“Pazza idea” di Panos H. Koutras

Passato all’ultima edizione del Festival de Cannes, Pazza idea di Panos H. Koutras conferma il momento di ottima forma del cinema greco, capace di raccontare in forme sempre nuove e spiazzanti la confusione economica e sociale che stravolge il paese.

Dany e Odysseas sono due fratelli greco-albanesi. Dany ha sedici anni, più o meno, è omosessuale e raggiunge da Creta il fratello quasi maggiorenne che lavora lì in un fast-food di Atene. La madre, cantante di night arrivata da Tirana sognando la gloria, è morta un paio di settimane prima. Non gli ha lasciato niente, se non il rischio di venire espulsi dalla Grecia una volta compiuti diciotto anni, e una passione anacronistica per le canzoni di Patty Pravo. Il padre è andato via tanto tempo prima. Forse Dany sa dov’è. È per questo che ha raggiunto il fratello, per andare a cercare l’uomo che li ha abbandonati e ottenere il riconoscimento per far partire una nuova vita, finalmente del tutto greci, finalmente con le opportunità che quell’uomo ha negato e con un sogno da realizzare: far partecipare Odysseas a un talent musicale televisivo con una canzone di Patty Pravo che la madre gli aveva insegnato.

La canzone non è Pazza idea che dà il titolo italiano al film, ma “Tutt’al più”, brano scritto da Franco Migliacci e Piero Pintucci che spopolò a Canzonissima nel 1970. “Tutt’al più” racconta di un amore finito, degli strascichi, delle sostituzioni. È in forma diversa la storia di Dany e Odysseas alla ricerca del padre, finito da qualche parte con una nuova famiglia. «Tutt’al più mi accoglierai con la freddezza che non hai avuto mai, e forse fingerai di non sapere il nome mio», canta Nicoletta Strambelli e canta Odysseas al provino mentre il fratello è arrivato, finalmente a confrontarsi con il padre.

È la ricerca di un’identità, di un riconoscimento ancor prima che da parte del genitore da parte del paese in cui sono cresciuti, quella Grecia che Koutras mostra in tutta la sua crescente disperazione di vite buttate negli angoli delle strade e di follie razziste. I fascisti di Alba Dorata sono ovunque ad Atene. Terrorizzano i bambini nei parchi, fanno incursioni in motorino la notte per distruggere i negozi degli arabi. Non è xenofobia, si spiegano, è nazionalismo, è difesa dei greci che non ce la fanno più. Danny è perennemente a doppio rischio, albanese e omosessuale, arrogante e imprudente, pronto a sfidare tutti pur di non abbassare la testa. È proprio per le sue reazioni che Pazza idea impenna nelle svolte drammatiche. Eccessive, sproporzionate, isolate.

Danny cresce nel viaggio, rinnega l’infanzia rappresentata dal coniglio che si porta sempre appresso, sceglie una vita nuova non più all’ombra della madre e prova ad offrire un’opportunità anche al fratello, cresciuto troppo in fretta e costretto a guardare il mondo da dietro la vetrina di una tavola calda.

Tratteggiato dalle canzoni ultra-pop della Pravo e non solo (la scena in cui i due fratelli ballano, in mutande, “Rumore” di Raffaella Carrà sa farsi ricordare, per un motivo o per l’altro), Pazza idea rischia l’esagerazione con un’ironia e un’estetica camp debitrice del cinema di Almodovar che però non dimentica, e anzi sfrutta con sapienza, la dimensione sociale senza appesantire la narrazione, mostrando solo quello che i protagonisti vedono, fedele a quel fondamento di realismo che contraddistingue il cinema greco degli ultimi anni.

In una forma diversa rispetto al folgorante Miss Violence di Alexandros Avranas, il film di Koutras mostra la crisi e lo smarrimento di un’intera nazione. Lo fa attraverso due protagonisti che non sono niente, non sono greci, non sono albanesi, non sono stranieri, non sono figli di nessuno. Proprio questa libertà dai legami, questo essere comunque altri dalle cose che accadono è la loro forza, la spinta per determinarsi, per cercare un’identità che sia oltre le radici e che sia soprattutto libertà.

Cameo finale di Patty Pravo. Menzione speciale al Milano Mix Festival dedicato al cinema con tematiche omosessuali.

(Pazza idea, di Panos H. Koutras, 2014, drammatico, 128’)

“L’Armata dei Sonnambuli” di Wu Ming

Giunti al termine dell’ultima e 792esima pagina de L’Armata dei Sonnambuli (Einaudi Stile Libero, 2014) di Wu Ming, si avvertirà immediatamente l’esigenza compulsiva di chiudere il libro e, dopo essersi guardati un po’ intorno, effettivamente certi di essere soli, ricominciare daccapo. La prima idea sarà di ripercorrere la strada a ritroso, assicurandosi di aver raccolto tutto, di non aver perduto qualcosa durante il tragitto.

«Te lo si conta noi, com’è che andò. Noi che s’era in piazza della Rivoluzione».

Il collettivo bolognese, già dai tempi del Luther Blissett Project, ha fatto della coralità l’inconfondibile marchio di una narrativa politica e stratificata, ma nell’Armata, quel pluralismo riesce davvero a tratteggiare la voce comunitaria della folla, restituendo verità a tutti i personaggi, sanculotti, «muschiatini», controrivoluzionari o folli, in un ritratto chiassoso di quell’umanità che, nel XVIII secolo, dopo la presa della Bastiglia, divenne protagonista sovrana delle sorti di Francia.

«Non un fiato mentre la mano di Sanson smolla la fune e… Tump. Un bel suono secco, da far rinculare la testa nelle spalle, come si fosse tartarughi. È stato un attimo, poi un boato e un zullo di cappelli in aria, e soquanti l’han perso nella calca, ma chissene, quello era il giorno! Un miliziano della guardia nazionale ha tirato su la zucca di Luigi e ce l’ha fatta vedere che spioveva…»

