“Auguri don Gesualdo” di Franco Battiato

«A noi due». Se dovessi ritrarre con una frase Gesualdo Bufalino sceglierei questa, la sua dedica-enigma che introduce a Le menzogne della notte.

Auguri don Gesualdo è il titolo del docu- film realizzato da Franco Battiato per raccontare lo scrittore di Comiso. Un siciliano che racconta un altro siciliano, a partire dalla grande amicizia che li ha legati.

Il 29 marzo 2012 Franco Battiato e Antonio Di Grado hanno presentato presso il cinema The Space, all’interno del centro commerciale Etnapolis di Belpasso (Catania) questo film documentario. Il pubblico in sala è composto per lo più da giovani, ragazzi delle scuole medie e superiori e studenti universitari della facoltà di Lettere.
Con l’arrivo in sala di Battiato i fotografi scatenano i loro flash, poi l’attore Salvatore Lazzaro recita “Dedica, dopo molti anni”, dalla raccolta di poesie L’amaro miele di Bufalino.
Prima della proiezione, Battiato parla della scelta, che accomunava lui e l’amico Gesualdo, di vivere lontano dal centro. La periferia come scelta: «Perché non ho problemi di parcheggio… e poi c’è un silenzio atavico, incalcolabile, la nostra civiltà è troppo rumorosa perché in realtà ha paura di guardarsi dentro». A questo discorso si unisce Di Grado: «Fare di una marginalità scelta una condizione di privilegio, dialogare con le grandi capitali dell’anima. Bufalino giocava a carte al circolo del paese, ma passava le sue notti insonni a dialogare con i classici». Baudelaire, per dirne uno. «In una Sicilia che è grembo e trappola, che amiamo e odiamo».

Battiato e Di Grado liberano il campo dalle basse polemiche insorte intorno al fatto che il documentario venisse presentato presso il cinema di un centro commerciale.
Di Grado spiega come, anzi, i non luoghi siano i luoghi più adatti per i viaggiatori dello spirito, che disertano i luoghi della quotidianità per riscriverli. E Battiato aggiunge: «Questa è una sala, un cinema, non c’è la gente che dice passami un pantalone o quella camicia. Mi rifiuto, infatti, di presentare nelle librerie perché disturbi chi è là per comprare i libri… avà a finisturu cu ’sti fotografie? Va bene una, due, tre ma ora su’ troppi…» in uno spontaneo code switching, Battiato passa al dialetto siciliano per rivolgersi a un fotografo che lo sta tempestando di scatti mentre parla, il fotografo smette immediatamente e scompare tra la schiera dei suoi colleghi.
Battiato procede facendo dono al pubblico di due episodi della propria amicizia con don Gesualdo, raccontando di una telefonata in cui tentò di risollevare l’amico affranto per il fatto che Giorgio Bocca aveva parlato di lui come di un mafioso; e di un loro incontro in cui Bufalino prendendolo sotto braccio si raccomandò di salutargli tanto Manlio (Sgalambro ndr) dicendogli: «Lo leggo sempre… veramente ogni tanto, perché è tostissimo!»
Di Grado ricorda di averlo conosciuto a Comiso, negli anni ’70, in occasione di una mostra fotografica in cui Bufalino conobbe anche Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia; e di come la loro amicizia sia nata all’insegna dello scambio, del dibattito. Bufalino una volta aveva scritto un articolo per il quotidiano locale, che lo aveva sollecitato a pronunciarsi sulla mafia. Paradossalmente disse che per sconfiggere la mafia bisognava modificare il Dna dei siciliani, Di Grado a quell’epoca racconta di essere stato uno di quelli che si era unito alle polemiche. Bufalino rispose scrivendogli una lettera che ironicamente concludeva con la frase del Gattopardo in cui Don Fabrizio dice dei siciliani: «Noi siamo dei».
Di Grado prosegue, su invito del moderatore che gli chiede del rapporto tra Bufalino e la gioventù:«Non era uno scrittore civile, la sua è una lezione di stile quindi di civiltà, moralità e umanità. Per questo è importante che i ragazzi leggano il più possibile». E ancora Battiato e Di Grado regalano al pubblico un aneddoto circa un inedito Bufalino, autore di un ingenuo quanto poetico testo per musica, poi confluito nell’album Fleur con il titolo “Che cosa resta”. Infine alla domanda sulla differenza tra scrivere un libro e montare un film, Battiato risponde: «Inconciliabili, anche se qui dentro c’è molta letteratura. C’è musica, ritmo, un film richiede anche di tagliare se ci sono certe lunghezze». E anticipa l’idea di andare a nero quando Giulio Brogi recita “Alla madre”.

Il documentario, della durata di un’ora circa, si apre con un intervista-reperto a Bufalino, in bianco e nero, sul Festival di Sanremo, che al giornalista risponde: «Non riesco a canticchiare i motivi di oggi mentre faccio la barba senza procurarmi un taglio». Ci viene presentato un don Gesualdo ironico, si succedono sullo schermo foto e immagini mentre la voce fuori campo di Battiato, come in punta di piedi, ne ricostruisce la biografia. Il documentario si snoda accostando alle testimonianze di chi ha conosciuto Bufalino brani di video interviste tratti dalle Teche Rai.
Piero Guccione, ad esempio, ricorda la stima e il grande affetto che Bufalino nutriva nei confronti di Sciascia; Elisabetta Sgarbi rammenta del Premio Campiello vinto da Bufalino per un voto e delle costanti correzioni ai dattiloscritti, di cui parla anche Francesca Caputo. E ancora Sebastiano Gesù, Antonio Di Grado, Manlio Sgalambro, Nunzio Zago, Matteo Collura e molti altri. Dalla testimonianza di Angelo Scandurra desumiamo il perché del titolo del documentario: era un augurio scritto su una torta di compleanno per festeggiarlo.
Infine, come anticipato, lo schermo va in nero e protagonista si fa va la voce di Giulio Brogi. Attraverso le parole vibranti di don Gesualdo, rievoca l’incontro tra Biagio e Maria, i genitori.

Auguri don Gesualdo è un film lieve e accurato, un omaggio a un autore che ha amato la solitudine quanto la leggerezza del gioco. Uno scrittore secondo lo sguardo di chi lo ha conosciuto, vivo nelle vite altrui. Un uomo “invaso” che afferma:«Uno scrittore trova le sue ragioni nella propria coscienza. Si può essere testimoni del mondo o di se stessi. Io sono umilmente e dolorosamente un testimonio falso di me».

Blixa Bargeld e Alva Noto live @ Auditorium Parco della Musica

Si è finalmente realizzato l’incontro tra due dei massimi sperimentatori sonori dell’attuale scena musicale. Da una parte Blixa Bargeld, che fu chitarrista e seconda voce con Nick Cave nei The Bad Seeds ma che riveste soprattutto il ruolo di cantante e leader carismatico del collettivo avanguardistico berlinese Einstürzende Neubauten, massimi rappresentanti della scena industriale mondiale; dall’altra Carsten Nicolai, in arte Alva Noto, tedesco anch’egli, artigiano sonoro del terzo millennio, pioniere di un minimalismo elettronico che non disdegna passaggi nell’ambient e che si è caratterizzato negli ultimi anni per un percorso di de-costruzione scientifica della techno. 

Più simile a un set performativo composto da piccoli bozzetti elettro-vocali, il concerto andato in scena alla Sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma presenta una musica che è il frutto di supremi artifici tecnologici, i quali espandono suoni e percezioni in un abisso caleidoscopico dove l’uomo tenta di riprodurre artificialmente i processi creativi propri della natura: Mimikry, titolo dell’unico disco prodotto dal duo Bargeld/Noto, in tedesco significa proprio mimetismo.

