“Giovani” di Daniela Brogi

Giovani. Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra di Daniela Brogi (:duepunti, 2013) si apre con una riflessione sulla giovinezza, che rischia di ridursi a combustione di energia senza un progetto di lunga durata, senza una precisa definizione. La centralità letteraria ed esistenziale della giovinezza come età di cambiamento e apertura alle possibilità della vita è il filo conduttore di un percorso originale di ricerca che ha caratterizzato la generazione di Pasolini, Calvino, Cassola: il voler abitare in un mondo all’altezza di questo slancio, dando corpo a ideali e visioni, con l’intenzione di formulare un dialogo fra l’età adulta e quella giovane.

Nel primo saggio, Daniela Brogi realizza un attento ritratto della gioventù di Romano Bilenchi, studiando la parabola umana di un autore che aderì attivamente al fascismo, soprattutto quando esso fu un movimento, definito dallo stesso Bilenchi, nel 1934 «più rivoluzionario di Mosca». L’insistenza con cui si è cercato di far passare il fascismo come un fenomeno culturale di superficie è confutata dalle accese parole di Bilenchi: «Il fascismo è un misticismo, ma è impossibile elencarlo in un sistema filosofico». Prima d’altre definizioni, il fascismo è movimento culturale per imporre un sentire naturalizzato, un movimento alla rifondazione della società. «Come tutti i buoni fascisti», l’io di Bilenchi scrive a nome di una totalità, non una vita collettiva, ma vita di gruppo connotata in senso battagliero e generazionale.

Il fascismo naturalizzato – «quel che più conta è il richiamo di Mussolini, e pronunciano questo nome tremando di fede» – diventa volontà di potenza individuale fra le frange della gioventù più consapevole della storia che rivendica il proprio potere decisionale nella società. Difatti, l’immagine del fascismo che si basa proprio sulla capacità di rappresentazioni molteplici conferma che Mussolini non fosse un’infatuazione, ma l’immagine di un capo rivoluzionario e liberatore che attecchisce in modo profondo nell’inconscio politico della gioventù, diventando per Bilenchi una tensione, più che un’illusione esaltata.

Il secondo saggio è incentrato sul dialogo serrato fra Il postino suona sempre due volte di James M. Cain  e il filone narrativo di Ossessione e Paesi tuoi, mostrando il lavoro sulle interferenze e sullo scambio fra diverse forme e discipline. Incrociare significa pensare che gli scenari della narrativa pavesiana nascono nel medesimo territorio per cercare nuovi modi di sperimentare e raccontare il legame fra individui e paesaggio: la Brogi analizza le trame di Pavese alla luce dell’influenza dei narratori americani, Caldwell, Steibeck, Faulkner, nei quali lo scrittore cerca il ritmo del narrare, ammettendo che la critica non pensò subito a Cain. È un’analisi che si lascia apprezzare per la precisione dei percorsi: dopo aver spiegato le tre modalità in cui letteratura e cinema sono stati messi a confronto (il film come trasposizione, il film come testimonianza di un certo modo di intendere un tema, la letteratura come imitazione del cinema), Daniela Brogi ragiona sulle interferenze e gli incroci da cui nascono i film neorealisti italiani, sulla volontà di Pavese di trovare una fluidità fra il cinema e la letteratura ne La bella estate (1949).

Il terzo saggio, dedicato a Fausto e Anna di Cassola, riflette sulla figura del partigiano che emerge nel romanzo, quella del dubbio e della consapevolezza che l’appartenenza ideologica non soddisfi il senso umano di una vicenda. Cassola sa bene da che parte stare, eppure nell’universo fittizio del romanzo amplifica il senso di disagio di fronte a risonanze emotive e dubbi esistenziali, confidando con grande delicatezza il sentimento di amore per la vita semplice del partigiano, aprendo la possibilità di dare un senso a una vicenda umana a cui lo stesso è difficile trovarlo. Fausto è l’alter-ego di un giovane studente emulo di Joyce, che attacca i valori borghesi e decide di partire come partigiano, Anna lo ama ma è considerata ai suoi occhi troppo semplice. Nel libro, Cassola confessa il reale dissidio fra le aspettative e le reali condizioni e prefigura l’adesione all’antifascismo come scelta per colmare un vuoto, ma ancora, l’esperienza che si deposita nel personaggio lo porta a una continua ricerca personale, che approda alla scelta di scrivere.

È un modo di raccontare di sé e di un’epoca mettendo al centro l’esperienza della guerra, ma senza esaurire in essa il significato di una vita, grazie alla presa di distanza dalla retorica degli «eroi del nostro tempo» e all’uso di forme espressive più sperimentali sia nelle tematiche (l’assenza dell’amore per Anna, la cronistoria familiare della piccola borghesia) sia nell’imitazione controllata da parte di Cassola dei modi di Joyce. (È ingenuo Fausto, non l’autore). L’intenzione di «raccontare il moto della vita» va oltre il naturalismo ottocentesco e lo stile sperimentale per cui la trama è flusso sconnesso, la dialettica di durata si contrappone alla progressione, l’immobilità al movimento colgono l’impossibilità del dire il reale in modo fisso. Ovvero la coscienza dello scrittore elabora per strati la narrazione, dilatando, evocando, il tempo, vero protagonista della trama, espresso da immagini colte nell’«immobilità apparente piena di moto sostanziale».