Il re è morto: la dispotica testa è caduta portando con sé le regole dell’Ancien Régime, ma la fine della monarchia non rappresenta che l’inizio del nuovo ordine. E gli inizi, si sa, sono un momento delicato; quelli di un fenomeno che «arbalta il mondo intero», non possono che esserlo ancora di più. Parigi, l’epicentro delle rivolte, è tenuta sotto assedio dal disordine; gli amici del defunto Capeto vivono nascosti, ma stanarli non è impossibile, e allora nessuno è al sicuro: al terrore dei nostalgici si aggiunge quello della ghigliottina, per chiunque sembri rappresentare un nemico della Convenzione. E poi c’è la borghesia. Sbagliato. Nella Parigi di Wu Ming la borghesia non c’è – o meglio – c’è, ma è per lo più grassa e corrotta. Una borghesia buona esiste, ma sopravvive nell’onestà di pochi – il medico D’Amblanc per esempio. Nell’Armata, nel disordine politico, il vero modello dello spirito rivoluzionario è una popolana: Marie Noziere. I sentimenti di rivolta, giustizia e uguaglianza passano per il corpo di una donna, affiancata molto spesso da altre donne, protagoniste offuscate nella storia ufficiale. Qui, tra l’assalto a un forno per rivendicare il diritto al pane, il lavoro, le petizioni e un figlio a cui badare, la sarta del foborgo di Sant’Antonio finisce per assumere le sembianze immaginarie di una delle proprie matasse: è proprio da lei che partono i fili narrativi che legano l’imponente struttura analogica dell’Armata. Prova ardita, quella di attribuire tanta simbologia proprio a Marie. Molto spesso infatti, i personaggi femminili partoriti dalla mente degli uomini difettano di credibilità, rientrando inevitabilmente in quella comoda categorizzazione che vorrebbe divedere le donne in madri, vergini o puttane. Della rivoltosa, invece, stupisce la psicologia dignitosa e possibile, plasmata con grande attenzione da un collettivo tutto al maschile: commettendo errori e senza rimanere immune ai sentimenti dell’animo umano, alti o bassi che siano, Marie è viva, proprio come le donne vere. Così i Wu Ming scansano dal tavolo di lavoro Marat, Robespierre e Danton, al loro posto figurano i volti anonimi della folla indistinta, così che, finalmente, la storia della rivoluzione possa tornare al legittimo proprietario: il popolo.

«L’applauso del pubblico abboccò alla pausa dell’oratore. Una giovane merdegliosa si spellava le mani proprio ad una spanna dall’orecchio di Bastien. Il ragazzino la guardò, tutta brillocchi e merletti, e decise di non unirsi all’entusiasmo generale. Il discorso contro la tirannia e i dittatori gli era piaciuto, ma se piaceva pure a una così, allora doveva esserci qualcosa di storto».

E se, mentre la Francia dà spettacolo al mondo, Léo Modonnet, attore italiano allievo di Goldoni e celebre calcatore di palcoscenici, ha dovuto reinventarsi il mestiere, allora qualcosa è andato storto davvero. Perché ai tempi della Rivoluzione, il biglietto dello spettacolo non si paga più. L’arte del recitare ha abbandonato i teatri e si è trasferita nelle piazze, e dalle piazze fino alle tribune politiche, perché i «politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro».

Il racconto stesso accantona i capitoli per scandire il proprio tempo attraverso le scene e gli atti teatrali. Più che di romanzo storico, si tratta allora di una messa in scena della storia o comunque dell’esigenza di raccontare un passato lontano, ogni pagina più vicino che mai. È il principio dell’affabulazione, che, come affermano i Wu Ming stessi, «è obbligatoria com’è obbligatorio mangiare». E allora, spinti dall’euforia di una lettura avvolgente che non tradisce le aspettative, come non essere tentati di scorgere nel mesmerismo, teoria illuministica di fluidi magnetici e sonnambulismo, una protesta silenziosa nei confronti di quei poteri ciarlatani, che, con chiacchiere imbroglione, riescono a indurre il sonno nelle coscienze dei cittadini? La voce viva di una storia tanto pulsante non poteva poi che ricorrere ai dialetti, quelli antichi emiliani, degni ambasciatori dello spirito genuino della rivolta. Per queste vie e molti altri sentieri, passa la voglia di Wu Ming di riscrivere la storia ufficiale, che vorrebbe la rivoluzione francese atto coscienzioso di pochi illuminati su una massa pronta a essere manovrata. Sorpassando le potenzialità del What if, per abbracciare quelle del What else, con L’Armata dei Sonnambuli i Wu Ming abbandonano gli sfizi puramente autoriali, sacrificandoli al lettore, alla sua capacità di orientarsi in un impianto narrativo complesso, megalitico ma stupendamente leggero.

La prima idea, dunque, sarà di ripercorrere la strada a ritroso, assicurandosi di aver raccolto tutto, di non aver perduto qualcosa durante il tragitto. La seconda, più saggia e riflettuta, sarà di adunare le interferenze e le analogie indotte dalla lettura e usarle nel modo più opportuno, come un invito a generare idee nuove e coscienza intellettuale.

(Wu Ming, L’Armata dei Sonnambuli, Einaudi Stile Libero, 2014, pp. 808, euro 21)

“Dalla morte al mattino” di Thomas Wolfe

Basta partire dal fatto che l’editore di Thomas Wolfe è lo stesso di Faulkner, Hemingway e Fitzgerard – Maxwell Perkins – per capire che, in fondo, la portata letteraria dello scrittore nato nel 1900 ad Ashville sia, e sia stata, incredibilmente sottovalutata nella storia della letteratura.

Thomas Wolfe è uno scrittore che plasma la realtà attraverso la scrittura. La scrittura diventa essa stessa realtà in una simbiosi quasi feroce che non ne permette alcuna distinzione: la realtà si nutre della scrittura come la scrittura si nutre della realtà, e la scrittura di Wolfe vive di una libertà inaudita.

Attraverso un lirismo che raggiunge vette altissime – a volte la percezione di essere andati troppo in là è più che solo un retro pensiero, ma la coerenza stilistica è calibrata alla perfezione –, Wolfe ci catapulta in un mondo ai margini del mondo stesso, nelle storie di uomini soli, nella distanza tra l’uomo e l’infinito: ci catapulta in Dalla morte al mattino (CartaCanta Editore, 2014), raccolta di racconti uscita per la prima volta negli Stati Uniti nel 1929 (in quell’anno, sempre negli Stati Uniti, vengono pubblicati L’urlo e il furore di Faulkner e Addio alle armi di Hemingway).

Sono racconti, pezzi di vita strappati alla realtà e riproposti su carta con una potenza inaudita. La capacità di Wolfe di descrivere la più piccola delle azioni quotidiane ed elevarla a momento fondamentale della Storia dell’Universo è così sbalorditiva da far pensare di poter cambiare i rapporti e i significati a cui siamo abituati, di stravolgerci; il più piccolo dei frammenti dell’esistenza, attraverso la sua visione a dimensioni infinite del mondo, è l’istante più importante di tutti. L’inizio e la fine sono concetti limitanti in questi brandelli di umanità, a volte il punto di vista cambia senza seguire alcuno schema preciso – senza scivolare in un alto territorio, il post modernismo –, tutto si mescola in un imponente flusso di voci scurissime.

Ed è una scrittura muscolare, quasi erotica, dove ogni parola pesa come una sentenza sull’Essere Umano: e lo fa attraverso l’errare di cinque vagabondi, attraverso la guerra che striscia lungo tutta l’opera, che diventa a tratti un’ode alla guerra, che sembra quasi influenzata – magari non così estrema da essere sola igiene del modo – dalla poetica futurista, che porta nuovi stimoli, nuove realtà, una nuova conoscenza con i suoi rombi e la sua velocità, la sua immanenza; alla storia di uno pseudo Gulliver, spunto per descrivere la percezione individuale dell’essere non omologati, non come gli altri – il percepirsi giganti solo nel momento in cui l’altro ti percepisce gigante; attraverso la morte, così potente e netta, vista dagli occhi di un uomo che l’ha vissuta per quattro volte.