Eredi al tempo stesso di una cultura cibernetica contemporanea e di un approccio alle forme estetiche che richiama alla mente le avanguardie storiche europee di inizio Novecento, il duo teutonico dipinge un mondo de-umanizzato, freddo e gelido. Un mondo fortemente caratterizzato dal tema del rapporto conflittuale tra uomo e macchina, l’incontro/scontro tra umano e artificiale. Le parentele letterarie più evidenti sono con l’Asimov del ciclo dei robot, con le indagini ontologiche al limite tra tecnologia e teologia di Philip Dick e con la fantascienza surreale e post-moderna di Ballard. L’essere umano viene posto sistematicamente di fronte alla sua controparte robotica, che qui lo domina in tutto e per tutto. Quella rappresentata è quindi una lotta per la sopravvivenza dell’umanità dell’individuo contro la spersonalizzazione e la disumanizzazione razionale e scientifica propria dell’era tecnologica delle macchine.

La voce di Bargeld ci guida in questo inesorabile percorso discendente, in questa oscura parabola, nella quale egli si muove come un comandante tolstoiano, pianificando strategie fallaci per battaglie già perse. Il canto si fa così sempre più artificiale, si sgretola sui balbettii elettronici di Alva Noto, che irrompono violentemente sulla scena rendendo discontinuo il fluire del tempo e restituendoci immagini frammentate del reale, ombre e luci di figure umanoidi che si muovono in un’architettura sonora artificiale, che rinvigorisce in ogni momento il fascino spaventoso del binomio novecentesco tecnologia-distruzione. Un binomio intorno al quale si costruiva, all’inizio del secolo scorso, quella poetica futurista di cui Blixa Bargeld è attento conoscitore ed estimatore, e della quale ha sempre ribadito l’importanza nel suo percorso artistico come, ad esempio, nell’ultimo lavoro degli Einstürzende Neubauten intitolato Alles Wieder Offen (Potomak, 2007), durante il quale dichiara esplicitamente la sua stima per la distruzione linguistica e sonora portata avanti parallelamente da Marinetti sul versante poetico e da Luigi Russolo, inventore degli intona-rumori e autore del manifesto L’arte dei rumori (1913), sul versante musicale.

In questo gioco di distruzione/creazione, che oscilla tra un razionale e ordinante spirito apollineo e la sua antitetica controparte irrazionale, Bargeld raggiunge vette di espressività più prossime al teatro d’avanguardia che alla musica vera e propria. Lo troviamo infatti intonare un canto che è al tempo stesso mantra litanico e recitativo incomprensibile, psicotica declamazione dadaista e bisbiglio indecifrabile, carico di una caotica e irrazionale entropia che rifugge da sistemi ordinati e coerenti di idee e prova ad affermarsi come tratto caratteristico che distingue l’uomo dalla macchina. Ma il processo di alienazione è inarrestabile. Anche la capacità di linguaggio razionale viene progressivamente perduta, regredendo ad una fase pre-linguistica. La parola si destabilizza, diviene prima sillaba sconnessa, poi puro suono onomatopeico, infine elemento ritmico e sonoro anch’esso, rumore oramai totalmente asservito ad una macchina che lo manipola e lo plasma a sua immagine e somiglianza: è la realizzazione di quell’uomo-macchina preconizzato tre decadi fa dai Kraftwerk nel disco profeticamente intitolato The Man-Machine (Capitol, 1978).

Il lavoro di Bargeld e Noto si pone quindi come ulteriore tassello nell’evoluzione di un tema che ha profonde radici storiche, risalenti, come detto, a Russolo, a Karl-Heinz Stockhausen e poi a John Cage e al movimento tedesco del Krautrock – Tangerine Dream, Faust, Can e Neu! per citare i più significativi –, e che segna qui un’ulteriore scarto: siamo di fronte infatti alla fine di una fase pienamente industriale, rappresentata dai passati lavori di gruppi quali Einstürzende Neubauten, Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, Foetus e Coil, nei quali il materiale sonoro utilizzato era materico, fisico, tangibile, apparteneva ancora al mondo reale. Quella che si sta invece aprendo ora è una fase che è forse definibile, con tutte le precauzioni necessarie quando si utilizzano le gabbie chiuse delle definizioni, come post-industriale e post-ambient, il cui tratto caratteristico è il totale asservimento al mondo digitale e tecnologico, che si richiama al geometrismo astratto dell’ultimo Mondrian e al suprematismo architettonico di Malevič.

Il futuro qui immaginato non è più magnifico. Il progresso è sfuggito al controllo umano. La scienza e la tecnica non sono più asservite al bene dell’individuo e della collettività. Ci vengono prospettati solamente sterili deserti e lande desolate, infiniti spazi ghiacciati che si estendono sotto un cielo perennemente grigio dietro le cui nubi si cela un sole timido, morente. Gli unici abitanti, inquieti e silenziosi, sono piccoli insetti e alter-ego umanoidi: bipedi ibridi al confine tra artificiale e naturale, tra macchina e uomo, intonano, non più coscienti della loro natura, melodie sintetiche su ragnatele di droni computerizzati, muovendosi su instabili danze meccaniche che scandiscono l’incedere dell’era tecnologica.

Un’era tecnologica che ci stupisce, però, per l’intensità emotiva di cui è comunque capace. Anche lo sconvolgimento, o persino l’assenza, del linguaggio si configura, difatti, come linguaggio medesimo. Tutto ciò che è portatore di senso è a tutti gli effetti un oggetto linguistico, un insieme di segni con funzione comunicativa. Si scopre così, al termine dell’esibizione, come questo mondo cibernetico, apparentemente freddo e asettico, si dimostra invece portatore di un sistema d’immagini dotato di una potente funzione significante, di un apparato emotivo che si rivela, come i replicanti di Blade Runner, paradossalmente anche più umano dell’umano stesso.

 

Alva Noto e Blixa Bargeld
L’evento si è svolto sabato 31 marzo 2012 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma

“Oilproject”: quando la cultura è davvero di tutti

«La scuola che sogniamo noi non costa nulla, è una creatura in divenire. La nostra scuola è di tutti».

Ci poteva essere migliore presentazione? No, penso proprio di no. Questa è Oilproject, una piattaforma virtuale dove si impara ma si insegna anche, dove insegnante e studente si confondono e si scambiano i ruoli, in un continuo flusso di idee e conoscenza. Tutto questo gratis (in tempi di crisi e recessione…), dimostrando che la cultura può davvero essere di tutti. La rivoluzione è piccola ma grande allo stesso tempo. Accedi a internet, vai sul sito e ti scegli la tua lezione o il tuo corso. Dove, come e quando vuoi! Si va dalla musica alla filosofia, dalle lingue alla storia, passando per attualità, economia, informatica. Non manca niente, c’è anche la possibilità di interagire con i docenti e chiedere spiegazioni, cosa che pochi di noi riuscivano a mettere in pratica ai tempi della scuola. Ora potete farlo liberamente e magari togliervi la soddisfazione di sentirvi anche voi “maestri” di qualcosa, caricando la vostra lezione in rete. Per saperne di più, chiediamo a Veronica Berni dell’ufficio stampa di Oilproject cos’è realmente Oilproject.


Come e dove nasce Oilproject?
Oilproject è una scuola online lanciata nel 2004 da un gruppo di under20 per parlare di internet e informatica. Uno dei ragazzi “fondatori” è Marco De Rossi, all’epoca quattordicenne e iscritto al mio stesso liceo classico (il “Manzoni” di Milano). In sette anni la piattaforma è cresciuta, la comunità ha superato i 9000 utenti, le lezioni iniziavano a coinvolgere “nonsolonerd” e Marco, ormai diventato matricola alla “Bocconi”, ha avuto l’idea di sperimentare il modello di condivisione libera di Oilproject allargando il raggio degli argomenti a quelli di un liceo tradizionale e a tematiche di attualità, economia e attivismo studentesco. Il nuovo Oilproject, una scuola online a tutti gli effetti, è in rete da Maggio 2011, grazie alla collaborazione e al sostegno di Studenti.it e “Working Capital Accelerator” di Telecom Italia: al progetto collaborano sia aficionados del vecchio sito, sia nuove reclute come me. Lavoriamo in modalità telelavoro e i “pezzi” della redazione sono sparsi in tutta Italia.


