“Le sorelle Macaluso” di Emma Dante

Nell’ultimo spettacolo di Emma Dante ci sono sette donne, Gina, Cetty, Maria, Katia, Lia, Pinuccia e Antonella, che si riuniscono per un funerale. Di chi sia anche la morta lo ignora. Le sorelle avanzano in schiera portando una croce, ci sono scudi e spade di fronte al pubblico e una linea nera. Al di qua e al di là della linea nera sul fondo del palco il mondo dei vivi e quello dei morti si confondono. I morti si presentano al pubblico, evocati nei ricordi, incarnando le dinamiche che uniscono e dividono le superstiti della famiglia, e poi tornano sullo sfondo, in attesa di colei che tra le sorelle è la morta, ma che ancora non lo sa, e delle altre, dei vivi, che, come tutti, prima o poi si uniranno alla macabra danza che ci ricorda Ingmar Bergman e la lunga processione che chiude Il settimo sigillo.

In Le sorelle Macaluso ritroviamo tutto il teatro della Dante: c’è il ritmo del gruppo, delle filastrocche delle bambine e della danza verso l’aldilà; c’è il loop dei movimenti in cui le persone si impigliano e rimangono bloccate così come rimangono allamate alla vita; c’è il teatro sociale e non politico rappresentato da una famiglia avulsa da ogni contesto che non sia quello della miseria e della realtà quotidiana; c’è la lingua, il dialetto che permette all’attore di parlare e non di recitare, di dire le cose alla maniera in cui le pensa, senza mediazione, e di rendere il teatro verità.

La Dante, in questo Le sorelle Macaluso, cita anche se stessa: tornano alla mente Vita mia e Ballarini.

Vita mia e l’instancabile inseguimento che vi si svolge, sono in tutto lo spettacolo, ma non ci si deve far ingannare dalla somiglianza dei temi, le domande che vengono poste e le esigenze che vengono soddisfatte dai due spettacoli sono assolutamente diverse: in Vita mia l’atmosfera è cupa, il pubblico raccolto attorno al letto/bara è partecipe del lutto, la cerimonia funebre messa in scena attorno al cadavere riluttante del figlio morto non si risolve, il dolore stilla da ogni particella del corpo della madre e non è destinato a essere lenito.

Le sorelle Macaluso, al contrario, di lutti ne hanno risolti tanti e il dolore si fa lieve quando scorre, come acqua, nel senso della corrente. Le sorelle perdono la madre, il padre, una sorellina e ancora la maggiore di loro, quella che le ha accudite come un’altra madre, e un nipote, piccolo Maradona cardiopatico, la cui morte avviene quasi fuori dalla vicenda, quasi una morte di troppo.

In questo spettacolo, inoltre, il pubblico è invitato ad assistere al funerale, ma non è compreso nella cerimonia. Lo spettatore guarda, rispettosamente si commuove, riflette sulla caducità della propria esistenza, ma rimane cosciente di trovarsi fuori dalla vicenda, come chi, a un funerale di un lontano parente, soffre più per chi resta che per chi se n’è andato.

Ballarini e il commovente passeggiare lungo il viale dei ricordi da parte di due anziani amanti, lo si rivede nella danza in cui, una volta spirati, madre e padre si ritrovano. Due angeli in camicia da notte che sognano di ritrovarsi, leggeri, puliti, dimentichi della povertà e della miseria, in un mondo dove il tempo viene scandito dal crescere dell’intensità delle carezze.

«Ma allora il funerale è il mio?» domanda la maggiore delle sorelle Macaluso quando, alla fine, le viene finalmente dato il permesso di ballare e, dopo quella battuta, il buio completo avvolge gli attori e gli spettatori e un lungo silenzio precede l’applauso che premia gli interpreti di questo spettacolo intenso, commovente e perfettamente rispondente alle aspettative di chi acquista il biglietto.
 


 

Le sorelle Macaluso
testo e regia di 
Emma Dante
produzione Teatro Stabile di Napoli, Théâtre National (Bruxelles), Festival d’Avignon, Folkteatern (Göteborg), in collaborazione con Atto Unico/Compagnia Sud Costa Occidentale.
con Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Italia Carroccio, Davide Celona, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier.


Prossime date
Palermo – Teatro Biondo dal 25 febbraio al 3 marzo
Torino – Fonderie Teatrali Limone Moncalieri dal 29 aprile al 4 maggio
Milano – Piccolo Teatro Grassi dal 6 maggio al 18 maggio 

“La nera fedeltà dell’ombra” di Francesco Lioce

La qualità del poetare che Francesco Lioce mostra nella silloge La nera fedeltà dell’ombra (Perrone, 2013) è fatta d’echi. Non già di quanti giganteggiando hanno dato versi memorabili alla nostra letteratura (e bene li conosce, l’autore), quanto di sé. E qui sta il nuovo. Prorompe dai versi un sentore di vissuto, d’esperito estetico – mai confinato al salottame dei circoli vezzosi e onanistici del nostro far cultura deteriore – trasposto in parole ricercate e cerchi di frasi che sanno dal particolare (mai in u: altra dote dell’uomo generoso e dell’amico leale) universale e condiviso.

Questo volume elegante e di pregevole fattura ci accompagna addentro i non meno eleganti reportage di vita vissuta e sentita che fanno le nove stazioni di un itinerario esperienziale che lo stesso autore, e sono le prime parole che ci offre, qualifica cammino e in fieri. Pietre miliari ne sono due luoghi geografici: la natia Sicilia, terra dei Padri, e il Giappone, terra dell’amore sponsale, arcipelago delle mille alterità da scoprire e mediare alle imbolsite ovvietà dell’Occidente. Uno poi è luogo dell’anima (non a caso anch’esso reificato per lettere, nel romanzo curato dal nostro e diario altrui ma consanguineo, l’Ocean terminal di Piergiorgio Welby): la Roma della stasi imposta, dello studio superiore e dell’investigazione per amore, ancora, dei misteri del dolore, della sorte avversa e della grandezza che giganteggia a dispetto delle costrizioni di un tristo sarcofago.

Le sezioni hanno titoli criptici. Il facile non s’addice al poeta, men che meno al nostro. Tre testimoniano del pilastro fondante la nostra identità culturale: la definizione del sé maschile nell’imitazione coatta prima – «Il figlio del padre» –, la consapevole rivolta poi – «Il figlio cambiato» –, l’abbandono infine dei legaccioli di subalternità, unico vero preludio all’acquisizione della piena adultità virile – «La morte del figlio». Quante volte chi scrive ne ha discusso, della crisi del maschio e del fallo, dei tranelli della rimozione del guerreggiare, concreto e figurato, in questo Occidente fatto vile di consumi e spese per il futile cui manca persino la dignità del pegno. E che piacere ritrovarle in versi, le cadenze dei ragionari, e per parole selezionate con raffinata cura a significare per allusione, per connotazione, per eco flebile (mai dimesso!) anche quando il contesto è turpe e il dire, volutamente, disfemico.