Il quarto saggio indaga invece l’idea di patria di Pasolini, la poesia Alla mia nazione come una confessione in pubblico della propria passione, un investimento oggettuale verso l’idea di nazione, attraverso il mito del popolo italiano, a cui segue la lucida presa di posizione di fronte all’evidenza che quell’Italia non esiste più e il conseguente abbandono della poesia, a causa della perdita del destinatario che chieda poesia. Anche in questo caso, la Brogi considera seriamente il progetto di rinnovamento che la poesia di Pasolini ha rappresentato.

L’autrice è sensibile nel cogliere i tratti di confluenza fra cinema e letteratura, ampliando l’ambito degli studi, cercando nella giovinezza – contenitore organico di esperienze eterogenee – continui specchi sia di ricerca che umani.

(Daniela Brogi, Giovani. Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra, :duepunti, 2013, pp. 296, euro 15)

“L’estro del male” di Alberto Paleari

Dicono che certi libri sono come film. L’estro del male (E/O, 2013) è uno di questi. Si potrebbe quasi osare un parallelismo televisivo: addentrandosi nella storia del «Mostro della Stretta Bagnera» la mente richiama la storia di Dexter e del suo“dark passenger”, che gli amanti del genere sicuramente conosceranno.

Un accostamento spontaneo non tanto per la storia narrata, quanto invece per una sorta di immediata empatia del lettore nei confronti del mostro.

Con abile scrittura Alberto Paleari ci presenta subito il suo protagonista, Antonio Boggia, e la sua storia. O meglio: la sua fine. Le ultime ore del Togn sono il punto di partenza in cui lo spettatore viene posto. “Una notte lunga una vita”: un uomo, anzi, un vecchio chino sul banco di una chiesa cerca conforto per la sua anima. Questa è la prima immagine che prende vita sotto lo sguardo del lettore, la voce di una sentinella posta a guardia del sagrato anima la scena: «“Quello non è un semplice tagliagole. […] Nan, quell’uomo è molto, molto di più. È Boggia”».

Un’infanzia povera, un padre incapace di mostrare affetto e dai modi violenti, una “passione” innata: osservare l’attimo esatto in cui la vita, con il suo ultimo barlume, abbandona per sempre un corpo.

L’anno è il 1861, l’Italia unitaria ha appena visto la luce, cullata dai tumulti, dalla povertà e da un’amministrazione traballante che dovrà ricercare il suo boia tra i macellai della campagna torinese. Le vicende narrate sono quelle del primo serial killer della storia italiana e si snodano negli anni immediatamente precedenti all’Unità d’Italia, concludendosi con essa.

Un noir storico che ci svela, attraverso perfetti e puntuali salti temporali, i come e i perché di una vicenda italiana. Paleari mostra, nel dettaglio, come non fosse stato il destino o una vita segnata da traumi a trasformare Antonio Boggia in un assassino. Ciò che guidava le azioni criminose del Togn altro non era che il suo forte desiderio di rivalsa economica, che nel romanzo assume le sembianze di una bella donna dalla voce suadente.

Pagina dopo pagina si assiste all’ascesa sociale di Boggia: prima muratore, carpentiere, poi imprenditore edile, amministratore. Oltre che marito e padre. Il lettore osserva le sue azioni descritte attraverso le parole di giudizi imparziali: quei testimoni che raccontano il vero “estro” che portò Boggia a impugnare scure e sega per fare a pezzi i cadaveri di quattro persone. Estro di cui lo stesso Togn parla durante il processo che lo porterà poi alla condanna:«“C’era una scure e una sega. Lì mi saltò un estro: d’un tratto presi la scure e la vibrai con tutta la forza sulla testa della Perrocchio”».

Un uomo all’apparenza tranquillo, dai modi calmi e osservatore dei precetti religiosi: così descritto dai medici che lo dimetteranno dalla Senavra, il manicomio pubblico di Milano. Così descritto da quelle stesse persone che poi accorreranno sotto il patibolo cariche di indignazione.

Non solo la narrazione storica dunque, ma anche un’indagine su quelle che sono le zone d’ombra della mente umana, sull’ipocrisia del potere e sulla morbosità delle masse. Un romanzo basato sulla ricostruzione di un caso giudiziario e di un’epoca temporalmente lontana da noi, ma forse non poi così tanto nelle sue vicende.


(Alberto Paleari, L’estro del male, E/O, 2013, pp. 327, euro 18).

“Between Dogs and Wolves” di Piers Faccini

Sono particolarmente legato alla musica di Piers Faccini. È stata la mia prima recensione e rileggerla ora, a distanza di quasi due anni, mi fa un effetto strano. Quel disco mi era proprio piaciuto, così tanto che l’amica che me l’aveva prestato ancora non l’ha riavuto indietro.

Se Two Grains of Sand rappresentava l’inizio di un percorso di sperimentazione, fatto di folk-rock e contaminazioni blues, My Wilderness era stata una bella conferma: il sound si era fatto più caldo e delicato, quasi morbido, mentre alla chitarra acustica veniva di volta in volta accompagnata una tromba o un pianoforte. I testi, invece, rimanevano originali e piacevoli.

