e penso di essere diventato vittima di una mutazione genetica. Chiamo il mio male frustrazione, a volte disillusione, ma il sostantivo migliore è decisamente “sconfitta”, l’aggettivo che l’accompagna egregiamente è “vigliacca”. Non mi arrabbio mai. Sconfitta vigliacca!, ripeto tra me sommessamente e amaramente. Sfogo il mio istinto, perché si deve sfogare il proprio malumore fisico in qualche modo, aprendo il frigorifero di notte, a mezzanotte in punto per esempio. Peso 125 kg. Avevo deciso di scrivere una pagina al giorno nel tentativo di dimagrire, la fame era diventata inarginabile. Avevo preso questa decisione, guardando la curva che la mia cravatta rossa disegna sul mio profilo. La giacca blu mi stava stretta sulle spalle. I pantaloni stavano per esplodere. Avevo deciso di scrivere quando i morsi della fame si facevano più forti, quando le poesie non bastavano più, come adesso. Ma poi ho avuto la strana idea di rileggere tutto. Di capire che non potevo essere certo come Proust e che ero rimasto dieci minuti a vagare nel corridoio di fronte alla stanza G317, e volevo addentare un gianduiotto. Ma ho resistito. Pensavo a mia moglie. Stava nella stanza G316 dello stesso piano. Lei è norvegese da parte di padre, italiana da parte di madre. Ha il cognome impronunciabile come Mazinga e… Che diavolo! Stava annotando con il pennino elettronico l’ultimo appuntamento sulla sua agenda, proprio mentre io indugiavo sulla la seconda pagina del mio diario, la più difficile di tutte.
Un brivido mi ha scosso. È stato freddo. È stato duro. Potevo diventare anch’io un uomo diario!? Il colmo! Di qui una risata fragorosa e forte come lo scoppiettare d’ali di una colomba e la decisione copernicana di lasciare che le mie ansie e soprattutto la mia indole vigliacca mi costringessero a qualcosa di meno artistico della letteratura….
Lei si è voltata, chiedendomi a bruciapelo: 
«Cosa stai pensando?»
«A niente. A parte che sei davvero dolcissima, ho mentito».
«Sciocchino!»
Mi ero salvato, ma da allora e da quell’ultimo mio pensiero ho deciso di non andare più oltre sul sentiero della parola scritta. Così, frugando a lungo sotto i miei riccioli neri, affondando le dita nell’oceano della mia testa cespugliosa, arrivando fino alla fronte larga e piana, ebbene ho deciso di dedicare il mio tempo libero a qualcosa di più logico e interessante del racconto della mia vita: il fantacalcio.

“Il senso dell’elefante” di Marco Missiroli

Siamo abituati sempre più a scrittori dalla presenza ingombrante per cui le loro opere passano in secondo piano rispetto al “Personaggio” (da notare la maiuscola). Ogni tanto però, per fortuna, capita di imbattersi in romanzi che bastano a se stessi. E allora è il libro ciò che veramente conta. Con la sua copertina, il titolo e i personaggi che vi si agitano dentro.

Questo è il caso d Il senso dell’elefante dello scrittore riminese Marco Missiroli edito da Guanda.

Bella è la copertina: il giallo acceso della finestra di un palazzo immerso nel blu cobalto della notte è sorvegliata da un uomo la cui ombra è un enorme pachiderma. Accattivante è il titolo: l’elefante è quell’animale aggressivo e isterico, che però, al di là dei legami di sangue, ha slanci di devozione verso tutti i piccoli di un branco matriarcale dove chi comanda è la femmina. L’istinto incondizionato alla protezione: è questo il “senso dell’elefante”. Commoventi e vivi sono i personaggi. Sono tante solitudini che si ritrovano.

Il senso dell’elefante è una storia di padri, più o meno consapevoli, più o meno disperati. La paternità è un inseguimento continuo su una bicicletta vecchia riverniciata di rosso. È questa la sfida del romanzo. Padri che si muovono sul filo del rasoio sospesi nel vuoto e in equilibrio precario. Padri fragili, più figli dei figli, non più figure forti e autoritarie. Padri alla ricerca dell’affetto negato o che rischia di essere tolto.

Pietro, abbandonato l’abito talare, è partito da Rimini per diventare portinaio di un condomino di Milano. Il perché ha deciso di accettare questo posto e di lasciare la sua amata città marinara per le nebbie del capoluogo lombardo è legato alla motivazione che ha sancito la sua rottura con Dio, l’unico padre da lui conosciuto. Pietro era un prete che più che confessare, ascoltava, più che redimere le anime peccatrici, è abile nel curare le piante, consolava più che con le parole con le ombre sghembe proiettate sui muri.