Di cosa vi occupate?
Oilproject si compone di due principali sezioni: l’“Archivio delle lezioni” – contributi audio e video registrati – e la “Scuola di Attualità” – videochat in diretta. Nell’archivio le centinaia di contenuti disponibili sono video, sia prodotti da Oilproject, sia inviati dalla comunità, sia selezionati tra i migliori disponibili in rete. Composto da sei principali categorie (“Filosofia”, “Letteratura”, “Internet e informatica”, “Innovazione e futuro”, “Economia e business”, “Arti e tecniche”), dal 9 febbraio 2012 l’archivio è stato arricchito con 60 lezioni di “Storia della Musica e Tecnica musicale”: da Ivano Fossati ai Queen, da De Andrè ai The Who, dai Led Zeppelin alle lezioni di piano. I contenuti sono strutturati in clip da dieci minuti per una fruizione adatta a Internet: tutto è accessibile gratuitamente. A questo si aggiunge la possibilità, in caso di dubbi, di fare domande e ricevere assistenza sia dai relatori sia dalla redazione, sia dal resto della comunità.
Il corso di musica, così come tutte le altre sezioni del sito, è in perenne divenire e chiunque può registrare una videolezione per condividerla: l’invito a ogni docente, esperto o semplice appassionato è quello di contribuire con le proprie. Per iniziare bastano, a scelta, uno strumento musicale, una voce o un po’ di conoscenza e passione, assieme a una webcam e una connessione internet.
Accanto all’“Archivio delle lezioni” c’è la “Scuola di Attualità”, un esperimento di approfondimento e interattività: si possono seguire videolezioni online in diretta (di cui viene comunque pubblicata una registrazione) su politica, economia, attualità, innovazione, internet e futuro. L’argomento viene stabilito di volta in volta dalla comunità di Oilproject con un sondaggio e durante la videochat chiunque può fare domande in diretta e votare quelle altrui. I docenti sono esperti scelti insieme ai nostri referenti contenutistici, e rispondono senza alcun mediatore alle richieste più votate: il risultato è un talk-show autogestito, ultra-interattivo e compartecipato, focalizzato sui contenuti.
In questo momento abbiamo concluso l’ultimo ciclo di dirette (che si trovano registrate nella sezione “Attualità”) e le riprenderemo a breve. Per fare alcuni esempi, fino a oggi abbiamo parlato di politica con Giuseppe Civati e Italo Bocchino, di economia con la rubrica di Michele Boldrin, di diritti civili e omofobia con Paola Concia, di disoccupazione giovanile con Pietro Ichino e molto altro.


Chi sono gli insegnanti?
La sezione di “Musica” di Oilproject è realizzata in collaborazione con l’Associazione Musica XXI, Ut-Musica.com e PianoConcerto.it. In particolare i docenti che hanno curato le lezioni prodotte da Oilproject sono Simone Albanese, Angelo Di Bello, Max Ferri e Luca Toccaceli. Hanno percorsi differenti ma una comune passione per la materia… e una comune voglia di condividerla!
Ci sono, poi, lezioni che ci hanno inviato gli stessi utenti. Su Oilproject i docenti di una lezione sono anche gli studenti di un’altra: non c’è netta distinzione tra chi insegna e chi impara. Chiunque può registrare lezioni, letture di tesine, ricerche, interventi e inviarli in formato audio/video a Oilproject. Il sogno è che entro dieci anni tutte le lezioni tenute nelle scuole e nelle università pubbliche vengano condivise online a beneficio, ad esempio, di chi vive in zone con una scarsa offerta didattica, combattendo così il digital divide culturale italiano.
Oggi gli insegnanti hanno dai 14 ai 75 anni. A volte sono perfetti sconosciuti, a volte sono intellettuali, imprenditori, esponenti politici, scrittori o scienziati. Tutti uniti per sperimentare la formula del «Liberi di imparare, liberi di insegnare».


Come hanno risposto la rete e gli utenti?
La comunità si allarga ogni giorno, ci arrivano contenuti e continui consigli dagli utenti su come migliorare il sito. In più, abbiamo coinvolto i docenti che ci seguono in due mailing list aperte per progettare insieme i prossimi cambiamenti, sia per quanto riguarda la struttura del sito sia per quanto riguarda le lezioni.


Come vi rapportate con le altre piattaforme? Cosa vi differenzia?
In Italia non esistono altri progetti di scuola online gratuita, in questo senso siamo gli unici. Da una parte ci sono i corsi online, ma tutti a pagamento, dall’altra, piattaforme tipo YouTube. Su piattaforme tipo YouTube non ci sono focus sulla formazione, né dirette in video streaming né corsi strutturati (e se ci fossero, in quel disordine, sarebbero difficili da trovare!). Ai siti che fanno il nostro stesso lavoro, ma per materie specifiche, chiediamo invece di collaborare insieme, come facciamo con gli utenti singoli: e cioè, di caricare le loro lezioni su Oilproject, condividendole con la comunità. Èsuccesso per la musica, con PianoConcerto.it e Ut-Musica.com; per matematica con Voglio10.it; per la fotografia con Ritoccando.com e per vari contenuti di ambito artistico-letterario con Doppiozero.com.


Progetti futuri? Che altro puoi dirci?
Stiamo lavorando a perfezionare e rendere più fruibili i contenuti: organizzare le lezioni in corsi più organici e permettere a chiunque sia interessato a una lezione di connettersi con argomenti simili e, anche, di interagire con altri utenti interessati allo stesso tema. L’obiettivo è rendere più facile, divertente e dinamico l’apprendimento; se funzionerà, dovranno dircelo gli “studenti”: aspettiamo i vostri suggerimenti!

Veronica è stata molto esauriente, ci ha dato tutti i dettagli e i contenuti del progetto che con passione porta avanti Oilproject. Intanto un suggerimento ve lo diamo noi di Flanerí: andate sulla pagina di Oliproject e diteci che ve ne pare. L’idea è semplice ed efficace, per questo funziona. Qualche volta la cultura può essere davvero libera. Stay tuned.


“Occidente solitario” di Martin Mcdonagh

Trattando di fratelli si trattano l’odio e l’amore, la viscerale violenza e la sanguigna dipendenza. Ciascuna di queste parole, ciascuno di questi concetti, si affaccia nella mente di chi legge questo testo, con migliaia di differenti declinazioni, nel tentativo di immaginarne le modalità di messa in scena. Perché dietro una viscerale violenza non c’è semplicemente la zuffa tra due fratelli irlandesi con un padre appena morto in circostanze misteriose, ma probabilmente si potrebbero immaginare corpi tesi e membra che si contorcono su se stesse anche nel più profondo dei sonni. E ancora queste parole non basterebbero per descrivere come la sanguigna dipendenza dei due giovani cambi con i giorni e con le stagioni, assumendo ora la forma di abbracci fin troppo tenaci, ora quella di false scuse immeritate. Sarebbe dunque estremamente difficile riuscire a dipingere questo affresco familiare con la giusta decisione, ma senza dimenticare di tratteggiare le debolezze su cui il ritmo pulsante della violenza poggia. Ebbene, queste mie parole, che a ogni nuova riga costringono ancor di più l’immaginazione di chi legge e immagina lo spettacolo, dovrebbero avere il fine di fallire nel loro tentativo di descrivere la mutevolezza e la complessità dinamica di ciò che è stato visto. Invece la sensazione è esattamente contraria. La sensazione, a dirla tutta, è di aver visto una fissità senza precedenti, che nel suo monotono ritmo non riesce mai a trovare qualche variazione significativa. I personaggi rimangono costantemente abbarbicati alla loro stantia vita di periferia, esattamente come gli attori, legati a modalità recitative fisse, nonostante la variazione di contesti. L’impressione è dunque quella di assistere a uno spettacolo a una sola dimensione: la variabilità la si cerca nella più o meno violenta esternazione di un fratello nei confronti dell’altro, nel più o meno congruo numero di volgarità in un dato momento. Si percepisce un tentativo di ricreare atmosfere torbide, chiuse, opprimenti, in cui l’alcolismo si intrecci con onnipresenti ossessioni, in cui le bottiglie d’alcol facciano da contraltare a madonne di plastica, ma tutto questo affonda in un terreno psicologico a dir poco paludoso. I personaggi, visti nella prospettiva unidimensionale, risultano piatti e privi di consistenza e delle opprimenti atmosfere, a cui pure le musiche potrebbero rimandare, non rimane altro che la possibilità irrealizzata. Lo scarto rispetto al teatro fisico che ha fatto mostra di sé in passato sul palco del Nuovo Teatro Nuovo è immenso. Della tragica, struggente fisicità vista nel pasoliniano Bestia da stile di Antonio Latella è rimasta solo la cornice di vuota violenza volgare. Allo stesso tempo Occidente solitario, ricordando Due fratelli di Fausto Paravidino, per l’unità di spazio chiuso e per il rapporto triangolare dei due fratelli con una ragazza, non riesce minimamente ad accostarsi a quest’ultimo né per tecnica attoriale, né per spessore registico.