Dopo due anni di assenza e un lungo tour in gito per il mondo, lo scorso ottobre è uscito il quinto album di Piers Faccini, Between Dogs and Wolves. Se da un lato c’è una certa continuità con i dischi precedenti, non manca qualche elemento di rottura: alla solita delicatezza della musica e all’ormai consolidata carica emotiva dei testi, si accompagna un’atmosfera più cupa. In quasi tutti i brani c’è una malinconia di base, una tristezza velata che accompagna l’ascoltatore in una dimensione parallela. È il caso di “Feather Light”: la voce intensa di Piers canta: «So tired of falling here come the calling / but still you won’t reply / weary of wainting yours for the taking / I’ve nowhere left to hide».

Il livello è, però, sempre alto e coinvolgente. Questo contrasto tra luce e ombra, speranza e illusione si manifesta chiaramente in “Black Rose”. Non mancano, inoltre, rimandi alla musica celtica e alle ballate medievali.

La bravura di Faccini e la capacità di emozionare è palese, anche quando decide di cantare in francese in “Reste La Marée”.

Per la prima volta, il cantautore inglese propone anche un brano in italiano, “Il cammino”: le origini lo aiutano parecchio, non c’è il minimo difetto di pronuncia e le parole entrano dritte nell’anima.

L’album è un percorso fatto di contrasti, intimista. Faccini è capace di creare melodie sensuali e trasparenti, ma in certi momenti rischia di essere troppo cupo. I fan italiani potranno ascoltarlo nella seconda metà di marzo quando sarà protagonista di un tour tutto italiano e, oltre a suonare a Roma, Milano e Bologna, toccherà un po’ tutto lo stivale. Sarà l’occasione per scoprire questo cantautore ancora troppo poco conosciuto e apprezzare un album che, nel complesso, sa emozionare.


(Piers Faccini, Between Dogs and Wolves, Beating Drum, 2013)

 

 

“Triestiner” di Massimiliano Forza

La prima volta che vidi Trieste lo feci con la voce e gli occhi di mia madre che mi raccontavano la città che aveva visto da ragazza e mi parlavano di una gente triestina «nevrotica, nervosa, per colpa della bora», «raffinata, aristocratica, per merito della vicinanza con l’Austria», «orgogliosamente italiana, per tutto quello che è stata la lotta risorgimentale».

Quando poi ho potuto finalmente visitare con i miei occhi la città, meta agognata di un viaggio in diagonale tra la Toscana, l’Emilia, il Veneto e il Friuli, mi è apparsa come un coacervo di strade in salita che affondavano il peso in un declivio non delicato ma solidissimo, dai tratti nobili e forti, ma che abbracciavano il mare con una dolcezza antica.

Così trovandomi fra le mani Triestiner (Santi Quaranta, 2013), di Massimiliano Forza, ho pensato a un libro che mi riconducesse in quelle atmosfere, mi rifacesse sentire quel vento fortissimo che soffia solo nella città di Svevo, che non ti accarezza mai ma ti abbraccia anche se credi ti stia spingendo via.

Ti accorgi invece che i triestiner, di cui ci parla l’autore nel suo libro, hanno un’aria totalmente diversa dai triestini che avevo conosciuto e immaginato, e non solo perché emigrati in una paese lontano. Non sono una cosa sola ma tante cose insieme. Sono indolenti, scanzonati, simpatici e poverissimi, per niente aristocratici. Un vivace gruppetto di triestini il cui vivere quotidiano si incunea tra le vie londinesi.
Quella sul Tamigi è una città che funge da palco e abbraccia le loro avventure spinte da un regista che si nasconde dietro a un muro per dilettarsi in nostra compagnia.

La Trieste da cui scappano questi emigranti è, invece, una città dalla “realtà imbalsamata”, non la mitteleuropea e vivace Trieste che abbiamo amato dai libri del primo Novecento.

I triestiner che da lì se ne sono andati,non cercano e non creano fortune: inseguono semmai spazi, libertà, movimento.

I personaggi di Massimiliano Forza sembrano usciti da un catalogo surreale (o iperrealista) della Commedia umana: calato il sipario gli uomini e le donne palesano tutta la loro interiorità. Non si preoccupano di mostrarsi fragili o algidi, incapaci di emanciparsi totalmente dalla loro città d’origine.

E infatti Trieste, amata e odiata, madre e matrigna, torna sempre nei loro discorsi (ora filosofeggianti, ora malinconici, ora divertenti o irriverenti). L’opprimente provincialità della città che gli ha dato i natali (in contrapposizione alla metropoli inglese, capitale europea del cosmopolitismo occidentale) diventa la prigione da cui si vuole e si deve scappare, e il nido da cui è impossibile emanciparsi.

I triestiner infatti fanno gruppo tra loro, in una comunità che chiude le porte alla City (e che le apre, semmai, solo per sbirciare dentro e prendere in giro), parla il proprio dialetto (e non l’inglese, passepartout dell’uomo moderno) e traduce il loro vecchio modo di vivere in uno nuovo, solo per imitazione.

