“Jersey Boys” di Clint Eastwood

Avere ottantaquattro anni e avere ancora tanta voglia di mettersi alla prova. È il modo più rapido per descrivere Clint Eastwood che torna al cinema come regista e produttore di Jersey Boys, commedia musicale tratta da un musical di successo di Broadway.

Frankie è un garzone di barbiere in un paesino del New Jersey poco lontano da Newark. Ha una voce incredibile per cui stravede il boss locale Angelo “Gyp” De Carlo, che lo incoraggia a cantare e lo difende ogni volta che finisce nei guai. Nel New Jersey di quegli anni le possibilità per un ragazzo di uscire dal confine della periferia sono: arruolarsi nell’esercito e rischiare di morire, entrare nella mafia e farsi ammazzare, oppure diventare famoso. Lo dice Tommy, amico di sempre di Frankie che gli dà un’opportunità musicale facendolo entrare nella sua band. Lentamente arriva il successo, grazie all’ingresso del tastierista e autore Bob Gaudio che scrive tre pezzi da prima posizione in classifica di fila. Frankie e i Four Seasons diventano famosi, ma qualcosa si rompe tra rivalità interne e problemi di debiti.

Frankie Valli e i Four Seasons esistono realmente. Hanno avuto un grosso successo con pezzi comeWalk Like a Man” e “Big Girls Don’t Cry”, poi Valli ha proseguito come solista incidendo la famosissima “Can’t Take My Eyes Out of You” e il brano di punta del musical Grease. Negli Stati Uniti sono ancora famosissimi. Valli è apparso in due stagioni dei Soprano (era Rusty Millio), hanno la stella al Walk of Fame e tutto il repertorio. Nel 2005 Valli e Gaudio hanno deciso di fare un musical dalla loro storia. È venuto fuori Jersey Boys che ha aperto la stagione di Broadway con un grande successo. Come sempre più spesso succede, il consenso di pubblico ha spinto a farne un film. È strano che il progetto sia finito tra le mani di Clint Eastwood. La passione di Eastwood per la musica è cosa nota ed è già stata al centro di tanto suo cinema (Bird, Honkytonk Man e il documentario del 2003 Piano Blues), ma la storia dei Four Seasons appare lontana dalla sua idea di musica, più orientata verso una musica popolare ma colta, non verso una forma di pop da successio radiofonico. Eppure ha sposato il progetto. Con Jersey Boys si diceva si sarebbe cimentato con il suo primo musical, cosa che da anni ha dichiarato di voler provare.

Non è andata così. Jersey Boys non è un musical, al massimo è una commedia musicale. Le canzoni ci sono, ma sono solo quelle che i Four Seasons eseguono sul palco. Eastwood sorprende in una direzione nuova, quella della commedia. Perché Jersey Boys è pieno di scambi veloci e godibili, di battute e ironia che attraversa tutto il film e coinvolge Eastwood in un entusiasmo nuovo (si concede, addirittura, un cameo, se si può definire tale la breve apparizione del se stesso protagonista della serie Rawhide). È probabilmente il film meno personale della sua recente carriera di regista. La tendenza all’approfondimento morale o politico è assente. Rimane solo la splendida, come sempre, fotografia di Tom Stern a scolpire con le ombre le avventure dei quattro ragazzi del Jersey. Eastwood sembra quasi giocare a fare lo Scorsese calandosi in questa storia tutta italo-americana. Sarà che il protagonista John Lloyd Young (che già era stato Valli a Broadway) sembra De Niro quando interpreta Frankie giovane – e sembra Pacino quando lo fa da grande – saranno gli spaghetti with meatballs e quella malavita quotidiana e dall’apparenza innocua, o la presenza di un Joe Pesci ragazzo che aiuta i Four Seasons a ingranare, ma sembra di assistere a una versione musicale di Quei bravi ragazzi.

Non tutto funziona in Jersey Boys, anzi. In primo luogo è troppo lungo: più di due ore con sequenze (la fuga e la fine della figlia di Valli su tutte) ampiamente trascurabili. In secondo troppo spesso si limita ad accennare: l’approfondimento psicologico dei personaggi a tratti risulta rudimentale, problematiche e personaggi appaiono e scompaiono a seconda dell’utilità del momento (la moglie Mary che sembra arrivare come un uragano sugli equilibri del giovane Frankie per non farsi più vedere fino alla parte finale; il boss Gyp, per quanto interpretato da uno splendido Christopher Walken, che appare a intermittenza senza che si chiarisca il suo ruolo). Quello che funziona, però, funziona bene. La costante ironia nostalgica, gli ammiccamenti della narrazione direttamente guardando in camera, aprono nuove, ulteriori, possibilità per un regista che sa sempre, comunque, sorprendere. E c’è quel carrello verticale che scala il Brill Building di New York, quando Frankie e Bob arrivano in città, che merita di essere ricordato.

(Jersey Boys, di Clint Eastwood, 2014, biografico, 134’)

“Atlante delle isole remote” di Judith Schalansky

Ho sempre pensato che vivere su un’isola influenzi il modo di ragionare di un individuo, condizionandone la forma mentis, costringendolo a scegliere, in maniera inconsapevole, tra due opposte reazioni: circondati dal mare su tutti e quattro i lati cardinali, alcuni tendono a sentirsi al sicuro, come vivessero in un microcosmo sospeso sull’acqua, con l’illusione che ogni cosa sia più o meno sotto controllo; altri invece non fanno altro per tutta la vita che desiderare di oltrepassarlo quel mare, e si affannano e si arrovellano quali moderni Dedalo pur di raggiungere una meta che risulterà alla fine illusoria, poiché crescere su un’isola significa, volenti o nolenti, appartenerle.

Qualche tempo fa, poi, mi è capitato di sfogliare l’Atlante delle isole remote di Judith Schalansky (Bompiani, 2013) – volume di una bellezza antica, non a caso vincitore del Primo premio della Fondazione dell’arte del libro e del Premio per il design della Repubblica Federale di Germania –, e di trovare una frase che mi sembrava potesse sintetizzare alla perfezione l’idea che avevo in testa: «Il paradiso è un’isola. Anche l’inferno».