Le storie narrate sono definite dalla scrittura stessa di Wolfe, che prendono forme diverse, formandosi lungo le capacità strabilianti dello scrittore americano di fare ciò che vuole con le parole. Un demiurgo ai limiti delle proprie potenzialità. Si percepisce il respiro antichissimo del tempo, la sospensione delle cose, il cuore pulsante della Storia; e il parlare di ciò di cui parla e di come ne parla, non può che essere anch’esso iperbole.

Ci inoltriamo nell’universo di dedali che fanno di Dalla morte al mattino una specie di mappatura della parte nera dell’uomo, della sua perenne ricerca di qualcosa, del suo impossibile tendere verso un infinito fatto di una sostanza non intangibile, ma paradossalmente viva e fisica.

Una raccolta che toglie il fiato per la sua complessità e la sua possibilità di lettura, dove non esiste un giudizio o una morale, ma solo uno scorrere di vite umane nei loro insulsi microcosmi che si scontrano con la maestosità dell’infinito. E interrogarsi sul perché Thomas Wolfe non faccia parte dell’Olimpo degli scrittori americani risulta più che doveroso, una necessità.

(Thomas Wolfe, Dalla morte al mattino, trad. di J. Lenkowicz, CartaCanta Editore, 2014, pp. 247, euro 15)

“Giorni perduti” di Charles Jackson

Giorni perduti di Charles Jackson, romanzo tra i più validi ed emblematici della letteratura americana contemporanea, si può definire come la cronaca di un giovane alcolista di trentatré anni, Don Birman, il quale trascorre diversi giorni (un lungo weekend) da solo a New York in preda ai fumi dell’alcool, tra reminiscenze del passato, sogni a occhi aperti e vicende surreali.

In verità l’autore aveva a cuore di evitare che questa sua impresa letteraria venisse considerata e ridotta alla stregua di una mera testimonianza, seppur profonda ed esemplare, circa gli effetti dell’alcolismo.

Tuttavia il materiale trattato nell’opera, seppure in forma artistica e narrativa, rappresenta uno dei quadri più esaustivi e completi riguardo alla morfologia e alle dinamiche dell’alcool sull’organismo e sulla psiche. Con una descrizione lucida ed estremamente realistica Jackson mostra come il suo personaggio attraversi tutti gli stadi inerenti all’ebbrezza alcolica e alla sua dipendenza: dal rilassamento e dalla disinibizione iniziali che portano a un sentimento di potenza – i sensi stimolati, la mente sgombra, eccitata e totalmente presente a se stessa – alla percezione di lacerante abbattimento del dopo sbronza, ai rimorsi, ai sensi di colpa – generati dal subentrare prepotente del Super-io, che era stato temporaneamente sostituito dall’ego ubriaco – dai quali l’alcolista cerca di sfuggire solo avendo la fortuna di essersi lasciato accanto una bottiglia a portata di mano (bere per sopperire ai mali del bere). Infine, a lungo andare, il crollo psichico e fisico, il delirio paranoide e le allucinazioni. Questo per ciò che riguarda l’aspetto scientifico e clinico del fenomeno che traluce dal racconto. Naturalmente il talento narrativo di Jackson, la sua notevole capacità di sfumare la realtà in tutti gli aspetti della vicenda, non si riduce certo alla descrizione di un quadro clinico – come ebbe a dire un famoso psichiatra dell’epoca, definendo l’opera «uno straordinario trattato sulla mentalità alcolica». L’autore mette sapientemente in scena anche un dramma umano, il dramma di un individuo estremamente intelligente, ma che fin dall’infanzia si sente già sconfitto, sfiduciato, per poi scoprire, nell’età adulta, che le promesse del futuro erano e sono rimaste solo promesse.

Nella sua vita sono mancati quei tasselli, quelle prove essenziali che avrebbero fatto di lui una persona integra, perfettamente sviluppata e consapevole; ma il fallimento, si sa, implica la fuga disperata da ciò che siamo, la caduta in una condizione subumana, ove sopra di noi rimane tutto quello che avremmo potuto e dovuto essere. Il mondo è pieno di vie di fuga, Don Birman decide di fuggire dalla realtà, dal suo fallimento esistenziale, dandosi al bere. Tuttavia Don non si può definire un vigliacco, semplicemente è una persona dotata di sensibilità e intelligenza troppo sviluppate e quindi troppo indebolite, che riemergono sconfitte dal confronto con la realtà. Ed ecco allora che si innesca e si sviluppa il processo che apporta una sorta di seconda vista, quella del sogno e dell’immaginazione che , condite dall’ebbrezza alcolica, compensano i deficit e le inettitudini nel campo pratico del quotidiano.

Fin qui si potrebbe pensare che siano state esclusivamente esperienze negative pregresse, vissuti anteriori dell’individuo che lo abbiano indirizzato e scortato sulla via dell’alcolismo e della dipendenza.

Ma non è esattamente così, o almeno non è così semplice. Vi sono altre motivazioni, talora latenti, altre volte manifeste, all’interno del libro, che esulano dai dati empirici, che trascendono il singolo individuo e approdano a una realtà inerente alla natura umana. È evidente che albergano nell’animo dell’uomo degli impulsi distruttivi e autodistruttivi, la parte più squisitamente demoniaca della nostra natura. Vi è una sorta di perversa voluttà nell’autodistruggersi, e Don Birman incarna l’eletto tipo di questa tendenza – l’individuo che cammina rasentando l’orlo dell’abisso e che attende il momento in cui vi sprofonderà. Già lo stesso Hugo non a caso affermava che «in fondo all’abisso c’è una calamita», inoltre noi tutti almeno una volta nella vita siamo rimasti affascinati dall’idea della caduta, dall’idea di toccare il fondo, di lasciarci andare totalmente. Ecco, l’alcolista è un partigiano della caduta e dell’autodistruzione, che usa questa medicina infernale (l’alcool) per guarire da quella malattia che ha nome Vita («l’alcolismo è la cura, la vita è la malattia»).

Vi è una sorta di provvidenza demoniaca che si sottende alle vicende di Don, che lo salva quando dovrebbe invece annientarlo, lo fa riprendere, così che egli scampa dal pericolo fatale solo per perdersi di nuovo.

Il romanzo quindi descrive questo circolo vizioso e risulta privo di un vero inizio così come di una autentica conclusione: esso è solo un intermezzo, riporta la cronaca di un periodo di baldoria, come ce ne furono innumerevoli nel passato della vita del protagonista e come ce ne saranno altrettanti in futuro.

Una storia «irredenta», così la definisce Simone Barillari, il curatore di questa nuova edizione italiana, che rappresenta tra l’altro la prima edizione critica del testo che sia mai stata realizzata.

 

(Charles Jackson, Giorni perduti, trad. di Simone Barillari, Nutrimenti, 2014, pp. 352, euro 18)

 

“Non fate troppi pettegolezzi” di Demetrio Paolin

Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria, 2014), titolo che viene dalla lettera lasciata da Pavese prima di porre fine ai propri giorni, di Demetrio Paolin è, secondo me, una delle novità più interessanti di quest’anno, almeno per quanto riguarda l’editoria indipendente.