«Lo stare a casa era per noi triestiner una filosofia, un’arte. Il non fare niente una naturale conseguenza dello “stare”».

Trieste è vista con antipatia, eppure è lì ovunque, in ogni cosa e ci rimanda a una città lontana dai luoghi comuni, dalla retorica, dal modo con cui noi “stranieri” la vediamo, o crediamo di vederla.

Londra è solo una metafora in fondo. Si fossero trasferiti a Roma, New York, Parigi o in un paese di montagna o ancora in un qualsiasi altro paese del mondo i triestiner di Massimiliano Forza sarebbero stati gli stessi, si sarebbero comportati in egual modo, avrebbero continuato a parlare, parlare, parlare.

E alla fine ci avrebbero detto molto, come ci dice moltissimo questo divertente, mordace, piacevolissimo libro.


(Massimiliano Forza, Triestiner, Santi Quaranta, 2013, euro 13) 

“Le avventure di Augie March” di Saul Bellow

Lo stile: respirazione

Parigi 1948. La città finalmente sente allargarsi i polmoni dopo una lunga crisi diangina pectoris, si riprende dal passo dell’oca, Céline ancora vaga fra un castello e l’altro, e Saul Bellow, fortificato dalle buone critiche sui suoi lavori precedenti, si mette a scrivere, Le avventure di Augie March.

Augie riflette l’aria libera della città; in ogni passo del romanzo si può leggere, in controluce, si può percepire, un respiro pieno e profondo dopo un’asfissia. Dall’inizio alla fine il racconto esprime ampiezza, spaziosità – anche quando descrive Chicago, le sue strade, i sobborghi, le violenze, le improntitudini della città – allargamento di orizzonti, visualità grandangolare. È come se il lettore venisse trasportato in un luogo dove non dovesse vedere niente, sentire, guardare, toccare, niente se non una vastità smisurata.

Bellow si trova a Parigi dopo il conseguimento di una borsa di studio del Guggenheim Institute, al quale ha presentato un progetto di romanzo del tutto dissimile da Augie. Ma il lavoro gli risulta difficile, non procede secondo le sue aspettative. A Parigi, città da lui non amata, cerca anche il tono, la cifra stilistica sua propria. Camminando un giorno per le strade della città, almeno così racconta egli stesso, si ferma a guardare un rivolo d’acqua che scende senza turbamenti, limpido e generoso. Un’epifania. Vuole scrivere come l’acqua. Senza interruzioni, con flusso corposo e compatto, senza sbavature o imperfezioni. Da quel momento lascia il vecchio progetto e inizia Augie March, che lo terrà occupato per altri quattro anni.

E l’opera è veramente un fluire ininterrotto e continuo. Sotto il segno dell’aria e dell’ampiezza.

Direi, anzi, che è proprio questo l’asse portante, il sintomo caratteristico della prosa di Bellow: l’estensione, la vastità della prosa, che alcune volte discende nella verbosità per poi risalire in un equilibrio che ha qualcosa di essenziale e inesprimibile. Nel suo magistrale saggio su Gerard de Nerval, Proust sentenzia:«…Ma tutto sommato, solo l’inesprimibile, solo quel che si credeva di non poter far entrare in un libro, resta in questo. Qualcosa d’indefinito e di ossessionante come il ricordo. Un’atmosfera… Questo inesprimibile, quando non l’abbiamo sentito, c’illudiamo che la nostra opera possa esprimerlo quanto quella di chi lo abbia sentito, perché in definitiva le parole sono le medesime. Ma esso non sta nelle parole, non è espresso: sta tutto tra una parola e un’altra, come la nebbia d’un mattino di Chantilly». Eccolo. È qui l’Augie March di Saul Bellow. Un’atmosfera di estremo stupore e di apertura, come quando si spalancano le porte finestre e si esce sul terrazzo a respirare l’aria dissennata della mattina.


Linee che si intrecciano

Le avventure di Augie March sono, in buona sostanza il recupero e la commistione di tutti i temi guida della narrativa americana. Quasi una sinossi delle linee, dei nuclei tematici. Ci trovi lo spazio di Melville, ma anche il suo sguardo epico, l’epopea di Cooper, il senso di una critica religiosità e della doppiezza proprio del più europeo degli scrittori americani dell’800, Hawthorne, ma anche l’azione del singolo, di chi grazie a essa e al racconto diventa quello che è: Jack London. Ci trovi l’adolescenza, con le sue atrocità e spensieratezze di Twain. L’oscurità di Poe, non il terrore, l’oscurità intensa come una coazione a distruggere, e a distruggersi. Ecco. Bellow, racchiude tutti questi motivi e ne svolge i capi, riannodandoli e formando, di conseguenza, una nuova trama, un nuovo soggetto, dal quale discende, volente o nolente, un’impostazione, un topos, che ha caratterizzato la narrativa statunitense, e anche quella occidentale fino ai giorni nostri. All’appello manca solo Fitzgerald. Lo scrittore che più di altri nel suo secolo, ha rinnovato le tradizionali tematiche letterarie americane, inserendo, il topos dell’incesto, del denaro, inteso come veicolo e prodromo di malattia mortale.