 

Occidente solitario
di Martin Mcdonagh
traduzione Luca Scarlini
regia Juan Diego Puerta Lopez
con Claudio Santamaria, Filippo Nigro, Nicole Murgia, Massimo De Santis

Andato in scena al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli dal 27 marzo al 1 aprile 2012

“Dove finisce Roma” di Paola Soriga

Un po’ te lo aspetti che sia un libro che vale, se il web pullula di recensioni positive e di grandi nomi della letteratura e del giornalismo che lo elogiano. Decidi che sì, lo leggerai, non fosse altro per vedere se hanno ragione.
Poi te ne accorgi da sola, che vale, un libro, mentre lo leggi nel silenzio di casa o nel casino della metro e ne rimani colpita. Te ne accorgi, forse, proprio dal voler leggere ancora, ancora.
E ne hai la conferma ulteriore alla fine, quando pensi che lo consiglierai o lo regalerai.
Dove finisce Roma, romanzo d’esordio di una giovanissima Paola Soriga, è un libro che vale, che sorprende, per più di una ragione.

L’autrice dimostra di saperci fare davvero: lei la letteratura l’ha studiata, e si vede.
Si vede che i meccanismi le sono noti, che li possiede e riesce a gestirli. E anche a divertirsi mentre lo fa.
La voce narrante, delicata e potentissima insieme, è quella di una ragazzina quasi diciottenne che deve sfuggire ai fascisti. La cercano perché è una staffetta partigiana: siamo al 30 maggio del 1944, Roma aspetta di essere liberata dagli americani.
Ecco, questa voce narrante riesce ad alternare la terza persona alla prima in modo magistrale e, senza mai un virgolettato, riesce a raccontare la sua storia alternando il discorso indiretto puro della narrazione al discorso diretto libero del ricordo.
L’uso sapiente della punteggiatura, delle virgole in particolar modo, e di un romanesco che si insinua genuino nell’italiano, contribuiscono alla riuscita perfetta di questo libro.
Diverse sono le tracce, implicite e rielaborate ma evidenti nei nomi (si vedano Agnese e Micol), di grandi come Fenoglio, Viganò, Bassani.
È Ida, però, la protagonista, che vede se stessa e che racconta /si racconta: è arrivata a Roma appena dodicenne nel 1938, da un piccolo paesino della Sardegna.

Non sa spiegare a parole come sia entrata nella Resistenza, è una cosa che sente dentro, come se fosse quella la sua unica vocazione.
E al lettore, comunque, questo basta: Ida cresce, diventa una donna dentro quella grotta, per quell’ideale. Diventa donna durante la guerra, che crea e distrugge con la stessa facilità.
Conosce tante persone, tante altre muoiono.
E tra i lutti, un lutto altrettanto doloroso seppur molto diverso da quelli che ha visto finora: l’amore non corrisposto per Antonio, che non la sposa e che le lascerà l’amaro in bocca “rovinandole” la gioia per l’arrivo degli americani.
Nel dramma della guerra, paradossalmente, l’amore riesce ancora a far sentire vivi (anche Ida, seppur in negativo, sente la vita scorrerle dentro, sente la rabbia, la delusione) e la vita ha ancora, sempre, il suo peso, grazie ai rapporti umani, che sono il senso anche in mezzo alla tragedia, quando un senso sembra non esserci più.

E se a dirci tutto questo è la voce di una bambina nel mondo adulto della guerra, la prospettiva bellissima da cui la storia è vista diventa ancora più intrigante, soprattutto quando si decide (come in questo caso) di ridurre al minimo la trama raccontando, volutamente, una delle tante, comuni, piccolissime storie che contribuiscono, tutte insieme, a costruire la Storia, quella grande, che va a finire sui libri.
Non voglio, però, raccontare troppo: Dove finisce Roma, inizia il nostro percorso per ripensare la nostra storia personale, le nostre origini e la radice comune che tiene unita, oggi come allora, la storia di tutti.


(Paola Soriga, Dove finisce Roma, Einaudi, 2012, pp. 152, euro 15,50)

“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

«Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi».

Fai bei sogni di Massimo Gramellini è un romanzo sul e attraverso il dolore. Il dolore per la perdita dell’insostituibile figura materna, a soli nove anni. Il dolore che ti scava dentro un vuoto («Sentii un cucchiaio di ghiaccio penetrarmi nella pancia e svuotarmela tutta») e lo riempie della paura di essere abbandonato e di non essere amato.

Confesso un certo scettico pregiudizio nell’approcciarmi alla spettacolarizzazione del lutto e della sofferenza sotto forma, in questo caso, libresca, fatta balzare, grazie all’“aiutino” (o “aiutone”) dell’amico Fabio Fazio, in testa alle classifiche dei libri più venduti in una settimana. A Che tempo che fa, lo scrittore e giornalista aveva taciuto le circostanze della morte della madre, nascoste a lui stesso per quarant’anni da parenti e amici, ai lettori per 185 pagine, nonché agli spettatori affinché l’intervistato non venisse sopraffatto in diretta dalla commozione.
Solita strategia di marketing per costringere ad acquistare il romanzo? Eppure io ho indovinato subito…

Non c’è dubbio che la morte sia uno dei grandi temi della letteratura. Scrivere costituisce un modo per dare forma al dolore, per contenerlo e per arrestare il disordine del proprio cuore e della propria sofferenza. Ha una funzione catartica. Ero poco più che adolescente quando mi imbattei nella straziante storia di Paula di Isabella Allende e in Va’ dove ti porta il cuore della Tamaro. Poi a scuola fu la volta di Pascoli con la morte del padre e Gadda alle prese con quella del fratello e della madre.

Perché parlare in pubblico dei propri lutti?
Forse il successo di questi sfoghi autobiografici va cercato nella capacità che solo gli scrittori hanno di trovare le parole giuste per esprimere emozioni che altrimenti rimarrebbero attaccate in un grumo che si piazza in gola e ti toglie il respiro.
Gramellini in questo è maestro. Senza scadere nella lacrimosa autocommiserazione e nei facili sentimentalismi, non rinunciando alla sottile ironia che lo contraddistingue, il vicedirettore de La Stampa ci parla di una verità scomoda che ha sempre cercato volontariamente o meno di rimuovere nella sua vita, in questo aiutato dal padre e da altri complici a lui vicini. Alla luce di questa terribile rivelazione, l’autore ripercorre la sua esistenza dall’infanzia di «bimbo istupidito dal dolore che continua a negare la morte di sua madre» alla difficile adolescenza, dagli amori, fino agli inizi della carriera giornalistica.
Ogni fase della sua vita ci mostra una persona perennemente alle prese con la sua congenita inadeguatezza: «La mia specialità consisteva nel trovarmi a disagio ovunque fossi».
Sarà solo quando il suo demone interiore, che da ragazzino aveva chiamato Belfagor, e che lo tormentava di domande (una su tutte «Con tutte le mamme che c’erano, perché era morta proprio la mia?»), si dissolverà, che da orfano diventerà finalmente uomo e la rabbia si potrà mitigare con la possibilità del perdono, perché «Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più».
Lo svelamento finale si trasformerà anche nell’occasione di rivalutare la figura del padre, che, nonostante la sua dura scorza, gli ha voluto bene a modo suo e malgrado tutto è rimasto con lui.
In questa che Gramellini stesso ha definito «un’opera di sartoria psicanalitica», il lettore potrà apprezzare la sincerità della narrazione, sia pur in forma romanzata, delle proprie vicende e fallimenti perché non si impara dall’oggi al domani ad amare e nella vita non vale il «giochino dei “Se”».