Ora Judith Schalansky non è cresciuta, né vissuta su un’isola – e del resto il sottotitolo è chiaro: «Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò» –, ma la capacità con cui ha carpito la doppiezza che si cela dietro il concetto di isola mi ha sorpreso, al punto da farmi proseguire nella lettura di questo libro così particolare, fatto di cartine in scala 1:125.000 e di brevi narrazioni storico-antropologico-geografiche stupefacenti.

«Santa Kilda, tu non esisti. Il tuo nome è solo un sussurro del popolo degli uccelli che vive su un paio di alte rocce all’estremità del regno, al largo delle Ebridi esterne. Si può osare la traversata fin lì solo quando il vento soffia da nord-est. // L’unico villaggio è composto da sedici casupole, tre case e una chiesa. Nel cimitero giace il futuro dell’isola: al momento della nascita i bambini godono di buona salute. […] Tra il settimo e il nono giorno muoiono due terzi di tutti i neonati, più maschi che femmine».

Cinquanta isole, dunque, la cui caratteristica principale è la lontananza, quindi l’irraggiungibilità. Luoghi disabitati o scarsamente abitati; terre dai nomi astrusi o assolutamente simbolici; narrazione essenziali, capaci di esprimere la solitudine, la disperazione, la rassegnazione per le distanze incolmabili e la durezza della natura, ma anche l’euforia dell’esplorazione e l’estasi della scoperta. Isole così lontane dalla terraferma e dalla madrepatria da non rientrare mai nelle cartine politiche dei rispettivi paesi di appartenenza – in larga parte Regno Unito, Francia, Russia e Stati Uniti. Storie brevi così incredibili da sembrare inventate, quasi che all’autrice non bastasse la strana conformazione territoriale di questi luoghi, ma volesse far immergere il lettore in una dimensione onirica, come nella migliore tradizione della letteratura insulare, o quasi desiderasse mostrare una serie di diapositive del secolo scorso, ultima testimonianza di chissà quale incredibile percorso circolare.

«Il desiderio di un sosia segreto che vive dall’altra parte della Terra, a testa in giù, con i piedi rivolti verso i nostri, incatenato dalla forza di gravità alla stessa sfera. I nostri antipodi abitano alle stesse longitudini, ma alla latitudine opposta; […] Ma qui, alle Antipodi, non abita nessun essere umano, tra le rocce fanno capolino solo un paio di otarie e qualche pinguino con il ciuffo colorato».

La verità è che l’Atlante delle isole remote, con i suoi elementi geografici – non mancano riferimenti a latitudine e longitudine, così come ai chilometri quadrati di superficie e al numero degli abitanti, o ancora la distanza dalla terraferma e le principali date storiche luogo per luogo –, e le sue cartine color carta da zucchero, è esso stesso un’esplorazione. Un’esplorazione dell’immaginario collettivo della lontananza, capace di mostrare approdi in quella alterità che spinge alcuni di noi a sperare di trovare un luogo migliore, più ospitale, capace di farci dimenticare l’inferno terrestre delle nostre quotidianità; o che conforta invece gli altri, i timorosi dell’ignoto, lasciando credere loro che non c’è posto più sicuro e certo di quello in cui stanno già vivendo.


(Judith Schalansky, Atlante delle isole remote, trad. di Francesca Gabelli, Bompiani, 2013, pp. 143, euro 21,50)

“Stati di grazia” di Davide Orecchio

La luce degli «stati di grazia» del libro di Davide Orecchio risuona per tutto il romanzo ma è ancor più forte quando ci viene spiegato che cosa siano questi stati di grazia, il far riemergere ciò che sta sotto la marea della storia. Scavo psicologico non fine a se stesso, finalizzato a un raffinato e limpido gioco di identità e specchi, con l’intento di mostrare, con un metodo quasi scientifico, non la logica esatta della storia, ma le piccole crepe, i maremoti sotterranei che muovono le formule e i documenti ieratici della storia. Animare le fonti non solo di storia, ma di umana pietà per le conseguenze tragiche della storia.

La lingua ricercata e una certa visionarietà progressiva regalano ai personaggi il coraggio di darsi e disporre i propri drammi come disegni antichi, copioni irreali che si nutrono uno dell’altro. La forma ha un peso specifico, che si assume la responsabilità del docere, ma sa anche confrontarsi con i testi e in seconda battuta con i bisogni endogeni del testo, infatti questo non è un romanzo neutrale, o naturale, fatalista. Per sciogliere i nodi della storia, Orecchio ne sceglie segmenti già noti con grande rispetto verso la reticenza, giocando sui detti e sui non-detti e stili distinti per ogni personaggio.

Si tratta di racconti costruiti uno sull’altro, che mano a mano misurano le sconfitte di esuli e di poetesse che hanno creduto alla rivoluzione argentina, drammi comuni e minimi rispetto alla storia. A dare sapore, la mise en abyme dentro la quale si perdono le vite di rivoluzionari la cui partecipazione impone il prezzo della resistenza a se stessi e a una visione della storia, quella ideologica, insufficiente rispetto alla natura camaleontica della vita e alla capacità affabulatoria e di riconversione del potere. Il discorso articolato sulla rivoluzione argentina è attento nel costruire monologhi di coscienza che non trascurano l’alfabeto dei sentimenti, rispettando l’impossibilità di scotomizzare la storia e affermandone la sfuggevolezza in divenire.

La ricerca del sentimento politico prima dell’impegno è un tema sul quale i personaggi misurano le proprie azioni. Aurora e Matilde Famularo non sono solo infelici. La rivoluzione per Aurora è il centro nevralgico della sua rabbia, ma anche quel macigno che le impedirà di sentirsi libera di amare la compagna. Per una fideistica coerenza verso la rabbia, si rende prigioniera di un amore non corrisposto, immolandosi prima per gli ideali che la renderanno il giullare di un gruppo di contadini che non comprende né la virulenza dei suoi versi, né la sua fragilità. Aurora è una donna più capace di distinguere le sfaccettature della realtà argentina, dopo l’amore con Diego Wilch, il giovane medico convinto di salvare i contadini che lavorano nello zuccherificio, fugge con costanza i legami duraturi.