Non vi è niente di solido in Augie March. La dislocazione e l’instabilità sono le figure dominanti del romanzo, la composizione è un mosaico interconnesso di azione, ritrazione, riflessione, sentenze, appostamenti. Un quadro che sobbalza, come un’automobile su una strada accidentata, a ogni capoverso e che per metafora, fa pensare a un’instabilità insanabile. I linguaggi si presentano a strati, si intrecciano, facendo intrecciare anche i motivi, e lasciando sempre una vaghezza sostanziale, non della narrazione, né dei personaggi, bensì dello sfondo. È come se tutto si svolgesse all’interno di uno spazio – vastissimo – ma sfocato, in case composte da ombre. Sta qui la modernità di Bellow, il superamento e il rinnovamento della tradizione. In questa collocazione non chiara, nei personaggi in fieri, nelle ombre che vagolano per le stanze. Ma anche nell’intuizione di un profondo cambiamento che si è insinuato nelle città dell’occidente. In Bellow nessuna folla è massa. Egli comprende il mutamento genetico della massa, che, dopo la guerra – evento di massa par excellence, una massa al macello, una massa di morti, dalla quale solo gli individui si salvano, staccandosi da essa, e ritornando a casa sparpagliati, senza più la forza, la compattezza del reggimento – tende a disgregarsi in singoli individui.

Bellow individua un cambiamento epocale della massa in agglomerato di individui in attesa di un disvelamento. C’è un passo esplicativo di quando vado scrivendo. Egli incontra un signore che involontariamente con una battuta gli disvela, anche se solo per poco, il proprio mondo interiore. Eccolo. Per puro caso Augie si trova davanti alle proprie intenzioni anonime, che lo costringono a vivere come vive, ad agire come agisce, a pensare come pensa, grazie a un involontario disvelamento. È la stessa attesa che si può vedere in qualsiasi città occidentale, quando s’incrocia lo sguardo con un passante. Angosciato, in difesa da qualsiasi fallimento (anche una caduta in mezzo alla strada viene interpretata come una decozione), personale o sociale, in uno sforzo estremo di durevolezza e stabilità. Il soggetto è diventato piccolo, niente più giganti. È un individuo schiacciato, che non trova scampo se non nell’ironia.

È così che Bellow si ritaglia una posizione del tutto isolata in quegli anni. Egli guarda all’individuo e non alla collettività, e all’individuo agito dalla natura e non dalla storia. Nello straordinario saggio Studi sull’autorità e la famiglia, Max Horkheimer, fissa i puntelli della sua interpretazione sociale. L’uomo, l’individuo è composto di storia, non di natura. Niente, secondo Horkheimer, è immodificabile per ordine naturale, è la storia che l’ha lavorato in noi, conferendoci la visione del mondo che giorno dopo giorno sperimentiamo. Nel suo Augie March, Bellow sostiene l’esatto contrario. La natura lavora in noi incessantemente e segretamente. È evidente che la sua è una visione neoromantica, che si contrappone a quella materialista, ma egli la rinnova, riesce nell’intento di farle fare un passo ulteriore. Come? Mischiando le carte. Creando un corpo con tante gambe, un vero e proprio stilema, che dal neo romanticismo deriva: il postmoderno.


(Saul Bellow, Le avventure di Augie March, prima ed. it. Einaudi, 1962, trad. di Vincenzo Mantovani)

La collana Le strade di Fazi Editore

Per centrare il cuore della collana Le strade della casa editrice Fazi, di cui ci occupiamo questo mese, basta fare qualche nome: John Fante, Gore Vidal, Paula Fox, Alan Pauls, Elizabeth Strout, Boris Pahor, John E. Williams. O magari qualche titolo: A ovest di Roma – il libro che inaugura la collana nel 1997 –, Necropoli, Creazione, L’età dell’oro, Olive Kitteridge, Stoner.

Nata come uno dei primi progetti della casa editrice romana, Le strade ha in principio due orientamenti: occuparsi di letteratura anglofona; recuperare quei libri meritevoli che per sorte avversa o scarsa attenzione di editori e lettori sono finiti nel dimenticatoio.

Con l’aumentare dei titoli di prestigio si è allargata anche la sfera di interesse della collana: è così che entrano a far parte del progetto orinario anche libri di autori tedeschi, spagnoli e ispanoamericani, olandesi, giapponesi e, in maniera più ridotta, italiani.

La bravura nel saper cogliere l’attimo giusto e l’accuratezza della ricerca conducono così agli ultimi successi in ordine cronologico: Olive Kitteridge di Elizabeth Strout vince il premio Pulitzer nel 2009; Stoner di John E. Williams diventa un vero e proprio caso di rinascita editoriale che continua a destare interesse ancora oggi, a due anni dall’uscita in Italia e a cinquant’anni dalla prima pubblicazione negli Stati Uniti.

Successi a cui puntano anche i titoli italiani della collana: La città di Adamo di Giorgio Nisini e Cate, io di Matteo Cellini sono stati selezionati tra i finalisti del Premio Strega, il primo nel 2011, il secondo nel 2013.


Per meglio condurvi lungo queste “strade” vi proponiamo i nostri consueti tre titoli:

Butcher’s Crossing di John E. Williams: il secondo libro di questo magnifico autore dopo Nothing But the Night. Incentrato sul mito del selvaggio West, uno dei temi cardine della letteratura americana.