(Massimo Gramellini, Fai bei sogni, Longanesi, 2012, pp. 210, euro 14,90)

“La vergine eterna” di Kenzaburō Ōe

«Or sono molti e molti anni / che in un regno in riva al mare / viveva una fanciulla che col nome / conoscerete di Annabel Lee; / e viveva questa fanciulla senz’altro pensiero / che di amarmi ed essere riamata».

 Tokyo, 1975. Durante lo sciopero della fame per chiedere la scarcerazione del poeta sudcoreano Kim Chi-Ha, Kenzaburō, giovane scrittore con una straordinaria carriera artistica davanti a sé, viene avvicinato da un suo vecchio compagno universitario, Komori, ora produttore cinematografico, e da una misteriosa donna: l’attrice Sakura Ogi Magarshack, star del cinema giapponese trapiantata a Hollywood. Il produttore racconta che stanno preparando un nuovo film tratto dal Michael Kohlhaas di Heinrich Von Kleist per il bicentenario della nascita dell’autore, e vogliono assolutamente che sia lui, Kenzaburō, a scriverne la sceneggiatura riadattandola a un qualche analogo episodio della storia del Giappone. La risposta positiva dello scrittore non tarda ad arrivare, attratto, ancor prima che dal prestigio di tale proposta, dalla prospettiva di poter lavorare fianco a fianco con l’affascinante attrice che è rimasta impressa nella sua memoria fin dai tempi dell’università. Difatti è lei, Sakura, la protagonista di un filmato in 8mm che aveva visto durante quegli anni e che raccontava di una fanciulla in una «fluttuante veste bianca» sdraiata dormiente su un prato, mentre una voce narrante recitava i versi della poesia “Annabel Lee” di Poe. L’immagine struggente della ragazzina dai lunghi capelli d’ebano non l’aveva mai abbandonato durante tutti quegli anni: l’aveva solo trattenuta dentro di sé, sopita in un angolo della sua anima, e ora era pronta a esplodere in tutta la sua forza dirompente.

 La vergine eterna è la storia di Kenzaburō e della sua musa, Sakura, del loro sodalizio artistico; la storia di un rimorso e di un “rimosso” che li attanaglia in una stretta e non li lascia librare, mai. I colori stessi del romanzo sono quelli che albergano silenziosi nelle loro anime schiacciate dai ricordi: i grigi dei cieli densi di pioggia, delle metropoli allucinate dove il loro io è soffocato dal frenetico avvilupparsi della vita intorno. Solo il finale s’illumina di colori densi e pastosi, come in una tela espressionista: il giallo e il rosso vivi delle foglie autunnali e il verde muscoso e spesso della foresta dello Shikoku, luogo mitico, di una bellezza primitiva e seducente, restituiscono a Sakura, e al lettore che l’ha fino qui accompagnata, un barlume di fiducia nell’avvenire, la riconciliazione con se stessi, un profondo respiro di aria pura. Catarsi a cui, invece, non giunge Kenzaburō, che ha finora raccontato la storia tutta in prima persona e che, non a caso, non parteciperà al finale delle riprese nella foresta dello Shikoku. Lo vivrà come in un sogno, filtrato dal racconto che ne fa Komori morente su un letto d’ospedale a Tokyo, rimanendo per sempre congelato nella sua mente, aggiungendo rimorso al rimorso.

 È un romanzo estremamente autobiografico La vergine eterna di Ōe: l’autore tira le somme della propria esistenza attraverso una profonda riflessione sulla scrittura, sul linguaggio letterario messo a confronto con quello cinematografico. Tutta la storia appare come un pretesto per parlare di altro, di una crisi artistica, quasi esistenziale dello scrittore ormai avanti negli anni, tanto che gli stessi personaggi appaiono come marionette messe a disposizione del suo pensiero, della sua ferrea logica, troppo schiavi del suo onnisciente punto di vista. La vergine eterna è il romanzo di una sconfitta, e della presa di coscienza di tale sconfitta: la letteratura non potrà mai eguagliare la complessità e il grande mistero racchiuso in ogni singolo fotogramma cinematografico. La pellicola ha impresso per sempre in un attimo di estremo lirismo l’immagine di Sakura nella sua candida e fluente veste rendendola immortale. È bastata una sola inquadratura e lei è diventata la «vergine eterna», la donna bellissima, la diva che rimane intrappolata nella pellicola per sempre, come Louise Brooks, come il mito.


(Kenzaburō Ōe, La Vergine Eterna, trad. di Gianluca Coci, Garzanti, 2011, pp. 250, euro 18,60)

“Hotel Paradiso” dei Familie Flöz

Il cartellone del teatro Bellini di Napoli, quasi in dirittura d’arrivo, presenta una delle compagnie teatrali più interessanti degli ultimi anni, Familie Flöz, e propone Hotel Paradiso, un rifugio alpino a quattro stelle dove accade di tutto. I quattro performer danno vita a una miriade di personaggi – grazie alle loro maschere divenute, ormai, il loro segno distintivo – e a una serie di situazioni comiche, malinconiche, dolci e noir che non prevedono l’uso della parola. Non è necessaria perché la vivacità e la bravura dei performer riescono a tenere in piedi un lavoro che, facendo tesoro delle nozioni del teatro di strada, affascina e mantiene le promesse.

Le caratterizzazioni sono semplici: la cameriera cleptomane, l’anziana proprietaria dell’albergo e i suoi due figli, uno desideroso d’affetto e l’altra arrivista e attaccata al suo colore rosso, e tante figure di contorno, come i due esilaranti ispettori, che animano questo strambo hotel.

Il loro teatro, talvolta approssimativamente definito “di figura”, va oltre le definizioni perché presenta una realtà che, pur nella semplicità delle storie proposte, è oggettiva e il loro metodo, che prevede una simbiosi tra corpo e maschera, non rappresenta ma gioca con l’immaginazione del pubblico. Non c’è alcun contatto col quotidiano, per certa poetica infatti potrebbero essere paragonati a Buster Keaton, e la loro formula – che nasce con un conflitto all’interno del corpo dell’attore – non presenta eroi né sconfitti ma solo figure in balia del loro destino e dei loro moti interiori. Sono proprio questi ad animarli, a dare espressività, intensità alla maschera indossata dato che gli attori possono solo giocarsi una sola espressione facciale, che è propriamente quella del simulacro che nasce durante la fase di gestazione.

Hotel Paradiso, come tutte le produzioni di Familie Flöz, è imperdibile, una performance per bambini e adulti, poetica, sensazionale, raffinata, avvenimento epifanico che solo il vero Teatro sa evocare.


Hotel Paradiso
dei Familie Flöz
regia di Michael Vogel
con Anna Kistel, Sebastian Kautz, Thomas Rascher / Nicolas Witte, Frederik Rohn

In scena al teatro Bellini di Napoli, fino a domenica 1° aprile

“Niente da nascondere” di Alessio Belli

Versi storpi «in rime sparse», parole volutamente cacofoniche ripetute come mantra per esorcizzare, è proprio il caso di dirlo, il «male di vivere», rime baciate e assonanze improvvise capaci di ferire, offendere, punire. Alessio Belli non ha paura di denudarsi e lo mette subito in chiaro, sin dal titolo della sua raccolta di poesie: Niente da nascondere (Edizioni della Sera, 2012). Perché se è vero che ormai sono in molti, troppi, quelli che pensano di poter scrivere di sé in versi, celandosi dietro orpelli stilistici e sterili sintagmi, pochi sono coloro che veramente si tolgono la maschera mettendo a nudo il proprio terrore, la propria (dis-)umanità, senza finzioni.

E non sbaglia certamente Andrea Viviani, quando nella prefazione coglie quello che è forse il senso più profondo della silloge: «Sarà bene intenderci subito: siamo ben lontani, con Alessio Belli, dall’idillio mistico. Le sue sono illuminazioni che gettano luce, è vero, ma su di un dolore che è consapevolezza prima ancora che necessità. È luce, come quella del Merisi, che disvela e non salva».