La penna di questo bravo scrittore torinese, che abbiamo già imparato ad apprezzare con i precedenti lavori usciti con Transeuropa e ilSaggiatore, prova a tracciare una linea ideale che unisce alcuni scrittori solo apparentemente molto diversi tra loro: Emilio Salgari, Cesare Pavese, Primo Levi e Franco Lucentini.

Il trait d’union di questi quattro meravigliosi protagonisti del Novecento è il suicidio: elemento che esce fuori in tutta la sua amarezza ma anche nella sua letterarietà.

La scelta di morire diventa quindi la materia prima di questo pamphlet al tempo stesso piacevole e intellettualistico. Ma non è la sola: sullo sfondo di queste esistenze prende colore una città, Torino, coi suoi chiaroscuri, la sua bellezza decadente e la sua antica nobiltà.

Demetrio Paolin, scrittore e torinese egli stesso, dialoga con chi è stato scrittore e torinese prima di lui e sfiora le esistenze di uomini che hanno per sempre modificato questa terra, da sempre legata con un filo diretto alla letteratura (queste strade sono state percorse da grandissimi autori, docenti e editori).

Il testo nasce, per sua ammissione, da alcune chiacchierate con Alessandra Minervini, la sua editor, e da un amore sconfinato per la propria terra natia.

Se di Pavese si sa tutto o quasi (e in parte anche di Primo Levi) è stato piacevole “immergersi” in scrittori quali Salgari e Lucentini, il primo troppo facilmente collocato nella “letteratura minore”, il secondo troppo “contemporaneo” per essere adeguatamente storicizzato.

Aggiungendo poi che, per quanto mi riguarda, riprendere in mano qualcosa sullo scrittore di Sandokan –mia personale passione universitaria “provocata” da quella bella raccolta di saggi che è Controcodice (Edizioni Scientifiche Italiane) di Sergio Campailla – e venire a conoscenza della qualità letteraria di Lucentini – arrivato a me, oltretutto in maniera spuria, solo attraverso l’accoppiata con Fruttero – ha aumentato la predisposizione verso questo libro che, pagina dopo pagina, mi ha convinto sempre di più.

Bisogna dirlo: è bravo questo Paolin e il suo libro ha colpito nel segno. Certo: gli argomenti sono tratteggiati più che approfonditi, si respira una certa evanescenza che circonda tutto il volume, alcune cose sembrano forzate e autoreferenziali. Ma è proprio questa la bellezza del libro. Lanciare una curiosità, fare una fotografia, dichiarare amore vero e persino sensuale a Torino e alla Letteratura lasciando a casa la razionalità.

Il suicidio che l’atto più drammatico per antonomasia diventa un atto di poesia, una meravigliosa dichiarazione poetica.

Salgari ha raccontato di mondi che non ha mai visto, povero in canna è rimasto sempre a Torino ma ha saputo raccontare come nessun altro il fascino dell’esotico; Pavese ha unito un animo fortemente introverso a un senso della storia e della vita che lo opprimevano; Levi ha visto la morte negli occhi e l’incubo dei lager lo ha accompagnato per tutta la vita; Lucentini ha vissuto il suo essere diverso, la sua difficoltà a vivere il presente. Quattro storie che sono quattro viaggi, la cui destinazione in fondo è la stessa.

E allora il dramma scompare, scompare tutto, persino Torino. Rimane la poesia, sottilissima e impalpabile oppure maestosa e feroce, con tutta la sua retorica. E rimane un senso d’assenza. Manca a quest’Italia, sbranata dal qualunquismo e dalla mancanza di coraggio, un po’ del loro animo, anche solo un pezzetto di quelle esistenze che volteggiano ancora nell’aria, è vero, ma si nascondono per vergogna. O più semplicemente, per pudore.

(Demetrio Paolin, Non fate troppi pettegolezzi, LiberAria, 2014, pp. 132, euro 10)

 

“Johanna” di Felicitas Hoppe

«Johanna, Giovanna nacque nella notte dell’Epifania, la notte che celebra l’arrivo dei tre Re Magi. Gli animali iniziarono a parlare, i frati tennero alta la stella, solo i re non riuscivano a mettersi d’accordo».

C’è qualcosa di piano e regolare nel prologo di Johanna (Del Vecchio, 2014), qualcosa che accoglie il lettore (lo stile limpido, pianeggiante), qualcos’altro che lo orienta (le coordinate spazio temporali: quando Giovanna è nata, come e quando Giovanna è morta), e qualcos’altro ancora che lo intriga e che lo spinge a chiedersi, proprio come ogni buon prologo dovrebbe fare, «d’accordo, questi sono i fatti, ma dov’è la storia adesso?». Allora, speranzoso, volta pagina. Ma della storia in Johanna non c’è traccia. Al suo posto c’è un magma paratattico, una scrittura convulsa e immaginifica, una serie di frasi tanto giustapposte quanto correlate: «Signori e signori, la verità, che cos’è? Il volto di un uomo che nell’aula dell’ateneo siede a cassetta e che a casa si disperde in copricapo della vergogna, in scritte decifrate solo da un professore universitario […] Ma il gran da fare e il tratto di strada così trafficato fanno sì che si preferisca rinunciare  a una scappata».

Per un momento il lettore si sente stordito, forse persino raggirato. Non vede né roghi né castelli, non trova Johanna e non rintraccia neppure un suo sostituto, un altro protagonista. La storia che il prologo gli aveva fatto reclamare con tanta forza si è dissolta in un coro indistinto di voci, di stanze secondarie, di copricapi che recitano scritte un po’ sibilline – possiamo anche in altro modo – un po’ gnomiche – cenere alla cenere – e un po’ ironiche – che donna! magari fosse inglese.

Ma se, paziente, il lettore accetta di lasciarsi trasportare in questo flusso apparentemente inestricabile di voci e luoghi, si accorgerà che un filo conduttore (neppure così tenue) c’è, così come di protagoniste ce ne sono ben due. La prima, la più invadente, è una studentessa senza nome, una dottoranda dei nostri giorni (riconosciamo le aule universitarie, il suo modo di parlare e la sua sensibilità così novecenteschi), che sta scrivendo la sua tesi di dottorato proprio sul destino di Giovanna D’Arco. L’altra voce, sotterranea forse, ma non meno intensa e frenetica, è proprio quella di Johanna, che fa capolino tra i pensieri della studiosa, imponendosi sul suo stesso racconto con la forza di una figura ancora vitale.

All’iniziale spaesamento subentra quindi un’immersione totale non nella storia – perché sì, è vero, la storia tradizionale, con i suoi passaggi logici e i suoi nessi conseguenziali, non c’è in questo libro – ma nelle figure di colei che cerca e di colei che è cercata, figure che finiscono man mano per fondersi l’una con l’altra.