Necropoli di Boris Pahor: un libro sconvolgente sul campo di concentramento di Natzweiler-Struthof sui Vosgi, una testimonianza importante di chi ha vissuto ed è scampato alla tragedia dei lager.

Non ricordo se ho ucciso di Alice Laplante: un romanzo particolare, capace di trattare la malattia dell’Alzheimer attraverso un rocambolesco caso di omicidio. 

“Tutta colpa di Freud” di Paolo Genovese

Terza commedia italiana ad arrivare nelle sale in questo avvio di 2014 cinematografico. Dopo Sapore di te, operazione nostalgia dei Vanzina a trent’anni da Sapore di mare, e il deludente (seppur trionfale in termini di incassi) Un boss in salotto di Luca Miniero, è il turno del suo ex partner artistico Paolo Genovese declinare in chiave leggera la psicanalisi con Tutta colpa di Freud.

Francesco è uno psicanalista che ha che fare, quotidianamente, con tre pazienti particolarmente impegnative. Sara è un’omosessuale pentita dopo l’ennesima delusione d’amore che decide di tornare all’eterosessualità. Marta dirige una piccola libreria e si ostina dietro sogni d’amore impossibili ispirati dalle sue letture. Emma ha diciotto anni e un fidanzato di cinquanta, sposato ma apparentemente prossimo a lasciare la moglie per iniziare da capo con lei. Le ragazze sono le tre figlie di Francesco che, abbandonato dalla moglie partita al seguito di una vocazione umanitaria in Africa anni prima, le ha cresciute da solo facendo loro da mammo (sic), amico, confidente, mai padre severo ma sempre comprensivo e solidale. Accanto ai travagliati amori delle sue, ormai non più, bambine, Francesco ha una sua privata illusione sentimentale con una donna elegante e silenziosa che incontra tutti i giorni a passeggio con il cane.

All’origine di Tutta colpa di Freud c’è un soggetto scritto dallo stesso Genovese insieme a Leonardo Pieraccioni e Paola Mammini, che poi il regista ha sviluppato, oltre che come copione, anche nel romanzo che segna il suo esordio editoriale per Mondadori (Tutta colpa di Freud, 264 pagine).

Al contrario dell’andamento ormai abituale per le commedie commerciali italiane degli ultimi anni, Tutta colpa di Freud inizia male per migliorare nello sviluppo della trama. L’inutile, ridondante, ammiccante, terrificante auto-presentazione in voice-over dei vari personaggi di apertura lascia presagire il peggio, così come la raffica di stereotipi sull’amore, declinato come passione culturale per Marta (Vittoria Puccini) o sentimento omoerotico per Sara (Anna Foglietta), sparata subito dopo. E se l’introduzione del terapista Marco Giallini con paragone tra amore e raffreddore, che campeggia anche sulla quarta del libro, con tanto di riferimento ai fazzoletti usati come unica traccia che resta del sentimento che fu, stordirebbe anche il più navigato consumatore di Moccia o Volo, è proprio da quel momento che autorizzerebbe ogni fuga che il film raddrizza la propria parabola verso traiettorie di decenza, diradando il buonismo del padre perfetto e disperdendo il nucleo familiare nelle sottotrame sentimentali. A non funzionare, e a caratterizzare in negativo la prima parte del film, sono proprio le dinamiche tra sorelle, con Genovese in evidente difficoltà con dialoghi tutti al femminile. Quando i personaggi maschili fanno il loro ingresso in scena, a fianco di Giallini, lo scambio di battute si fa più fluido, divenendo addirittura brioso negli momenti con Alessandro Gassmann, il cinquantenne della figlia piccola.

Ambientato in una Roma da cartolina, tutta chiusa nel suo centro, senza eccesso da ufficio turistico ma comunque irreale, sprovvista com’è di ogni dimensione prettamente urbana, dal traffico in giù, Tutta colpa di Freud conferma la capacità di Genovese (vista già in Immaturi e Una famiglia perfetta, oltre che nei primi lavori con Miniero) di confezionare soggetti per lo più originali nell’approccio al tema classico della commedia e, parallelamente, i limiti di regia e scrittura nello svilupparli in film pienamente riusciti. Il rifugio nel repertorio di situazioni di facile presa sul pubblico generale lascia prevalere confezioni che ancor più che televisive sono da spot pubblicitario, con un trionfo del volemose bene generale che semplifica, a volte banalizza, le problematiche usate come spunto di partenza (ed è il caso dell’identità sessuale, «una cosa seria», come ripetono Giallini e Foglietta nel film, non un capriccio da starnuto allergico come invece viene mostrata).

Costato la bellezza di sei milioni di euro, con due settimane di riprese a New York per il (trascurabile, ampiamente) prologo sentimentale di Sara e una colonna sonora a tratti invasiva con i successi internazionali del momento (con ottimo brano originale di Daniele Silvestri), Tutta colpa di Freud andrà senza dubbio ad alimentare il filone delle commedie di ampio successo commerciale che hanno fatto di Genovese, Miniero, Brizzi e compagnia i nuovi signori del botteghino nazionale.