Illuminazioni sì, ma cupe, ossessive, a tratti persino macabre. Come quando si pensa alla fine di un impero: certo non lo si può chiamare fulgore quel giallino che sta a metà tra il ricordo e la rivelazione. E Alessio Belli fa proprio questo: ricorda («Passano gli ultimi bagliori / del periodo a sorvegliare / il sonno e il suo testimone. / Nemmeno prossimi alla fine si riesce a scrivere comodi;») e rivela («Senza vetri negli occhi / ho visto Dio tratteggiato / tra le nuvole.»), decodificando le rovine di un mondo in disfacimento («Il primo segnale furono / i cani randagi sulla Laurentina. / Il miasma grigio delle fabbriche / condensato nelle nuvole viola.»).

Che poi sia un testimone fedele e acuto o solamente un folle visionario questo starà a voi stabilirlo, dipenderà dalla vostra sensibilità e dal grado di intimità che sarete disposti a concedere ai suoi versi. Di sicuro lui per voi non si è risparmiato: «Soffrirci sopra non migliora. / Fortunatamente / per i miei due cuori basti tu.»
(Alessio Belli, Niente da nascondere, Edizioni della Sera, 2012, pp. 70, euro 10)

“Senza passare per Baghdad” di Luigi Farrauto

Non leggete questo libro se la strada casa-lavoro vi piace, e non vi sembra ogni giorno la stessa. Non leggetelo se il vostro tran tran quotidiano non suona tanto ripetitivo da diventare assordante. Non leggetelo, a meno che non vogliate sconvolgere quella routine.

Luigi Farrauto, classe ’81, esordisce nel mondo della scrittura con un romanzo che racconta proprio questo: il ribaltamento dell’abitudine, la voglia di dare una svolta a una quotidianità che ha al sapore della monotonia. Ognuno di noi deve averlo sentito almeno una volta nella vita: è un ronzio insistente, fastidioso. Inizia la mattina quando apriamo la finestra e i palazzi, gli alberi, il cielo davanti a noi sono sempre gli stessi. Finisce quando arriviamo in ufficio – per chi ce l’ha un ufficio dove andare –, o all’università, o restiamo a casa e ci sediamo alla nostra scrivania, sulla quale vige un caos immutato da anni. Per alcuni ritorna, la sera, quando il nostro affaccendarsi rallenta, e a volte è così forte che non ci fa dormire.

Senza passare per Baghdad (Voland, 2011) racconta questo, lo strano prurito che sentiamo scoprendo in cielo la scia di un aereo: è la storia di Alex e Jari, di un manista e di un esploratore, di Milano e di Damasco, di un mondo in bianco e nero e di un mondo che scoppia di colori. È proprio su queste contrapposizioni, infatti, che l’autore gioca la sua narrazione, e costruisce le vicende che uniscono e dividono i due protagonisti, amici inseparabili da sempre, eppure incredibilmente lontani.

Alex ama la sua Milano, ci vive bene, non se ne allontana mai e la ritrae sempre, rigorosamente, in bianco e nero. La fotografia per lui è precisione, adora passare ore nella camera oscura e di lavoro fa il manista. A Jari, invece, Milano sta stretta, non può passarci più del tempo necessario a dare qualche esame, e a farsi assegnare il prossimo reportage, che gli permetterà di ripartire. Per lui la fotografia, come la vita, è movimento, azzardo, imperfezione. Scatta mille foto al giorno, e le riviste di viaggio lo pagano per fare ciò che ama di più.

Due opposti, che come da tradizione si attraggono e si completano, spesso senza neanche il bisogno di parlare. La lingua di Alex e Jari, infatti, è fatta di immagini, di fotografie che da sole bastano a raccontare le esperienze più diverse, costruendo una sintassi tutta nuova, che è poi quella che solitamente stabilisce gli equilibri di ogni viaggio: «I viaggi hanno una sintassi tutta loro: con lo zaino in spalla e fuori dal suo contesto, ogni persona si priva della propria identità sociale, diventa un viaggiatore, con una serie di esperienze simili, di luoghi e sfighe da scambiarsi come figurine. Il viaggio è un calderone sociale, in cui qualunque classe gioca con le stesse regole e si misura con gli stessi dadi. Lo trovo favoloso. Mi fa sentire sereno, a mio agio col mondo, come se girassi alla sua stessa velocità».

È così che, d’improvviso, scrollarci di dosso il nostro torpore quotidiano non ci sembra l’impresa titanica che ci era sempre apparsa. Per Jari è una passeggiata, bastano uno zaino e un libretto color porpora di sole trentadue pagine. Ad Alex costerà giusto qualche riflessione e qualche cicatrice in più.

Un linguaggio evocativo, sfuggente e colorato, quello di Farrauto, che in questa sorta di diario doppio e parallelo mira a trasmettere una verità semplice e lampante, troppo spesso assopita tra le banali fatiche di ogni giorno: «Così ieri sera mi sono addormentato con gli occhi pieni di mondo e di rotaie, e nella notte ho sognato di chiamarmi Jari, di avere gli occhi azzurri e di girare il mondo, perché quello che c’è dietro è tanto affascinante che ogni giorno speso fermo in casa è come viverne uno in meno».


(Luigi Farrauto, Senza passare per Baghdad, Voland, 2011, pp. 208, euro 13)

“L’ultima profezia del mondo degli uomini” di Silvana De Mari

L’ultima profezia del mondo degli uomini (Fanucci, 2010) è anzitutto il capitolo conclusivo di una saga fantasy che comprende anche L’ultimo orco, L’ultimo elfo e Gli ultimi incantesimi, scritto davvero bene da Silvana De Mari e a cui fa da prequel Io mi chiamo Yorsh, l’ultimo romanzo dell’autrice, uscito in libreria da qualche mese.

Volendo tentare di riassumere questo romanzo in una sola parola (impresa non poco ardua viste le 606 pagine che lo compongono), “movimento” è quella che sceglieremmo. Tanto per essere più chiari: L’ultima profezia del mondo degli uomini è un libro che si sostanzia nel e del movimento, a partire già dalla copertina su cui campeggia quella che a prima vista sembra una trottola, e dunque qualcosa che ha senso solo se gira ma anche una figura che dà la percezione/illusione del movimento se la si fissa a lungo, sebbene nella realtà sia ferma. C’è, in questa storia, abbondante e strabordante movimento di esseri umani anzitutto, inquieti, allarmati, frettolosi, che cercano se stessi o la propria salvezza ma anche la salvezza altrui, in un continuo frenetico spostamento da un luogo all’altro (e qui spontaneo è il rimando ad alcune descrizioni davvero ben riuscite); c’è gran copia di sentimenti e stati d’animo: la rabbia, l’odio incondizionato, il dolore, il coraggio, la grandezza interiore, sentimenti così forti e profondi da essere trasmessi anche attraverso la flebile fiammella di una candela in una trasfusione di forza e dolcezza insieme; c’è, infine, il movimento particolare ma essenziale, in questa grande storia fatta di cose e situazioni che cambiano, degli animi che dal mondo dei morti e della distruzione senza senso cercano di trovare la via della luce, della giustizia e della pace.

Protagonista è il re Rankstrail, uomo mezzo orco e viceversa, il re “bastardo” degli Uomini che dopo aver combattuto mille battaglie contro gli Orchi cade in mano nemica e scopre di dover vivere così la sua lunga e dolorosa rinascita. Lui, re, imperatore e generale che ineluttabilmente dovrà trascinare con sé in questa sorta di palingenesi le vite di tutti gli altri, così da non lasciare indietro nessuno, neanche gli Orchi. Attorno a Rankstrail si muove uno sciame gremito ed estremamente colorato di personaggi dei quali colpisce la completezza e la maturità: c’è Chiara, figlia quasi orfana del re e della principessa Elfo Aurora, morta nel concepirla, una sorta di piccolo miracolo nel quale si racchiude tutta la forza del padre e la profonda saggezza della madre; c’è il soldato semplice Skardrail (esilarante il suo dialogo con la Regina Rosa Alba), incaricato di ritrovare il sovrano disperso, all’apparenza un goffo ma temerario soldatino semi-orco che si rivelerà invece pedina fondamentale della vicenda – sarà lui infatti a condurre, attraverso il sacrificio della sua stessa vita, il Re verso il suo destino; c’è poi Rosa Alba, la Regina Strega, sua figlia Erbrow, il genero non voluto senza nome, i fratellastri Gioscua e Antrin, il Principe Arduin e molti altri, in una storia avvincente dove, come in una pellicola, a visioni di magnifici e regali palazzi seguono le descrizioni degli angoli bui e umidi di una rumorosa suburra.