La poesia di Francesco Lioce non teme la carne e le sue rogne. Incanto e marcescenza, levità e furor, orgoglio e vergogna oscillano tra i versi come non può e non deve mancar d’essere a vite che siano degne d’esser chiamate tali quando intenzionalmente, caparbiamente condotte fuori della Torre d’Avorio percepita, con precoce saggezza, ente patogeno più pervasivo e annichilente di ogni errore umano o fato ostile.


(Francesco Lioce, La nera fedeltà dell’ombra, prefazione di Elio Pecora, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 160, euro 13)

Spin-off e crossover secondo Flanerí

Tutti, prima o poi, ci appassioniamo a qualche serie. Magari per un’idea innovativa mai vista prima in televisione, per dei protagonisti particolarmente carismatici, insomma per i più disparati motivi. Quando gli show a cui abbiamo donato il nostro cuore arrivano alla loro naturale conclusione (o a una cancellazione anticipata) resta solo il vuoto, spesso difficilissimo da riempire.

Ci si affida agli amici, ai consigli del web o ai critici specializzati, alla ricerca di degni successori, ma nel profondo sappiamo che non sarà la stessa cosa. E allora questa volta noi di LaSerie abbiamo deciso di cambiare registro, di lasciare in un angolo i consigli settimanali, e di darvi invece un punto di vista nuovo partendo dalle nostre serie preferite. Ci siamo sbizzarriti tra spin-off e crossover per regalarvi e regalarci un assaggio di quanto probabilmente non andrà mai in onda, ma che sarebbe stato tanto appagante poter vedere. Gustatevi le nostre improbabili preview.


Lost – The Dharma Initiative, di Mirko Braia

Chi mi conosce, e chi avesse letto assiduamente gli articoli di LaSerie, lo sa: sono un fan sfegatato della serie principe di J. J. Abrams. Lost si è presa una fetta del mio cuore, e ha lasciato una ferita impossibile da rimarginare. Tutti gli anni passati a scoprire, poco per volta, la verità sull’isola non mi sono bastati. Troppe poche quelle sei intense stagioni. Ma i morti non si disturbano, non mi sognerei di immaginare una settima stagione. Allora ben venga uno spin-off, ormai una delle mode del momento.
Il nome dice tutto: Lost – The Dharma Initiative concentra i suoi sforzi sull’omonimo progetto finanziato da Alvar Hanso. Abbiamo scoperto abbastanza sugli scopi degli uomini della Dharma sull’isola, ma può e deve esserci di più da sapere su una misteriosa organizzazione scientifica proliferata tra gli anni ‘70 e ‘90, in piena Guerra Fredda. Nella mia mente un’elite di scienziati lavora in una grande metropoli per scoprire i segreti che nasconde l’isola, di cui hanno scoperto l’esistenza durante i loro studi sull’equazione di Valenzetti (la fittizia formula che sembrava predire l’esatto momento dell’estinzione del genere umano). In quel luogo c’è qualcosa da scoprire, informazioni fondamentali. Hanso lo sa, come lo sanno anche i russi, pronti ad anticipare i rivali di sempre. Tra intrighi politici e misteri scientifici Lost – The Dharma Initiative ci avrebbe accompagnato lungo la strada che avrebbe portato il progetto Dharma sull’isola. Per un “Lost Addicted” forse non sarebbe stato abbastanza, ma sicuramente sarebbe stato qualcosa.


Millennium-X, di Alessio Belli

Mentre il collega Braia si è formato a colpi di Lost, il sottoscritto – in tenera età – si è plasmato sui colpi sferrati dai due capolavori creati dal mitico Chris Carter: X-files e Millennium. Il primo gode tutt’oggi di fama e culto, il secondo è la chicca per pochi fedelissimi, conclusasi in maniera davvero “apocalittica”. Per fare giustizia a Millennium – solo tre stagioni – e rispolverare alla grande le attività delle Sezione X, ho pensato…
Prendete Fox Mulder e Frank Black. Il primo ha ormai scoperto che fine ha fatto la sorella e la sua relazione con Scully vive di alti e bassi. Lo hanno riassunto all’F.B.I. ma i nuovi X-files non sono entusiasmanti. Fino a che alcuni inquietanti presagi non lo convincono che la fine del mondo sta arrivando davvero: l’unico che lo può aiutare è il profiler dannato per eccellenza, Frank Black, sopravissuto al Gruppo Millennium. Una coppia di detective del genere permetterebbe lo sviluppo di una serie noir – in bilico tra horror e paranormale – senza precedenti. Con tutto ciò che hanno tentato di risuscitare e riesumare, come diavolo non hanno fatto a pensare a una cosa così intrigante? Con buona pace di Scully.


The Field Where I Died Again, di Dario De Cristofaro

Prima di Lost e Breaking Bad, prima di The Walking Dead e American Horror Story, prima di tutto c’erano Twin Peaks e X-files. Di quest’ultima serie televisiva uno degli episodi più belli rimane il quinto della quarta stagione: “The Field Where I Died”, titolo italiano “Vite precedenti”.
Siamo ad Apison, in Tennessee, luogo di battaglia durante la Guerra Civile. Gli agenti Mulder e Scully partecipano all’arresto di Vernon Ephesian, capo carismatico del Tempio delle Sette Stelle, e delle sue mogli, dopo aver ricevuto una soffiata da un certo Sidney, il quale denuncia la setta per abusi su minori e possesso d’armi illegale. Si scoprirà poi che Sidney non è altro che Melissa, una delle mogli di Ephesian, la quale ha disturbi di personalità dovuti al ricordo di più vite precedenti sovrapposte. Una di queste vite riguarda anche l’agente Mulder, morto, in un’esistenza passata, proprio tra le braccia di Melissa sul campo di battaglia nella contea di Hamilton.
L’episodio, dal potenziale narrativo enorme e dalla forte carica emotiva, viene però strozzato sul finale quando Mulder si sottopone a una seduta d’ipnosi e racconta di come riconosca, nel ghetto di Varsavia, Scully, la sorella Samantha (scomparsa misteriosamente quando era ancora piccola) e persino dell’Uomo che fuma, personificazione del male.
Ho rivisto molte volte questo episodio e l’ho sempre ritenuto incompiuto. Perché non pensare a un finale diverso? Perché un concetto così ricco di spunti narrativi non viene più preso in considerazione nell’arco delle cinque stagione successive (nove in tutto)? Sarà per il titolo che mi ricorda i versi del Riccardo III di Shakespeare («Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori»), sarà per il tema della reincarnazione tanto caro a T.S. Eliot nel suo poema La terra desolata («Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson! / Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!»), che amo molto, ma è proprio da questo episodio e da questa idea che ripartirei per costruire un mini spin-off di una delle serie più riuscite della storia della televisione.