(Tutta colpa di Freud, di Paolo Genovese, 2014, commedia, 120’)

“L’ultimo regalo” di Gianfranco Pecchinenda

«La scomparsa di una persona cara assume a volte proprio quella stessa funzione, diventa come un raggio di luce, un violento flash che tristemente illumina alcune zone d’ombra del nostro passato: come un uppercut».

Il dolore arriva, per tutti. È un ciclo. Prima di diventare madri o padri si è figli, bisogna imparare a essere figli, anche se nessuno può insegnarti come affrontare una perdita.

Parigi, Boulevard Raspail, una telefonata e sei orfano. Quello che farai subito dopo non ha importanza, non ha importanza dove pranzerai, cosa mangerai, in che modo sceglierai di difenderti.

Ne L’ultimo regalo (Lavieri, 2013) Gianfranco Pecchinenda ripercorre la prima parte della sua vita insieme alla madre, dal Vomero di Napoli la trasporta fino a Caracas in un viaggio immaginario fatto di piccoli momenti di quotidianità preziosi per l’autore. Parigi è l’ultima tappa, quando arriva la telefonata che ne annuncia la morte c’è ancora tanto da dire, da dimostrare, ma il tempo a disposizione è finito, quello che rimane è la graduale consapevolezza di essere soli, di non avere più protezione, di non poter più essere figli: «Le cose più importanti, quelle più sincere, tanto, verranno fuori dopo, quando avrò finito, anch’io, di vivere. Quando avrò finito di scrivere ciò che credo di dover raccontare. Mi pare di averlo già ripetuto: non si scrive ciò che si vuole».

Se da una parte la scelta di Pecchinenda di usare la seconda persona singolare mette il lettore in una condizione di disagio, come se i ricordi dell’autore debbano trovare sfogo nell’identificazione forzata, dall’altra il ritorno alla prima persona nell’ultima parte del libro, fa capire quanto in effetti sia fin troppo ostica una reale immedesimazione.

Il sé riflesso, il doppio tra “Lo scrittore” e “L’Altro” non fa che alimentare questo distacco, chi legge diventa irrimediabilmente il terzo incomodo in una vicenda familiare che non gli appartiene, l’estraneo che entra in punta di piedi e aspetta in un angolo per tutto il tempo.

L’ultimo regalo non è un romanzo, ma non può definirsi nemmeno diario, perché i ricordi vengono affidati alla pagina nell’istante in cui ritornano alla memoria, dispersivi, spesso parziali e con evidenti salti temporali. Ed è qui che entrano in gioco gli scrittori preferiti di Pecchinenda, per riempire quei vuoti quando «descrivere l’inenarrabile» diventa impossibile.

Interi passi de La montagna magica di Thomas Mann o i versi di Questo amore di Jacques Prévert, e poi ancora Kafka, Vargas Llosa, Céline, Camus, Tolstoj, Nabokov, Cervantes, Márquez, Marai, La Rochelle, Updike, troppi, tutti presi in prestito per incoraggiare una prosa altrimenti piatta.

«Sento di avere ancora qualcosa da esprimere, provo allora a fare un ultimo sforzo, prima di chiudere del tutto. Vorrei ad esempio scrivere qualcosa che possa far riemergere i momenti più felici o addirittura, tra questi, quello più felice trascorso insieme a te. Ma non ci riesco».

Il dolore arriva per tutti, si sa, è un ciclo. Questo è un libro scritto per alleviare un dolore che non passerà mai.

(Gianfranco Pecchinenda, L’ultimo regalo, Lavieri, 2013, 120 pp., 10,90 euro)

Di lezioni date e mancate


Sulla morte, il 6 dicembre 1791, a Vienna, di Franz Hofdemel, cancelliere di Corte Suprema (suicida, con una rasoiata alla gola, dopo le cinque o sei che aveva assestato, in viso e alle mani alzategli contro a grama difesa, da sua moglie Maria Magdalena: senza riuscire, per altro, che a incavarvi l’insensato logogrifo di deturpazione delle cicatrici, finché l’appesantirsi di rughe non vi lavorò a modo suo, con gli anni; né, meno che mai, a recare il minimo danno all’occulto agglomerarsi impeccabile di altre umane sembianze, a un anno dal parto della prima figlia, nel buio del grembo, da più settimane) il perbenismo kakaniese delle autorità si affrettò a minimizzare, e insabbiare.

Anche dietro al clamore destato dall’altra morte, della notte prima, di Mozart; morte il cui motivo era chiuso forse – è stato sostenuto, di recente – in una malformazione renale che cooperò con la febbre miliare, a cancellarlo tanto precocemente dal numero dei viventi; a tradirla, una parallela deformità al lobo dell’orecchio sinistro di cui resta traccia solo per la puntigliosa documentazione a stampa che ne fece trarre, sul letto di morte del marito, una velenosa Constanze: a perpetua prova della sua (arabo-fenicia?) fedeltà, giacché ne era afflitto anche l’ultimogenito suo, e a fortiori di Amadé, checché ne malignasse quest’ultimo, nelle martellanti missive in direzione di Baden, con una contraddizione che forse proietta un riverbero della inesplorata opacità del legame Guglielmo/Ferrando sul suo con Süssmayr, chaperon di Constanze a Baden e depositario del congetturale nachlass del Requiem, su cui invece avrebbe gettato tutto il fumo possibile proprio Constanze, preoccupatissima che l’altolocato committente in mantello grigio, al sospetto che la partitura non fosse stata fino all’ultimo foglio Mozart a 24 carati, accampasse ritorsioni dal suo strampalato contratto.