«Che cosa diavolo sto cercando qui?», si chiede la studentessa nei momenti di sconforto, quelli in cui la sua ricerca sembra non procedere in alcuna direzione. «Presumibilmente quello che cerchiamo tutti. Un posto caldo intorno al tavolo dove sono tutti alla pari, in mezzo al quale manca l’intimo centro, perché nessuno è disposto a essere l’unico vero». Stabilire una volta per tutte cos’è stata Giovanna, definirne i tratti, delinearne le caratteristiche non è lo scopo né dell’anonima studentessa né dell’autrice, Felicitas Hoppe.

Riportare in vita la figura, spogliarla delle innumerevoli interpretazioni che ha avuto nel corso dei secoli, è, invece, l’ambizioso progetto di Johanna. C’è un’eco piuttosto forte della Cassandra di Christa Wolf in questo romanzo, sia nell’intento che nelle atmosfere: ma se lì a dissolversi era la mitologia e a prenderne il posto era il prepotente monologo della sacerdotessa, qui è il discorso storico a essere decostruito e a dar voce a Giovanna è un imponente affastellarsi di immagini, frasi e soprattutto di toni, che spaziano dal poetico al sarcastico, dal postmoderno al lirico, senza mai concedere tregua al lettore, ormai consapevole che quella che ha di fronte è una Johanna mai raccontata prima.

(Felicitas Hoppe, Johanna, trad. di Anna Maria Curci, Del Vecchio, 2014, pp. 198, euro 14)

 

“Dragon Trainer 2” di Dean DeBlois

Tornano Sdentato, Hiccup e tutti i vichinghi della Dreamworks in Dragon Trainer 2, secondo capitolo della saga di animazione tratta dai libri per bambini di Cressida Cowell iniziata nel 2010.

Ormai nell’isola di Berk regna la pace. Grazie alla lezione di Hiccup gli umani non temono più i draghi ma hanno imparato a conviverci, ad amarli e a servirsene. Stoick, padre di Hiccup e capo dell’isola, ha scoperto le virtù di leader del figlio ed è pronto a lasciargli il suo posto sul trono. Hiccup non è più il ragazzo solitario e incompreso, è un eroe per tutti,  ma il ragazzo non vuole governare, preferisce esplorare il mondo cavalcando Sdentato, la Furia Buia che lo aveva per primo avvicinato ai draghi. È proprio durante un viaggio di esplorazione che i due si imbattono in un gruppo di cacciatori di draghi che rapisce le creature per consegnarle a Drago Bloodfist, un vichingo rinnegato che vuole dominare ogni tribù sfruttando il potere dei draghi. L’obiettivo di Bloodfist è scovare l’Alpha, il drago che comanda tutte le altre creature per prendere il suo posto e ottenere l’obbedienza. Nel tentativo di contrastarlo, Hiccup scoprirà la verità sulla sparizione di sua madre, quando era solo un neonato.

Dragon Trainer 2 fa passare del tempo tra la fine del primo episodio e i nuovi avvenimenti. Hiccup, Stoick e gli altri vichinghi di Berk sono cresciuti, hanno imparato a conoscere quelli che prima erano i loro nemici, a capirli e a vivere con loro. Sotto l’apparenza della favola nordica, il primo Dragon Trainer si era mostrato capace di stupire per la capacità di comunicare valori importanti come l’accettazione del diverso (i draghi) e la necessità di dare ascolto alle nuove generazioni (il rapporto Stoick-Hiccup) per trovare soluzioni nuove alle difficoltà. È una forma di narrazione adulta, capace di rischiare azzardi difficili da digerire come l’amputazione della gamba di Hiccup, nel finale, che non si accontenta di rivolgersi al pubblico dei più piccoli ma vuole conquistare tutti.

C’era riuscito. La coppia di autori DeBlois-Sanders, quest’ultimo già sceneggiatore degli ultimi grandi successi 2D Disney (La bella e la bestia, Il re leone), aveva realizzato un esempio di intrattenimento di altissima qualità che coniugava la spettacolarità della realizzazione tecnica con l’approfondimento della scrittura.

Dragon Trainer 2 parte con le stesse premesse, nonostante il passo indietro di Chris Sanders rimasto solo come produttore esecutivo. Ancora una volta, dietro l’apparenza della storia per bambini si legge un contenuto ulteriore di valori fondamentali (curiosità, rispetto, responsabilità) con un tono che evita di essere pedagogico ma d’esempio, nella migliore tradizione favolistica. È chiaro come DeBlois abbia avuto modo di assorbire, oltre alla tradizione disneyana occidentale, il modello offerto dallo Studio Ghibli di Miyazaki, sia sul piano dei contenuti rivolti alla cura e al rispetto dell’ambiente come espressione naturale della simbiosi tra uomo e natura, sia negli elementi visionari, in particolar modo nella figura del drago Alpha che sembra uscire direttamente da La principessa Mononoke.

Quello che non riesce però rispetto al primo capitolo è il passaggio a un livello più alto, a qualcosa che oltre la spettacolarità e l’emozione, comunque perfettamente dosate e distribuite, elevi Dragon Trainer 2 nella categoria del memorabile, che lo definisca come un modello a cui guardare per il cinema di animazione. Siamo, comunque, sopra la media della produzione attuale, per la cura particolare a dettagli come la fotografia, realizzata con la consulenza del collaboratore storico dei fratelli Coen Roger Deakins, per l’uso calibrato della tecnologia 3D, senza ridondanza di picchiate e voli imprevedibili ma sapientemente sfruttato anche in funzione della profondità di campo.

(Dragon Trainer 2, di Dean DeBlois, 2014, animazione, 102’)

“Prendete mia suocera” di Howard Jacobson

Guy Abelman è uno scrittore inglese ed ebreo che non se la passa tanto bene. Naturalmente, giusto il tipo, ha un grande sense of humour, nonché una comica sudditanza verso la bellissima moglie cui, al cospetto di quello che lei ritiene un balordo che ha avuto un inopinato successo con il primo libro, insorge il capriccio di poter scrivere anche lei – idea invero avventurosa visto la sua totale assenza di talento. Non più perigliosa peraltro dei gusti stravaganti del marito, infatuato della suocera.

Benché si dicano tutti stanchi delle storie di scrittori che raccontano di scrittori, il materiale del romanzo Prendete mia suocera (Bompiani, 2014) parrebbe accattivante di per sé. Forse Howard Jacobson (l’autore, quello vero) non è alla sua prova migliore, ma la lettura è piacevole perché resta uno scrittore fra i migliori in circolazione in terra inglese – specie se parliamo di umorismo culto. Noto da noi per alcuni libri pubblicati dall’editore Cargo, fra cui Kalooki Nights e L’enigma di Finklercon il quale si è aggiudicatoil Man Booker Prize del 2010, Jacobson come sempre sfodera un romanzo non di trama – che considera giustamente poca cosa («macchinazione per bambini») – ma la consueta macchina di intelligenza e raffinata ironia che, pur partendo un po’ a fatica, diverte tenendo insieme grovigli erotico-sentimentali e sguardo su un mondo afflitto da stupidità moralistiche molto conformistiche – di quelle indiziarie di un cambiamento storico segnato dall’agonia della lettura (di libri di qualità, anche negli ambienti che si vorrebbero più attrezzati).