“Se niente importa” di Jonathan Safran Foer

Se niente importa (Guanda, 2010), di Jonathan Safran Foer, è un romanzo, un documentario, una testimonianza… un racconto che non si può non leggere.

Alcuni mesi fa mi sono imbattuta in questo libro; al tempo mi trovavo presso una libreria ed ero alla ricerca della mia prossima lettura.Se niente importaha attirato la mia attenzione al punto da leggerne la trama, ma, da convinta onnivora e amante della carne, non appena ne ho fiutato il contenuto, l’ho velocemente rimesso al suo posto e ho deciso che non ci avrei avuto niente a che fare. Ebbene, pochi giorni dopo, quasi il destino esistesse davvero, quel libro si trovava sulla mia scrivania e questa volta non avevo scelta. Andava letto, era la mia prossima recensione. Sono passati giorni prima che lo iniziassi a leggere e ne sono passati moltissimi altri prima di recensirlo. Ancora adesso mi è difficile descrivere l’enorme concentrato di sensazioni ed emozioni fortissime che quest’opera comunica e lascia dentro.

Il problema fondamentale è scrivere la recensione di un libro che vorrei leggessero tutti, essendomi trovata nella posizione in cui si troveranno molti quando sceglieranno, o meno, di “farlo entrare nella propria vita”: ciò che più desidero, infatti, è accendere uno spirito dentro ciascuno, che possa, come un albero, crescere e mettere radici e farsi rigoglioso e crescere ancora e lasciare che il vento porti lontano i suoi preziosi semi per rinascere innumerevoli volte.

Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? non è un comune romanzo né un rigido documentario sugli allevamenti intensivi. È, bensì, un racconto che riesce a spiegare con assoluta oggettività e chiarezza un punto fondamentale nell’esistenza degli animali, di noi uomini e del “rapporto” tra loro e noi. Ciò che più colpisce è la razionalità dei ragionamenti e le innumerevoli informazioni che illuminano ambiti a noi sconosciuti e la bravura nel saper trattare argomenti crudi attraverso la dolcezza dei sentimenti che noi esseri umani spesso dimentichiamo di possedere: «Per i primi ventisei anni della mia vita gli animali non mi sono piaciuti. Li trovavo fastidiosi, sporchi, inavvicinabilmente estranei, spaventosamente imprevedibili e del tutto inutili. […] E poi un giorno i cani cominciarono a piacermi. Divenni un cinofilo. George arrivò senza preavviso. […] Portammo a casa il cucciolo. Lo abbracciai –la abbracciai- dall’altra parte della stanza. Poi, siccome mi aveva dato ragione di credere che non avrei perso le dita, poco per volta mi avventurai fino a farla mangiare dalla mano. Poi gliela lasciai leccare. Poi le lasciai leccare la faccia. E poi fui io a leccargliela. E adesso amo tutti i cani e vivrò a lungo felice e contento».

Lasciatevi convincere, leggete questo libro perché è una storia, vera, che tutti dovremmo conoscere, amare e odiare… perché è la storia delle nostre vite, giorno per giorno.


(Jonathan Safran Foer, Se niente importa, trad. di Irene Abigail Piccinini, Guanda, 2010, pp. 363, euro 18)

Indiana: il futuro è una terra di conquista

Non sembrava una buona stella. Più che altro perché al tempo se ne avvistavano ben poche. Sicuramente non la migliore sotto cui battezzare un’impresa. Soprattutto quando quella stessa impresa si mette in testa di diffondere cultura. Anno difficile il 2011, lontano ettari e province dai fasti editoriali. Intorno si ululava “crisi”, lo si leggeva ovunque. Era lei (e forse lo è ancora) il primo titolo in classifica.

Eppure, a volte, la volontà non cala con le vendite. Ci vuole un “nonostante” per seminare strade. A volte è necessario giocare di rilancio. Così ha deciso Bernardino Sassoli de’ Bianchi e a febbraio, da una costola dell’Indiana Production, realtà indipendente operativa da otto anni nel campo della pubblicità e del cinema, fonda a Milano Indiana Editore. Punto di snodo di universi e direzioni.

Sotto quel tetto c’è posto per tanti. Si ospitano filosofia, grafica, musica, cinema e scrittura. Il risultato sono libri freschi, coraggiosi, «dalla personalità forte, tanto nei contenuti quanto nella veste grafica».

Copertine incisive, che (ri)conoscono e masticano le astuzie del linguaggio pubblicitario. E malgrado la situazione attuale, dopo tre primavere, non sia certo sovvertita rispetto agli esordi, malgrado il sovradimensionamento dell’offerta e il basso livello delle prenotazioni in libreria, si continua a proporre, si continua a scommettere.

Dalle parole dello stesso de’ Bianchi: «Noi cerchiamo e continueremo a cercare di far percepire al nostro lettore, e ai librai, che c'è una certa progettualità dietro a ogni nostra pubblicazione, e cercheremo sempre di più di includere dentro a questa progettualità delle logiche di “servizio” che permettano a chi ci segue, librai e lettori, di sapere cosa possiamo offrire loro».


Il catalogo, che conta all’appello diciassette titoli, è composto da tre collane:

– Schegge, frammenti luminosi, sprazzi di «saggistica provocante», perché s/deduce, perché genera e attrae altre domande e riflessioni, delineando prospettive spesso inaspettate. Tra gli autori pubblicati Mark Epstein e Paul Dirac.

– Tracce, una raccolta di storie snodate come colonne sonore, con musicisti pieni di romanzi e non solo di note. Sentieri in cui la musica ispira e respira le pagine narrate. Da segnalare Ben Greenman e Douglas A. Martin.

– I lucci, territorio di «letteratura pura», dove abitano voci giovani e possenti, predatrici d’acqua dolce, come l’animale scelto per nominare la collana. Tra gli scrittori di punta Clancy Martin, di recente uscita con Adulterio in America centrale, Lydia Millet e Marco Lazzarotto.


In una lista ancora snella ma destinata a rimpolparsi, il compito della selezione è stato certamente più rapido, ma non per questo meno divertente. E questo è ciò che ne deriva:

Il Cristo Zen di Raoul Montanari. Parallelismi e contaminazioni. Confronti brillanti tra Vangeli e brani zen, dove gli insegnamenti si mescolano assieme agli scenari, per accorgersi, forse, di una matrice comune, di una verità maggiore da cui poter sgorgare.