La rivoluzione argentina è narrata grazie ai tentativi dei personaggi, che sono umani e armati più della rabbia, dei sentimenti, che di conoscenze ideologiche praticabili. Tanto che Diego arriva a confessare al sociologo che il suo marxismo, alla resa di ciò che gli ha trasmesso la visione delle vittime, è povero di salvezza e alimentato di logiche di necessità non meno disumane del capitalismo. L’idea è sempre quella di mostrare i chiaroscuri con toni tersi, non semplicisti, ma tesi a ricercare sintesi storiche sia nei personaggi che nelle sottotrame. Diego non è puro ma conserva la sua tenerezza, rinuncia al destino dell’eroe, secondo l’adagio brechtiano. Dopo aver lasciato Aurora, che intanto ha conosciuto Arturo Coloccini, uno studente suo coetaneo, comprende le illusioni della giovinezza, senza le quali forse non avrebbe saputo vivere, che riflettono una foscoliana incapacità di riposo, una nervosa restless politica che esige impegno. Non è una furia per la perdita di un’armonia classica, quanto lo smacco di fronte all’amore a riportarlo a una condizione più umana. Il sociologo tenta di fare sintesi di queste contraddizioni, adeguando margini, dubbi, crepe del fenomeno rivoluzionario a una versione dei fatti narrabile. Fra i meno convinti spicca Jossy Tossi, che incarna un modo bonario e godereccio di vivere il periodo rivoluzionario.

Oltre che la rappresentazione storica, si dovrebbero leggere le pagine di Orecchio per la ricerca espressiva, la finezza nell’unire i punti di convergenza fra i destini dei protagonisti, una collazione di fallimenti, un diluvio di desideri, e di immagini filmiche. Fallimenti che non sono definitivi, ma che riflettono l’immagine delle «città distrutte» – titolo del libro d’esordio di Orecchio, pubblicato per Gaffi –, di quelle città che non hanno perso il senso della struttura, e della coralità, che ricordano la rete dei ricordi, della memoria che si amplifica, che deforma i personaggi: essi sono più della somma di ricordi e di volute dimenticanze. Conservare, prima che conversare, cercare il ricordo: così quella di Orecchio converge verso una personale etica del racconto.

Se come storico sa dar voce ai racconti orali, come narratore sonda le coscienze, pulendo le scorie che impediscono di guardare «gli spietati occhi della memoria», finendo per stupire per la presenza di una struttura delicata che ricalca la metafora presa a prestito da Patrice Vuillarde, la dinamica di abbandoni, un tocco di spontanea grazia.


(Davide Orecchio, Stati di grazia, Il Saggiatore, 2014, pp. 320, euro 16)

“La casa di Araucaíma” di Álvaro Mutis

Nella storia della letteratura non è insolito che un romanzo o un racconto, scritti per scommessa o condizionati da una scadenza improrogabile, si rivelino infine dei capolavori. Basti pensare a Il Giocatore di Dostoevskij o al più recente Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian. Ebbene il racconto di Mutis “La casa di Araucaíma” – che dà il nome alla raccolta comprendente i sei racconti inclusi nell’opera –, scritto anch’esso per scommessa, non è da meno e sortisce lo stesso effetto.

«Di tutti gli azzardi letterari, l’unico davvero irrealizzabile mi sembra quello di scrivere una storia gotica ambientata ai Caraibi». Parole di Gabriel García Márquez che il lettore può trovare citate nel risvolto del libro e che suscitarono in Mutis l’impulso a compiere questo azzardo.

Il risultato è appunto il breve racconto intitolato “La casa di Araucaíma”, narrazione dalle sfumature gotiche. In verità di propriamente gotico, al di là dell’atmosfera e dello sfondo insolito in cui è ambientato il racconto, risulta la caratterizzazione dei personaggi, che l’autore tratteggia con grande maestria, presentandoceli come equivoci, bizzarri, grotteschi, ma anche alienati, ombrosi e, quindi, gotici.

Anche l’evento che fornisce il pretesto alla narrazione della storia risulta oscuro e misterioso al pari dei suoi protagonisti. In una casa isolata persa nella campagna tropicale, popolata da strani personaggi uniti da una convivenza e da rapporti altrettanto strani e bislacchi, fa la sua comparsa una giovane ragazza che, sotto il fascino del luogo e dei suoi abitanti, decide di sostarvi per diversi giorni. Nell’arco di questo periodo Ángela, questo il nome della ragazza, entra in intimità con ciascuno dei residenti nella vasta casa, ma sarà ben presto motivo di litigi e invidie fra di essi, esasperando dei rancori che già covavano da tempo.

Fin dalle prime pagine si accenna a un misterioso “fatto”, dai tratti delittuosi e addirittura sacrificali. Esso coinvolgerà tutti i personaggi , avvinghiandoli in una spirale di suspance, culminante nella vicenda che porrà fine, sconvolgendola, alla routine della casa e che farà sprofondare nella rovina tutti i suoi abitanti.

Gli altri racconti del volume sono altrettanto affascinanti, resi piacevoli da una prosa limpida e scorrevole, anche quando l’autore descrive con particolari cruenti la fine ingrata del Maestro, co-protagonista insieme a Pietro il pescatore, del secondo racconto, “Prima che il gallo canti” – una trasposizione in chiave moderna del martirio subito dal Salvatore.

Tra gli altri, degno di nota è soprattutto “La morte dello Stratega”: la cronaca della vita di un temerario guerriero, ambientata all’epoca del tardo Impero d’Oriente, che successivamente sarà investito di onorevoli cariche, ma che si rivela fin dall’inizio minato da uno scetticismo desolante, precursore dei nostri tempi e generatore di uno iato tra la vita del protagonista – ossessionato dai dubbi che «lo assalivano come cani rabbiosi» – e gli eventi che vi si susseguono. Egli infine, grazie anche all’incontro con Anna la Cretese (alla quale dovrà poi rinunciare con stoico distacco) si riconcilierà con la vita e potrà andare incontro senza rimorsi a un’ eroica fine.

Nelle pagine che concludono invece la prima vicenda biografica narrata da Mutis nelle cronache del “Diario di Lecumberri” – resoconto della sua esperienza in prigione – possiamo cogliere, decontestualizzandola, l’aporia che ha dato tormento a molti scrittori e che le parole dell’autore esprimono limpidamente: «Non so bene perché ho raccontato tutto ciò. Perché lo scrivo. Dubito che abbia qualche valore in futuro, quando sarò uscito. Là fuori, il mondo non capirà mai queste cose».