La letteratura appare un campo sempre più abbandonato («dai lettori», dice Jacobson), sì che il povero Abelman è costretto ad attraversarlo come si attraversa un deserto del quale pochi comprendono (e tentano di salvarne) la bellezza. Essa vive di tempi lenti e lunghi e pare soccombere dinanzi alla superfetazione della comunicazione digitale. Lo stesso mondo editoriale pare più un superstite comprimario che una vittima della svolta. Nessun lamento, per carità, ma la lucida consapevolezza che oggi è un problema tanto di lettori che di scrittori: i primi vogliono pappette pronte e facilmente digeribili, i secondi si danno spesso ai libri di ricette venduti come romanzi. Abelman e Jacobson ci ridono sopra – ché non resta molto altro da fare. Cercano di salvarsi, il personaggio tentando di dimenticare attraverso l’ossessione della suocera la cupezza di non vedere mai un suo romanzo nella vetrina di una libreria (Scimmie gli ha dato anni prima un po’ di gloria, vero, e anche la possibilità si portarsi a letto la sventurata inserviente di uno zoo adusa a masturbare le tigri per calmarle, ma poi era stato dimenticato e seppellito nel famigerato “Catalogo” dell’editore – l’equivalente di una morte civile), lo scrittore di Kalooki Nights dimostrando che, ci fossero lettori, ancora esisterebbe qualche scrittore in grado di fare libri belli e spassosi insieme, capaci di far ridere su faccende come il sesso, l’amore, la triste vita degli editor e il punto e virgola. Senza con questo compiacere tutti. Forse Jacobson non è Roth, o Amis, ma per fortuna nemmeno Piccolo.

(Howard Jacobson, Prendete mia suocera, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, Bompiani, pp. 448, euro 19)

“Memorie di un sergente delle milizie”
di Manuel Antonio De Almeida

Manuel Antonio De Almeida nasce a Rio de Janeiro nel 1831 e, dopo i primi studi, inizia fin da giovanissimo a dedicarsi al giornalismo locale come redattore di un supplemento domenicale. Tra il 1852 e il 1853 pubblica sul quotidiano Correio Mercantil la sua prima e ultima opera, Memorias de um sargento de milicias (Memorie di un sergente delle milizie, Edizioni Arcoiris, 2013)Dopo l’iniziale perplessità della critica del tempo, il romanzo inizia a circolare e ha un buon impatto sull’opinione pubblica. Successo che l’autore riuscirà a godersi solo in parte, dato che nel 1861 troverà la morte nel naufragio di una nave.

Il romanzo narra la vita di Leonardo, figlio di un ufficiale giudiziario abbandonato dalla moglie e affidato al generoso padrino e alle premure della madrina fin dall’infanzia. Il ragazzo ha un carattere irrequieto e cresce, fino a diventare un adulto «senza arte né parte». La storia è ricca di personaggi che ruotano intorno al Nostro: il padrino che sogna per lui un futuro che gli garantista benessere e stabilità, un padre che porta il suo stesso nome ma che per Leonardo non prova alcun interesse, un intero paese che segue con malevolenza le sue vicissitudini personali.

C’è poi Donna Maria, amica del padrino e della madrina, alla quale si rivolgono spesso per rimediare e togliere dai guai questo giovane così sbandato. Il ragazzo non ha voglia di studiare e si accompagna a tipi problematici come lui, facendo dispetti e creando guai qua e là. Il padrino lo vuole prete, la madrina cerca invece di avviarlo a un mestiere ma ogni tentativo appare vano.

Questo suo carattere lo condizionerà per tutta la vita: il comandante della polizia Vidigal lo perseguiterà fino all’intercessione di Donna Maria e di una sua amica, vecchia fiamma del comandante stesso. Leonardo dovrà comunque combattere non poco contro una sorte che gli è avversa. Infatti si innamorerà di Luisinha, nipote di Donna Maria, che un rivale più scaltro allontanerà da lui. Per Leonardo, cresciuto senza l’affetto della vera madre, gli amori rappresentano una tragedia nella tragedia. Alla morte del padrino, Leonardo eredita una discreta somma di denaro grazie alla quale tornerà a vivere con il padre, il quale nel frattempo si era sposato nuovamente e aveva avuto una figlia. Questa tranquillità durerà poco perchè, grazie al suo innato talento per cacciarsi nei guai e grazie anche alla gelosia della matrigna, sarà costretto a scappare di casa. In seguito verrà adottato da due sorelle, ma anche in quella situazione incontrerà l’odio da parte di due cugini.

Solo un finale inaspettato cambierà il futuro di Leonardo, donandogli la tanto agognata serenità.

Manuel Antonio De Almeida ci mostra una spaccato della provincia brasiliana raccontando la storia di un ragazzo comune, con tono allegro e una scrittura scorrevole. È però evidente il pessimismo dell’autore nei confronti della società e del tempo che vive, che pare a tratti somigliare a quella del Manzoni narrata nei Promessi sposi: nel corso della storia, ci si rivolge di continuo al potente di turno e a figure pittoresche tipiche della società Ottocentesca brasiliana. Il romanzo è apprezzabile per la vivacità delle scene e per lo stile  di scrittura, frutto di una sintesi perfetta di romanticismo e spietato realismo.

(Manuel Antonio De Almeida, Memorie di un sergente delle milizie, trad. di Jessica Falconi, Edizioni Arcoiris, 2013, pp. 241, euro 12)

“Transformers 4 – L’era dell’estinzione” di Michael Bay

Il terzo doveva essere l’ultimo, ma la tentazione di continuare è stata troppo forte. La trilogia di Transformers, trasposizione cinematografica dei pupazzi Hasbro, dal suo avvio nel 2007 fino all’ultimo capitolo del 2011 ha incassato circa tre miliardi di dollari al botteghino mondiale, accumulando record a ogni episodio. Comunque, chiusa la trilogia sembrava che il progetto fosse destinato a esaurirsi, anche perché il regista Michael Bay, padre di celluloide dei robottoni, si era dichiarato non più interessato a proseguire. Ha cambiato idea convinto dalla Paramount e da nuovi mercati potenziali e quindi è tornato dietro la macchina da presa per Transformers 4: L’era dell’estinzione, un po’ sequel un po’ reboot della serie in vista di una nuova trilogia con cast rinnovato e Transformers con nuove sgargianti carrozzerie.

Siamo a cinque anni di distanza dal terzo film. Dopo il sacrificio degli Autobot, i robot buoni, contro i Decepticon, quelli cattivi, per salvare l’umanità, il nuovo direttore generale della CIA ha deciso di lanciare una guerra senza quartiere contro tutti i Transformers in una forma di estremismo nazionalista che tratta le macchine aliene come fossero immigrati clandestini. Optimus Prime, il capo degli Autobot, è braccato dai servizi segreti e attende in forma di camion di essere riparato dalle ferite subite in un vecchio teatro polveroso del Texas. Sarà un inventore sgangherato, con i bicipiti di Mark Wahlberg, a trovarlo per caso mentre fruga alla ricerca di pezzi di ricambio per il suo laboratorio. Tra macchina e meccanico si instaura subito un’intesa, anche perché il goffo tentativo della CIA di appropriarsi del capo degli Autobot finisce per avvicinare i due ancora di più nella difesa dell’amatissima figlia di Wahlberg. Dietro i servizi segreti che vogliono a tutti i costi Prima c’è un’altra forza aliena che ha promesso una ricompensa in cambio della consegna del robot, e l’interesse di un guru della robotica, che sembra Steve Jobs, che ha sintetizzato l’elemento fondamentale dei Transformers e li ha iniziati a produrre per uso commerciale e militare.