Mappe e leggende di Michael Chabon. Uno tra i nomi più potenti della scuderia Indiana ci accompagna attraverso i suoi orizzonti. Chi racconta deve essere il primo a saper viaggiare e in questo testo Chabon ci offre la sua bussola, le sue tappe e i suoi smarrimenti. Pellegrinaggio tra romanzi, fumetti e scrittori più amati. Tra i santuari delle sue passioni.

Dora di Lidia Yuknavitch. Indovinato esempio di “travaso storico”. Il caso freudiano di Dora, ritenuto irrisolto dallo stesso padre della psicoanalisi, contestualizzato nell’oggi ipermediatico e spettacolarizzato. Una diciassettenne problematica e fragile, schiaffata nell’arena dello show televisivo dal suo stesso terapeuta. Perché si sa che il dolore è carne da audience.

Con soli tre compleanni alle spalle, Indiana ha già gambe forti e curiose. E tante scoperte pronte per gli occhi. Che vedranno più lontano anche grazie ai suoi lettori.

“Enon” di Paul Harding

Una delle lezioni che prima o poi tutti imparano nella vita è che la vera importanza di qualcosa o qualcuno si comprende solo dopo la perdita. Se però quel qualcuno è una persona che sai ti apparterrà per sempre, di fronte all’assenza non bastano la consapevolezza né l’accettazione del dolore. Partendo da questo semplice e amaro presupposto, Enon (Neri Pozza, 2013) racconta la storia di Charlie Crosby, marito di Susan e padre dell’adorata Kate, tredicenne morta sul colpo in un incidente. Secondo di una trilogia, dopo il Premio Pulitzer L’ultimo inverno (Neri Pozza, 2011), il nuovo romanzo di Paul Harding è un libro che rende il lettore partecipe e non solo semplice spettatore di una vicenda drammatica e paralizzante. La voce narrante del protagonista non lascia spazio a indugi e, quasi a preannunciare l’atrocità del dolore che verrà descritto – e forse esorcizzato – pagina dopo pagina in maniera accurata, lirica e, a tratti, onirica, esordisce con una struggente epigrafe: «Quasi tutti gli uomini della mia famiglia lasciano vedove le mogli e orfani i figli. Io sono l’eccezione. La mia unica figlia, Kate, è stata investita e uccisa da un’auto mentre tornava a casa in bici dalla spiaggia, un pomeriggio di settembre di un anno fa. Aveva tredici anni. Mia moglie Susan e io ci siamo separati subito dopo.»

Ambientato a Enon, piccola località a nord di Boston il cui nome significa doppia sorgente, questo romanzo affronta il tema della morte dal punto di vista di un padre la cui esistenza viene letteralmente destabilizzata e stravolta dalla perdita dell’unica figlia. Uomo umile e senza particolari ambizioni, per lo più passivo di fronte a una vita ordinaria, fatta di poche, semplici cose, compreso un matrimonio tenuto saldo dalla presenza luminosa di Kate, Charlie Crosby trascorre il suo tempo curando giardini e facendo lavoretti di manutenzione nel villaggio, ma soprattutto assistendo allo spettacolo di veder crescere sua figlia, quasi un miracolo che lui pensava di non meritare. Nel momento in cui Kate non c’è più, tutte le certezze e gli equilibri di Charlie crollano inesorabilmente, trascinandolo in un baratro di disperazione e ossessione dal quale risulta pressoché impossibile salvarsi: «Non mi sarei mai definito un ottimista, né una persona felice o soddisfatta di se stessa. Ero sempre stato irrequieto e a disagio, sempre sulle spine. Ma Kate aveva portato gioia nella mia vita. La amavo con tutto me stesso, e finché l’avevo amata, anche il mondo era amore. Ora che l’avevo persa, il mondo mi sembrava solo un ammasso di rovine fumanti, sotto il quale covavano sogni di mostri».

A partire dal momento in cui Charlie tira un pugno alla parete dalla disperazione, frantumandosi le ossa della mano, e la moglie Susan decide di reagire al dolore e tornare nella casa dei genitori, l’inferno dei ricordi e della desolazione prende il soppravvento su di lui. Inizialmente costretto ad assumere antidolorifici per sopportare il dolore provocato dalla frattura, Charlie si scoprirà dipendente dall’uso di medicinali, whisky e sonniferi per potersi immergere in una dimensione onirica e astratta in cui continuare a coltivare il suo ricordo ossessivo del periodo di vita trascorso insieme a Kate. Accompegneremo quest’uomo, stremato, denutrito, allucinato, nelle profondità di un inferno fatto di ricordi di famiglia, aneddoti su luoghi, personaggi e leggende di Enon, conversazioni con i morti e incursioni notturne nel cimitero del villaggio o nelle case di anziani del paese in cerca di medicinali da rubare per sfamare la sua astinenza.

Non è una storia facile da ascoltare, non è un dolore facile da descrivere e da penetrare senza coraggio, senza una profonda sensibilità e capacità di immedesimazione. Paul Harding è stato molto abile a intraprendere un viaggio nel mondo possibile di una mente e un cuore trafitti da una sofferenza inguaribile. Anche se inizialmente abbiamo la sensazione di tornare sempre allo stesso punto, a quella semplice e devastante epigrafe iniziale, in maniera un po’ troppo ripetitiva e di perderci nelle descrizioni romantiche del paesaggio e della vita bucolica presente e passata di Enon, è un viaggio che vale la pena percorrere per ascoltare ciò che spesso le parole non sono in grado di descrivere.


(Paul Harding, Enon, trad. di Luca Briasco, Neri Pozza, 2013, pp. 240, euro 16)

[LostInTranslation] “Jack Goes Boating” di Philip Seymour Hoffman

Inauguriamo oggi la nuova rubrica mensile di cinema LostInTranslation in cui verranno presentati e recensiti film di recente produzione che, pur di riconosciuto interesse artistico, per motivi di varia natura non hanno trovato spazio nella distribuzione cinematografica in Italia dovendosi accontentare, nella migliore delle ipotesi, del passaggio diretto nel mercato domestico o televisivo.

Il primo titolo selezionato vuole essere un omaggio a uno dei più dotati attori statunitense degli ultimi anni, scomparso di recente a soli quarantasei anni per un’overdose di eroina: Philip Seymour Hoffman. Jack Goes Boating è il suo primo e unico film da regista, di cui è anche protagonista e produttore esecutivo, presentato nel 2010 al Sundance Film Festival e passato per varie manifestazioni internazionali tra cui la ventottesima edizione del Torino Film Festival.