Impugnare una penna e tracciare parole, racconti, testimonianze è sempre stata un’arma contro il vuoto esistenziale, contro la tirannia delle ossessioni, al fine di esorcizzare i demoni interiori derivati da terribili esperienze, psichiche o reali, come quella del carcere: «Proprio farne il racconto ha permesso che l’esperienza non annientasse in me ogni ragione di vita».

Naturalmente non tutte le opere debbono nascere coercitivamente da un disagio esistenziale, da un bisogno di purificazione dei tormenti interiori, ma è indubitabile che vi siano scrittori per niente estetizzanti, i quali, sfidando l’insignificanza e la vanità di ogni intento umano, infondono nella pagina scritta frammenti essenziali della propria anima, e sono capaci di farlo con grande maestria nonché con profonda onestà. Mutis appartiene sicuramente a quest’ultima schiera.

Nelle pagine di La casa di Araucaíma, inoltre, è possibile ritrovare la sconsolata ma lucida filosofia che fa da sfondo alla trilogia di Maqroll il Gabbiere – la quale procurò fama mondiale all’autore – e che rivela un approccio alla vita a un tempo distaccato, ma anche foriero di un dolce abbandono, sotto la guida di un mite Fatalismo.

 

(Álvaro Mutis, La casa di Araucaíma, trad. di Carlo Brera, Adelphi, 2014, pp. 176, euro 10)

“Synecdoche, New York” di Charlie Kauffman

È datato 2008 Synecdoche, New York, l’esordio alla regia dello sceneggiatore pluripremiato Charlie Kauffman che tra a partire dalla fine degli anni Novanta ha scritto alcuni tra più interessanti film visti al cinema negli ultimi anni (Essere John Malkovich, Confessioni di una mente pericolosa, Se mi lasci ti cancello).

Caden Cotard è un regista teatrale di successo. Da anni mette in scena Morte di un commesso viaggiatoredi Arthur Miller, reinterpretandolo ogni volta in una nuova versione. Sua moglie, Adele, è una pittrice che lo lascia, senza più tornare, per andare a esibire a Berlino portandosi appresso la figlia bambina Olive. È la prima crepa della sua vita noiosa e ripetitiva. Un incidente domestico gli rivela l’esistenza di una malattia a cui i medici non sanno dare nome ma per cui continuano a prescrivere pillole e cure. L’addetta al botteghino, Hazel, da cui è attratto senza il coraggio di cedere, non vuole più vederlo dopo che l’ha respinta. Suo padre muore. Per cercare di mettere ordine nella sua vita decide di allestire un nuovo spettacolo che la rappresenti, in modo tale che lui, osservando dall’esterno, possa dirigere e comprendere.

L’identità, il rapporto con se stessi e con i ricordi, l’illusione del tempo. Sono temi classici del cinema di Kauffman. È l’idea, generale, di poter controllare la vita dall’esterno, di essere demiurghi di se stessi, di creare il passato e il futuro dirigendo il presente. Arrivando alla macchina da presa per la prima volta, Kauffman porta all’estremo i temi della sua scrittura presentando un personaggio che, nel momento in cui la sua vita inizia a scivolare via dal suo controllo rigoroso, impone la finzione sulla verità, la costruzione teatrale sulla vita per evitare di precipitare.

È l’ossessione dell’artista creatore di dirigere quello che succede. Incapace di comprendere il crollo del suo mondo, Caden Cotard lo rappresenta in una messa in scena che diventa sempre più grande, che richiede sempre più tempo per essere realizzata, finché non finiscono per confondersi realtà e finzione, replica e verità.

La sineddoche è, stando alla definizione Treccani, «figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma dipendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra». Il titolo del film è anche un gioco di parole con Schenectady, la contea di New York dove Caden vive, ma il linguaggio sineddotico è prevalente come rappresentazione simbolica costante del mutamento.

Caden vede la sua malattia e le sue paranoie trasmesse in televisione, esternalizza in proiezioni fisiche le sue debolezze. Come Caden fa anche Kauffman, lasciando parlare gli oggetti e le suggestioni (la casa perennemente in fiamme comprata da Hazel, il mondo esterno che collassa mentre vanno avanti le prove e quello interno di Caden che cede con il suo fisico). Come Pasolini ha più volte sottolineato, riprendendo Roland Barthes, il cinema è in sé un linguaggio prevalentemente metonimico, che mostra attraverso singoli oggetti, inquadrature, scene, simboli che potrebbero essere, altrimenti, anche incomunicabili. Con il suo Synecdoche, New York, Charlie Kauffman radicalizza l’idea della rappresentazione simbolica in una infinita serie di rimandi tra interiore ed esteriore, tra percezione e immaginazione.

Il mondo che Caden abita perde i confini della realtà per assumere sfumature che lo confondono sempre più con la rappresentazione. Si osserva osservando Sammy, l’attore che lo interpreta, che per vent’anni lo ha spiato a sua volta imparando tutto di lui, si conosce vedendo se stesso rappresentato, e intorno a lui tutto quanto perde il proprio valore originale per diventare simbolo, parte per il tutto, sineddoche.

Synecdoche, New York è un film estremamente complicato, strutturato e quasi inintellegibile. Proprio per questo lascia una traccia di incomprensione sospesa, di ammirazione repressa dal dubbio di aver assistito a un manieristico esercizio di stile postmoderno.

È un’occasione, comunque, per rivedere sullo schermo Philip Seymour Hoffman, straordinario in uno dei rari ruoli da protagonista della sua carriera.

(Synecdoche, New York, di Charle Kauffman, 2008, drammatico, 124’)

“Avventure di un romanziere atonale” di Alberto Laiseca

Alberto Laiseca, nato a Rosario nel 1941, è senza dubbio uno degli scrittori argentini più eccentrici della sua generazione. Cresciuto tra le province di Rosario e di Córdoba, si trasferisce a Buenos Aires in età adulta, e svolge i lavori più svariati: tra le sue prime pubblicazioni, un racconto dal titolo "Matando enanos a garrotazos" ("Uccidendo nani a bastonate" ndr), celebre per quel gerundio nel titolo che causa l’indignazione nientemeno che di Borges. Laiseca è autore di una ventina di libri, tra raccolte di racconti, saggi, poesie, e soprattutto un monumentale romanzo di milletrecento pagine, Los sorias. Uscito nel 1982, sedici anni dopo che l’autore lo concludesse, in un’edizione limitata di trecento copie, Los sorias è considerato il romanzo più lungo della storia della letteratura argentina, e ha finito per adombrare il resto dell’opera di Laiseca.