Come portinaio Pietro custodisce le chiavi di tutti gli appartamenti appese alla parete del bugigattolo della portineria. Non le tocca mai tranne una che lascia scivolare in tasca di nascosto anche a se stesso. È la chiave che apre l’appartamento al secondo piano del dottore di oncologia pediatrica Luca Martini. Non c’è alcuna morbosità che spinge l’ex prete a violare l’intimità dell’apparentemente felice famigliola composta dal dottore, la giovane e bella moglie Viola e la loro figlioletta Sara. Pietro entra. Accarezza la fotografia del piccolo Luca in vespa all’ingresso. Calza le ciabatte del dottore e dal cesto dei ninnoli prende un campanello arrugginito di bicicletta che aggiungerà a tutti gli oggetti del suo passato che conserva in una valigia e in delle scatole nel suo gabbiotto: una forcina appartenuta a una strega, tre capelli spezzati e una lettera di carta di riso. Gli oggetti sono i veri protagonisti del romanzo in quanto custodi delle anime dei possessori: il basco del padre morto del ragazzone strambo del primo piano, Fernando, che vive con la madre iperprotettiva Paola, la vestaglia con le babbucce di seta dell’avvocato omosessuale Poppi.

Il palazzo è un microcosmo dalle pareti tanto sottili che si possono ascoltare parole, pianti, risa e sospiri. Tutte queste persone sono unite da legami invisibili, quasi impalpabili, ma dotati di una resistenza solidale a cui dà espressione proprio l’avvocato, vero protagonista occulto che muove questi padri alle prese con i loro nodi irrisolti fino al viaggio catartico in una Rimini invernale. Ed è la forza dello stare insieme a permettere di superare la solitudine e a sbrogliare i fili.

Missiroli dissemina questa sua favola per adulti di una serie di segreti. Segreti da mantenere più che rivelare. Segreti che legano più che dividere.

Mentre la trama si costruisce progressivamente da sé soprattutto attraverso gesti quotidiani resi da un linguaggio molto visivo, vengono trattati temi quali la paternità, l’eutanasia (toccante la storia del benzinaio e del figlio malato,per non parlare della storia del piccolo Lorenzo), tradimento e fede, con discrezione e in modo quotidiano, con la forza di uno stile terso e preciso sia sul piano lessicale che del ritmo del racconto. Anche gli intercalari in dialetto romagnolo nelle scene rievocative del passato del giovane prete hanno una funzione straniante e malinconica, messi lì a fare macchia e a caratterizzare asprezze e tenerezze ambientali senza mai scadere nel patetismo.

Lo scrittore riesce a far sublime dal quotidiano, tenendo fermo lo sguardo su poche cose, gli oggetti dell’appartamento di Pietro, fantasmi. È allora che viviamo tutta l’intensità di una storia triste e coinvolgente fino al gesto finale che dà un senso a tutto. Il senso dell’elefante, appunto.

 

 

(Marco Missiroli, Il senso dell’elefante, Guanda, 2012, pp. 235, Euro 16,50)

 

 

 

 

“Quasi amici” di Olivier Nakache e Eric Toledano

Quasi amici, titolo originale Intouchables, è una commedia francese, uscita a febbraio nelle sale italiane, che ha riscosso un notevole successo sia in patria che qui da noi, tanto da essere ancora presente in molte sale.

Il film racconta una storia realmente accaduta e per certi versi molto drammatica, ma riesce a farlo con leggerezza e con sense of humor. La regia è di Olivier Nakache e Eric Toledano. Le parti dei due protagonisti della vicenda sono affidate al Omar Sy (premio Cesàr come miglior attore) e a François Cluzet.

Il titolo ha un che di grezzo e colloquiale, complice probabilmente anche la trasposizione italiana, ma la dice lunga sul contenuto del film. Griss (Omar Sy) è un ragazzo nero, disoccupato e appena uscito di prigione, vive in un banlieue parigina con la sua famiglia allargata che stenta ad andare avanti. Philippe (François Cruzet), invece, è un facoltoso signore, rimasto paralizzato a causa di un incidente, in più è solo e vive nel più completo cinismo e nella totale assenza di speranza. Philippe ha costante bisogno di cure mediche e assistenza e l’arrivo del giovane e rumoroso Griss, con la sua carica di vitalità, darà una scossa alle sue giornate, lo aiuterà ad alleviare le sue sofferenze e ad affrontare con coraggio la sua situazione di disabile.

Un incontro che evolverà verso un’intimità e una profondità che a prima vista sarebbero sembrate inimmaginabili, e che porterà i due personaggi a diventare quasi amici, appunto. Quasi, perché amici non è la parola adatta, non risultano infatti di facile definizione alcuni tipi di legami, forse perché non esiste una parola idonea a caratterizzare tali miscugli di sentimenti. Ciò che si instaura tra i due protagonisti non è un rapporto di amicizia, ci assomiglia, ma non lo è e non può esserlo, se non altro perché prima di tutto vi è un rapporto di subordinazione lavorativa. Ciò che i registi hanno deciso di rappresentare e che colpisce lo spettatore è innanzitutto la disparità e la diversità di due esistenze che si vengono a incontrare. Disparità generazionale, disparità economica, disparità fisica e caratteriale, disparità etnica e storica. Il paragone, che si rende necessario, fa apparire più salienti i tratti dei due personaggi, li rende più evidenti e unici. I due opposti però decidono di completarsi, di non rimanere ognuno segregato nel proprio universo, ma di prendere dall’altro ciò che di buon loro stessi non hanno, sempre nei limiti di quanto è possibile.