C’è tanta confusione in questo quarto episodio del franchise Hasbro. Sembra che la trama e la sua linearità siano assolutamente secondari, che l’unica cosa rilevante è accumulare esplosioni, inseguimenti, combattimenti, ralenti e colpi di scena senza preoccuparsi di inserirli in un contesto che sia capace di conservare un minimo di tenuta logica.

Michael Bay e il suo sceneggiatore Erhen Kruger accumulano spunti e suggestioni, nemici e alleati per tirare il minutaggio fino all’inadeguata meta di 165 minuti, stabilendo un nuovo record di durata per un film della serie partita con le due ore e venti del primo episodio per arrivare con quest’ultimo a quasi tre ore. C’è da temere per l’inevitabile quinto capitolo. È la linearità dell’intreccio a risentirne. Non che sia necessario spiegare in un film evidentemente votato alla spettacolarità, ma l’accumulo non giova a rendere coinvolgente lo scontro tra nuovi e vecchi alieni, tra umani venduti e umani buoni, e alla fine L’era dell’estinzione non appare come nient’altro che una somma di momenti action che esaltano il 3D prendendo in prestito un po’ da The Avengers, un po’ da Independence Day e perfino da Jurassic Park.

Il nuovo protagonista Mark Wahlberg fa il possibile del suo repertorio, coadiuvato – più o meno – dalla figlia bionda, bella e seminuda Nicola Peltz, che riceve il testimone di bellezza da richiamo da Megan Fox e Rosie Huntington-Whiteley, e dal genero con cui litigare sempre, anche in piena battaglia contro iene robot, Jack Reynor. Stanley Tucci cerca di essere un (semi) cattivo da ricordare. Ci fossero dei dialoghi decenti a dar loro qualcosa da dire si potrebbe fare un discorso, ma non si va oltre la retorica machista, le grida e la megalomania.

Cinema ridondante ed esplosivo, perfetto per il consumo per chi ha voglia di sopportare tre ore di occhialetti 3D. Peccato perché Michael Bay con il recente Pain & Gain aveva dimostrato di avere ancora qualcosa da dire, oltre alle esplosioni.

(Transformers 4: L’era dell’estinzione, di Michael Bay, 2014, azione, 165’)

“Maledizioni” di Antonio Armano

L’inchiesta del giornalista Antonio Armano, Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi, anzi domani, da Aragno nel 2013, ora di nuovo in libreria per la Bur, è un bell’esempio di storia culturale realizzata in maniera tangenziale ma documentata attraverso testimonianze, archivi, redazioni editoriali e tribunali. L’argomento: la censura letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi.

«In Italia» s’intende non solo riguardo a libri e autori indigeni ma anche verso scrittori tradotti (e editori connessi: da Sartre a Joyce a Lawrence a Kerouac a Ginsberg). Il Bel Paese, i cui umori fascisto-clericali negli ultimi settant’anni non hanno mai smesso di esalare, non si è fatto risparmiare niente. Ossessionato da un’idea del sesso riparato dal velo della Maria Vergine e da una pruderie linguistica di chiaro stampo cortigiano, il moralismo poliziesco nostrano ha trovato il suo nemico prediletto nell’osceno e in subordine nello sberleffo alla coppia di ferro religione-esercito.

Armano si muove con perizia fra casi noti e altri pressoché sconosciuti. Se Pasolini è un nome ovvio, come lo è quello di Curzio Malaparte, bandito dalla città di Napoli (si rifiutavano persino di servirlo al bar), e non stupisce che all’anima cupa di questo paese (compresi, va detto, critici non privi di qualche merito come Cecchi o Baldini) siano sembrati sconvenienti persino Saba o Arbasino o Testori, va detto che l’autore scova casi singolari. Come quello del romanzo Il fuoco del mondo di tale Giuseppe Iorio, bloccato sul nascere nella tipografia Chicca di Tivoli da un’operaia più pudica di Lucia Mondello ma non priva dell’intraprendenza paesana di un Renzo Tramaglino pronto a dare battaglia. Qua non c’è nemmeno modo di appellarsi alle causidiche elucubrazioni su cosa sia l’opera d’arte e così eventualmente condonare marachelle e sporcaccioni attraverso la redenzione estetica.

Quello di Armano è un libro ponderoso, che non dimentica grandi come Bianciardi e casi sfortunatissimi come quello di Guido Morselli, inedito in vita. Poiché prescinde dalla qualità dei testi, ci ragguaglia anche su vicende su cui sarebbe un po’ arduo appassionarsi (per esempio le beghe fra Lidia Ravera e Paolo Pietrangeli, la prima autrice con Marco Lombardo Radice del diario “sessuo-politico” Porci con le ali – niente di più di un fremebondo tirocinio liceale –, il secondo regista di un film ispirato al libro ma persino peggiore), che però ci dicono bene l’aria che tira(va) da noi: il magistrato smanioso di mettere sotto sequestro il libercolo era lo stesso (Giovanni De Matteo) a suo tempo impegnato contro Guareschi (vilipendio al capo dello stato…), turbato dalle dita di Maria Schneider sfrigolanti nelle cavità di Marlon Brando (Ultimo tango a Parigi) e – bontà sua – magnanimo con un altro classico (benché sopravvalutato) come Lady Chatterley,la cui vicenda editoriale, naturalmente implicata nell’oggetto di questo libro, passò anche per l’Italia.

Alzando il livello, la brillantezza dei procuratori non cambia, anzi: «L’opera è priva di qualsiasi fondamento artistico e si basa esclusivamente sulla più smaccata oscenità», tuona il procuratore Francesco Novello, altro Catone accanito, stavolta contro i Tropici di Henry Miller (peraltro tradotto da Bianciardi). Diverte invece l’esibizione di Busi nel tribunale di Trento. Processato per Sodomie in corpo 11 (i suoi censori lo definirono «un libro indecente, immorale, di inaudita depravazione» e anche «nettare per sconfinate schiere di depravati, pervertiti, pederasti d’ogni sorta») lo scrittore di Montichiari, che intanto aveva firmato due capolavori, in smoking deliziò il giudice contestando le accuse a partire da «una disamina formale, morfologica, grammaticale e sintattica della citazione all’imputato». Fu così persuasivo da venire assolto. Con grande scorno, suo naturalmente.