Non è un caso, dunque, che il suo secondo romanzo, Avventure di un romanziere atonale, pubblicato per la prima volta nel 1982 e di recente rieditato, sia entrato a far parte del catalogo di edizioni Arcoiris, e in particolare inserito nella collana Gli eccentrici, che sta scoprendo e riscoprendo alcune tra le più audaci narrazioni latinoamericane.

Il protagonista del romanzo è appunto il citato romanziere atonale, la figura di uno scrittore sommamente infelice che, nonostante si muova in uno spazio opprimente e ai limiti dell’abitabilità, e sia circondato e soffocato dai personaggi più strampalati (Doña Clota, anziana ospite esosa e dipendente dal totocalcio, Juan Bautista Ferochi, editore sadomasochista, Estela Zullini, vera e propria mangiatrice di uomini) tenta, e riesce infine, a scrivere il romanzo tanto agognato: opera torrenziale, lunga più di duemila pagine, «era pura discontinuità». Sarà il suo migliore amico Coco Pico Della Mirandola a presentargli Ferochi, un tempo editore tirannico e schiavista, ora deciso ad autopunirsi con fallimenti e sofferenze e per questo ben contento di pubblicare il romanzo atonale.

Dopo varie peripezie, del romanzo, nel frattempo diventato un successo internazionale, resta un unico breve frammento. L’autore non ce lo indica espressamente, ma tutto lascia pensare che la seconda parte del volume, intitolata "L’epopea del re Teobaldo", sia, in un gioco metaletterario, proprio quel frammento. Configurandosi inizialmente come un racconto di cappa e spada, la seconda parte del romanzo si sviluppa contraddicendo ogni logica, generi letterari, registri linguistici ed epoche storiche si mescolano a formare un mondo in cui dinosauri e Pink Floyd possono convivere.

La scrittura di Laiseca è ironica e delirante nel suo proposito di sovvertire generi e canoni letterari: così Rodolfo Fogwill ha interpretato il concetto di atonalità nel suo prologo al romanzo, intendendola come la «capacità dell’autore di liberarsi dal tono dell’epoca e di seguire un percorso opposto a una domanda letteraria che sempre più combina un linguaggio misurato e contenuti triviali».

Avventure di un romanziere atonale non è un romanzo facile, né l’eccentricità di Laiseca – che ricorda a tratti la prosa visionaria del maestro uruguayano Mario Levrero – favorisce un’immediata empatia con il lettore. Tuttavia, il libro permette un accesso privilegiato a un mondo dalla creatività sfrenata e sovversiva, della quale l’autore ha fatto il suo manifesto: «La realtà non mi interessa, io faccio realismo delirante».

(Alberto Laiseca, Avventure di un romanziere atonale, trad. e cura di Loris Tassi, Arcoiris, 2014, pp. 116, euro 10)

“BSB3” dei Bud Spencer Blues Explosion

Dopo uno stop di quasi due anni, il duo romano dei Bud Spencer Blues Explosion, formato da Cesare Petulicchio e Adriano Viterbini – rispettivamente batteria e cori, chitarra e voce – torna con un disco nuovo, il terzo, chiamato BSB3. Non che i due fossero effettivamente fermi: dall’uscita di Do it (Yorpikus, 2012) hanno fatto concerti in Ungheria come in USA, collaborato con gente come Frankie HI-NRG e Marina Rei, e Viterbini ha pubblicato un disco solista. Già prima dell’uscita di BSB3 giravano per locali, suonando i pezzi nuovi. Prendendo esempio dai grandi, dai R.E.M., che per Accelerate nel 2007 presentarono i loro pezzi in una serie di cinque concerti che finirono nel documentario “This Is Not a Show”, i Bud Spencer Blues Explosion hanno suonato le tracce BSB3 nel loro personale This Is Not a Show Tour, valutando personalmente il riscontro del pubblico. A loro dire, nonostante i pezzi fossero già praticamente ultimati per la registrazione, da questi concerti hanno capito che alcune tracce da loro ritenute filler erano invece apprezzate in live, e hanno preso una diversa importanza nella scaletta del disco e dei concerti stessi. Altra premessa importante per questo disco è il passaggio del duo alla 42Records (la stessa di Colapesce e I Cani), che, basata a Roma, permette loro una vicinanza maggiore alla casa discografica e dunque una comunicazione più efficiente e personale.

Ma ora parliamo di BSB3 e di come suona: registrato in presa diretta, con pochissimi fronzoli, ha un sound primigenio e aggressivo, più frontale e meno blues, più da alternative rock se volessimo etichettarlo, che fa della sua corposità e della notevole distorsione la sua forza. Lo si sente già alle prime note del primo pezzo, “Duel”, del quale è uscito un (nevrotico) video girato da Alex Infascelli. Il blues resta nei testi, spruzzati di un po’ di maledettismo, in alcuni riff e assoli, e nel cantato. La copertina è desertica e a prima vista sembra quasi concettuale, ma basta guardare per un secondo e ci si accorge che il triangolo che sovrasta l’ambiente desolato, il triangolo magico, divino, massone, quel che volete, è un enorme tramezzino. Il blues è sì spirituale, ma il duo romano sa quando e quanto prendersi sul serio. La trinità (ma non si intitolava Lo chiamavano Trinità un famoso film di Bud Spencer?) è irrisa. Già il titolo del terzo pezzo, “Hey man”, suona come un “amen” in inglese. Poi c’è Miracoli”, dalla tematica semireligiosa ma un tono vagamente western, morriconiano ad un certo punto; si resta nel deserto, quello americano, con il pezzo strumentale “Camion”. La spiritualità torna in qualche titolo – “Hey man” e “Miracoli”, appunto, poi “Croce” e “Inferno personale” – e verso la fine di “No soul”, vagamente onirica, con un suono di tanpura in lontananza che ricorda atmosfere di meditazione indiana, e la chitarra pungente che irrompe, disturba, stravolge. Chiude una ballata minimale, con un suono pulito e preciso, elegante, dal titolo “Troppo tardi”.