Jack è un autista di limousine appassionato di cultura reggae, timido al limite dell’imbarazzo sociale. La sua vita non gli offre molto altro oltre il lavoro e la musica giamaicana che ascolta in continuazione. Il suo collega Clyde, il suo unico amico, gli propone un giorno di uscire con Connie, nuova collega della sua compagna Lucy nell’impresa di pompe funebri dove lavora. L’incontro con la ragazza sarà l’occasione per Jack di scoprire nuovi stimoli e un nuovo slancio per la vita. Proprio per mantenere l’impegno preso con Connie di portarla in barca (da cui il titolo) quando arriverà l’estate, Jack affronta la sua paura dell’acqua, impara a nuotare, a cucinare, cerca un lavoro migliore, si impegna, insomma, per essere l’uomo che vorrebbe offrire a Connie.

C’è un testo teatrale dietro Jack Goes Boating, una pièce scritta da Robert Glaudini (che del film è sceneggiatore), che Hoffman aveva già interpretato nel ruolo di Jack al Public Theater di New York. Nel passaggio sul grande schermo l’impianto teatrale rimane pressoché immutato: molti dialoghi a due, con annessi lunghi silenzi, poco movimento, prevalenza degli interni e dimensione spaziale di New York ridotta a qualche suggestiva ripresa dei ponti e di Central Park e un blitz al Waldorf Astoria.

Per il resto va detto: per quanto la stima per l’Hoffman attore sia (stata) tanta, l’esperimento dietro la macchina da presa non è riuscito, non colpisce, non brilla. È una commedia sentimentale romantica abbastanza tradizionale nel suo voler far vedere a tutti i costi di essere indipendente. La coppia Jack-Connie fa una grande tenerezza con il loro marchio speciale di speciale disperazione che li unisce nell’essere problematici, lui così timido da essere quasi muto, lei sempre pronta a buttarsi giù, a sottovalutarsi, a sopportare gli abusi. Si costruiscono a vicenda come esseri umani e si supportano, mentre accanto a loro, invece, Lucy e Clyde smettono di sopportarsi e crollano come la costruzione del loro amore che non regge più. Questi, però, sono pregi soprattutto di scrittura, solo parzialmente di regia.

Hoffman, dietro la macchina da presa, si limita a un lavoro ordinario privo di momenti di slancio, di guizzi, a parte forse la nuotata simulata guardando l’autostrada, che si limita a riproporre certe convenzioni del cinema indipendente che si propone di presentare un percorso di formazione. Davanti alla macchina da presa, invece, comunica con tutto se stesso l’imbarazzo costante di Jack, la sua fisica difficoltà nel collocarsi nel mondo, l’impaccio che il suo corpo grande e bianco prova nell’occupare lo spazio.

È l’unica forza, insieme agli altri interpreti Amy Ryan, John Ortiz, Daphne Rubin-Vega, e a un uso della colonna sonora, dei Fleet Foxes, che diventa personaggio o commento aggiuntivo, di un film convenzionale nel suo proporsi come alternativa rispetto ai linguaggi abituali della commedia romantica.

Probabilmente, se si fosse dato più tempo, Hoffman avrebbe trovato il modo di sviluppare un linguaggio registico personale già da quella che avrebbe dovuto essere la sua seconda regia, quell’Ezekiel Moss, con Jake Gyllenhaal e Amy Adams, le cui riprese sarebbero dovute iniziare nel 2014. Ora non sarà più possibile sapere se, oltre a un grandissimo attore, Philip Seymour Hoffman sarebbe diventato anche un regista di talento.

 

(Jack Goes Boating, di Philip Seymour Hoffman, 2010, commedia, 90’)

 

La capra nera


Il binario della ferrovia li accolse alla fine del viale alberato, dopo l’ultima curva. Silenzioso li scortò fino al posto di blocco, che passò senza essere fermato, al contrario loro, che furono invitati a scendere. Il furgone si fermò sbuffando, con un modo tutto suo di fare un ultimo saltello, come se fosse veramente l’ultimo, di saltello, e loro dovessero restare là per sempre.
Il militare a cui consegnarono i documenti aveva una divisa che non conoscevano. Nell’interminabile attesa del posto di blocco ebbero il tempo di osservarla a fondo, per concludere infine che si trattava della forza militare marocchina, e la cosa li fece sorridere. Sotto il sole di un pomeriggio estivo e continentale, loro, Ong italiana, aspettavano che i propri documenti fossero controllati da una forza di pace marocchina, nell’attesa di entrare in visita a un’enclave serba nel Kosovo albanese.
Priluzje era una delle tante enclave serbe in Kosovo, piccoli villaggi ma anche porzioni importanti di cittadine, satelliti serbi sparsi come coriandoli in un territorio ormai tutto albanese. Poco lontano Mitrovica, la città nota per gli aspetti folkloristici della contraddizione, quelli tanto cari ai giornalisti: i due popoli che si contendevano la città, divisi dal grande ponte sul fiume, presidiato giorno e notte; e i due cimiteri anch’essi separati in maniera netta, ma in modo inverso, con il cimitero serbo in territorio albanese, e il cimitero albanese in territorio serbo. Ogni funerale una piccola processione di ruote cingolate e lacrime.
Priluzje invece viveva la propria sofferenza in un raccolto silenzio di campagna.
Terminato il controllo, risalirono sul furgone per iniziare la loro visita, avviandosi lungo la via principale, una trazzera segnata da pozzanghere nere. Li aspettava il sindaco. Ai lati della strada costruzioni basse e poche persone. Un uomo con una mucca magra e annoiata al guinzaglio, un piccolo gruppo di bambini di sette o otto anni, a piedi scalzi.
Guardandoli, a Paolo vennero in mente i ragazzi della scuola dove da un paio di settimane insegnava informatica. Un edificio di quattro piani, che solo da un anno era tornato alla sua vocazione naturale. Durante la guerra era stato prigione, e prima ancora stalla, ricovero per le bestie, nei dieci lunghi anni durante i quali la popolazione kosovara aveva smesso di mandare i figli a scuola. I primi giorni, spiegare i fondamenti dell’uso di un foglio elettronico in quel contesto lo aveva messo a disagio. Ancora di più usare i bagni, le cui pareti erano istoriate di pennellate marroni, dal pavimento al soffitto: le mani degli studenti, che si pulivano come potevano. Il preside precedente era scappato portandosi via tutto quello che aveva trovato, compresa la fornitura di carta igienica. In paese si diceva che avesse rivenduto ogni cosa, fino all’ultimo rotolo, per rifarsi il tetto di casa. Nel Kosovo, alla fine della guerra, tutte le case erano senza copertura. Durante la ritirata i serbi avevano dato fuoco a tutti i tetti, con cura, uno a uno, nessuno escluso. Questo era il Kosovo ai loro occhi, distese di case con le facciate annerite dal fumo e i tetti di legno elastici, giovani, lucenti. A questo pensava Paolo mentre osservava le case di Priluzje, che i tetti ce li avevano tutti intatti, ma facevano apparire la scuola-prigione-stalla alla pari di un campus americano.
Nove strade in tutto a Priluzje, e per ognuna un rappresentante, consigliere del sindaco. Nove compreso il campo rom, che si trovava all’estremità nord del villaggio, un po’ isolato dal resto. Fango ovunque, per le strade di Priluzje, melma nera ai lati delle strade, pece collosa nella quale i piedi scalzi dei bambini affondavano. Erano diversi dagli altri bambini che aveva visto in Kosovo fino ad allora, al campo giochi per i piccoli, accanto al padre sul sellino del trattore. Erano puliti e ordinati, quelli incontrati fino a quel giorno, in un contesto in cui Paolo e i suoi compagni, con l’acqua che compariva a singhiozzo, si aggiravano ciancicati per il campo vagheggiando una doccia calda, ma anche solo un pediluvio.
Erano diversi dagli altri bambini che avevano visto in Kosovo fino a quel giorno. I bambini di Priluzje non gli correvano incontro, non sorridevano, non salutavano, come se la fanghiglia gli risalisse dai piedi, e gli invadesse la pancia, la testa, il sorriso.
Paolo e i suoi compagni capirono presto l’origine di tutto quel fango, e anche del puzzo che li aggredì all’improvviso. Il paese non aveva una fognatura, né un sistema di smaltimento dei rifiuti, e tutto si riversava in strada. La melma a formare pozzanghere tristi, la spazzatura a modificare la geografia dei luoghi, accumulata un po’ dove capitava, ma soprattutto in un grande spiazzo, vicino alla nona strada. Quella dei rom.
Il sindaco li accolse davanti al cancello della scuola elementare. Era un edificio squadrato, tenuto bene, con la facciata dipinta di giallo ocra, che solo a uno sguardo più attento si mostrava punteggiata di macchioline nere, come piccole lentiggini di vernice, che solo a uno sguardo ancora più attento si rivelavano per quello che erano: fori di proiettili. A Paolo fecero venire in mente i complicati ghirigori che le ombre delle rondini in volo disegnavano sul palazzo di fronte a casa sua. Una raffica di rondinelle nel cielo di agosto di Priluzje. Una raffica di rondinelle del tutto simile a quella che avevano trovato entrando a Sarajevo, a dieci anni dalla fine della guerra. Una raffica di rondinelle che aveva dato i suoi frutti, depositati sulle colline imbiancate di lapidi, lattiginose nella luce della mattina, che gli erano passate davanti mentre uscivano dalla città, un fotogramma che sembrava interminabile.
Il sindaco aprì il cancello e li guidò in visita all’edificio. Mostrò loro le aule, la sala professori, la piccola palestra. I pavimenti in legno ben lucidati e le pareti dipinte di verde, un verde anni ’60, acquoso, un po’ felliniano. Raccontò loro delle difficoltà dell’isolamento, della spesa che si poteva fare solo andando in treno, che portava direttamente a Mitrovica nord, quella giusta. Raccontò loro dei giovani che non sapevano cosa fare, in quella prigione a cielo aperto.
Fu allora che a Paolo venne spontaneo chiedere perché, perché accettavano di restare ancora lì, perché non andavano via, perché non si trasferivano in Serbia, dove certo le condizioni erano dure, ma almeno sarebbero stati liberi.
Fu così che Paolo sentì per la prima volta pronunciare da un serbo «Kosovo Polje», e ancora prima che il traduttore intervenisse, si ritrovò catapultato con forza dentro un libro di storia, un vecchio libro di storia, colmo di battaglie epiche, date fondamentali, eserciti valorosi e generali coraggiosi.
Fu così che il sindaco raccontò al piccolo pubblico le ragioni del loro inferno, cominciando dalla sconfitta dell’impero ottomano nel 1389, e proseguì molto, molto a lungo. Ma Paolo non ascoltava più. Guardava il sindaco parlare, il traduttore muoversi imbarazzato, spostando il peso da una gamba all’altra, lentamente, in una buffa danza.
Fu così che la battaglia di Kosovo Polje e tutto quello che ne conseguiva si srotolò davanti a lui come un enorme rotolo di carta igienica, che correva, e copriva tutto, copriva loro, copriva il sindaco e il traduttore, copriva i pavimenti in legno ben lucidati, copriva le pareti dipinte di verde, per poi uscire fuori, per le strade, copriva la mucca magra e il suo proprietario, copriva i bambini di fango. La battaglia di Kosovo Polje gli aveva riempito la testa e seccato la gola.
Paolo non disse più niente, fino ai saluti, fino al momento di risalire sul furgone per andare via. La battaglia di Kosovo Polje gli si sedette accanto, e quando passarono il posto di blocco salutò insieme a lui il militare di guardia.
Fu allora che Paolo si girò, e dal lunotto posteriore la vide: una grossa capra nera, che frugava indisturbata in cima a una montagna di spazzatura.

[SongList] Calcio

Italia paese di tanti luoghi comuni, spesso tutti veri. Uno di questi, tra i più cari e inossidabili, è il calcio, il gioco del pallone, sacro rituale immancabile della domenica (e grazie a Sky non più solo domenicale). Immortalato più volte tra cinema, libri e musica il calcio ha spesso dato l’opportunità di riflettere in maniera più critica su vizi e virtù del popolo italiano. Noi stavolta ci soffermiamo sulla musica (italiana e straniera), in una [SongList] tutta dedicata a questo sport che tante – troppe – volte non è altro che una meravigliosa metafora della vita. Pronti per il fischio d’inizio?


– Francesco De Gregori, “La leva calcistica della classe ’68”
 


Il Principe della canzone italiana ci regala il ritratto calcistico più poetico ed emozionante. Passano gli anni e le generazioni, ma finché i primi calci al pallone si daranno nella strada sotto casa questa canzone rimarrà la più bella.

 

– Roberto Vecchioni, “Luci a San Siro”
 


Immenso ritratto d’autore per un’altro classico della musica italiana. Toni dolenti e struggente malinconia autobiografica attorno allo stadio di Milano. Brividi.

 

– 883, “La dura legge del gol”
 


Sempre a Milano, sempre sponda nerazzurra per un altro inno composto dal tifosissimo Max Pezzali: tutto il disco degli 883 è un omaggio al calcio, fin dalla copertina dedicata alle figurine Panini.

 

– Ligabue, “Una Vita da Mediano”
 


Di recente Ligabue ha detto di detestare questo brano, ma onestamente, a noi amanti del pallone l’omaggio al grande gregario Lele Oriali continua a emozionare. Con buona pace dell’autore.

 

– Pink Floyd, “One of these Days”
 


La sigla di Dribbling. Punto.

 

– Antonello Venditti, “La coscienza di Zeman”
 


Amato e discusso in egual misura, il boemo è una figura molto amata a livello letterario e musicale. Venditti, da sempre cuore giallorosso, nel suo album Goodbye Novecento, canta una dichiarazione in cui vengono lodate le sue doti più folli. L’avrebbe scritta anche dopo l’ultima panchina di Zeman alla Roma? Chissà…

 

– Elio e le Storie Tese, “Ti amo Campionato”
 


Solo un po’ di sana ironia ci aiuterà a convivere con gli inestirpabili mali e la corruzione fin troppo radicati nel Calcio italiano…

 

– Bennato e Nannini, “Notti Magiche”
 


L’inno di Italia ’90 a noi italiani, grandi e piccoli, evoca qualcosa di magico e lontano, “appannato” solamente dalla vittoria del 2006.

 

– Sergio Mendes, “Mas Que Nada”
 


Ve la ricordate lo spot della Nike? Bene: allora sapete di quale cult super-imitato e amato stiamo parlando! Chi almeno una volta nella vita non ha cercato di imitarlo con gli amici?

 

– Glasvegas, “Go Square Go”
 


Scozzesi, tifosi del Celtic Glasgow, nell’omonimo disco d’esordio la band omaggia il calcio anche nella straziante “Flowers and Football Tops”. Questo però è il brano perfetto per caricare ogni squadra!

 

– Modena City Ramblers, “Santa Maria del Pallone”
 


Come diceva Pasolini, il calcio è ormai l’ultima delle rappresentazioni sacre del nostro tempo, con i propri riti, sacerdoti e templi. Torna quindi d’attualità la profezia marxista della religione come oppio dei popoli: una religione fatta di dribbling, cross, discese sulla fascia, rigori in zona Cesarini e tiri da lontano. Tutto per folle tumultuose che vanno a confessare i peccati settimanali sotto lo sguardo benevolo e il ritmo gitano di Santa Maria del pallone.

“Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà

Accingersi all’analisi e alla recensione di un volume come Il diritto di avere diritti (Laterza, 2013), del professor Stefano Rodotà non è semplice per vari motivi. Innanzitutto ci si trova di fronte alla sintesi, al vero e proprio “manifesto” del pensiero di un giurista e di un personaggio politico tra i più influenti, competenti, intellettualmente liberi del panorama italiano ed europeo.

Altro motivo è quello che, delle oltre quattrocento pagine di analisi storiche e sociologiche, citazioni, riflessioni ben approfondite e proposte, ci sembra riduttivo sottolinearne alcune piuttosto che altre. Tutte importanti, tutte degne di approfondimenti di studio e analisi.

Un’opera, insomma, non fatta da un accademico e rivolta esclusivamente ad accademici, ma una summa di pensieri e riflessioni sul «diritto di avere diritti» che nell’esempio e nella proposta attiva del professore di origini cosentine, va oltre l’esercizio di stile meramente professorale e diventa esortazione per una cittadinanza consapevole e attiva.

Classe 1933, da molti anni ormai, il professor Rodotà è paladino extraparlamentare dei diritti nel nostro Paese. Nel lontano 1994 lascia il Parlamento dopo una vita di militanza prima come membro indipendente del Partito Comunista Italiano, e poi del Partito Democratico della Sinistra di cui è stato anche presidente nazionale fino al 1992.

Al culmine della sua carriera politica, in qualità di membro della Commissione Europea, partecipa alla scrittura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. In seguito e fino a oggi Rodotà è stato, tra l’altro, garante dei diritti della privacy e tra i primi firmatari dei celebri referendum vincenti del 2011 per l’acqua bene comune e contro il nucleare.

«Il concetto espresso dal titolo del mio libro, è un concetto che appartiene alle donne, in primis ad Hannah Arendt» ha dichiarato Stefano Rodotà. E della stessa filosofa tedesca è la frase che suggerisce il titolo al saggio del giurista: «Il diritto di avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa», citazione dall’opera, Le origini del totalitarismo della stessa Arendt.

Secondo Rodotà, quello dell’umanità è un tema centrale nella formulazione della tematica dei diritti. «Deve essere l’umanità stessa a garantire i diritti, a cominciare dal diritto alla vitadi ogni persona» afferma.

Rodotà definisce la frase della Arendt come «un’intuizione straordinaria da tenere sempre ben presente quando si cerca di interpretare e leggere l’attualità».

Ma quali sono i diritti fondamentali? Nel suo volume il professore lo spiega con larghe argomentazioni storiche e ne rintraccia le basi documentabili nella rivoluzione francese del 1789: libertà, eguaglianza e fraternità. «Quest’ultima nella nostra Costituzione è chiamata solidarietà. Rispetto alla rivoluzione d’oltralpe» spiega il professore «oggi noi individuiamo una novità: ovvero, quella della dignità della persona». «Nella Costituzione Italiana si parla della dignità sociale di ciascuno» afferma ancora Rodotà nel suo libro «della dignità del lavoro, dell’esistenza libera e dignitosa».

Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che ormai ha valore giuridico vincolante, nel suo “articolo 1” afferma che: «La dignità umana è inviolabile». «Questo è il nucleo che deve essere riconosciuto in qualsiasi situazione. Pertanto è fondamentale l’attenzione ai diritti sociali, quindi il diritto al lavoro, alla salute, all’abitazione, all’istruzione» specifica Rodotà.

L’ostacolo più grande per i diritti è spesso rappresentato dal capitalismo, dalle banche, dai poteri forti e dai governi a questi collegati. Viene così commesso «un errore grave di valutazione, perché molti economisti hanno dimostrato che le disuguaglianze non favoriscono la crescita economica. Sono anni che ci dicono che l’unica vera legge cui obbedire sia quella del capitale. Una legge del mercato che per qualcuno oggi è diventata una sorta di legge naturale».

Si dice: «I mercati votano», «i mercati giudicano», «i mercati danno le indicazioni». «Questa subordinazione delle persone all’economia» chiosa severo Rodotà «non fa altro che ridurre le persone a merce di scambio».

In conclusione, per Stefano Rodotà questo è assolutamente incompatibile con l’idea di democrazia e con l’idea di rispetto della persona come individuo fornito di dignità. Prima di tutto l’uomo e i suoi diritti.


(Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2013, pp. 444, euro 20)

“A proposito di Davis” di Joel e Ethan Coen

Grand Prix della giuria all’ultima edizione del Festival de Cannes per A proposito di Davis, omaggio dei fratelli Coen alla scena folk del Greenwich Village alla vigilia dell’esplosione, prima che Bob Dylan aprisse al grande pubblico, quando al Gaslight Cafe di New York ci si esibiva per i soldi raccolti nel cestino delle offerte.

Inizia dal Gaslight la storia di Llewyn Davis, folksinger in cerca di riconoscimento e autonomia dopo che il suo partner musicale ha deciso di buttare via carriera e vita dal Washington Bridge. Davis non ha una casa, dorme sul divano di chi capita, senza un soldo in tasca e senza nemmeno un cappotto con cui combattere il freddo dell’inverno. Il suo manager è un vecchio sordo, ha molti amici disposti ad aiutarlo, ma in un modo o nell’altro finisce sempre per rischiare di perderli. Forse la soluzione è a Chicago, da un grosso produttore che inizia ad assistere musicisti folk, o forse deve lasciare tutto, rinunciare ai sogni di gloria musicale e accettare l’esistenza, non vita, che già era stata di suo padre e tornare nella marina mercantile.

Libero e indipendente nella percezione di sé, ma proprio per questo assolutamente non autonomo, come il gatto che suo malgrado si porta appresso, Davis vaga cercando di definire quel domani che si rifiuta di concepire con il pensiero. Abituato a vivere alla giornata, integralista nella sua idea di musica, non sfrutta le occasioni che gli capitano accontentandosi dell’immediato, rinunciando alle ricche royalties di un brano leggero per incassare subito un assegno.

A tredici anni da Fratello dove sei? i Coen tornano a guardare direttamente a Ulisse e al suo vagabondare, sia così come lo ha descritto Omero sia, soprattutto, alla versione di James Joyce. Davis si imbarca in un viaggio circolare alla ricerca di stesso in cui il mare, ironia della sorte, gli è precluso dalle carte e le sirene non cantano dagli scogli tra le onde, ma sul palco di locali fumosi e bui. Accompagnato dallo spirito guida del gatto, aperto a molteplici letture simboliche (l’ambizione, il compagno defunto, il padre), il cantante dei fratelli Coen rimbalza per New York e gli Stati Uniti cercando una casa verso cui fare ritorno, mettendo incinta donne, anche quelle degli amici, e lasciandole sole di fronte all’aborto, insultando quelli che ci provano come lui e cercando un contatto con un padre malato con cui rifiuta di essere identificato nel mondo della semplice esistenza per continuare a inseguire un’idea di vita che è costante coazione a ripetere.

Ispirato in parte alla vera biografia del folksinger Dave Von Ronk e sorretto da una dolce nostalgia per l’epoca d’oro della musica nel Village, A proposito di Davis è il nuovo ritratto, amaro e ironico, che i fratelli Coen consegnano al cinema di un perdente a tratti insopportabile nel suo ritenersi eterna vittima senza la minima responsabilità. Dopo la grandezza dell’ultimo Il Grinta, i Coen tornano ad accompagnare il proprio protagonista in una dimensione più intima e concentrata, mostrandolo in tutta la sua bruttura e grandezza. È anche un omaggio all’arte e agli artisti, a chi fa quello in cui crede senza badare al resto, a chi senza essere ricordato e riconosciuto ha aperto la strada al successo degli altri, a chi, come Davis, si è trovato a dividere il palco con un Bob Dylan ancora sconosciuto. «Non ci vedo dei soldi in quello che fai», lo liquida il produttore di Chicago. Probabilmente Davis lo sa da solo, ma gli sta bene così.

Troppo complicato per colpire l’Academy, si è portato a casa solo due nomination tecniche per la fotografia di Bruno Delbonnel e per il sonoro.

 

(A proposito di Davis, di Joel e Ethan Coen, 2013, drammatico, 105’)

 

“L’infanzia di Gesù” di J.M. Coetzee

La tesi secondo la quale l’arte ha in sé il fine della celebrazione del bello e diventa il mezzo per esprimere un’unione con il bello, come sottolineato da Severino in reazione all’orizzonte del nichilismo, si lega a libri che abbiano la capacità di metterci grazie alle domande vere che sanno proporre in relazione con le nostre idee più intime sulla vita. Se leggerete L’infanzia di Gesù di  J.M. Coetzee (Einaudi, 2013) dovrete annodare le reminiscenze filosofiche per comprendere i sottotesti che gli permettono di avere il tono diretto e mitragliante del miglior Tolstoj. Accanto a una speciale chiarezza di visione, il libro di Coetzee ha una forte carica di mistero, un’ascendenza metafisica e distopica che nel corso della narrazione avvolgono i dialoghi dei personaggi rendendo fluidi anche i nodi e le contraddizioni dell’universo che l’autore crea. I significati che se ne possono trarre sono davvero molteplici.

Un bambino, David, l’immagine della purezza e della  spontaneità onnipotente incontra Inés e Simón, che hanno scelto di esserne i genitori. Simón si incarica di essere suo padre, nonostante la costante sfida che il bambino, così eccezionalmente dotato, mette contro la logica comune e il buon senso. La lettura che ne fa la scrittrice americana Joyce Carol Oates è molto interessante: David sembrerebbe il simbolo dell’immaginazione infantile, intesa come vicinanza alla gloria divina espressa dal poeta Wordsworth. Attorno a lui, c’è il normale corso di un luogo dove il lavoro è il grande scopo, dopo un approdo dal nulla quel luogo non può che essere provvidenzialmente migliore, una colonia penale dove il massimo piacere è dato da corsi di filosofici di vago sapore platonico, dove il sesso è trattato come uno dei bisogni quanto la fame, ma bisogna lavorare perché il pane è nutrimento del corpo. Nella definizione della Oates, i personaggi sarebbero «zombi bendisposti», in un luogo dove l’armonia cameratesca è un dovere. C’è un senso di vacuo egalitarismo, di misera accettazione di una specie di noioso paradiso? Sì, eppure c’è anche il senso del sapere imposto in modo da poter perpetuare, un forse troppo, sistema fine a sé stesso. Inés vorrebbe salvare il figlio adottivo da quell’universo poco disposto ad accettare un bambino visionario e fiero delle proprie domande metafisiche. C’è l’ottimismo leibniziano nel constatare che tutte le cose hanno un loro ordine interiore necessario e rivolto al bene, il senso pratico e finalistico degli oggetti, c’è la sensazione di trovarsi dentro una favola di sapore buddista per le risate sontuose che il bambino si fa contro gli adulti. C’è la riflessione sulla doppiezza della natura umana, la spiegazione di com’è che il particolare diventa universale, insieme ad altre divertite trasfigurazioni delle idee platoniche. Lo sguardo leggero, profondo, abissale del bambino è un volersi allontanare per dimostrare di possedere la verità, o per mostrare il modo grazie al quale scorgere il vero.

Dopo averci riflettuto, una possibile spiegazione mi sembra quella di spirito creativo in rivolta, l’ostinatezza del bambino, in parte alter-ego dell’autore, di creare visioni poetiche che ancora non esistono, rivelando il cuore e il pensiero dei suoi genitori.


(J.M. Coetzee, L’infanzia di Gesù, tra. di Maria Baiocchi, Einaudi, 2013, pp. 256, euro 20)