(Antonio Armano, Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi, anzi domani, BUR, 2014, pp. 570, euro 20)

“Quitaly. L’Italia come non la raccontereste ai vostri figli” di Quit the Doner

Per riuscire ad apprezzare pienamenteQuitaly (Indiana, 2014), raccolta di articoli e reportage pubblicati su Linkiesta e VICE da Quit the Doner, blogger anonimo che ha un’opinione su tutto e che per questo si è aggiudicato un Macchianera Italian Award nel 2013, bisogna scegliere da che parte stare. La linea che segna un di qua e un di là è la frontiera del nuovo giornalismo italiano, quel modello originato dall’opinionismo da blog e alimentato dalle nuove frontiere digitali orientate alla condivisione più che al contenuto.

Ora, appurato da che parte si voglia stare – e sostanzialmente la scelta è tra il ritenere questo nuovo giornalismo l’unica forma di comunicazione possibile per raccontare i valori in declino, l’estetica ributtante, la morale prostituita immergendosi all’interno del mondo in rovina per parlarne come inviati al fronte dal piedistallo, sommerso, di una superiorità presunta, oppure liquidarlo come una rassegna di stereotipati luoghi comuni di posizioni antagoniste che cercano di rendersi memorabili, o valevoli di unlike, quantomeno, attraverso la battuta a tutti i costi affogata di riferimenti alla cultura popolare e pop – l’atteggiamento nei confronti di Quitaly può essere solo di due tipi: l’accettazione totale o il rifiuto assoluto.

Il manicheismo, però, lo stare con o contro, non è una scelta che nasce spontanea nel lettore. È Quit a chiamarla, a provocarla con i suoi articoli. L’essenza di Quitaly e di Quit the Doner è un’osservazione socio-antropologica che non ha molto di originale se non l’estrema semplicità, e la calcolata malizia, dell’esposizione. Basta la copertina di Gipi, bella, a dare il senso generale del tutto: un uomo sospeso nel cielo che osserva dall’esterno l’Italia da Palermo ad Aosta. Ecco, quell’uomo è Quit. Quit the Doner si pone fuori dall’Italia che non gli piace, dall’Italia «come non la raccontereste ai vostri figli», come recita il sottotitolo, da quell’Italia che non è Quit.

Il viaggio lungo la Penisola che si compone attraverso i quattordici reportage è una rassegna di eventi, personaggi e situazioni che Quit the Doner osserva alternando partecipazione e ironico distacco. C’è sempre qualcosa da ridire su quello che succede.

Le direzioni principali del biasimo sono due: l’italianità media che si riconosce e accetta nella maggioranza, nel gusto complessivo, nel costume generale come per esempio nelle feste in spiaggia in Salento; le fasce di cultura benpensante, i «Quotidiani italiani seri», Daria Bignardi, Saviano e tutto il repertorio di personaggi più o meno di sinistra criticati da tutti coloro che si dicono di sinistra, però non così, in un altro modo più puro, più alto, disincantato.

Le conseguenze di questo movimento distruttivo di tutto ciò che non è Quit è che se ci si riconosce nell’opinione prevalente, o anche solo se non si disprezza tutto con sarcasmo iconosclastico, si finisce integrati e distrutti in una generalizzazione che assimila il trafficante di schiave al notista politico del TG5, che rende Caparezza adatto solo ai giovani del PD in cerca di emozioni forti. Se per caso scappa una risata con un’imitazione di Fiorello si è inevitabilmente dei coglioni. Se si dà la colpa a Balotelli per l’uscita dell’Italia dai Mondiali si è dei benpensanti mangiatori di arrosticini e ci si merita Verratti, per far riferimento a un articolo recente non incluso nella raccolta.

Per Quit l’unica conseguenza pubblica di questa eterna condanna dell’altro è stata l’inserimento nella lista nera dei giornalisti “di sistema” del blog di Beppe Grillo, dopo la pubblicazione dell’articolo “Cinque buone ragioni per non votare Grillo”. Sempre lungimirante, il blogger genovese, che in questo modo ha impennato la celebrità di Quit the Doner e la diffusione dell’articolo.

C’è molto, moltissimo, Daniele Luttazzi nella scrittura di Quit the Doner, e non è un caso che venga citato direttamente a un certo punto. La differenza sostanziale, però, è che Luttazzi metteva (mette?) faccia e nome in prima persona nel suo gioco al massacro, esponendosi a contestazioni, scomuniche e licenziamenti. Quit si nasconde dietro uno pseudonimo e presentandosi come giornalista, come narratore del reale, non pone il filtro assolutorio della satira ma quello ridondante della dissacrazione forzata.

Eppure, quando non si sforza di essere a tutti i costi ironico nei confronti delle realtà che osserva, Quit the Doner riesce anche a essere lucido, addirittura interessante. Le sue analisi si basano su categorie critiche perfettamente esposte in grado di esprimere con formule chiare e precise concetti di vasta portata sociale, come l’idea di “religione di internet” per descrivere l’autocelebrazione ossessiva amplificata dai social network, dalle foto nei bagni delle discoteche, dalla condivisione coatta che tenta di elevare il quotidiano a eterno, il chiunque a celebrità autoimposta, o ancora l’ossimoro “tradizione temporanea” per sintetizzare la portata transitoria ma permanente di fenomeni collettivi culturali quali i cartoni animati dell’infanzia, destinati a essere relegati e fondanti per singole generazioni, prima di essere sostituiti dal prodotto successivo.

Ancora di più, Quit riesce a fare giornalismo di livello quando cambia il registro e va in Alto Adige a raccontare l’autonomia, quando si infiltra in una convention di Herbalife e osserva dall’interno le vendite piramidali, quando racconta di un’osteria, di una donna e di un tavolo e di come nacquero le Brigate Rosse.

Tornando alla scelta iniziale, l’ipotesi dell’accettazione totale non incontra ostacoli concreti. La lettura è una rivelazione continua per chi vuole ricevere rivelazioni, suscita il riso altezzoso e distaccato di chi si voglia sentire lontano dal mondo, dà indicazioni generali su cosa si debba disprezzare per far parte della minoranza dissenziente.

Lo sforzo lo deve fare chi non si rassegna al rifiuto assoluto. Ci vuole pazienza e forza per superare l’iniziale diffidenza e la vera e propria difficoltà nell’accettare una presentazione che parte con «passavo qui davanti e ho sentito odore di fregna» – e no, immaginare il sabato sera di Rai Uno affidato ad Antonella Clerici e Rocco Siffredi rinchiusi in uno scantinato e nutriti solo con ormoni di una tuffatrice cinese non fa ridere, non scandalizza, non denuncia. Quitaly, però, resistendo all’istinto del rifiuto, trova il suo valore specifico proprio nell’opportunità che offre di comprendere dall’interno i nuovi linguaggi della comunicazione e del giornalismo, di vedere la linea che unisce e disegna un mondo in cui realtà come VICE si sono elevate a censori morali partecipanti, popolato di blogger, fashion design, autori creativi, tutti necessariamente creativi, tutti necessariamente artistici, tutti necessariamente contro.

(Quitaly. L’Italia come non la raccontereste ai vostri figli, Quit the Doner, Indiana, 2014, pp. 240, euro 14,50)