Viene facile pensare agli altri grandi duetti, in circolazione o meno, dagli imprescindibili White Stripes e un Jack White fuori dai toni e un po’ maniaco di sé stesso, ai Black Keys dalle produzioni stellari ma che forse stanno esaurendo la fantasia. In quest’ambiente, coi BSBE, possiamo dire di essere fortunati: BSB3 è un buon disco, sicuramente sincero, ben suonato e registrato; un disco preciso nel suo disordine rock, che si fa ascoltare senza skip, con una potenza sonora che fa pensare a quanto suoneranno bene questi pezzi dal vivo.

 

(Bud Spencer Blues Explosion, BSB3, 42Records, 2014)

 

“Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti

A trentun’anni dalla prima edizione, torna Un viaggio in Italia (Einaudi, 2014) di Guido Ceronetti, con in più una nuova prefazione e qualche altro pezzo aggiunto, in coda, ai settantuno originari. Chiuso il libro, non si può non rimanere abbagliati dalla bravura, indiscussa, instancabile, che Ceronetti sfodera nel maneggiare le parole, nello sciabolare le sue frasi, nel dispiegare lo spericolato espressionismo, la sublime raffinatezza del suo lessico: lussuoso, colto, d’inesausto nitore poetico. E poetica, da poème en prose, da “prosa d’arte” primo-novecentesca, è sicuramente la logica che presiede non solo a ciascun capitolo, ma ai singoli frammenti che spesso li costituiscono, proprio come tessere di un mosaico. Ecco, appunto: frammenti. Godibilissimi, certo, e di altissimo magistero formale: se presi in sé, avulsi da un contesto pur che sia. Ed è già questa, si direbbe, la prima delle ragioni di perplessità che lascia questa fluviale, ctonia grandinata di parole, di immagini, di fuggenti inquadrature: nulla, ma proprio nulla, che dia un qualche possibile senso al loro comparirci davanti. Non nella spazialità, con un prima e un dopo, un itinerario qualsiasi… Non nelle tematiche. Che, anzi, sono in qualche caso ripetutamente, cocciutamente duplicate, come ad esempio – per non ricordarne che una fra le più insistenti – i cimiteri, con le assurdità lessicali delle epigrafi, o le stesse scritte sui muri, e la loro demenziale casualità di giustapposizione.

In realtà, un unico, vero motivo unificante, in questo diluviale iter si fa, via via, strada, in noi lettori, ed è il disgusto, la repellenza, declinata in una infinità di smorfie e di sgrignature espressive, nei confronti della pura e semplice, nuda umanità. «Sono esseri vivi?», detto di un gruppo di giovani incontrati in treno, «Non lo sono: hanno colore d’anima morta, il loro contatto mi fa ribrezzo«, e di nuovo: «La felicità è di non vedere esseri umani, una tregua al bisogno di servirsene e di servirli», o l’impegno a «resistere all’assalto della deformità e della demenza del mondo umano», sconfitta per altro dalla constatazione di aver sanguinato, come Montaigne «per i suoi calcoli italiani, […] per la bruttezza che ho visto dappertutto vincere e crescere».

Sì, quella della bruttezza, di origine soprattutto, o quasi esclusivamente, umana, è infatti la principale ossessione rappresentativa di Ceronetti: e non sembra valere nulla, ad addolcirla, nemmeno l’episodico ricomparire di sprazzi di paesaggio, visioni d’acque fluviali – l’amatissimo Po –, o quieta armonia di muri di qualche edifico sacro (edificio, si badi: che, invece, ogni manifestazione di comportamento ispirato a religiosità cristiana, anzi peggio, cattolica, non fa che attirarsi sarcasmi feroci, grevi); né, perfino, di un usuale intrico di carrugi nel più convoluto intimo di Genova, la cui immotivata bellezza risalta ancor più con le proclamate bruttezze di città del Sud: Salerno, Messina, e, con ogni prevedibilità, il caotico formicolare di Napoli, in cui «per sopportare di vivere […] ci vuole veramente un popolo di filosofi, o di incoscienti».

No, perché si torna di continuo a fissare lo sguardo sul viso dei propri simili: per precipitarsi a gridarsene differenti, a urlarne il ribrezzo: «Vorrei non aver più niente in comune con l’uomo, essere un puro pensiero che ne ignora la miseria e la figura».

Non sorprende dunque che, con queste premesse, aggirandosi «qua e là in cerca di un’Italia  che fosse un segno e mandasse un suono, umanamente percepibile», Ceronetti sia infine costretto a «confessare: non l’ho trovata». Forse non poteva trovarla, catafratto dentro la sua solipsistica incapacità di sentirsi uomo fra gli uomini, con tutti i difetti, certo, le volgarità, le magagne (fino a quella, imperdonabile a suo dire, di mangiar carne di animali: ma perché mai dovrebbe risultare meno delittuosa la violenza inferta, nel bollirle, alle piante di cui egli così rigoristicamente si ciba, o ai molti fichi che ingurgita compiaciuto, nell’essere straziati dai suoi denti?) di noi altri uomini, ma pure con la – neanche evangelica: per carità! Solamente umana – disponibilità a non volergliene, per questo livoroso, acre, lutulento, eppur formalmente splendido, libro non di viaggi, ma di blasfemie della propria stessa umanità.

(Guido Ceronetti, Viaggio in Italia, Einaudi, 2014, pp. XV-365, euro 22)

“The Congress” di Ali Forman

Primo film di produzione statunitense per il regista, animatore e sceneggiatore israeliano Ami Folman che con The Congress coniuga linguaggi e stili per una critica visionaria del sistema dei grandi studios cinematografici.