Certamente una storia avvincente, come abbiamo già scritto, e ben architettata, laddove ciò che stupisce in opere del genere è indubbiamente la capacità d’inventiva dell’autore ma anche quella di far “quadrare” poi le cose senza mai abbassare il tono della narrazione o lasciarsi andare a incongruenze e imprecisioni.

Ci ha colpito particolarmente una caratteristica di questo libro nel quale, a differenza della gran parte dei testi cosiddetti fantasy in cui sempre si assiste allo scontro più o meno velato fra bene e male, sembra non avere più senso questa dicotomia, o meglio, la storia termina con lo svuotamento di senso di quella dualità: la De Mari ci racconta di un mondo che trova finalmente il suo equilibrio, benché a costo di grandi sacrifici, quando si comprende che a ciascuno è già toccata la sua buona dose di sofferenza e buio, e che, dunque, non c’è forma di vita che non possa prima o poi andare serenamente incontro alla propria redenzione, che non abbia il diritto sacrosanto prima o poi di vivere la propria felicità. È semplicemente così: la salvezza è per tutti, nessuno escluso, laddove ognuno ha già avuto la sua parte di dolore.

Umanità profonda, magia, valori forti, una religiosità e un senso del sacro che commuovono uniti a costanti riferimenti escatologici resi in due diverse immagini, guarda caso figure in movimento: un cerchio che inscrive un quadrato che a sua volta inscrive un cerchio e così via e una spirale aurea dove a ogni giro la distanza tra le spire raddoppia, simboli rispettivamente orco ed elfico dell’Infinito. Sono questi alcuni degli ingredienti che fanno di una successione di fotogrammi comparsi nella fantasia della De Mari una storia di quelle che ci piacerebbe leggere davanti a un camino, in una buia e fredda notte invernale.


(Silvana De Mari, L’ultima profezia del mondo degli uomini, Fanucci, 2010, pp. 608, euro 20)

“Gobbi come i Pirenei”: a tu per tu con Otello Marcacci

Abbiamo intervistato per voi Otello Marcacci, autore di Gobbi come i Pirei, un romanzo divertente ma al tempo stesso capace di commuovere e far riflettere. Ecco che cosa ci ha raccontato.


Leggendo Gobbi come i Pirenei si prova quello che Pirandello definiva «il sentimento del contrario», ciò che distingue l’umorismo dal comico: come nascono la storia e ilpersonaggio umoristico di Eugenio Bollini?

È come se lei, davvero, avesse capito tutto del romanzo. Questa domanda ne è la riprova. Durante le presentazioni che facciamo per promuovere il libro molto spesso parlo proprio del saggio di Pirandello sull’umorismo. E anche di quello di Henry Bergson, prima di lui, sulla comicità. Secondo il filosofo francese la comicità è il castigo sociale con cui la comunità individua, respinge e corregge una serie di comportamenti percepiti come contrari allo slancio vitale con cui si identifica la vita stessa. Il riso corregge comportamenti che metterebbero in pericolo la sopravvivenza della specie. Nella comicità viene bandita l’empatia. Un’anestesia momentanea del cuore, dove non c’è alcuna identificazione. Per Pirandello invece, nell’umorismo, c’è una riflessione ulteriore che porta a un sentimento di identificazione e compassione della persona di cui ci si prende gioco. Gobbi come i Pirenei gioca molto su questa dualità comicità-umorismo. Ho tentato cioè di mettere il lettore di fronte a una serie composita di situazioni lasciandolo libero di scegliere quali per lui siano, di volta in volta, l’una o l’altra cosa. E cosa invece sia ironia, che è ancora diversa. A seconda di quale parte adotterà, lui stesso sarà in grado di capire, semmai lo volesse, a quale categoria del consesso umano appartiene. Eugenio Bollini ad esempio è inglobato in quella degli anti-eroi moderni. Uno di quelli che può vincere le battaglie della vita solo perdendole. Bollini erano molti anni che cercava di parlarmi affinché raccontassi la sua storia. Come sosteneva Calvino «la fantasia è un luogo dove piove dentro» e alla fine quando la pioggerella è diventata diluvio e rischiavo di annegare e non ne potevo più di sentire Bollini che mi supplicava di parlare di lui, allora mi sono arreso e ho deciso di assecondarlo. Ed eccoci qua.


Uno dei punti di forza del romanzo, a mio parere, è la facile tendenza a identificarsi con il protagonista. Credo che più o meno tutti, da adulti, ci siamo scontrati con la disillusione delle nostre ambizioni infantili. È proprio quando diventa consapevole di ciò che Bollini trova la forza di dare una svolta alla sua vita. In che modo, senza svelare troppo la trama, il suo personaggio affronta questo disagio?

Su questo punto non sono completamente d’accordo. Sull’arrivo della disillusione probabilmente ha ragione. Capita più o meno a tutti, ma la presa di coscienza di chi realmente siamo rispetto a ciò che credevamo essere, la scoperta e l’accettazione dei nostri limiti, che poi è uno dei leitmotiv del romanzo è tutt’altro che scontata. Presuppone una sensibilità molto sviluppata e un’intelligenza per rielaborarla non banale. Conosco tanta, troppa gente, che si crede matura ed equilibrata e che ancora oggi è convinta di avere qualità che nemmeno la loro madre sarebbe più disposta a riconoscergli. Io stimo ancora, però, solo coloro che invece cominciano a fare i conti con il fatto che “l’ipertrofia dell’io” è, per i bipedi umani, una jattura paragonabile a ben poche altre sciagure. E fare i conti con se stessi genera momenti, allo stesso tempo, drammatici e catartici.
Ed è proprio ciò che capita a Bollini che si trova a convivere con una mente e una sensibilità di grande spessore da un lato e con una vita non all’altezza dei denari che la Natura o Dio Onnipotente se si crede, gli ha donato, dall’altro. Il dramma si concreta nel percepire la quasi totale inutilità di tutto ciò che può realmente fare per modificare la sua realtà. Un po’ come essere incastrato in un’immensa sabbia mobile dove stai andando inesorabilmente a fondo ma dove anche, se ti muovi per cercare di uscire, muori ancora prima di quanto capiterà se invece stai fermo e non fai niente. La catarsi invece sta nella presa di coscienza che, incredibile ma vero, la vita offre “second chance” a tutti, prima o poi. Insomma, la ruota gira. E forse, avendo preso piena e reale coscienza di sé, si può anche provare a morire con onore. Con dignità. Perché la cosa peggiore, il vero peccato mortale, non è davvero morire dentro le sabbie mobili della vita, quanto non aver nemmeno provato a metterci tutto il cuore per cercare di evitarlo.


Non crede che Gobbi come i Pirenei possa essere considerato anche un romanzo di formazione? In fondo Eugenio Bollini, nonostante non sia più tanto giovane, compie un processo di maturazione, è d’accordo?