Il film è una profonda riflessione sulla vita e sulle sue spesso dolorose sorprese, tuttavia i toni e l’andamento con cui questa riflessione è portata avanti non sono mai cupi e deprimenti, anzi sono comici e divertenti. Un invito – facile a dirlo, forse un po’ più difficile a farlo – a prendere tutto con maggiore ironia e semplicità.

“Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello

Cosa è successo tre mesi fa alla vita di Jennifer? Jennifer è immersa nel cemento di un complesso di edifici residenziali, in cui l’unica possibilità di interazione è basata sul rapporto telefonico. Paradossalmente però anche questo legame è distorto e le linee telefoniche si accavallano, continui scherzi infastidiscono, mentre le telefonate tanto attese approdano a destinatari non cercati. Eppure tre mesi fa è successo qualcosa. La vita di Jennifer sembrava aver subito una scossa. Lentamente il testo di Annibale Ruccello ci fornisce nuovi dettagli sugli eventi passati, eppure questi rimangono sempre ammantati da un’aura di impalpabilità. È successo qualcosa, ma cosa? Su questa domanda fa perno il presente, anch’esso sbiadito, come le pareti dell’appartamento di Jennifer, bianche e uniformi, come l’arredamento della casa di Jennifer, costruito solo sui suoi movimenti. Anche nel presente, nel presunto “fuori” della vita della protagonista, sta succedendo qualcosa dai contorni sfumati: un assassino si aggira nel quartiere di cemento popolato da transessuali e la radio fornisce i tristi annunci di nuovi omicidi. Il telefono è il veicolo delle speranze, ma anche delle ansie di Jennifer. Per questo tale oggetto diviene premio agognato della competizione con Anna, la vicina di casa, anch’ella in attesa di una telefonata, vittima di un’esistenza solitaria, ma sempre ostentatamente e falsamente fiera. Forse tre mesi prima Jennifer ha conosciuto l’uomo della sua vita in una discoteca. Forse tre mesi prima un certo cavalier Antonetti ha incontrato una certa Luana. Forse tre mesi prima Anna ha messo un annuncio su un giornale. Oppure questo segno tracciato sulla sabbia del tempo è stato già cancellato da un colpo di vento e nessuno potrà mai sapere se qualcosa è successo, tre mesi prima come tre anni prima. L’unica dimensione sempre esistita è l’attesa struggente e le lacrime che ne definiscono i contorni.

L’individuo senza tempo e senza luogo, Jennifer (Benedetto Casillo), non può che porre un confine alla sua esistenza, senza il quale sarebbe annichilito dalla scoperta del suo stato. In questo senso la sola cosa di rilievo è che gli avvenimenti di tre mesi prima siano esistiti nella mente autocentrica di Jennifer. L’assassino intanto si avvicina, fa nuove vittime, il telefono squilla ancora, e la voce all’altro capo è sempre quella sbagliata. Anna (Franco Javarone) accusa invece Jennifer della morte della sua gatta, pur parlando chiaramente di se stessa. Jennifer si trascina ora, striscia nel suo appartamento. Ora che i suoi movimenti sono assenti è evidente anche l’assenza degli oggetti, tranne il telefono, che squilla ancora, metafora di un mondo delirante forse inesistente agli occhi degli altri, ma realmente sempre teso alla comunicazione. Pierpaolo Sepe sceglie la formidabile mimica e l’evocativa gestualità di Benedetto Casillo per creare il mondo di Jennifer in un palco adornato dal solo colore delle cinque rose rosse, che Jennifer ha comprato nell’attesa del suo amante. È questa una scelta che forse sottrae al personaggio di Ruccello la corposità che era evidente nella precedente messa in scena di Arturo Cirillo, ma sicuramente ha il merito di cogliere l’aspetto centrale della protagonista: il suo essere in bilico su un mondo da lei stessa generato. Sul palcoscenico campeggiano solo i mastodontici e monolitici nomi di Jennifer e Anna, proprio a sottolineare la totale pervasività del nome – e quindi dell’individuo – nella sua realtà, fondata solo su se stesso. Cosa c’è infatti oltre il nome di una persona sola nella sua vita solitaria? Nulla, solo cornici senza foto, appartamenti senza mobilio e rose senza destinatario.


Le cinque rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
regia di Pierpaolo Sepe
con Benedetto Casillo e Franco Javarone

Andato in scena dal 12 al 22 aprile presso il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli.