“Ghost Stories” dei Coldplay

Dove abbia vagato Chris Martin dall’uscita di X&Y (2005) a oggi, chi abbia preso il suo posto in questi otto anni, chi abbia trasformato i Coldplay dallo splendido gruppo che esordì con Parachutes, dove si potevano intravedere possibili, quantomeno potenziali, eredi dei Radiohead, a fenomeno strizzaocchi a fette di mercato così ampie e variegate da far pensare a una possibile prostituzione artistica – attraverso collaborazioni più o meno discutibili, nonostante quella con Brian Eno – è una domanda a cui probabilmente è impossibile rispondere.

Si arriva al 2014 dopo due album talmente barocchi e vuoti (Viva la vida or Death and All His Friends e Mylo Xyloto) nelle scelte degli arrangiamenti e delle sonorità – tentativo di mischiare Arcade Fire, scimmiottamenti degli Arcade Fire, con elementi techno-dance e una pseudo world music – da mettere in discussione tutto ciò che di buono era stato fatto fino a quel momento. Esce quindi Ghost Stories, album di nove tracce, anticipato dal singolo “Magic”, brano trascinato da una giro di basso che sembra il fratello buono di quello di “Atoms for peace” nell’album d’esordio da solista di Thom Yorke, The Eraser. L’estetica del sesto album della band di Londra ruota attorno a quella di una corrente pop/elettro/folk (in maniera diversa: Bon Iver, James Blake, Iron & Wine, José González e compagnia bella), di cui i Coldplay sono stati in qualche modo uno dei gruppi pionieri, che si è paradossalmente sviluppata negli ultimi anni, mentre i quattro inglesi erano alle prese con arrangiamenti massimalisti da feste sulla spiaggia.

Si parte con “Always In My Head”, ed è già da questo incipit che si avverte un cambiamento, uno stravolgimento nelle intenzioni: mentre negli ultimi anni è stato predominante un movimento verso l’esterno, ora si torna verso l’interno. Segue la già citata “Magic”. Passando per “Midnight”, secondo singolo uscito alla mezzanotte del 25 febbraio, un brano smaccatamente à la Bon Iver, si arriva alla sequenza “Another’s Arms”, forse il momento più alto con il suo basso dai tempi sospesi stile Massive Attack, e “Oceans”, che sembra esser stata ripescata direttamente da Parachutes. “A Sky Full Of Stars”, terzo singolo, completamente fuori contesto, unico pallidissimo riverbero delle infatuazioni dance post adolescenziali – se non contiamo quello, minimale e funzionale, che fa parte della coda di “Midnight”, che lontanamente può ricordare l’entrata della sezione ritmica in “The Rip” dei Portishead – che vive di luce opaca riflessa dai Killers di Day & Age. Si chiude con “O”, ballata al piano dove il dramma interiore può trovare soluzione cercando di guardare in alto, verso il cielo, verso un cielo individuale.

Ghost Stories riprende un discorso interrotto otto anni fa, e lo fa probabilmente in maniera meno potente di quanto avrebbe potuto fare se non ci fosse stata questa parentesi che nel tempo ne ha deformato la possibile percezione. Una certa sensazione di fondo dovuta a questa ambiguità può portare a pensare che il ritorno a un certo tipo di minimalismo faccia sempre parte di un discorso iperindustriale che ha caratterizzato l’ultimo decennio dei Coldplay; che quindi a un certo punto abbiano capito che fosse arrivato il momento di svoltare, di tornare, verso un certo tipo di pubblico (senza però dimenticarsi degli altri). In questo Martin e soci risulterebbero sempre un po’ furbi nelle proprie scelte, capaci di leggere in quale direzione si muove il mercato, agendo di conseguenza, quasi come si stesse parlando di un gruppo agli esordi che per emergere deve fare certi calcoli, e non di una delle band più influenti degli ultimi quindici anni; aspetti che, alla fine, comunque, non contaminano più di tanto un album piacevole, ma che all’interno della produzione dei quattro potrebbe risultare un po’ isolato.

 

(Coldplay, Ghost Stories, Parlophone, 2014)

“Una profonda invidia per la musica” di Giorgio Manganelli

Manganelli inesauribile. Come l’azzardo di una singola scelta lessicale che coglie di sorpresa il meravigliato lettore giusto il tempo di realizzare che la sua eccentricità è solo apparente, così a ogni testo recuperato post-mortem(ormai non si contano più) chi legge conviene che sì, in fondo c’era da aspettarselo – ché di avventizio vi è niente più del paradossale pudore che un grandissimo come Giorgio Manganelli avrebbe avuto di definirsi scrittore. E uno scrittore che confessa «una profonda invidia per la musica» in realtà non dovrebbe stupire. La musica per uno scrittore può essere un’ambizione – e uno scacco. «Esiste una specifica invidia dello scrittore verso il musicista che è l’invidia di una condizione particolare che a lui sembra infinitamente più libera e più inventiva, più naturalmente fantastica». A cosa allude Manganelli? A una specie di angoscia del significato. «Lo scrittore sa benissimo che la letteratura non vuole dire niente: ha ben altro da dire che non dire… E questa condizione il letterato la trova nella musica realizzata con una condizione particolarmente felice».

Manganelli queste cose non le scrive ma le dice in una serie di conversazioni radiofoniche andate in onda sui canali Rai nel 1980, con il saggista e musicologo Paolo Terni. Fino ad allora non si era mai cimentato con la musica in modo aperto, attraverso pubblici scritti o interviste, ma Terni, suo amico, ne sapeva la passione. Schubert, Haydn, Verdi, Mahler, la musica tradizionale del Giappone – nonostante il prevedibile understatement, Manganelli esibisce conoscenze e “letture” di “ascoltatore maniacale” magari oblique ma folgoranti.

Gli interessano soprattutto alcune soluzioni o strutture che hanno poi una certa influenza sulla sua scrittura – la variazione per esempio. O la traduzione dell’angoscia in una forma, dal Tannhauser al Dies Irae mozartiano. Ancora, una specie di fissazione per i quartetti di Amadé dedicati a Haydn nei quali il materiale psicologico viene a suo avviso rovesciato nel puro gioco della forma. Haydn è un musicista su cui Manganelli confessa di tornare spesso, «per quella sua singolare miscela di facilità e difficoltà», per il sarcasmo matematico e la dura purezza con cui disegna un universo di idee platoniche «impossibile da decomporre». Epperò, all’inverso, si domanda: «non sarà l’assoluta assenza di idee che rende oggi la musica di Mozart così irresistibile?»: l’esempio più alto di un ilare volo oltre la «minaccia pedagogica» degli affanni, della psicologia – del significato.

Non può peraltro non destare interesse la perentoria asserzione di uno scrittore come Manganelli a proposto di Verdi: «Dico subito che non ho l’impressione che il problema del volgare sia pertinente all’opera di Verdi. Direi che il suo è un mondo totalmente fantastico». Con buona pace di tradizioni ermeneutiche illustri, da Charles Rosen in avanti. Chissà cosa avrebbe pensato lo studioso dei romanticismo del legame istituito da Manganelli fra la diade eros-morte in Wagner e lo sguardo rapido (si stava per scrivere rapìto) e abissale sulla musica come esperienza fondamentale della vita giovanile.

Il libro, che nessun appassionato di musica e/o di Manganelli dovrebbe perdersi, era già apparso per Sellerio nel 2001 e ora torna in libreria con cd accluso e scritti dello stesso Terni e Andrea Cortellessa (in una nuova intrapresa della collana “fuoriformato”) per gli ottimi tipi de L’Orma Editore. Nel volume anche cinque brevi articoli dello scrittore.

(Giorgio Manganelli, a cura di Andrea Cortellessa, Una profonda invidia per la musica. Invenzioni a due voci con Paolo Terni, L'Orma editore, 2014, pp. 168, euro 24) 

“Rompicapo a New York” di Cédric Klapisch

Dopo L’appartamento spagnolo e Bambole russe, torna la coppia formata da Cédric Klapisch alla regia e Romain Durais come protagonista in Rompicapo a New York, terzo episodio della trilogia esistenziale dell’ormai quarantenne Xavier.

La vita come opera d’arte o, piuttosto, l’arte come imitazione della vita. Xavier Russeau, già in Erasmus a Barcellona come improbabile studente di economia, poi sceneggiatore televisivo in trasferta in Russia, è finito a New York per stare vicino ai suoi due figli dopo che la moglie si è trasferita negli Stati Uniti con un nuovo, e ricco, amore. A New York, però, c’è anche Isabelle, l’amica lesbica a cui ha donato il seme per avere un figlio con la compagna cino-americana, e una moglie, anche lei cinese, necessaria per ottenere la cittadinanza in poco tempo. E nella confusione si aggiunge Martine, fidanzata dei vent’anni diventata amica, che per lavoro vola Oltreoceano. Dal sogno di gloria letteraria d’infanzia, Xavier è riuscito a tirare fuori una modesta carriera di scrittore di successo. Tutto quello che gli succede a New York diventa ottimo materiale per un nuovo lavoro.

È parlando via internet con il suo editore a Parigi che Xavier racconta le sue avventure newyorkesi diventate un autentico rompicapo (cinese, come vorrebbe il titolo originale, inutilmente trasformato). Il dubbio che solleva il paziente mentore è se la ricerca della felicità a ogni costo non possa essere un limite per il processo creativo. Il dramma è ciò di cui si alimenta l’artista, che ispira le opere maggiori. Per Rompicapo a New York le complicazioni possono anche essere il motore dell’ispirazione, ma la serenità è lo scopo ultimo cui deve tendere l’uomo ancor più che l’artista.

Se non fosse per la particolarità della condizione lavorativa di Xavier si potrebbe confondere il film di Klapisch con un (ennesimo) ritratto generazionale di quarantenni incerti sul loro divenire, sospesi tra il sogno di prolungare la giovinezza e la chiamata in causa della responsabilità dell’età. Xavier non rappresenta una generazione, è un esponente singolo di un disagio, di un modo in cui la vita si può complicare (cosa di cui si lamenta spesso) e di come un percorso complicato possa diventare normalità. Cerca conforto in dialoghi immaginari con Schopenhauer e Hegel, tenta di resistere alla confortante vocazione del passato fine a se stesso alla ricerca della scintilla. Il precedente evidente per Klapisch, che scrive anche, come sempre, è il personaggio Antoine Doinel, alter ego filmico di François Truffaut incarnato da Jean-Pierre Léaud, e in particolare la descrizione di un amore in crisi come momento di partenza, non di conclusione, come già era stato in Aria di famiglia.

L’evoluzione dei personaggi di Klapisch e delle loro vicende sentimentali e della crescita, fisica e mentale che attraversano in tre film ricorda il lavoro di Richard Linklater arrivato con Before Midnight a vent’anni di narrazione. Come Linklater intende raccontare la storia di una coppia attraverso gli anni, così Klapisch segue il suo protagonista senza pretendere di raccontare più di ciò che mostra.

Xavier Russeau si muove questa volta a New York, rispondendo a una vocazione cosmopolita che serve ad annullare ogni pretesa generazionale, a isolare il personaggio in contesti estranei facendo risaltare l’individualità della vicenda raccontata. È chiaro che nell’elemento della crisi, nell’incertezza del sentimento e nel prevalere della vocazione di padre si possano vedere storie comuni a molti, ma l’intento prevalente appare essere quello di raccontare, non di rappresentare, per il puro gusto della rappresentazione. È l’insistenza sul mestiere di scrittore a sottolineare la prevalenza della narrazione.

Se L’appartamento spagnolo poteva giustamente essere letto come manifesto della generazione Erasmus e simbolo di un Europa unita, ben oltre la dimensione politica ed economica per ancorarsi al piano puramente interpersonale, Rompicapo a New York non vuole proporre paragoni culturali tra Francia, Stati Uniti e Cina. Senza manifesti, è il ritratto garbato e leggero, intelligente e senza pretese della normale e complicata vita di un uomo arrivato a quarant’anni.

(Rompicapo a New York, di Cédric Klapisch, 2013, commedia, 118’)

“Martini Eden”, a cura di Carolina Cutolo

Il Martini cocktail come rito, come religione, come istituzione, come paradiso. È questo il senso di Martini Eden, antologia di storie brevi, pubblicata da Nutrimenti, dedicata al drink che l’IBA – International Bartenders Association vuole composto da sei parti di gin e una di vermouth per essere realmente dry, secco.

Con la curatela di Carolina Cutolo, dal 2006 bartender con attestato di primo livello dell’Associazione Italiana Barman e Sostenitori, che in una prefazione inquadra l’ottica culturale del progetto, tra sguardo rivolto, soprattutto, Oltreoceano e a consumatori storici come Hemingway e Dorothy Parker, e ricordi personali che riconducono al padre la passione per il cocktail, Martini Eden si muove tra nostalgia, quotidianità alcolica e storia d’Italia nella fantasia dei suoi sei autori.

Filippo Bologna lo rende bevanda di incontri anonimi e donne sole da raccontare in seconda persona; Gianfranco Calligarich, nel racconto più ispirato, conia il neologismo Martinalgìa per un uomo che con una cicatrice in mezzo al petto ha dovuto spingere il suo drink preferito nel vagone dei ricordi passati, insieme ad amici scomparsi e donne amate con ombrellini di carta lilla; Sapo Matteucci ricorda di quando per bere un Martini si poteva usare solo il gin prodotto a Vallombrosa e vermouth italico, perché il fascismo non sopportava lo straniero, neanche etilico; Massimo Morasso lo porta al cinema nelle lettere di Vivien Leigh al suo amore finale negli ultimi anni di vita; Filippo Tuena lo rende il liquido che incendia e idrata i dialoghi incompresi di una coppia ormai stanca, e Carolina Cutolo contribuisce raccontando un aneddoto di Bertrand Russell studente, quasi una barzelletta, sempre accompagnata dal gin.

Ognuno degli autori fornisce, in finale di racconto, la ricetta del Martini perfetto. Non ce n’è una uguale: ci va l’oliva o non ci va, con o senza nocciolo, la scorza di limone va bene o snatura, e la cipollina sottaceto, la si può mettere? E non solo: il vermouth, qual è la dose giusta? Ci si deve solo bagnare il ghiaccio, ne va messa una goccia, un’idea, un indizio?

Come ogni passione che si rispetti, ognuno la coltiva a proprio modo, secondo rituali e costumi privati che assumono la caratura del dogma; ogni versione è la definitiva, l’unica ammissibile.

C’è una nostalgia generale per un gusto di bere diverso dal cannibalismo alcolico dei cocktail a base di bevande energetiche e dei long drink buttati giù con ghiaccio e confusione con liquori comprati al discount, un gusto per la lentezza del consumo e della preparazione che Carolina Cutolo rivendica come precisione forte della sua esperienza diretta dietro al banco.

Iconico sin dal bicchiere svasato in cui va rigorosamente consumato, il Martini viene elevato a categoria culturale, ideale sollievo e sostegno di memoria ed espressione, essenza liquida del tempo. Certo, in Italia il Martini è, non se ne abbiano gli autori, soprattutto il vermouth prodotto dalla storica casa torinese, il cocktail non ha attecchito particolarmente nei consumi e se deve essere gin, prevale il tonic o il lemon. Il senso di questa celebrazione è principalmente imitazione, riferimento distante alla gloria raccontata nei film e nei libri statunitensi da confondere con il Vodka Martini «agitato, non mescolato» di James Bond e Ian Fleming. Perché il Martini, la sua proverbiale oliva (o scorza di limone, o cipollina sottaceto), sono il simbolo di un’eleganza che non c’è più, che sa di Humphrey Bogart e dei bar e dei grandi saloni di alberghi in bianco e nero.

(AA.VV., a cura di Carolina Cutolo, Martini Eden, Nutrimenti, 2014, pp. 110, euro 10)

“Santa Massenza” di Gazebo Penguins / Johnny Mox

«Santa Massenza è una santa, probabilmente madre di San Vigilio. Santa Massenza è uno splendido paesino lacustre del Trentino, con trecento abitanti e cinque distillerie artigianali di grappa». “Santa Massenza” è ora anche uno split dei Gazebo Penguins e di Johnny Mox realizzato in collaborazione con Woodworm Label. Due brani a testa e due racconti, registrato in 4 giorni all'Igloo Audio Factory a Correggio da Andrea Sologni per un disco che arriva ad un anno esatto da “Raudo” e dopo più di ottanta date un po' ovunque per i Gazebo Penguins e a due anni da “We=trouble”, ultimo disco di Johnny Mox che gli è valso più di cento date, un tour europeo e un tour americano.

I Gazebo Penguins sono in tre: Capra, Sollo e Piter, di trent'anni ciascuno e di origini correggesi come Luciano Ligabue, e ora si dividono tra Correggio e Zocca, che è invece il paese natale di Vasco.  Johnny Mox è Gianluca Taraborelli (già batterista per Nurse! Nurse! Nurse! e Fonda Sisters) e vive a Trento. Insieme firmano questo 12 pollici scaricabile gratuitamente (ma l’acquisto è fortemente consigliato) qui e coprodotto dalle etichette indipendenti To Lose La Track Woodworm Label. Quello che ne viene fuori è una roba abbastanza sensazionale, con il lato A del disco dedicato ai pinguini e quello B a Mox. Il gruppo di Sollo e compagni si conferma in costante crescita sfornando due tracce, “Riposa in piedi” e “Aspetteremo”, caratterizzate dai consueti suoni di matrice emo e post-hardcore che mostrano un gruppo in continua evoluzione. I pinguini, per chi non avesse avuto ancora il piacere di ascoltarli, creano un muro sonoro incredibilmente potente e migliorano sempre più sotto il punto di vista dei testi: nei due brani è presente un’amara riflessione sulla perdita e sul rapporto tra ricordi e canzoni. Significative le liriche di “Riposa in piedi”: “Cambiano i fiori sulla lapide, ma non cambia che sto male / Ho chiuso gli occhi sperando che tu mi potessi dir qualcosa / Non hai più voce, un po’ come me, o non ascolti / Parlo da solo contando che poi ci sia qualcuno che ti aggiorni / Vorrei spiegarti la difficoltà di chiamarla col suo nome / Dovrei usarla, ma non riesco mai, la parola fine. / La paura della parola fine”.

Mox continua invece a stupire con il suo blues, gli spirituals, il gospel; il tutto masticato insieme come un chewing gum e sputato fuori con un’attitudine punk, che arriva dritta in faccia all’ascoltatore, condita con ritmi ossessivi e voci distorte. Tre i brani a suo nome: “Only those who can leave behind everything they’ve ever believed in can hope to escape”, “Hollow Prayers” e “Oh Reverend”. Il primo parte col suono di un treno ed è un gospel malato; il secondo, come dice lo stesso Taraborelli, «E' suonato interamente con la batteria e le chitarre a tutto volume e parla di perdita; dell'esigenza di sbarazzarsi di un mucchio di roba. Una prova da vero cantautore insomma». “Oh Reverend” è invece una riproposizione, con un diverso arrangiamento, di un pezzo già presente sull’album “We=trouble”. Ad arricchire ancora di più questo EP sono i due racconti presenti all’interno dello split, scritti rispettivamente da Capra, chitarra e voce dei Gazebo Penguins, e da Johnny Mox. Le storie, ambientate nel 2001, parlano anch’esse di perdita: quella delle cose e delle persone che non torneranno mai più e quella più liberatoria che nasce dall'esigenza di scrollarsi di dosso il peso sempre più opprimente dell'aria che tira nel Belpaese. Sullo sfondo il Trentino Alto Adige, l'Emilia, la stagione della vendemmia e l'assurdità meschina e feroce della morte. L’amicizia sugellata con “Santa Massenza” vedrà inoltre il suo compimento anche in chiave live con i pinguini che faranno da backing band a Mox per tutto il tour del suo album di imminente uscita "Obstinate Sermons". La musica indipendente italiana è vivissima, anzi scalpita.

(Santa Massenza, Gazebo Penguins / Johnny Mox, To Lose La Track e Woodworm Label, 2014)

 

“Le Week-End” di Roger Michell

I Borrows sono una coppia di insegnanti in procinto di andare in pensione. Sposati oramai da trent’anni, decidono di tornare a Parigi, città che avevano visitato in luna di miele. Partendo da un’idea quasi banale (la coppia che risveglia l’antica e sopita passione nella città più romantica d’Europa), il film si dipana realizzando un affresco assai più realistico del matrimonio di lungo corso e dell’ingresso nella terza età. Nick e Meg Borrows sono tutt’altro che due sereni sessantenni pronti a vivere l’invecchiamento con pacifica rassegnazione, e il film non aspira a mostrarci immagini edulcorate della vecchiaia come l’età nella quale si raggiunge magicamente un’inspiegabile “pace interiore”. I conflitti e le contraddizioni non svaniscono con il passare degli anni, semmai si acerbano, suggeriscono lo sceneggiatore Hanif Kureishi e il regista Roger Michell, presentandoci un ritratto di vita coniugale crudo e sfaccettato. Fin dalle prime scene la coppia di protagonisti litiga, si stuzzica, istiga le reciproche idiosincrasie, riapre vecchie ferite mai completamente rimarginate.

Piuttosto che l’ennesima commedia buonista e melensa, Le Week-End si configura dunque su un confronto serrato, i cui dialoghi a tratti sfiorano la spietatezza dei film dell’ultimo Polanski (Carnage, Venere in pelliccia). Meg in particolare pone un riluttante e passivo Nick di fronte a un impietoso esame di coscienza: i fallimenti di una vita, di un uomo che per sua stessa ammissione all’università era considerato dalle mille possibilità e dai mille talenti, vengono rinfacciati uno a uno dalla donna.

Nell’arco del film il personaggio di Nick riflette sulla sua giovinezza di sessantottino che credeva di poter cambiare il mondo. Perché ha fallito? Perché non ha mai concluso un romanzo in tutta la sua vita? Perché non ha portato avanti i suoi ideali rivoluzionari? Perché «non hai avuto le palle», gli rinfaccia con brutale schiettezza la moglie. In tale confronto all’apparenza crudele, vi è però un elemento salvifico che manca ai recenti film di Polanski. Le critiche feroci di Meg nei confronti del marito, mostrano il rifiuto dell’ipocrisia e del compromesso, una tenace negazione di quel lasciarsi vivere di molte coppie di lungo corso che semplicemente glissano di fronte alle reciproche mancanze.

Grazie allo sguardo impietoso di Meg, Nick è costretto ad ammettere i propri errori e meschinità per poter intraprendere un difficile percorso di ricostruzione. Inoltre, il film ci mostra come invecchiando i desideri e le aspirazioni non svaniscono, sbiadiscono soltanto, vengono come offuscati dietro a una patina di disillusioni: i sogni rimangono, dunque, dentro a un corpo che li avvolge di grasso e dolori reumatici, e sta a noi trovare la forza di risvegliarli. Il film è sorretto dalla preziosa sceneggiatura di Kureishi, che in un recente saggio scriveva: «L’immaginazione non è soltanto uno strumento artistico. Non possiamo delegare le congetture agli artisti. O meglio: che ci piaccia o no, siamo tutti condannati a essere artisti. Siamo i creatori e gli artisti delle nostre vite, del futuro e del passato (…). Siamo artisti nel modo in cui vediamo, interpretiamo, e costruiamo il mondo. Alla fine, là fuori non c’è nulla tranne che quello che noi ne facciamo. E se ne facciamo qualcosa di più o qualcosa di meno, è un interrogativo quotidiano su una semplice questione: come vogliamo vivere e chi vogliamo essere». In tal senso, Kureishi utilizza il viaggio a Parigi per mostrarci un crollo esistenziale e affettivo, che risulta però un utile rituale purificatorio per una difficoltosa quanto indispensabile rinascita.

Il passato è passato, e i rimpianti per i propri errori sono un elemento inevitabile e quasi “fisiologico” dell’invecchiamento, oltre a ciò, il tempo scorre inesorabile, ma colta con uno sguardo rinnovato, la vita è capace di offrirci nuove e inusitate risorse. Così la danza della coppia nell’ultima scena non è un semplice escamotage per uscire dall’empasse di un finale altrimenti malinconico, ma un inno alla forza creativa di un uomo e una donna che affrontano le proprie piccolezze, i difetti e le inconciliabilità, ma che oltre a ciò, o forse anche grazie a tale impietosa analisi della propria vita, ritrovano una giovinezza interiore che è la fiamma che serve per continuare a vivere, e ad amare.

(Le Week-End, di Roger Michell, 2013, commedia, 93’)

“Né potere né gloria” di Ferruccio Parazzoli


È ancora possibile trarre una narrazione dai Vangeli? Rimontare, cioè, secondo i dettami smaliziati della narratività letteraria, o magari anche filmica, i tasselli di quel mosaico che sicuramente risalgono a una qualche forma di testimonianza (la cosiddetta «fonte Q» degli specialisti) ma vennero poi fissandosi in una sequenza cui l’incondizionata fiducia assicurata dalla fede di coloro che quei testi ascoltavano, più che leggerli, toglieva ogni preoccupazione di rendersi razionalmente, documentalmente credibile; un’operazione del genere, ha dunque – si diceva all’inizio – ancora un senso, dopo tutte le volte in cui la si è attuata?


La risposta è: sì, probabilmente. Quanto meno, è la risposta che Ferruccio Parazzoli dà con questo Né potere né gloria (Rizzoli, 2014); e non sarà sfuggito a prima vista il voluto ricalcarsi del titolo su quello, celeberrimo, di Graham Greene, a cui del resto lo accomuna la scelta di trattare narrativamente temi di un Cristianesimo certo non supino, ma intinto di una sua umile quanto raziocinante ortodossia.


Anche il traliccio scelto da Parazzoli per rimontarvi sopra quei tasselli non è, a rigor di termini, del tutto originale: quello dell’inchiesta che qualcuno, nei giorni o negli anni immediatamente successivi alla crocifissione del Nazareno, compie fra i sopravvissuti, cercando di arrivare a una qualche identificazione meno sfuggente del profeta finito sulla croce come un rivoluzionario di strada. Ciò che Parazzoli, però, vi mette di originale, è la scelta del suo detective fra i colleghi, per così dire: stavolta si tratta di uno storico romano, non di quelli di prima grandezza (e qui sembra di cogliere un’arguta confessione di umiltà evangelica, nell’autore), quel Valerio Massimo che molti di quanti hanno attraversato studi liceali ricorderanno, forse, con la gratitudine dovuta a chi non conduce il latino alle astrali difficoltà di un Tacito, o un Ammiano Marcellino.


L’autore dei Fatti e detti memorabili è certo perfettamente compatibile con le vicende, in quanto visse appunto sotto Tiberio; frutto, invece, della libera invenzione di Parazzoli (o quanto meno mai esplicitamente documentato!) è che si sia trovato a Gerusalemme, e proprio negli stessi giorni in cui l’oscuro condannato ebreo veniva inchiodato alla croce accanto ad altri due lestài, cioè “briganti di strada” (ma il termine copre, nel lessico del tempo, anche l’accezione più specificamente politica di “terrorista”).


È proprio l’improvviso impulso di pietà («quel rosichio, che non so con quale nome chiamare, che mi era entrato dentro») che Valerio prova alla vista di quel corpo martoriato – desciliato, avrebbe detto Jacopone da Todi – dal tremendo arnese di tortura, a innescare in lui il bisogno di sapere: «Pace a te, crocefisso»– dissi. – «Vado a capire perché ti è successo questo».


Incomincia così il viaggio di Valerio in cerca di tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di incontrare Yehoshua: magari solo per i pochi minuti necessari a essere da lui risanati dalla lebbra, o dalla cecità, quando non dalla morte stessa com’è per Lazzaro, o lo schiavo del Centurione – ma qui Parazzoli, con sottile intuizione psicologica, immagina che lo schiavo ne sia, in realtà, il figlio illegittimo, e che la professione d’indegnità di costui di accogliere il rabbì sotto il proprio tetto celi il suo imbarazzo verso la moglie – o la figlia di Giairo, chiamata da Parazzoli letterariamente Taide, forse per assonanza con Thalita presente in Marco. Nel viaggio, in funzione d’interprete, nonché di picaresco procacciatore di cavalcature, pranzi o alloggi di fortuna, accompagna lo scrittore romano un ragazzo, che Parazzoli identifica nel misterioso giovinetto, citato dal solo Marco, che «lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo» nella notte del Getsemani: Parazzoli ne fa un drop-out ebraico, servo di Pilato «dall’aria sveglia, per nulla ossequiente» e simpaticamente briccone, cui dà il nome, per altro italianissimo, di Iosef.


Ebbene, ciò a cui andrà incontro lo storico – a parte anche i briganti da cui viene assalito nel sonno e derubato, o gli ignoti che gli penetrano in casa per sottrargli i preziosi rotoli di appunti sull’indagine – è una sconfortante esperienza di frustrazione: praticamente nessuno ricorda le parole di Yehoshua, molti non le hanno nemmeno mai capite; chi è stato sanato da lui quasi sempre risponde agli approcci dell’inquisitore romano in maniera ruvida, scostante, frammentaria; fino alla dolorante umanità della moglie di Cefas, lasciata sola e con una figlia paralitica, dal fondatore della Chiesa universale in preda alla sua delirante, egoistica infatuazione. Tutti, tranne Maria Maddalena che, com’era facile aspettarsi, alimenta in sé la fiamma di un amore che le ha fatto “vedere” vivo fuori dal sepolcro l’uomo a cui aveva unto di balsamo i piedi impolverati, e – pagina di una delicatezza di tocco finissima – Maria madre di Gesù, le cui indecifrate parole si chiudono nell’unico possibile senso: «Io sono la porta».


E certo Prazzoli non è così ingenuo da far “convertire” il suo storico-detective alla fine del defatigante itinerario, ma gli fa confessare: «Non posso nascondermi che ho finito per amarlo, quel piccolo Yehoshua che ha gettato via la sua vita per tutti coloro che lo hanno già dimenticato», e la clausola finale: «Preferisco un fallito a un vincitore» è, sicuramente, molto più di una risposta ai chiassosi slogan della pubblicità o (il che rischia di essere lo stesso, ormai) della politica.


 
(Ferruccio Parazzoli, Né potere né gloria, Rizzoli, 2014, pp. 238, euro 16)


“Pasolini Roma”, al Palazzo delle Esposizioni fino al 20 luglio 2014

Che il legame tra il poeta, scrittore e intellettuale Pier Paolo Pasolini e la città di Roma fosse particolare – viscerale è la parola esatta – è cosa nota. In fuga dalle terre materne del Friuli, povero e disperato, Pasolini arriva nella capitale con la madre Susanna Colussi, il 28 gennaio del 1950, e vi rimarrà fino alla tragica notte del 2 novembre 1975. In questo arco di tempo sviluppa un legame simbiotico con la città, vivendo prima nel quartiere di Monteverde, poi in una casa vicino a Rebibbia e, infine, in un appartamento all’Eur. Acuto scandagliatore delle borgate e delle periferie che si andavano espandendo lungo le antiche strade romane, in particolare Casilina e Prenestina, Pasolini ha saputo cogliere la vitalità ctonia del sottoproletariato romano traendone ispirazione e consacrandosi definitivamente quale uno degli intellettuali più importanti del ’900 italiano.

La mostra Pasolini Roma, allestita presso il Palazzo delle Esposizioni e curata da Gianni Borgna, Jordi Balló e Alain Bergala, nasce proprio per celebrare questo vivido legame, riscontrabile tanto nella poesia e nei romanzi, quanto nel cinema – il titolo Mamma Roma (1962), film interpretato da Anna Magnani, appare oltremodo esplicito. Resa possibile grazie all’associazione con altre tre capitali europee – Barcellona, Parigi e Berlino –, la mostra, visitabile fino al 20 luglio 2014, è divisa in sei sezioni scandite da un preciso ordine cronologico: 1950-1955; 1955-1960; 1961-1962; 1963-1966; 1966-1969; 1971-1975.

Ogni sezione presenta una varietà di documenti e un’interattività che permettono l’immersione totale nella vita intima, artistica e intellettuale di Pasolini, che quasi sembra accompagnare il visitatore, a tratti dialogarci.

I fili conduttori sono il tempo e lo spazio: dalla Stazione Termini, l’approdo romano, al quartiere Pigneto, dove vengono girate le scene di Accattone; da Piazza del Popolo, luogo d’incontro con Moravia e Morante, all’Idroscalo di Ostia, dove Pasolini trascorse le ultime ore in vita. E poi ancora il Cimitero Acattolico di Piramide, da cui trae ispirazione per Le ceneri di Gramsci, le dune di Sabaudia, dove compra una casa con Moravia, e la torre di Chia, suo ultimo studio segreto, scoperto durante le riprese di Il vangelo secondo Matteo.
 


«Cinema, arte, fotografia, letteratura, poesia, critica», dunque un’analisi a tutto tondo del Pasolini “romano”, con le sue lettere scritte a macchina, i suoi dipinti, le fotografie di scena dei suoi film. Un Pasolini intimo, con le sue paure e le sue solitudini, la sua diversità e i suoi attimi di esaltazione. Un Pasolini lucido intellettuale martire, masochista a tratti. Un Pasolini figlio devoto e poi cadavere straziato sulla terra sabbiosa dell’Idroscalo di Ostia.

Una mostra ben strutturata Pasolini Roma, ben documentata, adatta tanto per chi conosce poco la figura di Pier Paolo Pasolini e può trarne spunti di approfondimento, quanto per chi lo ha eletto a intellettuale di riferimento e può alimentare così il proprio culto.


Pasolini Roma
Roma, Palazzo delle Esposizioni
Fino al 20 luglio 2014

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Adelphi, «l’editoria come genere letterario»

Riuscite a vederlo? Un regno di titoli, intero, maestoso. Un ecosistema di pagine, intenti e valori armonizzati gli uni negli altri. Non servono segnaletiche ammiccanti per sapere dove è meglio svoltare. Per scantonare il rischio di ritrovarsi al freddo. Oppure in mezzo all’ovvio. Ovunque c è da abbandonarsi. E rifocillarsi. L’ossigeno abbonda come gli autori. Fotosintesi di storie e visioni del mondo. E non occorre altro che ricalcare le impronte. Quelle dell’editore. Che stavolta si chiama Adelphi.

Più che una casa editrice, l’oggetto di questa tappa mensile è un orizzonte culturale, un universo eterogeneo e coerente, un pianeta cartesiano in cui ogni elemento annusa il sentore dell’altro. I cinquantadue anni di Adelphi racchiudono molto più di se stessi.

Un’avventura nata a Milano nel giugno del 1962 da un incontro tra intelletti eccellenti: Luciano Foà (proveniente dalla galassia Einaudi), Roberto Olivetti, Giorgio Colli, Roberto Bazlen (critico letterario e consulente editoriale anche per Bompiani, Einaudi e Astrolabio) e Roberto Calasso, che ne ha assunto la guida come direttore editoriale a partire dal 1971 e attualmente come presidente. La volontà è quella di veder pubblicati i libri essenziali, quelli davvero importanti. «Libri unici», che sviluppino «l’educazione all’attenzione», mutuando un’espressione di Georges Simenon.

Scegliere la compagnia di testi “affratellati” dal loro spessore, dalla capacità di tracciare un perimetro solido e prezioso attorno a cui arricchirsi e riconoscersi. Volumi irripetibili, «Scritti da chi, per una ragione o per l’altra, aveva attraversato un’esperienza unica, che si era depositata in un libro».

Il nome greco individuato (che significa “fratelli”) indica proprio questa comunione di scopi. Questa convergenza sinfonica verso «un genere letterario Adelphi» che contempli poesia e narrativa, critica e saggistica. Opere sodali, come chi le ha vagliate e poi annoverate in un catalogo difficilmente paragonabile agli altri, che recluta firme e volti come quelli di Georg Büchner (con cui Adelphi esordisce nel ’63), Konrad Lorenz, Joseph Roth, Guido Morselli, René Guénon, Elias Canetti, Thomas Bernhard, Bruce Chatwin, Simone Weil, Oliver Sacks, Sándor Márai, Goffredo Parise, Stefan Zweig. Solo per acciuffarne alcuni. Tessere di un mosaico nobile e composito, innervato spesso di mitteleuropa, che restituiscono al lettore un microclima di ricercatezza esclusiva, di purezza contenutistica e stilistica.

E le copertine raccontano. La mancanza di un grafico, da sempre. L’adozione di una griglia elementare, quella gabbia raffinata debitrice a Aubrey Beardsley e alle sue illustrazioni. La scelta di un’a/essenza per arredare i propri spazi. Con un minimalismo a volte criticato. Senza nessun riferimento alla biografia degli scrittori o alla trama in oggetto. Perché il lettore diventi la sua bussola. Perché di quel bosco non c’è niente da temere. Ci sono lune nuove da inseguire in ogni anfratto.

Come quella del pittogramma eletto come logo. Che significa morte e rinascita, apocalissi e palingenesi.

Il miracolo della parola, che azzera mille architetture e poi le lascia rifiorire.


E in questo vivaio di stimoli e proposte, dove niente si perde e tutto si ripubblica, segnaliamo le collane di maggior interesse:

Classici, inaugurata nel 1963 con le Opere di Georg Büchner

Saggi, in due serie, la prima fondata nel 1964 con La vita contro la morte di Norman O. Brown e chiusa nel 1989dopo 43 titoli, e la seconda nata nel 1990 con Elogio della luce di Giovanni Macchia e ancora esistente.

Biblioteca Adelphi, sorta nel 1965 con l’uscita di L’altra parte di Alfred Kubin. Ha superato i 600 titoli nel 2013, con una media di un titolo al mese.

Il ramo d’oro, del 1971 con più di 50 titoli all’attivo.

Piccola biblioteca Adelphi, che debuttò nel 1973 con Il pellegrinaggio d’Oriente di Herman Hesse e che continua a contare circa 15 titoli l’anno.

gli Adelphi, collana economica fondata nel 1989.

La Nave Argo, collana di pregio con libri rilegati e custoditi in cofanetto.

– Biblioteca minima

Fabula, affacciatasinel 1985 con L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera.


Cosa può esserci di più intellettualmente arduo che scandagliare un catalogo del genere con la pretesa di estrarne un pugno soltanto, escludendo quindi il resto? Il nostro è solo un gioco, senza un filo di arroganza, col piacere di far affiorare qualche titolo per noi più luminoso.

– Diario perpetuo, di Tommaso Landolfi. Ventaglio di ricordi, brandelli di luce e di malinconia. Raccolta di elzeviri apparsi sul Corriere della sera che ancora sanno irretire di follia e d’inquieta purezza.

– Dissipatio H.G., di Guido Morselli. Uno degli autori più straordinari e misconosciuti del Novecento nel suo efferato, lancinante capolavoro. In cui si dissolve il genere umano e un suicida è l’unico superstite.

– Follia, di Patrick McGrath. Estasi e condanna della passione letale. Di un amore clinico e senza ritorno.

– Il vagabondo delle stelle, di Jack London. La costrizione come valico di libertà estrema. Un detenuto, il suo dolore e lo slancio sciamanico di aggirare anche le sbarre.

– Miracolo a colazione, di Elizabeth Bishop. Poetessa magnetica. Orfana di affetti e paesi, madre di un’esistenza raminga e appartata, autrice di versi spogli e illuminati. Immensità schiusa da una finestra.

– La dea bianca, di Robert Graves. La straziante bellezza del mito, l’eco d’in-canto dove abita un tempo divino, senza giorni e senza notti.


Ma il gioco non si arresta. Aspetta solo che qualcuno rilanci verso un “libro-fratello”.

“Doctor Sleep” di Stephen King

Prima di parlare di Doctor Sleep (Sperling & Kupfer, 2014), converrebbe parlare di Stephen King. Cosa ha da dire ancora il “Re del Brivido”? Può la sua inarrestabile vena letteraria darci ancora delle emozioni degne di questo nome?

Il King degli anni 2000 ha saputo reinventarsi più di una volta. Dopo aver passato tre decadi a sfornare best-seller dell’orrore – con qualche rara e gradita eccezione – e aver ammirato le sue opere adattate sul grande schermo da tutti i registi possibili e immaginabili, lo scrittore del Maine è sceso a patti con la sua scrittura.

Leggenda vuole che King si alzi tutte le mattine quasi all’alba, scriva filato per almeno quattro ore, e poi si conceda la sua passeggiata, lungo quella via di casa su cui, qualche tempo fa, ha rischiato di morire schiacciato da un camion: ma questa è un’altra storia. Tutto ciò per dirvi che lo scrittore negli ultimi anni ha virato la rotta letteraria verso altri generi e possibilità narrative. La serie de La Torre Nera, iniziata nel 1982 con L’ultimo Cavaliere, e proseguita per otto romanzi, fino a La Leggenda del Vento del 2012, mostra uno scrittore aperto alle potenzialità del seriale e ai contesti più fantastici. The Dome del 2009 è significativo perché, quando il libro è diventato una serie tv, l’autore ha scelto di seguire passo passo l’adattamento dell’opera, intuendo la nuova vita che poteva offrire l’ormai perfetta formula della fiction tv al romanzo. E a volersi allontanare ancora di più, quasi senza far troppo rumore, King piazza nel giro degli ultimi due anni quelli che la critica considera due dei suoi capolavori: 2211’63 e Joyland. In ambo i casi, di horrror non se parla: allora come è possibile che adesso, sulla scia di queste soddisfazioni, King decida di dare un seguito alla summa oscura chiamata Shining?

Vediamo se Doctor Sleep ci offre altrettante risposte.

Danny Torrance non se la passa affatto bene. Gli eventi dell’Overlook Hotel sono ancora incisi nella mente e per quanto abbia lottato per evitarlo, ora è un alcolizzato fallito come il padre. Le prime pagine del romanzo ce lo mostrano in tutto il suo squallore. Poi, da qualche parte dell’America, una piccola bambina cerca di mettersi in contatto con lui. Tenterà di farlo tramite la “luccicanza”, lo shining appunto. Passano parecchi anni e scopriamo che per le autostrade americane si aggira il Vero Nodo: un gruppo di nomadi che ci ciba dei bambini in possesso di quel raro dono telepatico. Glielo succhiano letteralmente via, e spesso gli avanzi li conservano in bombole d’ossigeno.

Intanto Dan Torrance è diventato Doctor Sleep: con il suo dono aiuta le persone nel momento della dipartita. Ha un lavoro, una stabilità. Le cose vanno bene fino a quando il Nodo non vuole Abra, la bambina che lo cercò qualche anno prima.

Le premesse per un grande libro ci sarebbero tutte, ma superate le trecento pagine, Doctor Sleep procede ma non decolla. Ed è un vero peccato. King si diverte ad autocitarsi (il lettore-fan ci metterà un attimo a carpire i riferimenti poco velati a It o Salem) nella speranza di rievocare i tempi d’oro dell’orrore. E diciamolo, in alcuni momenti, soprattutto all’inizio dell’opera, ci riesce. Ma Doctor Sleep risente troppo del rapporto mentale a distanza tra Dan e Abra e il Nodo non è un antagonista così terribile.

Un buon libro, ma non il capolavoro che ci si aspettava. Forse che King senta il bisogno di ritornare al principio, in un momento in cui ha detto tutto? Rimane il fatto che, per assurdo, uno dei momenti più belli ed emozionanti di Doctor Sleep sia la dedica iniziale.

(Stephen King, Doctor Sleep, trad. di Giovanni Arduino, Sperling & Kupfer, 2014, pp. 514, euro 19.90)

“Americani” di John Jeremiah Sullivan

Quanto Americani (Sellerio, 2014) possa risultare estremamente insulare, racchiuso in gabbie tirate su a forza di autoreferenzialità e metadiscorsi, di americani che parlano come americani di altri americani, è piuttosto facile: molto. Lo è, e lo è nel modo tipico di affrontare fenomeni popolari da parte di quel movimento che intorno agli anni ’70 venne chiamato New Journalism (Tom Wolfe, Hunter S. Thompson) e di cui John Jeremiah Sullivan probabilmente ne è erede.

Quanto, poi, un discorso legato ai più disparati fenomeni culturali americani possa renderci partecipi, a noi europei, e empaticamente attivi può risultare complesso, ma paradossalmente di facile soluzione. Essendo noi, dall’altra parte dell’Oceano, in parte un’appendice della cultura predominante statunitense – di come la cultura americana in un secolo sia riuscita in qualche modo a surclassare quella europea a livello globale è piuttosto ovvio –, la raccolta di reportage di John Jeremiah Sullivan – titolo originale: Pulphead – può risultare molto più familiare di quanto non si potrebbe immaginare.

Gli Stati Uniti sono ovunque nel mondo occidentale, gli americani sono ovunque, quindi ritrovarsi ad avere a che fare con una scampagnata a Disneyland, in Florida, nei suoi vortici e di fronte alla sua iper riproposizione concreta e non più esclusivamente mentale dell’infanzia e delle sue icone, l’immaginario che Walt Disney ha costruito nei nostri ricordi, non ci trova spiazzati, e Parigi è lì pronta a testimoniare. Trovarsi a chiacchierare con alcuni vecchi concorrenti del primo reality show     (The Real Word, in Italia sono state trasmesse su Mtv solo la dodicesima e la ventesima stagione) in una discoteca, dove le dinamiche sono le stesse di quelle che conosciamo – partecipi al reality, esci, compari in locali, discoteche, non fai sostanzialmente nulla, ti pagano e vai via – di certo non ci spiazza. Di santoni laici come Axl Rose e Michael Jackson sono state scritte pseudo agiografie e nell’aria si è sempre respirata, nonostante alcune ambiguità di fondo, una sorta di adorazione incondizionata nei loro confronti (Sullivan, per quanto riguarda la pop star deceduta nel 2009, ha il grande merito di parlare della sua presunta pedofilia in termini non retorici) e abbiamo appigli a cui aggrapparci, sappiamo come muoverci. Addirittura l’uragano Katrina – gli uragani sono fenomeni di cui, per fortuna, a queste latitudini ne sappiamo poco e niente, né del prima, né del durante, né del ciò che rimane –, per quanto lontano da noi, lo abbiamo in parte vissuto attraverso la riproposizione morbosa su internet, sui telegiornali, sui giornali e dalle donazioni, dai documentari, dai film. Forse i soli centri di ricerca sul futuro, dove gruppi di scienziati lavorano cercando di capire cosa accadrà, dei futurologi veri e propri, possono straniarci, ma anche qui, letteratura e cinema ci hanno fornito spunti infiniti per poterci anche solo pensare.

Abbiamo a che fare con qualcosa che inconsciamente abbiamo assimilato negli anni, un’ombra con cui abbiamo e dobbiamo fare i conti. Si finisce in Giamaica, a tu per tu con Bunny Wailer, l’ultimo dei Wailers, la prima band di Bob Marley, a parlare del rapporto tra gli Stati Uniti e le isole caraibiche; Rafinesque, naturalista francese, darwiniano ante-litteram; l’esperienza di affittare casa per una sit-com (One Tree Hill); il Tea Party; William Faulkner.

Tradotto splendidamente da Francesco Pacifico, che ne coglie appieno linguaggio e intenti, in qualche modo Americani è giornalismo globalizzato e nonostante Sullivan probabilmente non riesca ad arrivare a profondità letterarie tipicamente wallaciane, ne esce fuori un ritratto quasi emotivamente scientifico di una nazione (di una parte di mondo?) in perenne lotta con i propri demoni.


(John Jeremiah Sullivan, Americani, trad. di Francesco Pacifico, Sellerio, 2014, pp. 324, euro 16)

[LostInTranslation] “L’alba della libertà” di Werner Herzog

Nel suo primo film di produzione hollywoodiana, L’alba della libertà del 2006, l’eclettico, controverso, genialmente originale Werner Herzog si è confrontato con un genere che più classico non si può, per parlare di una guerra che nella traccia che ha lasciato nelle generazioni statunitensi ha raggiunto un rango di sacralità profana, che la rende tangibile e discutibile ma su cui è sempre lecito continuare a interrogarsi: il conflitto vietnamita.

Nel 1966, durante la sua prima missione in Laos, il pilota dell’aviazione statunitense Dieter Dengler viene abbattuto, catturato, torturato e infine imprigionato da un gruppo di Viet Cong laotiani. Costretto in una capanna con un gruppo di aviatori civili americani e asiatici detenuti da prima della guerra, medita un ostinato piano di evasione e vendetta.

La storia vera di Dieter Dengler, nato in Germania ma cresciuto negli Stati Uniti, che il primo febbraio del 1966 precipitò in Laos durante una missione segreta e poi riuscì a scappare dal campo di prigionia sopravvivendo da solo nella giungla, ha sempre suscitato l’interesse di Herzog. Nel 1997, nel documentario Little Dieter Needs To Fly riportò il vero Dengler sui luoghi della prigionia e gli fece interpretare, come fosse finzione, alcuni momenti delle gabbie e delle torture. C’è un riflettersi di interessi, dietro la realizzazione di L’alba della libertà. Perché Herzog avrebbe voluto da sempre, da subito, fare un film di finzione su Dengler. La scarsità dei mezzi finanziari a disposizione lo costrinse al documentario (che comunque reputa, paradossalmente, essere uno dei suo migliori film di fiction). Poi, Christian Bale si è appassionato alla vicenda di Dengler e ha convinto Herzog a riprendere il progetto e i produttori a finanziarglielo, forte della scalata nello star system che il ruolo di Batman gli stava garantendo.

Ci sono i temi classici del cinema herzoghiano, nel rapporto tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e la sua stessa natura interiore. Dengler non è in guerra per amor di patria o coscrizione obbligatoria. Lui si è arruolato perché vuole volare, perché il volo è nel suo destino sin da quando era bambino e vide dalla finestra della sua infanzia tedesca a Wildberg, a pochi passi dalla Foresta Nera, volare i bombardieri alleati sopra la sua casa e radere al suolo il suo villaggio. È stato in quel momento che Dengler ha capito che «he needed to fly», come racconta egli stesso nel documentario, come riferisce Christian Bale interpretandolo. È la concretizzazione di un destino inatteso: spettatore incolume di un bombardamento senza senso, che lascia un segno che non è trauma ma anzi ispirazione, finisce per essere lui a bombardare senza neanche conoscere il cosa, il dove e il motivo e a perdere lo slancio del volo e a precipitare in una foresta, di nuovo, dove non è più invaso ma invasore.

È la giungla, a essere prigione, molto più che le canne di bambù che formano le gabbie dei Viet Cong. È la natura invincibile nel suo essere rigorosamente indifferente all’uomo a tenere prigioniero l’uomo stesso, a rendere Dieter e i suoi compagni in fuga invisibili agli elicotteri che potrebbero salvarli e soli nel nulla, divorati dalla fame che ne ha contorto la ragione e il fisico rendendoli giunchi paranoici e ostili.

Lontano da ogni inquadramento ulteriore, Herzog si limita a raccontare la guerra privata di Dengler, non la guerra del Vietnam. È una storia di sopravvivenza, il conflitto è solo lo sfondo. Non c’è interesse a esaltare il valore della resistenza del soldato o a condannare l’illogica natura di ogni forma di conflitto. Dengler, preso come assoluto, incarna la capacità di adattamento, l’ostinazione della progettualità e della sopravvivenza costante non solo dell’uomo ma del senso stesso di essere umani, dello stare al mondo, nell’opporsi alla morte e nel ricercare sempre, comunque , la dignità di una dimensione sociale, nel sorriso di un carceriere o di una funzionaria di partito che imbraccia un fucile, nel ritrovare gli amici nel momento in cui si viene ritrovati e nel poter tornare a volare, un giorno.

Reduce dalla incredibile trasformazione di L’uomo senza sonno, per cui era dimagrito di trenta chili andando avanti a mele e sigarette, Christian Bale per L’alba della libertà è dimagrito di nuovo, di venticinque chili questa volta. In mezzo ci ha infilato i quasi novanta chili di muscoli di Batman Begins. È straordinario, semplicemente. Lo sono anche i suoi compagni di prigionia, e magrezza, Steve Zahan e Jeremy Davies. Si dice che Werner Herzog, per solidarietà con i suoi attori, abbia perso dodici chili durante le riprese del film.

(L’alba della libertà, di Werner Herzog, 2006, guerra/biografico, 123’)