Ah beh certamente, senza dubbio. In Bollini esiste un umanesimo che lo porta verso una formazione armonica di tutte le sue forze fisiche e spirituali attraverso un processo di sviluppo e di crescita che rappresenta il risultato di un incontro tra una legge interiore che alberga dentro di lui e le circostanze del mondo esterno. Si rappresenta in altre parole questo processo di maturazione di cui parlava lei, un’evoluzione che continua imperterrita nel tempo e non ha mai fine, come capita a chiunque abbia la capacità di guardarsi dentro senza avere, al contempo, totale disgusto di se stesso né un amore folle narcisistico. Del resto mi affascinava anche il linguaggio e come si evolve la comunicazione. In fondo il compito del romanzo, secondo me almeno, è raccontare il mondo. Uno spazio di riflessione dove porsi domande e cercare di azzardare risposte. Io come scrittore esprimo quello che sento l’urgenza di dire e non posso bluffare. In altre parole a me piace prendere un pezzo di mondo e trasformarlo aggiungendoci qualcosa che nel mondo non c’è. E anche come lettore ogni romanzo vorrei fosse romanzo di formazione. Vorrei in soldoni arrivare in fondo all’ultima pagina e rendermi conto che quel particolare libro è riuscito a spostare il mio punto di vista e che grazie a lui riesco a vedere le cose in modo diverso, finanche opposto. E spero con tutto il mio cuore che Bollini possa aver avuto quest’effetto nei tanti suoi amici che lo hanno letto con amore e passione.


Il suo romanzo è stato pubblicato da Neo Edizioni, giovane (in tutti i sensi) casa editrice indipendente lontana dalle logiche delle grande distribuzione. Come è avvenuto l’incontro con questa casa editrice?

Neo Edizioni è una casa editrice speciale. Unisce una qualità incredibile di cose prodotte (a parte il mio libro s’intende, che, capisco, potrebbe far pensare a ragione all’ignaro lettore, l’esatto contrario di quanto ho appena detto) a un’attenzione particolare sia verso il lettore stesso che verso l’autore. Al contrario delle grandi case editrici nazionali ripone molta attenzione agli scrittori emergenti o anche proprio esordienti tout court, scegliendo con attenzione maniacale e certosina le cose da pubblicare. Li ho sempre seguiti con interesse e quindi è stato facile mandar loro il manoscritto e, confesso, sono stato molto sorpreso e titubante quando mi hanno detto che avrebbero voluto pubblicarmi perché, proprio come diceva Groucho Marx, citato da Bollini in Gobbi «non vorrei mai far parte di un circolo che accettasse tra i suoi soci un tipo come me». Però alla fine mi hanno convinto facendomi ubriacare di Genziana. Sono stati fortunati, se la sono cavati con poco, sono un tipo facile. Quello che non sanno ancora è che, adesso che ne sono diventato dipendente, dovranno continuare a riempirmi la cantina ogni anno di quel nettare.
In ogni caso la piccola editoria indipendente va salvaguardata con qualsiasi mezzo anche se di fondo rimane l’annoso problema della distribuzione che è atavico in tutte le case editrici medio-piccole. La vera differenza tra un editore e un autore è che il massimo della vita per il primo sarebbe vendere una sola copia di un libro a uno sceicco arabo a 30 mila euro per massimizzare il profitto. Qualsiasi autore, invece, vorrebbe vendere 30 mila copie del suo libro a 0,01 cent, perché tutto ciò che chiede è di essere letto. Questo sistema di distribuzione non consente di soddisfare né le esigenze del primo, né quelle del secondo. Amen.


Avremo un seguito o le avventure di Bollini terminano qui?Quali sono i progetti futuri dello scrittore Otello Marcacci?

Con la pubblicazione di Gobbi come i Pirenei è avvenuta una cosa che non mi sarei mai aspettato. Il passaparola ha davvero funzionato molto bene e la tendenza a identificarsi con Bollini, come diceva giustamente lei poc’anzi, ha portato il libro a vendere moltissime copie nonostante la carente distribuzione di cui parlavamo. La cosa ancora più stupefacente è che, sin dai primi giorni dell’uscita, ricevo settimanalmente mail di lettori che, oltre a farmi del tutto immeritate lodi, mi chiedono in continuazione di raccontargli che fine ha fatto Eugenio Bollini. Insomma, la domanda è sempre la stessa: «E poi…?» Con appresso: «Ti prego, non puoi non dircelo!»
Inizialmente, quando scrissi il romanzo, non avevo programmato un sequel ma, quest’anno, sono state troppe le voci che mi hanno chiesto di raccontar loro che cosa fosse successo al loro caro Eugenio e alla fine ho pensato che sarebbe stato un vero e proprio tradimento all’incredibile affetto che nutrono per Bollini tutti questi nuovi amici, se non li avessi accontentati. E così il sequel tanto richiesto è stato finalmente partorito perché mi è piovuto dentro com’è stato per la prima volta. Quell’impiastro di Bollini ha preso possesso della mia testa che ha usato come mansarda e mi ha obbligato a raccontare la sua seconda storia. Adesso però arriva la parte più difficile, si tratta di trovare un editore che decida di pubblicarlo. Se qualcuno che legge questa intervista fosse interessato si faccia pure avanti e farà felici un nugolo di folli visionari che tanto amano il mio amico anti-eroe.
Prima però uscirà il mio secondo romanzo. Piccolo scoop che le regalo perché lei cara Chiara Gulino ha capito tutto di Gobbi come i Pirenei e ho deciso che fosse proprio lei la prima a sapere del secondo.
Il titolo è Il ritmo del silenzio e sarà edito da una giovane casa editrice romana. Il libro sarà in libreria credo a maggio 2012. In questo nuovo romanzo ho voluto raccontare la storia di una grande amicizia che va oltre le barriere del tempo, ma anche giocare con il concetto di tempo stesso, provando a mostrare come esso possa scorrere, in tutte le direzioni, avanti e indietro, sia velocemente che al rallentatore. Provando, in altre parole, a dimostrare, in modo letterario (si fa per dire), l’assunto di Einstein, secondo cui il tempo stesso è come un fiume dove il passato, il presente e il futuro, scorrono ed esistono contemporaneamente. Spero che i miei lettori e gli amici di Bollini trovino questa nuova storia interessante quanto la prima.


Infine, può dirci i titoli di tre libri che vorrebbe non mancassero mai nella sua libreria?

Questa è la domanda più difficile di tutte. Per prima cosa però voglio dirle che non credo che sia possibile avere solo tre libri guida imprescindibili. E poi penso anche che gli stati d’animo di un essere umano cambino in continuazione in funzione delle sue nuove esperienze di vita. Come dicevamo prima riguardo Bollini, ogni uomo che si possa definire tale è in continua formazione, non smette mai di evolversi. La risposta che le darò adesso quindi deve necessariamente tener conto di questa piccola premessa. Vale a dire, accetto il divertente gioco che mi propone ben sapendo tuttavia che rimane da un lato un gioco, nel senso che non è esaustivo di come Otello Marcacci è oggi e dall’altro pure ben consapevole che forse domani, se fossi chiamato a rispondere di nuovo, potrei scegliere altri libri perché magari l’esperienza di vita di quest’intervista o che so, l’aver incontrato una persona nuova mi ha fatto cambiare idea su quello che le sto per dire.
Il primo libro che non abbandonerei mai è Il giovane Holden di Salinger. Un po’ come dire che mi piace la cioccolata, me ne rendo conto. Insomma il capolavoro assoluto del ventesimo secolo non si può proprio non averlo in libreria.
Il secondo è Ghiaccio-Nove di Kurt Vonnegut per cui ho una venerazione quasi maniacale. So bene che Kurt è un tipo che fa incazzare gli esteti che considerano le sue trovate strampalate e assurde, ma il suo genio assoluto viene fuori proprio così. Lui inserisce dati bislacchi e apparentemente senza significato o importanza che si accumulano. E alla fine c’è qualcosa che rimette insieme tutto, una luce improvvisa che dà al tutto dei colori seducenti e del tutti unici. Per me il numero uno.
Il terzo è In fondo alla palude di Joe Lansdale, che se fossi omosessuale vorrei sposare perché è la ragione del perché Dio ha creato gli scrittori. Un uomo in grado di appassionare alla lettura anche persone che in genere leggono solo fumetti. Quando va bene. So che molti lo considerano di serie B. Trash. Letteratura minore. Ma guarda caso sono proprio coloro che scrivono libri illeggibili, inutili e dannosi alla salute, in cui arrivi a pagina dieci e già ne puoi più ad andare avanti.
Ah, dimenticavo, nella mia libreria non potrebbero mai mancare Gobbi come i Pirenei e pure Il ritmo del silenzio perché ogni scarrafone è bello a mamma sua.
Ciao.


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