Robin Wright, la vera Robin Wright, vive in un hangar in disuso a due passi da un aeroporto insieme ai suoi due figli Sarah e Aaron. Aaron è un bambino fragile afflitto da sindrome di Usher che causa cecità e sordità progressive. È per lui, principalmente, che Robin ha tralasciato negli anni la sua carriera di attrice. Un giorno il suo agente storico Al le presenta la proposta incredibile degli studi Miramount (nome non casuale): cedere per intero i suoi diritti di immagine attraverso una scansione completa del suo corpo e delle sue espressioni per creare una nuova Robin Wright digitale, che possa essere utilizzata per girare film interamente al computer. Dopo un’iniziale perplessità Robin accetta la proposta, acconsentendo anche alla conseguente richiesta di sparire dalla vita pubblica per lasciare spazio ai suoi alter ego virtualii. Vent’anni più tardi, Robin deve partecipare al Congresso futurista organizzato dalla Miramount, intanto fusasi col colosso farmaceutico Nagasaki, per firmare la proroga ventennale della cessione dei diritti. Per accedere al congresso nella città di Abrahama è obbligatorio sottoporsi a un trattamento di allucinogeni chimici che fa vedere, e vivere, il mondo come fosse un cartone animato.

Presentato come film di apertura alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival de Cannes 2013, The Congress segna il ritorno al live action di Ami Folman dopo il successo internazionale di Valzer con Bashir. Certo, è un live action solo parziale, perché The Congress si divide esattamente in due parti, una filmata dal vero, l’altra realizzata come cartone animato. Come per Valzer con Bashir, Folman utilizza l’animazione in maniera anticonvenzionale e spiazzante, per dipingere un mondo lisergico e distopico che è degenerazione della realtà.

La cessione radicale dei diritti di immagine di Robin Wright a favore della Miramount si estremizza e globalizza nel mondo animato di Abrahama. Nell’affollatissimo congresso della Miramount Nagasaki, il guru Reeve Bobs (ricorda qualcuno?) annuncia urbi et orbi la realizzazione della formula chimica della libera scelta, da chiunque assumibile per creare i propri scenari dell’immaginazione. Robin Wright cessa di essere un principio digitale, dopo aver già smesso di essere il principio fisico del mestiere d’attore, per trasformarsi in principio chimico, in elemento da mandare giù con l’acqua o un frullato per poter costruire il proprio film personale nella immaginazione individuale. Quello che la Miramount di Folman realizza è il passaggio dal controllo assoluto dell’immaginazione alla realizzazione di un disturbante solipsismo chimico della libertà. Attraverso i principi in vendita ognuno è libero di diventare quello che vuole, dal dio greco a Clint Eastwood. Si passa dalla cessione volontaria della disposizione di se stessi attraverso il lavoro alla cessione di ogni forma di controllo della propria ragione e immaginazione.

The Congress, basato sul racconto Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem, è un film di fantascienza classico, ed è curioso che sia Robin Wright a definirla come non-genere nel film, nella sua struttura che guarda agli standard del cinema distopico.

Quella che nasce come critica del sistema delle grandi case di produzione di Hollywood nella prima parte del film, diventa con l’entrata in scena dell’animazione critica della cessione assoluta del potere dell’immaginazione alla realtà farmaceutica. Estremizzando il ricorso alle droghe legali – antidepressivi, ansiolitici – il mondo di Folman diventa uno scenario di allucinata serenità artificiale, di sintetica rinuncia alle sofferenze quotidiane attraverso l’elevazione a sistema dell’alterazione della percezione.

Ecco, il problema è che nella parte animata, per quanto suggestiva e potente, si accumulano appunto potenti suggestioni che generano una visionarietà eccessiva e confusa. Molto più compatta e tesa la parte iniziale, in cui Folman si mostra bravissimo a dirigere i suoi interpreti (Robin Wright è di rara intensità. Harvey Keitel costruisce un Al memorabile, soprattutto nel racconto dell’infanzia newyorkese) e pienamente consapevole di una tecnica registica semplice ed efficace.

(The Congress, di Ali Forman, 2013, fantascienza/animazione, 122’)

“Obtorto collo” di Pierpaolo Capovilla

Obtorto collo: ovvero, dove Capovilla fa Capovilla. Bel personaggio il leader de Il Teatro degli Orrori. Emblema del rock noise con gli storici One Dimensional Man, ora cantante di una delle band di punta del panorama alternativo italiano, più una sterminata serie di reading e iniziative poetiche e letterarie. La sua fama – nel bene o nel male – lo precede: la furia delle smorfie, la carica e la potenza delle parole, il carisma unico dei live. Ora Pier Paolo Capovilla esce con Obtorto collo, l'esordio solita. Già il titolo è tutto un programma. Ma procediamo con calma. Il tempo delle prime anticipazioni e già gli addetti ai lavori e seguaci iniziano a vociferare. Dopo il video del primo singolo “Dove vai”, le accuse d’essersi venduto, cosa gli abbia detto il cervello e soprattutto perché mai si sia truccato.

Si, è vero: il primo impatto non è dei migliori, ma Obtorto collo è ben altro. Fortunatamente. Qui Capovilla scatena tutte le sue passioni e vocazioni concedendoci  le sfumature caratteristiche del suo essere. “Dove vai”, tornando al discorso precedente, è comunque un pezzo che funziona, dove l’impostazione teatrale della voce e il tipico testo fatto di domande, esortazioni e frasi secche e incise ormai tipiche a là Capovilla si manifestano palesemente. Musicalmente Obtorto collo è lontanissimo dal Teatro: figuriamoci dagli One Dimensional Man. Le influenze sono ben poco velate. Tom Waits, quello di Swordfishtrombones e Rain Dogs, per il vagabondaggio metropolitano e le percussioni di sottofondo. Poi Nick Cave e il venerato Scott Walker.

Emblematica l’iniziale “Invitami”. Una proposta scarna, spesso brutale ma con picchi di languida dolcezza. Dolente e sentita. Dopo la già menzionata “Dove Vai”, una chitarra accompagna “Il cielo blu”, altro brano incentrato su una figura femminile ma con spinte più pop. Molto belli i fiati finali in “Come ti vorrei”, mentre poco a poco viene fuori un ennesimo tratto caratteristico di Capovilla: l’impegno civile. “Irene” e “Quarantadue ore” ne sono un doloroso quanto necessario apice. La nuova “Skopije” è “Budapest”, mentre non mancano le citazioni letterarie alte di Pavese e Zanzotto nelle conclusive “La luce delle stelle” e “Arrivederci”.

Prodotto da Takete Gohara, con qualche incursione del compagno di viaggio Favero, Obtorto collo è album impeccabile dal punto di vista della produzione e della compattezza musicale. I testi sono slanci d'amore e lotta di uno chansonnier romantico, alcolico e quietamente dolente. Chi ama da sempre Capovilla avrà qui modo di godersi il suo assolo. Ma se siete tra i detrattori, questo non è il modo migliore per cambiare idea.

