Fazi Editore: a tu per tu con Cristina Marino

Dopo gli approfondimenti sulla storia di Fazi Editore e sulla collana Le strade, Flanerí vi propone un’intervista a Cristina Marino, editor della narrativa straniera per la casa editrice di via Isonzo 42. Cristina, in casa editrice da otto anni, è stata l’editor di romanzi importantissimi come Olive Kitteridge di Elizabeth Strout e Stoner di John E. Williams.
 

Sei l’editor della narrativa straniera per Fazi Editore, una delle case editrici più prestigiose in Italia, che lavora da anni a un preciso progetto editoriale sia nell’ambito della narrativa italiana che in quella straniera. Ci spieghi che differenza passa tra fare l’editor per l’uno o per l’altro ambito?

Credo che si tratti di due lavori molto diversi tra loro, personalmente non mi sono mai occupata di narrativa italiana, dunque il mio punto di vista sarà necessariamente parziale. L’editor di narrativa straniera sceglie testi già valutati da altri, romanzi pubblicati o in via di pubblicazione in paesi stranieri; l’editor di narrativa italiana parte da una materia più grezza, da un testo sul quale verosimilmente verranno operate numerose modifiche prima di venire stampato. In linea generale in questo ultimo caso l’editor partecipa più da vicino al percorso creativo di un’opera, ne può essere in molti casi un co-autore, anche se il suo nome non comparirà mai in copertina. Diversamente, l’editor di narrativa straniera può essere definito banalmente come il primo lettore italiano di un romanzo inglese, americano, francese ecc. In Italia siamo molto abituati a tradurre, siamo tra i paesi che per tradizione importano moltissima letteratura straniera, tanto che nella vendita dei diritti esteri di un autore americano, per esempio, siamo ritenuti l’ago della bilancia: quando un editore italiano ne acquisisce i diritti il mercato internazionale accelera, spesso con un effetto domino. In questo senso una fase importante dell’editor di narrativa straniera è avere un quadro di cosa viene pubblicato con successo negli altri paesi, intercettare che tipo di storie vende di più, quali autori stanno emergendo. Gli esordienti americani non vendono più? La Scandinavia ha esaurito la sua forza commerciale con un’offerta ormai inflazionata di thriller? La narrativa cinese riuscirà a produrre uno nuovo scrittore che possa far breccia in Italia? Durante le fiere internazionali si parla anche di questo, anche se è chiaro che fermarsi a selezionare la narrativa per macro categorie lascia il tempo che trova: le mode nascono, si può scegliere di cavalcare un filone, ma la sfida più grande è sempre trovare la novità, quello che nessun altro ha ancora fatto.

L’editor di narrativa straniera ha il compito di presentare un autore nel modo più efficace per il gusto del lettore italiano, può sembrare semplicistico, ma la scelta della traduzione di un titolo o di una nuova copertina sono spesso momenti fondamentali per la nascita di un romanzo tradotto. Si tratta anche di parafrasare il gusto di un paese a quello di un altro.

L’editor di narrativa italiana è più a contatto con l’essere umano, mentre l’altro lo è di più con le storie e con tutto quello che gli viene costruito intorno, in termini di comunicazione e pubblicità. Ovvero, anche per il secondo è importante e gratificante il rapporto con l’autore (soprattutto nel tempo), ma senz’altro non costituisce una fase prioritaria del suo lavoro. Così, l’editor di Mario Rossi dovrà con pazienza convincerlo che certe modifiche sono necessarie perché migliorative, che un’intervista in televisione è meglio accettarla, che per il secondo romanzo sarebbe meglio non cambiasse editore. Insomma si crea un rapporto di intimità, nel quale la fiducia reciproca è fondamentale.

Le modalità della ricerca di nuovi autori è anch’essa molto differente nei due casi. Se per la narrativa straniera ci si affida quasi obbligatoriamente alla rete di agenzie letterarie e scout (anche se non esclusivamente), data la vastità dei terreni da esplorare, per gli autori italiani la ricerca è condotta più da vicino, non sempre attraverso agenzie, quanto invece nella lettura di manoscritti o attraverso l’incontro diretto. È anche per questo che l’editor di narrativa italiana lo immagino molto più impegnato in appuntamenti letterari, nella partecipazione a presentazioni e manifestazioni di settore, cosa cui l’editor di narrativa straniera può più liberamente sottrarsi.


Il tuo lavoro ha un aspetto molto particolare: scegliere quali libri vedranno la luce e quali sono destinati a non vederla mai. Come vivi questa responsabilità?

Doversi assumere la responsabilità di cassare o promuovere un titolo all’inizio può spaventare, proprio perché non si conosce cosa significhi esattamente fare una scelta editoriale. Quando ho cominciato avevo paura di sbagliare, di esprimere un giudizio libero e autentico. Con il tempo si diventa più pratici, si può imparare a rischiare, a convincere l’editore di una proposta apparentemente poco allettante e col tempo a valutare con più precisione in base alla natura della collana per cui si lavora. La responsabilità della scelta è fisiologica al mestiere dell’editor, e fisiologico credo sia non riuscire a possedere mai una modalità infallibile. A volte si pubblicano libri belli e di successo, altre volte rischiamo con titoli commerciali che non piaceranno quasi a nessuno. Quel che può salvare la coscienza è lavorare con onestà, porsi di fronte a un nuovo testo con la massima apertura, quindi evitare pregiudizi e dall’altra parte avere la coerenza di bocciare un testo anche se ci è molto piaciuto, perché in quella collana non riuscirebbe ad essere valorizzato.


Come ha cambiato il tuo lavoro di editor la crisi dell’editoria in atto da un po’ di anni? Ha limitato il tuo raggio d’azione e la tua indipendenza?

La crisi ha giovato alla mia indipendenza. Nel momento in cui siamo usciti dalla scia delle grandi fortune commerciali e i budget a disposizione sono stati sensibilmente ridotti, è stato quasi obbligatorio cominciare a esplorare terreni prima inesplorati, andare oltre certe dinamiche di mercato, avvicinarsi a proposte che venivano da realtà più piccole e indipendenti. È pur vero che la Fazi Editore ha sempre avuto come tratto caratteristico una buona dose di versatilità nelle scelte editoriali, abbiamo sempre pubblicato generi diversi, con un orecchio teso a quel che in un primo momento può suonare poco rassicurante.


Da editor ti aspettavi il grande successo di Stoner? Ci racconti le vicende editoriali del romanzo di Williams?

La pubblicazione di Stoner è stata molto seguita in redazione. Portare in libreria un romanzo che ha cinquant’anni non è cosa semplice. Soprattutto bisogna convincere i librai che quel titolo venderà, che è ancora attuale, che non devono immaginarlo come un testo polveroso. Dunque la nostra prima sfida è stata quella, credevamo nella forza del romanzo e dovevamo trasferire la nostra convinzione ai librai. Abbiamo inviato delle copie in anticipo a una lunga lista di librai e persone del mondo della cultura, esprimendo molto chiaramente perché quel libro meritava di essere letto. Le reazioni sono state positive fin dall’inizio, tutte. Ma quando sei all’inizio e hai appena qualche migliaio di copie distribuite in libreria, non puoi immaginare che si inneschi un passaparola di tale portata, puoi immaginare che il libro andrà bene, che se su dieci pareri dieci sono positivi, allora c’è davvero qualcosa che lo farà “partire”. La pubblicazione di Stoner è stata e continua a essere un’esperienza entusiasmante, da due anni ogni giorno riceviamo qualche parere entusiastico, persone commosse, con gli occhi pieni di sorpresa. Ci siamo augurati fin dall’inizio che diventasse un classico, ma il risultato è stato oltre le aspettative. Abbiamo scommesso nella modernità del romanzo, nella sua carica emotiva, in una trama che poteva fare breccia in questo tempo, nel nostro paese. E Stoner poi è diventato anche un successo internazionale, in Olanda e Inghilterra vende centinaia di migliaia di copie, occupa i primi posti delle classifiche, i più grandi intellettuali si sperticano in omaggi appassionati. E sorprendente è che un romanzo americano, profondamente americano, non abbia successo negli Stati Uniti. Lì da loro ha ricevuto alcune recensioni molto belle, ma il libro non vende, o meglio vende, ma sempre entro una certa sfera di lettori, rimanendo così un romanzo di nicchia. Mentre in Italia oggi viene segnalato anche da personaggi del mondo dello spettacolo, a testimonianza della vasta diffusione raggiunta.


Per finire, ci puoi dare qualche anticipazione sulle prossime pubblicazioni della collana Le strade di Fazi Editore?

Tre titoli. A fine febbraio pubblicheremo il romanzo d’esordio di John Williams, Nulla, solo la notte, opera giovanile scritta quando l’autore aveva appena vent’anni e l’ultima a dover essere tradotta. In età ancora acerba Williams dimostra di essere il profondo conoscitore delle fragilità umane che abbiamo conosciuto con i suoi romanzi maggiori. In primavera avremo due uscite importanti, due novità: la prima, Il corpo della vita di David Wagner, romanzo tedesco, fortemente ispirato a un’esperienza estrema che l’autore ha vissuto, raccontata con un tono e una grazia rari, una scrittura coraggiosa. L’altra uscita importante sarà un romanzo di Elizabeth Jane Howard (per il quale stiamo ancora scegliendo il titolo italiano), scrittrice inglese molto prolifica e recentemente deceduta, autrice di grande talento sottovalutata in vita, abile narratrice di storie familiari, un nome in cui crediamo moltissimo. 

La melodia del dialogo

Chi sono, veramente, l’americano e Jig: l’uomo e la donna protagonisti del racconto di Hemingway “Colline come elefanti bianchi”? Questa domanda se la pone Milan Kundera nel capitolo intitolato “Alla ricerca del presente perduto” del suo I testamenti traditi. Il racconto-capolavoro di Hemingway è costituito quasi esclusivamente dal dialogo fra i due protagonisti e tutto è basato su un’omissione, un non detto, una tensione che accompagna il lettore fino all’ultima battuta.

La parola che non viene mai pronunciata, ma che intorno alla quale si sviluppa il dialogo fra i due protagonisti, è: aborto. Kundera quindi azzarda qualche ipotesi: l’uomo è sposato e costringe l’amante ad abortire per riguardo verso la propria moglie; non è sposato e vuole che lei abortisca perché teme di complicarsi la vita; oppure ancora, è gravemente malato e lo spaventa l’idea di lasciarla sola con un figlio. Ci sono infinite possibilità ma il fatto è che le reali circostanze dei personaggi rimangono del tutto oscure. L’interesse di Kundera però è un altro: poche pagine più avanti Kundera ribatte punto su punto un’interpretazione del racconto da parte di Jeffrey Meyers, autore di una biografia di Hemingway nel 1985, il quale a tutti costi cerca di spiegare il racconto, di attribuirgli un significato, una morale. Meyers scrive: il racconto «rappresenta forse la reazione di Hemingway alla seconda gravidanza di Hadley» (la prima moglie dello scrittore). Niente di più irritante, per Kundera.

Ciò che interessa allo scrittore ceco è riflettere sul fatto che, per quanto questo racconto sia supremamente astratto e delinei una situazione quasi archetipica, è al tempo stesso estremamente concreto, poiché cerca di captare la superficie visiva e acustica di una situazione tramite il dialogo. Mentre leggo questa frase mi vengono in mente altri racconti-capolavoro quasi interamente basati sul dialogo: per esempio, “Una giornata ideale per i pescibanana” di J.D. Salinger e molti dei racconti di Raymond Carver.

Il valore del racconto di Hemingway, secondo Kundera, sta nella capacità di cristallizzare la sfuggevolezza del concreto, la concretezza del dialogo. Avete mai provato – chiede lo scrittore – a ricostruire un dialogo della vostra vita, di una lite o di un amore? È praticamente impossibile. Ciò che rimane in mente è il senso generale dello scambio di battute, in astratto. Siamo rassegnati a perdere la concretezza del tempo presente: l’attimo presente viene immediatamente trasformato nella sua astrazione.

Il discorso poi si fa più ampio e Kundera scava nel passato per cercare il punto in cui, nella sua evoluzione, il romanzo ha cominciato a occuparsi del concreto. Kundera indica Flaubert come colui che, per la prima volta, è riuscito ad affrancare il romanzo dalla teatralità. Fino agli inizi dell’Ottocento, l’elemento fondamentale della composizione del romanzo è la scena. Scott, Balzac, Dostoevskij, strutturano i loro romanzi come un susseguirsi di scene descritte minuziosamente. In questo senso viene mosso un primo passo verso la ricerca della realtà, ma più in modo ispirato dall’arte drammatica che da non dalla concretezza – spiega Kundera – più dal teatro che dalla realtà. Il romanzo quindi appare come una sceneggiatura ricchissima di particolari. Il vero salto avviene con Flaubert. Nei suoi libri i personaggi si incontrano in un ambito quotidiano che interviene continuamente nella loro vicenda intima. Kundera la definisce come la scoperta della struttura dell’attimo presente; la scoperta di quella perpetua coesistenza di banale e di drammatico che è alla base delle nostre vite.
 


Allargando ulteriormente il discorso, Kundera ci fa notare come la passione per il concreto non è esclusiva del mondo del romanzo ma, in tempi e modi diversi, si manifesta anche in altre forme d’arte. Per quanto riguarda l’opera lirica Kundera indica Leoš Janáček come colui che ha operato, cinquant’anni dopo, la rivoluzione Flaubertiana. E a questo punto apro una parentesi.

Fino ai venticinque anni Kundera era attratto più dalla musica che dalla letteratura e questo amore giovanile lo influenzerà nel corso di tutta la sua carriera. Anche quando scrive dell’Arte del romanzo, Kundera ama utilizzare un linguaggio prendendo in prestito la terminologia della musica. La struttura stessa di un romanzo può essere paragonata a una composizione musicale – la divisione del romanzo in parti, delle parti in capitoli, dei capitoli in capoversi e quindi, una parte è un movimento, i capitoli sono battute e queste possono essere brevi o lunghe, introducendo così il concetto di tempo. Ogni parte dei suoi romanzi – scrive Kundera – potrebbe portare un’indicazione musicale: moderato, presto, adagio. Questa analogia non vale solo in termini di struttura ma è la terminologia musicale stessa che Kundera utilizza per analizzare un romanzo. Per esempio: il motivocome elemento del tema o della storia che ricorre più volte nel corso del romanzo in un contesto sempre diverso. Oppure: polifonia, concetto prettamente musicale ma che Kundera utilizza per far notare la presenza di diversi generi all’interno di un romanzo.

Kundera racconta della sua soddisfazione una volta conclusa la terza parte del suo Il libro del riso e dell’oblio, ovvero l’esser riuscito a far coesistere generi diversi in un unico brano – tecnica poi utilizzata nella maggior parte dei suoi lavori, i quali uniscono elementi diversi che potrebbero esistere individualmente ma che, uniti, si completano a vicenda e vanno ad assicurare la coerenza del romanzo, ovvero l’unità tematica. Un tema comune, che è sempre un interrogativo esistenziale.

La stima di Milan Kundera per Leoš Janáček è tale da portarlo ad affermare che, se gli venisse chiesto in virtù di cosa il suo paese natale si è inscritto in modo duraturo nei suoi geni estetici, non esiterebbe a rispondere: la musica di Janáček. Le coincidenze biografiche hanno avuto una certa influenza: Janáček ha vissuto per tutta la vita a Brno, così come il padre di Kundera che, giovane pianista faceva parte della cerchia entusiasta (e isolata) dei suoi primi estimatori e sostenitori. Kundera è nato un anno dopo la morte di Janáček e sin dalla prima infanzia ha ascoltato tutti i giorni la sua musica eseguita al piano da suo padre o dai suoi allievi.

Al funerale di suo padre, nel 1971, in piena occupazione russa, Kundera ha proibito ogni discorso. Al crematorio, soltanto quattro musicisti hanno suonato il secondo quartetto d’archi di Leoš Janáček. Non sorprende quindi che, nel 1983, quando Christian Salmon ha intervistato Kundera per The Paris Review – i due si sono incontrati varie volte in un piccolo attico vicino a Montparnasse – nella stanza che lo scrittore aveva adibito a studio, tra l’arredo semplice e le librerie colme, su una parete fossero appese due foto: una di suo padre e una di Janáček.
 


Janáček viene oggi ricordato come compositore ma anche come teorico. Molti studiosi si sono dedicati al suo lavoro, in particolare concentrandosi sul suo realismo musicale e sulle Speech Melodies.

La tecnica di Janáček viene definita come «brutale giustapposizione al posto delle transizioni, ripetizioni invece di variazioni e andare sempre al cuore delle cose». Le stesse tecniche che Kundera vuole applicare al romanzo. Così come Janáček si sforza di utilizzare solo le note strettamente essenziali, le note che hanno qualcosa da dire, Kundera fa lo stesso con le parole.

È proprio il suo lavoro intorno alla melodia del dialogo – che Janáček definiva nápěvky mluvy (speech-tunelets) – ciò che permette a chi si occupa di letteratura, di parole invece che di note, di trovare un elemento comune: il concreto di Hemingway. Lo scopo di Janáček era di catturare con precisione scientifica quegli effimeri momenti acustici, quelle espressioni del pensiero e delle emozioni umane. L’obiettivo era quello di dare al dialogo una forma materiale che lui avrebbe poi potuto catalogare e consultare ogni qualvolta ne avesse avuto bisogno per la sua attività di compositore. Janáček ha scritto che la sua ricerca sulla melodia del dialogo è in realtà un’esplorazione dell’animo delle persone.

Nel suo articolo “The border between speech and song” Janáček è conscio del fatto che le melodie del dialogo diventano distorte e trivializzate una volta trascritte. È come se si asciugassero, scrive, e perdessero la loro spontaneità. Le trascrizioni, per forza di cose, privano le melodie del dialogo della loro segretezza, diventando fredde annotazioni musicali. E comunque Janáček ha proseguito per tutta la vita ad annotare questi speech-tunelets e tale costanza permette a queste note di avere un valore anche come documentazione della sua vita e dei suoi movimenti.

Il suo catalogo però, costituito da migliaia di annotazioni sparpagliate su taccuini, articoli, note e lettere, rimase senza un ordine sistematico. Solo il lavoro a posteriori di studiosi ha permesso in qualche modo di catalogare tutti questi frammenti. Ne risulta che si possono notare almeno quattro categorie di speech melodies (a) quelle del linguaggio dei bambini, (b) quelle tratte dalla vita quotidiana (c) quelle appartenenti alla sua vita privata e (d) quelle tratte dalle melodie della natura: uccelli, api, animali domestici, e da oggetti inanimati: il ronzio di cavi, acqua, tuoni, suoni meccanici.

Certamente Janáček non è il solo a essersi dedicato a questo tipo di ricerca. Studiosi hanno trovato numerosi parallelismi fra il lavoro di Janáček e quello di altri compositori. Avvolgendo il nastro della storia della musica penso a John Coltrane e al periodo be-bop: non erano forse quegli assoli improvvisati e aritmici un modo per riprodurre un sentimento più profondo? E ancora, più avanti, lo stesso Frank Zappa ha affermato che nei suoi assoli si è spesso ispirato alla musicalità del dialogo, riproducendo ritmiche che non sono calcolate ma che seguono un andamento libero, paragonabile a quello del linguaggio parlato.

Siamo partiti da Hemingway e da una delle sue ossessioni artistiche, ovvero il cogliere la struttura della conversazione reale. Abbiamo visto come letteratura e musica si sviluppino con metodi differenti verso un unico obiettivo. Lascio che siano le stesse parole di Kundera ad esprimere il valore del lavoro di Janáček e allo stesso tempo definire quella tensione artistica che accomuna chi si occupa di note e chi di parole.

«La ricerca del presente perduto; la ricerca della verità melodica di un istante; il desiderio di sorprendere e di captare questa verità fuggevole; il desiderio di penetrare così il mistero della realtà immediata che abbandona di continuo le nostre vite, facendone in tal modo la cosa meno conoscibile di questo mondo. Tale è, a mio avviso, il significato ontologico degli studi sulla lingua parlata di Janáček e forse anche di tutta la sua opera».

“La contemplazione” di Edgar Borges

La contemplazione di Edgar Borges (Lavieri, 2013) ci mostra un mondo mosso da paura e violenza in cui il diverso, lo straniero, l’omosessuale e il transessuale non possono e non devono trovare posto.

La storia si svolge nella calle 11 di una città che non viene mai nominata all’interno libro, in un ambiente disturbante, scarsamente descritto, in cui si verificano efferati omicidi a intervalli più o meno irregolari. A indagare sul caso, due poliziotti, uno dei quali nasconde all’altro un segreto. In questa cornice, una donna (o forse un uomo?) impazzisce riflettendo sulla sua complicata relazione con il suo fidanzato, che l’ha tradita per un’affermata scrittrice, in realtà un travestito. Il treno che la porta a casa, per così dire “controllato” da quello che lei definisce «il mago», sarà lo scenario dei suoi incontri più particolari – la vecchia senza denti che gioca a nascondino nel suo villaggio, il giovane che legge e rilegge compulsivamente una frase scritta su un pezzo di carta, il mago stesso. Per tutto il libro, la donna continuerà a pensare alla sua complicata relazione, a soppesarla e a fare domande a un interlocutore che probabilmente non l’ha mai amata, che l’ha sottomessa psicologicamente e che l’ha spinta a crimini efferati (un omicidio? Due? Forse tre? Ma si tratta di realtà o fantasia?).

Il libro di Borges, un continuo richiamo letterario ad altri autori e opere maggiori, si basa su un’idea valida e che potrebbe avere certamente presa sul pubblico, ma che si sviluppa in un universo surreale che sconfina nell’eccessivo e si basa su dialoghi che, in fin dei conti, sono piatti ed evitabili e su interi paragrafi che rasentano il monologo infantile: «Giunta al reparto delle mele, la fruttivendola mi osserva con un pensiero che sta sul punto di scoppiarle in testa (i pensieri escono dalla testa oppure fuoriescono attraverso un luogo più discreto, più privato?): Una single (per favore, controllate da qualche parte cosa significhi “essere una single”) ecco che arriva un’altra single che mi infastidisce con l’acquisto di monoporzioni. […] Prendo una mela, che si aggiunge al resto delle monoporzioni acquistate e svolto a sinistra. Nel corridoio successivo mi soffermo offesa davanti a un cartello che annuncia l’offerta di carta igienica: “Prendi due e paghi uno”. Ed io, maledizione, perché dovrei prenderne due se me ne serve solo uno?» – e così via, quasi una pagina di considerazioni poco edificanti sulle quali primeggia senza dubbio quella sulla carta igienica. Il libro, purtroppo, è ricco di frasi che vogliono sembrare d’effetto e che di effetto ne hanno ben poco: «Ebbi paura che la signora cercasse di trovare i suoi denti per masticare la mia sfrontatezza», oppure la considerazione sul fatto che «l’esperienza che abbiamo del mondo non è altro che una proiezione di processi fisici che stanno avendo luogo da qualche parte nel cosmo», una non proprio tra le più comuni da fare durante un discorso con una vecchia apparentemente pazza incontrata in modo altrettanto apparentemente casuale sul treno.

La contemplazione, che a prima vista sembra un giallo, in effetti si concentra sulla visione della realtà, sulla contemplazionedella realtà, per l’appunto, e getta una luce sulle identità più difficili da portare e da vivere, quelle degli ultimi, dei reietti della società. Il fine sembra tra i più elevati, eppure, si perde procedendo con la lettura, dando così vita a un libro ibrido, che intreccia più generi senza appartenere veramente a nessuno di essi.

La sua versione italiana, inoltre, presenta varie imprecisioni, refusi, incoerenze e calchi linguistici che, insieme, rendono la lettura ancora più faticosa e, talvolta, irritante.

Per concludere, alla Lavieri si può attribuire il merito di aver individuato un libro di un autore molto apprezzato a livello internazionale, ma che purtroppo rischia di avere uno scarso appeal sul pubblico e che presenta alcune pecche a vari livelli, non ultima la traduzione.


(Edgar Borges, La contemplazione, trad. di Gianfranco Pecchinenda, Lavieri, 2013, pp. 175, euro 15)

“All Is Lost” di J.C. Chandor

Il tema dell’uomo, inteso come essere umano, che si trova solo ad affrontare la natura, i suoi spazi, i suoi pericoli, le sue enormità, è un tema classico caro a Hollywood da sempre che nell’ultimo anno circa ha trovato nuova linfa per ripresentarsi sullo schermo. Si è iniziato con Vita di Pi di Ang Lee per proseguire, in una forma inedita, con Gravity di Alfonso Cuarón, e finire ora con All Is Lost di J.C. Chandor, storia del naufragio silenzioso di Robert Redford passata all’ultima edizione del Festival de Cannes.

Se Ang Lee, fedele al romanzo di Martel, aveva posto il suo naufrago su una scialuppa con la sola compagnia di una tigre, e Sandra Bullock aveva il conforto della guida quanto meno ideale del Kowalski di George Clooney nel suo galleggiare nello spazio, il navigatore senza nome di Robert Redford è totalmente solo, al punto che è l’unico personaggio ad apparire sullo schermo per tutto il film. Solo e silenzioso. Praticamente non parla mai, se non per lanciare un SOS alla radio e affidare il suo congedo allo spettatore, all’inizio.

Procedendo con ordine, un navigatore in traversata solitaria nell’Oceano Indiano viene colpito da un container cinese alla deriva mentre sta riposando sotto coperta. L’impatto apre una breccia nello scafo della barca che il silenzioso marinaio provvede a rattoppare alla meno peggio, ma radio e cellulare sono andati fuori uso nell’impatto e nel successivo allagamento, così come l’impianto elettrico. Determinato comunque a trovare un modo per cavarsela, l’uomo viene sopraffatto da una tempesta che lo costringe ad abbandonare il natante e trovare rifugio in un gommone gonfiabile di emergenza. Con poche provviste e alcuni strumenti di emergenza, il navigatore senza nome cercherà ancora una salvezza da qualche parte nella vastità del mare. La sua lotta contro il mare è silenziosa, senza imprecazioni urlate al vento (se non in un comprensibile momento di sconforto), senza preghiere al cielo. C’è solo il respiro, affannato, stanco, ma risoluto, a riempire un silenzio che non è rassegnazione alla sventura invincibile, ma determinata volontà di opporsi agli elementi del disastro, di arrivare con i pochi mezzi a disposizione a neutralizzare il fantasma della morte che lo attende in fondo all’oceano.

La scelta dello splendido settasettenne Robert Redford come protagonista di questa impegnativa, massacrante impresa filmica (neanche una scena girata sulla terra ferma) evidenzia il messaggio di Chandor, anche sceneggiatore, di rifiuto della società contemporanea e delle sue generazioni quasi totalmente digitalizzate, probabilmente incapaci, è lecito pensarlo, di applicare pazienza e sapienza per contrastare avversità colossali. L’anziano marinaio, comunque non professionista, ma semplicemente previdente, è capace di una manualità e di un multiforme ingegno che l’esperienza ha abituato a essere creativi e immediati.

Sprovvisto di un nemico o di un sogno, al contrario di Achab o del vecchio hemingwayano, il personaggio senza nome di Chandor galleggia per l’alto mare aperto lottando esclusivamente per se stesso e per la sua sopravvivenza, reagendo paziente, quasi come in una partita a scacchi, alle disavventure che si sommano una sull’altra.

J.C. Chandor si era fatto notare all’esordio nel 2011 con Margin Call con uno stile ben diverso da quello di All Is Lost, con un cast enorme (Kevin Spacey, Jeremy Irons, Paul Bettany, Demi Moore, Zachary Quinto, Stanley Tucci) chiuso quasi sempre in un grattacielo e molte, moltissime parole a raccontare il crollo di un colosso finanziario. Ora sono gli spazi a prevalere sugli attori, il silenzio a coprire le parole. È un cambio radicale e non semplice che a Chandor riesce solo in parte. L’immensità del mare ostile e la lotta determinata di Redford tendono a ripetersi uguali a se stesse e dopo la falla, la tempesta e il naufragio è la noia a scorgersi a tratti tra i flutti.

(All Is Lost, di J.C. Chandor, 2013, drammatico, 106’)

 

“Il volontario di Auschwitz” di Witold Pilecki

La storia ha dell’incredibile. Sconosciuta ai più – in Italia ne sapevano qualcosa solo i lettori di un libro dello storico Marco Patricelli – la vicenda del Volontario di Auschwitz, il militare polacco Witold Pilecki che si fece arrestare dai tedeschi per vedere cosa succedesse davvero nel campo, raccogliere informazioni e possibilmente organizzare da lì la resistenza all’occupazione nazista, viene ora proposta da Piemme. L’editore milanese traduce dall’edizione americana i documenti prodotti dal tenente di cavalleria per tenere informati i suoi superiori sui fatti del campo.

Pilecki è ignaro della tragedia che vi incombe, del gradiente di violenza che sta per farne il campo di sterminio per antonomasia – quando lui vi entra con un falso nome, Auschwitz rinchiude delinquenti comuni, prigionieri polacchi, comunisti, non solamente ebrei. Ma una volta entrato, all’ufficiale bastano poche ore per capire quanto avesse frainteso e sottovalutato la situazione del campo. Gli rompono i denti a manganellate. Gelo, umiliazioni, fame, frustate, assassinii estemporanei: lo scenario è quello. Pilecki nota subito ciò che definisce un po’ semplicisticamente «psicologia di massa», ossia l’immediata sottomissione dei prigionieri a una volontà di potenza che intende proprio ridurli a “cosa”, a numero; e gli fa male – uomo vocato all’eroismo al quale parlare di «gregge di pecore» non viene difficile – soprattutto constatarne l’effetto sui polacchi. I rapporti che invia ai suoi superiori in clandestinità  parlano chiaro; mettere insieme una compagine di resistenti è un’impresa. Spera che gli alleati bombardino Auschwitz ma non lo ascolta nessuno. Lui, cattolico ispirato agli ideali di «Dio, patria, onore» (in verità un po’ troppo vicini ai nemici che intende combattere) assiste all’inasprirsi dello scempio antisemita, alla ferocia dei Kapo, ma i lettori dei suoi rapporti li giudicano esagerati. Non credono – non vogliono credere – che i nazisti spingano i prigionieri a tentare la fuga per poi sparargli addosso proprio perché «volevano fuggire». Ma a dire il vero – lo dimostrò presto, nel ‘55, quel libro capitale che è Il nazismo e lo sterminio degli ebrei di Lev Poliakov – già nel ‘38 a Buchenwald, dagli altoparlanti del campo si potevano sentire frasi come questa: «Ogni ebreo che desideri impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdursi nella bocca un pezzo di carta con il proprio nome».

Il destino molto laterale che ha segnato il documento non è dovuto solo all’eccezionalità dell’azione di Pilecki ma al fatto che l’ostinato soldato che nel ‘43 riesce a fuggire e tornare a Varsavia, ripeterà il gesto – sempre nell’improbabile orizzonte di una strategia resistenziale – nel campo avverso, della vincente invasione sovietica. La guerra è finita, ma con il gulag la fortuna non lo assiste; Pilecki verrà giustiziato nel 1948 (l’accusa: «crimini contro lo Stato e spionaggio agli ordini dell’imperialismo straniero»). Il destino postumo di un riconoscimento dovrà pertanto aspettare il purgatorio della guerra fredda. Una storia individuale speciale e un altro memoir da Auschwitz quando si pensava fossero esauriti.

 

(Witold Pilecki, Il volontario di Auschwitz, trad. di Annalisa Carena, Piemme, 2014, pp. 480, euro 18,50)

La terra in fiamme


1.
Con il respiro affannato, mia madre, nell’ultima ora d’ospedale, della sua vita, ansimante a rincorrere una disperata brezza, un nuovo sollievo. Sprofondata e pesante, schiacciata da una morte che è lì, più viva di lei, e che puzza di rifiuti sepolti, e sversamenti, che dalle discariche sono tornati su, tra i suoi piedi e le dita aperte, come una merda pestata. Intorno noi, il nostro cuore addolorato, a battiti ridotti, sbiaditi dalle luci al neon, per l’emozione di un imminente addio, che ancora strugge, in compagnia di una Madonna, che con noi sembra pregare, affranta accompagnatrice, o che forse, smorzando il sorriso, non fa altro che guardare schifata le macchie di sporco che persistono sulla parete del corridoio; circondata di preghiere e raccomandazioni, per un posto lassù, da ottenere in fretta, o in attesa che magari qualcuno presso lei interceda, per fermare il vomito di ruggine e scorie, che il ventre di mia madre moltiplica.

2.
Nelle notti d’estate la puzza era molto più forte. I camion sversavano a luci spente, e lo sapevano tutti che lì ci sotterravano l’immondizia. Quella notte eravamo particolarmente svegli, dopo aver festeggiato l’ultimo giorno di scuola. Ci riunimmo nel cortile, con le nostre biciclette fracassate, un pallone e un paio di sigarette rubate dal pacchetto di papà, per fumarle nel buio della campagna, comodamente seduti tra i rami di un arancio. Carlo, che era il più grande di noi, ci spiegava come fumarle, con la cicca rivolta verso il palmo chiuso, perché nell’oscurità il tizzone acceso sarebbe stato visibile sino al cortile, agli occhi dei nostri genitori, come soldati in guerra, per non farsi scoprire dai cecchini.
Improvvise poi due lucciole, forse tre, o magari di più, alzarsi a scatti e a intermittenza, e venir su dall’erba alta. Almeno dieci, tutte intorno, come addobbi di Natale per la terra; sembrava avessero una certa fretta, come se scappassero via.
Sulla strada di casa restai indietro, fermandomi di colpo al verso di una bufala che mai avevo sentito così greve e disperato. Tornai sui miei passi perdendomi nel campo di spighe. La bufala continuava a gridare e io a correre tra le spine con le gambe graffiate a sangue. Era lì, davanti a me, una grande ombra con le corna. E mi guardava. E continuava con quello strano verso che sembrava riecheggiare in tutta la pianura e che si mischiava con il cigolio dei camion, che dietro di noi entravano nella terra lacerata, sino a scomparire, interamente sepolti, con le loro bombe piantate fin dentro il centro del mondo.

3.
La prima camionetta arrivò all’alba e i poliziotti scesero a marciare, ballando in perfetto sincrono la danza di stivali sbattuti e manganelli, per intimorirci. L’ordine di riaprire la discarica era venuto da un po’ tutti gli uffici preposti; per quarant’anni, laggiù, avevano versato ogni cosa, da quando era ancora una cava, riempita man mano a strati di immondizie provenienti chissà da dove, con scarti e resti industriali a sostituirsi a tufo e pozzolana. Questa volta non glielo avremmo permesso, di riaprila. I poliziotti in schieramento da guerra avanzavano verso di noi; pochi contadini, un prete, qualche ragazzotto rivoluzionario e un paio di guappi che non cessavano di lanciargli contro petardi, messi lì soltanto a procurar battaglia dai pezzi grossi della malavita, che dal caos hanno sempre tratto le loro ricchezze. La carica partì, cercando di sconquassare la resistenza, che non poté far altro che indietreggiare sotto i colpi disordinati e feroci delle manganellate.
Lo stato, in combutta silente con malavita e industriali, aveva lasciato che ci inondassero di rifiuti, per anni e anni, e al momento la sola risposta che ci fornì, arrivò dal braccio armato dei suoi picchiatori.

4.
Due scatole di caffè, di quelle grandi in confezioni di latta, tostatura napoletana, il migliore, con altri due pacchi di zucchero. Poi un paio di forbici, un rotolo di scotch, un nastro e una carta per confezioni regalo.
Le mani di mia madre ponevano tutto con risaputa simmetria; aveva sempre portato zucchero e caffè quando andava a far visita alla famiglia di un defunto, una vecchia tradizione. Ultimamente ne circolava tanta di questa merce; di morti a cui far visita ce ne erano ogni mese. Alla televisione avevano detto che il tasso di mortalità nella zona era salita del settantacinque per cento, qualcuno diceva di più, e il cancro era passato a far visita a ogni famiglia.
Mentre era in cucina, nel pomeriggio d’inverno della casa vuota, a comporre la confezione dei morti, aveva già il male in corpo; e fu come prepararlo per sé stessa.

5.
Avete mai visto uscire le fiamme dalla terra? E non parlo di qualcosa di infiammabile, che per mano di qualcuno o per combustione naturale avesse preso fuoco, ma della terra stessa resa infiammabile.
Le lingue di fuoco afferrarono anche me, in una mattina d’autunno, venute fuori dall’asfalto, a ghermire le caviglie. Restai bloccato, nel bel mezzo di un incrocio, nell’ora di punta, mentre intorno, un groviglio di clacson e carni in scatola parlanti imprecavano nelle proprie bare a quattro ruote.
Le fiamme cominciarono a innalzarsi e ad avvolgermi, come le fruste di un domatore, mentre tutti presero a fissarmi, senza muoversi, morbosamente attratti, immobili, a vedermi soffocare e morire. E i bambini dalle scuole si affacciarono per vedere la torcia umana che ero diventato, nel silenzio sopraggiunto e improvviso, di quella strada che non aveva memoria di un così tragico avvenimento.
Il fuoco mi aveva ormai avvolto, e l’asfalto iniziò a spaccarsi, con lunghe e sottilissime crepe, che si diramavano verso tutte le direzioni dell’incrocio, per poi moltiplicarsi, all’incontro di altre strade, e così via per tutta la città, che in breve tempo si ritrovò squarciata e illuminata da vampe infernali. Le strade divennero burroni di lava e i corpi ad annegarci dentro, che si torcevano su sé stessi, maledicendo Dio e tutto il creato.
E di colpo mi risvegliai, già morto.

“Londra. Una biografia” di Peter Ackroyd

«Londra oltrepassa confini e convenzioni. Contiene ogni desiderio o ogni parola mai pronunciata, ogni gesto o azione mai compiuti, ogni affermazione nobile o insensibile mai pronunciata. È senza limiti. È Londra infinita».

Quella di Ackroyd è un’impresa monumentale: attraverso una vastissima bibliografia, in un fitto tomo di quasi 700 pagine, viene cantato, nero su bianco, il suo amore incondizionato per la capitale inglese.

Londra, con il suo Big Ben, Trafalgar Square, lo «scuro Tamigi», Westminster Abbey, St. Paul’s Cathedral, ma non solo, con i suoi ponti, i suoi vicoli, le sue strade, addirittura le sue botole, viene raccontata a partire dal Giurassico fino ai giorni nostri, attraverso aneddoti, leggende, protagonisti, citazioni di personaggi illustri. Si ha l’impressione che non vi sia angolo della capitale inglese che non venga descritto o raccontato.

L’arte narrativa dell’autore è tale da farci scordare immediatamente la metropoli moderna a cui siamo soliti pensare, e trascinarci in un viaggio attraverso le epoche storiche, per veder cambiare Londra sotto i nostri occhi, trasformarsi, crescere, degradarsi, distruggersi, e risorgere ogni volta a nuova vita.

Dal mare giurassico che la ricopriva, ai ritrovamenti di fossili di mammut e di rinoceronti nelle sue pietre, ai dubbi più o meno fondati sulle origini troiane della Londinium romana, agli scandali della Londra Elisabettiana, e attraverso l’epoca vittoriana, giungiamo infine alle Londra delle due guerre mondiali, agli anni Settanta e alla nascita del punk, al capovolgimento yuppy degli anni Ottanta, fino agli ultimi riferimenti legati alla Londra di fine Novecento.

Più di un critico ha definito questo libro una vera e propria Bibbia della città, dal momento che la capitale inglese e la sua intera esistenza vengono analizzate al microscopio sotto ogni punto di vista: storico, geografico, politico, sociale, culturale.

Per far questo, Ackroyd abbandona la scelta limitante di un unico genere letterario, e completa il senso di ricchezza e complessità della narrazione passando dal romanzo al racconto, dal saggio biografico a quello storico, senza mai diventare banale o lezioso.

La mole di informazioni, citazioni, riferimenti bibliografici è esorbitante, ma rende l’idea del lavoro incredibile alla base di quest’opera immensa.

Avete già visitato Londra, ma volete uno sguardo completamente nuovo sulla città? Oppure state per visitarla, e volete conoscere qualcosa che nessuna guida, nessun altro libro, probabilmente addirittura nessun londinese saprebbero raccontarvi, sulla capitale? Ecco, questo è in assoluto il libro che fa per voi. Ma armatevi di pazienza: la storia di Londra è molto più lunga e molto più contorta di quanto possiate immaginare…


(Peter Ackroyd, Londra. Una biografia, trad. di Luca Cafiero, Neri Pozza, 2013, pp. 691, euro 22)

“Giulio Cesare – Julius Caesar” di Vincenzo Manna e Andrea Baracco

«Cesare, guardati da Bruto, attento a Cassio, non ti avvicinare a Casca, tieni d’occhio Cinna, diffida di Trebonio, bada a Metello Cimbro, Decio Bruto non ti ama, hai fatto torto a Caio Ligario. Un pensiero solo unisce questi uomini, ed è rivolto contro Cesare. Se non sei immortale, guardati intorno». Le parole di Artemidoro sussurrate fuori scena, aprono il Giulio Cesare – Julius Caesar di Andrea Baracco e Vincenzo Manna, già invitato a rappresentare l’Italia al Festival Globe to Globe 2012 dallo Shakespeare Globe Theatre di Londra e vincitore del Certamen Almgr-Off 2012.

La Roma sul palcoscenico è la città della lunga notte tra la vigilia delle idi di marzo del 44 a.C. e la disfatta di Filippi, una plumbea allucinazione del tramonto della Repubblica. Giulio Cesare, al culmine della sua carriera politica, riceve l’offerta della corona, Roma repubblicana cessa di esistere e si leva il vento della congiura. Nella riscrittura di Manna e Baracco, che tagliano personaggi e battute assottigliando il testo fino a renderlo uno strumento chirurgico affilato ed efficiente, Cesare non c’è. Al suo posto, ad accusare i fendenti di gesso di Bruto, Cassio e Casca, una poltrona nera sfondata, metafora di un potere sul quale tutti si arrampicano o dentro il quale, vivi o morti, affondano.

La scenografia di questo spettacolo, in accordo all’opera di sottrazione operata, è quanto di più essenziale: tre porte scardinate che vengono percosse, verniciate, rovesciate, sollevate o, semplicemente, portate avanti e indietro sulla scena dagli stessi attori per ricoprire contemporaneamente il ruolo di quinte, oggetti di scena e soglie simboliche incapaci di dividere completamente il mondo reale dei corpi da quello sottile dei pensieri.

I pensieri, infatti, invadono la scena e giganteggiano, non nelle parole, urlate o sussurrate in obbedienza a un intonazione visionaria e distante dal testo, ma nei corpi sbattuti, sofferenti, contorti che sono investiti del compito di dare senso a quanto le bocche pronunciano. Una prova d’attore a tutto tondo per mettere in mostra la tensione dei congiurati – uomini travolti dall’invidia o ultimi romani? – che patiscono per un impossibile sollievo da ricercarsi nella morte dell’ineguagliabile Cesare.

Freddo, delirante, onirico, simbolico questo Giulio Cesare – Julius Caesar che ricorda le atmosfere tipiche del teatro di Eimuntas Nekrošius, offre una rilettura del testo shakespeariano davvero interessante sorretta, laddove le elisioni rischiano di confondere certo e incerto e di far perdere spessore soprattutto alle figure femminili, dalla fisicità di Ersilia Lombardo, dall’intensità espressiva di Roberto Manzi, perfetto nel ruolo di Cassio, e dalla capacità di Giandomenico Cupaiolo di sottolineare, nel delirio, luci e ombre dell’animo umano.
 


Giulio Cesare – Julius Caesar
di William Shakespeare
adattamento di Vincenzo Manna e Andrea Baracco
regia di Andrea Baracco
con Giandomenico Cupaiuolo (Bruto), Roberto Manzi (Cassio), Ersilia Lombardo (Calpurnia), Lucas Waldem Zanforlini (Casca e Ottaviano), Livia Castiglioni (Porzia), Gabriele Portoghese (Marc’Antonio).
 

Prossime date
Roma – Teatro Vascello, dal 21 gennaio al 2 febbraio 2014
Arezzo – Teatro Mecenate, 5 febbraio 2014
Verona – Teatro Camploy, 20 febbraio 2014
Vicenza – Teatro Comunale, 21 febbraio 2014
Padova – Multisala Pio X, 25 febbraio 2014
Foggia – Teatro Del Fuoco, 19 Marzo 2014
Putignano (BA) – Teatro Sala Margherita, 20 Marzo 2014
Taranto – Teatro Tatà, 21 Marzo 2014

“Messaggero d’amore” di Leslie P. Hartley

Diciamo la verità, difficilmente nella grande bouffe del recente Più libri più liberi un titolo come questo Messaggero d’amore (Nutrimenti, 2012), più da collana Harmony, è vero (ma come rendere altrimenti in italiano il molto meno zuccheroso The go-between dell’originale? Pensate solo per un attimo all’orrore di un letterale «quello che va frammezzo»…!), avrebbe attirato la nostra attenzione, se, con abile mossa di marketing, l’editore di questa nuova traduzione del libro uscito nel 1953, non avesse provveduto a darle il titolo escogitato, più di trent’anni fa, dalla distribuzione italiana del fortunatissimo, fascinoso film che ne aveva tratto Joseph Losey.

Ecco dunque innescarsi la prevedibile scommessa: che, come nel novanta per cento di casi simili – non ultima, la reincarnazione televisiva, in una pur brava Valeria Puccini, di un’Anna Karenina inspiegabilmente travolta nella rovina dietro a un Vronskij di sconfortante insulsaggine, anche fisica–, l’originale letterario dovesse dimostrarsi sensibilmente, quando non astralmente, migliore.

Previsione rispettata, e scommessa vinta: per glamorous che potesse essere lo sguardo di Losey, per regale che potesse rifulgere l’anglica femminilità della Christie, niente vale la finezza introspettiva, la pregevole castità di tocco, la raffinata allusività di costruzione (pur non con qualche stonatura snobistica, quando il protagonista si sforza di aderire in toto al razzismo sociale dei suoi nobili anfitrioni, e si bea ad assaporarne gli ingessati rituali di convivenza) di questa narrazione.

Niente, e soprattuto la sublime trasparenza del nondetto (siamo nel 1953, non lo si dimentichi: in Inghilterra esiste ancora il reato capace di spedirvi a scrivere il De Profundis nel carcere di Reading…). Perché solo a un primo, e più superficiale livello, l’intreccio di base del romanzo è quello classico della ragazza di ottima famiglia, Marion, promessa a un uomo che non ama, Hug, fregiato sì del titolo di visconte, e pure di una deturpante cicatrice di guerra sul viso, ma legata sentimentalmente a un più aitante rappresentante delle classi umili, il di lui fittavolo Tom; e l’io-narrate Leo, all’epoca tredicenne, invitato in vacanza dal fratellino di Marion che è in collegio con lui, si trova coinvolto nella storia fra i due in quanto finirà a fare da tramite tutt’altro che inconsapevole dei loro messaggi d’appuntamento, nelle torride giornate di un luglio sul crinale del secolo.

Ma a una lettura appena più avvertita, l’avvenenza fisica della sororale fata-Marion, subito idoleggiata da Leo (reduce, nel flashbackd’apertura, da un’esperienza di angherie collegiali che avrebbe potuto figurare nel Giovane Törless di Musil: salvo a cavarsene con un abracadabra alla Harry Potter), finisce per trasparire come nient’altro che una più presentabile motivazione da cui il ragazzino venga condotto all’incontro con la trionfante caratura virile di Tom.

Una dimensione, quella del fittavolo, a un tempo paterna (è a lui che il protagonista, cui non resta che una smanceriosa, algida madre, chiederà, inesaudito, di spiegargli come funziona quel tipo di faccende là…) e cameratesca (la memorabile scena in cui, sotto gli occhi ammirati di Marion, una presa del ragazzino, inopinatamente promosso sur-le-champ da riserva a giocatore di una partita di cricket, toglierà a Tom la vittoria già di fatto sua), ma di certo, fino dalla scena d’esordio del bagno nel fiume, di sobrie, eppur nitidamente delineate, connotazioni corporee.

Questo accende di bagliori assai meno mielosi il mai dichiarato motivo per cui Leo – ribaltando, a un certo punto, il suo ruolo di go-between – porterà l’inteccio a una katastrophé ben diversamente distruttiva di quella che aveva coinvolto i due collegiali angariatori. Questo, infine, aiuta a vedere nella giusta luce la predica che, nelle ultime pagine del romanzo, una Marion sull’orlo dei novant’anni farà allo scapolone sessantenne Leo («avresti dovuto sposarti, Leo, sei inaridito dentro […] non senti il bisogno dell’amore?»), in difesa, sicuramente, della liceità del legame interrotto mezzo secolo prima («…non c’era niente di cui vergognarsi […] niente che potesse offendere nessuno»), ma soprattutto del fatto che «non esiste […] maledizione eccetto un cuore che non ama». A buon intenditor…

(Leslie P. Hartley, Messaggero d’amore, trad. di Marilena Renda, Nutrimenti, 2012, pp. 368, euro 19,50)

“La scuola degli idioti” di Marco Onofrio

Invettiva, indignazione, incazzatura. Denuncia contro una società di creduloni, baciaculi di professione, venditori di fumo e professionisti dell’incanalamento nella retta via, dell’omologazione, dove i sogni sono assenti. Questi gli elementi che saltano immediatamente agli occhi del lettore ne La scuola degli idioti (Ensemble, 2013) di Marco Onofrio, una silloge di sette racconti in cui prevalgono la critica e la rivolta morale. Siamo dinanzi a un autore che, con fare gaddiano è spinto, come scrive Paolo di Paolo nella prefazione, «a umiliare chi umilia, a inchiodare chi strafà, chi spadroneggia, chi si conforma». Attraverso una scrittura libera dagli schemi, quasi sperimentale, Onofrio rende il lettore partecipe del suo bisogno di libertà ma anche di tenerezza accompagnandolo, tuttavia, nelle sue storie con un linguaggio ironico e dissacrante.

È il caso di tale Mammoni, scrittorucolo di mediocri best-seller, che è fatto a pezzi insieme ai suoi volgari lettori. L’ex-giornalista, ora “brillante” prosatore, scrive Giallo gabinetto (da qui il titolo della storia), un romanzo sul quale «eruttare un fiume di merda a profusione» è forma di critica e divertissement sia per Onofrio che per chi legge. Stesso sarcasmo lo si ritrova in “Multiproprietà”, storia nella quale una coppia vince un «buono vacanza all inclusive» che si rivela poi essere l’acquisto della multiproprietà in questione «con interessi pari pari ai “cravattari”». Qui troviamo un protagonista alle prese con un addetto alle vendite tanto ottuso quanto triste: «Provo appena ad interromperlo… per vedere se è davvero umano, visto il dubbio che, in proposito, mi è venuto scaturendo mano mano, e che non voglio ammettere del tutto…». Ma il lavoro di Onofrio è intriso anche di tenerezza, come nel racconto “Maiale d’asfalto”: un suino è a terra, in agonia, con un fianco imprigionato nell’asfalto, una bimba si avvicina per accarezzarlo sulla testa e l’epifania tra scrittore e lettore è compiuta. Più in generale, facendo riferimento al titolo del libro (anch’esso preso da un racconto), si può dire che lo scrittore parla di noi, delle imposizioni errate e castranti che è costretto a subire ogni individuo da parte di altri individui “idioti”: dalla sfera familiare, passando per quella scolastica fino ad allargarsi alla società tutta. Nonostante ciò, anche nella rassegnazione e nella consapevolezza di tale bruttura, ci viene offerto uno spiraglio di luce attraverso il desiderio di cambiamento e novità.

Onofrio, grazie anche alle molteplici esperienze accumulate nella critica letteraria, la narrativa, la saggistica e la poesia, porta il lettore su e giù, come in un luna park, con una prosa ricca e ricercata che all’improvviso deflagra in espressioni degne dell’italietta nostrana e conseguentemente iperrealistiche. Chi si avventurerà nella lettura di questa gradevole antologia, si ritroverà tra le mani un libro nel quale il malcontento, la voglia di riscatto e l’invettiva convivono con momenti di speranza e dolcezza.

(Marco Onofrio, La scuola degli idioti, Ensemble, 2013, pp. 140, euro 15)

“Chi muore prima” di Massimo Gardella

Una cittadina di provincia afflitta dalla crisi, il paesaggio monotono e nebbioso della pianura padana, una scuola superiore piena di studenti apatici e disinteressati. E cinque suicidi.

Questa la premessa dell’ultimo romanzo di Massimo Gardella, Chi muore prima (Guanda, 2013), che combina sapientemente tutti gli ingredienti necessari a comporre un buon giallo.

Cinque studenti dello stesso istituto vengono trovati impiccati nel giro di due giorni: uno dopo l’altro, in modo sistematico e inaspettato, scelgono di togliersi la vita senza alcuna motivazione apparente, diventando in breve tempo un caso mediatico.

A portare avanti le indagini troviamo l’ispettore Remo Jacobi, costantemente afflitto dal senso di colpa per la prematura morte della figlia e il conseguente divorzio dalla moglie. Ben presto le indagini si trasformeranno per lui in un estenuante viaggio fra gli incubi del suo passato: sarà dunque il suo vice Antonio Borghesi a portare a termine il lavoro, con l’entusiasmo e l’energia che solo l’inizio di una promettente carriera possono conferire.

Completano il quadro i genitori dei ragazzi, troppo distratti per accorgersi dei disturbi dei propri figli oppure addirittura infastiditi dai loro problemi, dal loro essere, ognuno a suo modo, “diversi”: emarginati all’interno di una scuola fatta di professori cinici e poco interessati all’educazione degli alunni e di bande di teppisti detentori di un potere pressoché assoluto all’interno della struttura.

Un contesto in cui è facile che un suicidio venga considerato come una lecita soluzione ai problemi dell’adolescenza, una società che preferisce trovare giustificazioni piuttosto che rimedi, in una vita che altro non è che un «conto alla rovescia».

La prosa di Massimo Gardella è lineare e piacevole, stimola la curiosità in maniera non eccessiva né morbosa, conducendo il lettore verso la risoluzione del caso con estrema naturalezza. Più introspettivo di un normale giallo, Chi muore prima non si limita a un’incalzante narrazione che insegue il tanto atteso finale, ma si sofferma su una delicata analisi di ciò che si nasconde dietro i personaggi, in particolare l’ispettore Jacobi.

È anche attraverso la sua costante malinconia che ci troviamo ad accompagnarlo e a essere a nostra volta guidati verso le pagine conclusive di questa storia, di questo mistero per il quale forse non è possibile trovare una vera risposta.

(Massimo Gardella, Chi muore prima, Guanda, 2013, pp. 285, euro 17,50)

“I segreti di Osage County” di John Wells

L’Oklahoma è uno stato della regione del Midwest degli Stati Uniti, quella zona detta delle Great Plains per le sue sconfinate pianure e i campi di granturco, i pochi abitanti negli sporadici centri abitati e un clima che d’inverno vede i meno venti e d’estate conosce i quaranta gradi. È nell’estate di una delle settantasette contee dell’Oklahoma, quella di Osage, che la famiglia Weston si riunisce per la prima volta in tanti anni in I segreti di Osage County, film diretto dal produttore e sceneggiatore John Wells su un testo del premio Pulitzer Tracy Letts.

Il motivo per cui i Weston si riuniscono a Osage County dalle varie parti degli Stati Uniti è la sparizione del patriarca, Beverly, anziano professore dedito all’alcol e alla poesia che un giorno ha lasciato a casa la moglie Violet, malata di cancro alla bocca e dipendente dagli antidolorifici, con la cameriera Johnna per non tornare più, senza dire niente. Verso la casa di famiglia si muove quindi la figlia Barbara assieme al marito e alla figlia Jean, e l’altra figlia Karen con fidanzato (di turno) con Ferrari, per aiutare la madre, l’altra sorella Ivy e gli zii nelle ricerche. Si capirà in fretta che Beverly si è suicidato. La scomparsa del padre e la convivenza coatta nei giorni del lutto sotto lo stesso tetto faranno esplodere tensioni familiari sopite dai vari allontanamenti, portando soprattutto Violet e Barbara a un confronto definitivo.

Nel convertire la sua pièce teatrale in un copione per il cinema, l’autore Tracy Letts ha richiesto alla produzione che le riprese si svolgessero interamente in Oklahoma per rendere al meglio quelle condizioni ambientali che ha sempre inteso come personaggio aggiuntivo nel testo e che a teatro non era stato possibile rendere.

Come nel recente Nebraska di Alexander Payne, il paesaggio pianeggiante e infinito delle Great Plains influenza e sconvolge la vita dei suoi abitanti, il loro modo di intendere la vita e di opporsi ad essa. Perché quello che emerge da I segreti di Osage County è il senso di una lotta impossibile contro lo scorrere del tempo, sempre uguale nella piattezza delle pianure, di una resistenza inutile e stoica dell’uomo alla vita che sconvolge. «La vita è molto lunga» è la citazione da Gli uomini vuoti di T.S. Eliot che apre il film. Una frase semplice e inesorabile che indica una vita come condanna all’enormità dell’indefinito, come sguardo impossibile e perenne dell’uomo sull’ignoto. «Se si potesse vedere il futuro non ci alzeremmo dal letto la mattina», dice Barbara, interpretata da una Julia Roberts di una bravura impressionante, andando sulle tracce del cadavere del padre. Ma il futuro non si può vedere, l’uomo è libero di determinarlo, e nella condanna alla libertà c’è la necessità della responsabilità dell’azione umana. È per sottrarsi alla responsabilità di figlia che Barbara ha lasciato Osage, per sfuggire allo sciagurato accordo di sopportazione tra un alcolizzato e l’impasticcata Violet – una Meryl Streep di cui è diventato ormai banale lodare lo sconfinato talento nel saper diventare chiunque sullo schermo –, lasciando Ivy sola a sopportare lo sbando parentale. È per rispondere alla responsabilità di figlia che torna e combatte la madre e le sue dipendenze, ponendosi al comando al posto del padre, caricandosi i segreti del titolo e cercando di distribuire silenzi a chi pretende verità. È per rispondere alle responsabilità verso se stessa che sarà chiamata alla scelta finale.

Prodotto dalla Smokehouse di George Clooney e Grant Heslov, I segreti di Osage County è un film scritto meravigliosamente bene, attraversato dal ricordo della migliore drammaturgia statunitense, capace di alternare i registri con potenza di impatto, come dimostra la lunga e complessa sequenza della cena che raduna tutto il vasto cast (Ewan McGregor, Benedicht Cumberbatch, Abigail Brieslin, tra gli altri) intorno alla tavola. Alla seconda prova da regista dopo The Company Men, John Wells si dimostra ottimo direttore degli interpreti e molto abile nell’integrare l’elemento ambientale con il testo di Letts.

Non si capisce cosa abbia spinto l’Academy a destinare a I segreti di Osage County solo due candidature per le sue straordinarie attrici. Una menzione per la sceneggiatura non originale e la fotografia di Adriano Goldman sarebbero state sensate.

(I segreti di Osage County, di John Wells, 2013, drammatico, 120’)