 

(Pierpaolo Capovilla, Obtorto Collo, 2014, La Tempesta/Virgin)

 

“La licenza” di Daniel Anselme

Era il 1957 quando la Francia, alle prese con una prolungata e insistente azione colonialista, cominciò a fare i conti con la propria coscienza nazionale, e il romanzo di Daniele Anselme, La licenza (Guanda, 2104), contribuì non poco a questo processo.

Lo scrittore, già partigiano della resistenza francese, decise di raccontare la gioventù di quei giorni, alle prese con una guerra d’invasione, diametralmente opposta a quella necessaria che aveva visto la nazione d’oltralpe impegnata nella seconda guerra mondiale, quando gli invasori erano altri.

Tre soldati sono di rientro a Parigi, Lachume, Lasteyrie e Valette, giovani e smarriti, in un paese che è il loro ma che faticano a percepire come casa, teatro di un’armonia ormai perduta.

Il treno li riconduce dunque in Francia, nel cuore della Ville Lumière, che si mostra da subito in tutto il suo incanto; un bellezza che diventa rarefatta, impercettibile, mentre è come se il pensiero dei protagonisti fosse rimasto laggiù, alle loro spalle, tra i colpi di mitraglia.

I tre ragazzi sembrano non riuscire a trovar pace, anche senza guerra, girovagando nelle notti da bere e da vivere, fino all’alba. È come se avessero  consapevolezza di soggiornare in una bugia, di vivere dei giorni, quelli della licenza, che non esistono; sanno che dovranno ritornare alla realtà, dall’altra parte del mare.

La licenza è uno stato d’animo passeggero, una parentesi, poiché l’abitudine di un soldato, e di conseguenza la sua vita, è lo stato di guerra, di paura costante, di diffidenza verso chiunque lo circondi.

Nel romanzo non vi è una storia vera e propria, e la sua peculiarità sta nel fatto che Anselme ci parla di guerra senza mai raccontare di morte: eppure l’eco delle bombe sembra riecheggiare in ogni parola e nell’animo confuso dei ragazzi, instabili e in balia di decisioni altrui.

«Perché è la nostra gioventù che se ne va. Sotto tutti i punti di vista!», ripete uno di loro, in un pensiero violento e consapevole, riguardo una vita irrimediabilmente consegnata alla guerra.

(Daniel Anselme, La licenza, trad. di Francesco Bruno, Guanda, 2014, pp. 191, € 16) 

“Un’estate con Montaigne” di Antoine Compagnon

L’estate, con i ghiaccioli zuccherini che appiccicano le dita e con l’indolente ciabattare dei villeggianti, e la filosofia, fatta tendenzialmente di tediosi libroni e di commenti ancor più tediosi, sembra non siano affatto due elementi immediatamente conciliabili in un’unica idea di sintesi. Questo a prima vista, stando almeno a quanto leggiamo nelle prime battute del recente libro di Antoine Compagnon Un’estate con Montaigne (Adelphi, 2014). Eppure tale piccolo libricino, che racconta e discute in tono (molto) più colloquiale che accademico alcuni passaggi dei Saggi di Montaigne, è un testo che viene fuori proprio dal tentativo, per meglio dire dalla scommessa, di unire la filosofia con l’aria dolce della stagione bella, suggerendo che di certe cose, nonostante tutto, si può parlare pure a fine luglio, con i piedi a mollo nel mare o in una qualsiasi fontana cittadina.

È in tempi molto recenti che un certo Philippe Val, ex direttore dell’emittente radiofonica France Inter, oltralpe piuttosto importante, chiede ad Antoine Compagnon, docente di letteratura francese e comparata tra la Sorbonne, il Collège de France e la Columbia di New York, di tenere delle piccoli e brevi riflessioni estive dedicate all’illustre filosofo del Cinquecento. Compagnon accetta, sicché ne viene fuori una trasmissione inaspettata e un po’ bizzarra che frammenta l’opera di Montaigne, compendiandola (senza naturalmente voler essere esaustiva) in quaranta micro commenti. Sono per l’esattezza queste brevi riflessioni affidate all’etere, questi commenti radiofonici sui Saggi, a costituire il volumetto appena pubblicato nella Piccola Biblioteca di Adelphi.

Un’estate con Montaigne è un libretto assai utile (per chi naturalmente non conosce per bene Montaigne o non ne sa nulla) in cui si ragiona con piacevole leggerezza di alcuni degli elementi fondamentali del pensiero del filosofo francese. Si ragiona, per esempio, dell’importanza dello studio degli altri per la comprensione del sé, e si viene a conoscenza dell’immagine da buon selvaggio che il filosofo aveva degli abitanti di quello che a suo tempo era ancora il Nuovo Mondo. Oppure si ragiona in termini passeggeri delle inclinazioni ellenistiche attraverso cui è spesso stata letta l’opera di Montaigne. Si scopre inoltre anche la dimensione privata del filosofo, per esempio quando si testimonia della sua idiosincrasia verso i medici e la loro scienza, che l’autore dei Saggi non nasconde di disprezzare facendosi portatore di conclusioni talvolta un po’ irragionevoli e raffazzonate: «Per quanto ne so», si legge nei Saggi, «non esiste categoria di persone che si ammali tanto presto e guarisca tanto tardi quanto coloro che si trovano sotto la giurisdizione della medicina». Ci si imbatte, inoltre, nel tratto ironico di un pensiero assai moderno, nonostante, o forse grazie a, quest’ultima irragionevolezza.

Tutto ciò perché in fin dei conti bisognerebbe forse ammettere che la filosofia non sempre è questione cattedre e di aule, di cervelli che fumano e di polvere accumulata sugli scaffali dei secoli vecchi. La filosofia può anche essere oggetto di discussione agile e informale, ossia qualcosa di cui parlare, volendo pure non troppo seriamente, quando la tirannia della vacanza c’impone le necessità della leggerezza.

(Antoine Compagnon, Un’estate con Montaigne,  trad. di Giuseppe Girimonti Greco e Lorenza Di Lella, Adelphi, 2014, pp. 136, euro 12)