Certo è, circa Hofdemel, che al corpo venne risparmiata ogni infamia connessa, secondo l’usanza, e la legge, alla sepoltura dei suicidi; la notizia passò nei giornali spoglia di ogni enfasi, neutra.

Pure, a non dir altri, Beethoven sapeva, e si rifiutò a lungo di prodursi come pianista e improvvisatore in presenza della vedova Hofdemel, evidentemente accusandola, al di là di quanto la poverina potesse anche aver meritato, della comprovata affiliazione di Mozart (le aveva dato, al fortepiano, le prime lezioni nel 1789, a richiesta del marito, suo fresco compagno di loggia massonica alla “Speranza incoronata” e creditore contro una cambiale di 100 fiorini; ne era poi diventato amante, più o meno intorno al novembre 1790, all’epoca proprio della composizione di Così fan tutte:sicché in parte era sua, la svenevolezza di Ferrando a cui dà ristoro, non che andare a cena, un respiro appena della sua bella, sua la crudeltà di Guglielmo nel cambiare di posto al ritratto del commilitone fraterno, via da quel sobbalzare di seno) ai seguaci, del pari di quelli «Zum wohlkrönierte Hoffnung», di Astrifiammante: e una ancora, di seguaci, ne avrebbe identificata, il coriaceo Ludwig, nella madre dell’idoleggiato nipote Karl, dal quale ebbe poi a ricavare così tanti dispiaceri…

Quando, a ogni modo, all’esibizione si arrivò, si vuole che Maria Magdalena – si era ritirata a vivere a Brünn, a casa di suo padre, il Kapellmeister Gotthard Pokorny, della pensione di 560 Gulden che le era stata comunque elargita dall’Imperial-Regia micragnosità, e tornava a Vienna ormai sempre più di rado, ospitata da Carl Czerny, amico del padre – commentasse che in quel giovinotto dai gesti spigolosi e bruschi, dal viso tagliato con l’accetta, intorno ai due tempestosi globi bruni delle pupille, vi era addirittura qualcosa di più, che nel grande e compianto Salisburghese.

Ammorbidito, si vede, dall’inaspettata benevolenza di giudizio della reproba – anche alzare gli occhi fino allo sconciarsi turpe di quel viso, non deve essere stato da poco –, Beethoven accettò di dare lezioni di pianoforte a Johann Alexander, minuto, scialbo dodicenne (no, il lobo non era altro che assolutamente normale) cui sembrò fosse imposta una prova al di sopra delle sue forze, quando si trattò di venire avanti, evitando il frusciare ampio di vesti da lutto perenne della propria madre, e che, a ogni buon conto, già entro l’agosto di quel 1804, era stato portato via da un’infezione virale.

“Storia d’inverno” di Mark Helprin

Vi è chi pensa al film Storia d’inverno (regia di Akiva Goldsman, con Colin Farrell e Russell Crowe fra gli altri) in uscita il prossimo mese come a un possibile nuovo Titanic. Supponiamo sia solo un auspicio della macchina economica che lo manovra, ma l’apprezzamento del grande pubblico non è improbabile. Questione di ingredienti, intanto: la fonte non è una storia vera e insieme leggendaria come quella del transatlantico, ma un romanzo intriso di elementi fiabeschi e fantastici tutt’altro che corrivo. Winter’s Tale di Mark Helprin ha goduto in trent’anni di vita di una notevole fortuna. Uscito nel 1983 negli Stati Uniti e tradotto a suo tempo da Adriana Dell’Orto per Frassinelli, ora viene riproposto, in concomitanza con l’uscita del film, dall’editore Neri Pozza.

Un’abile orchestrazione di varie storie e personaggi che si dipartono da due vicende principali. Lo stravagante Peter Lake è un ladro alle prese con le vessazioni di un’altra banda, quelli dei Coda Corta, decisi a farlo fuori a tutti i costi. Prima di imbattersi in un imprevisto cruciale che cambierà la sua vita (la seconda traccia del plot) ossiadi innamorarsi di una delle vittime dei suoi furti (la povera e bella Beverly Penn, «più strana di un oracolo», affetta da una malattia mortale), Peter da subito appare nella luce singolare che connota l’ambientazione della storia: la città di New York in uno scenario insolito, una Manhattan fusa in liquide stratificazioni cromatiche (seducenti agli occhi degli stessi personaggi) che si apre con la danza di un cavallo bianco, immagine che più fiabesca non si può ma che riesce a non risultare banale grazie all’abilità dello scrittore.

Il magico cavallo, che non riesce «a fare a meno di Manhattan», ha il compito di salvare Peter dai Coda Corta, guidati da un gran personaggio, Pearly Soames, che sembra uscito dalla fantasia di un Bolaño più svitato. «Bizzarro, infelice e deforme, cercava rimedio nella relazione astratta dei colori» – se l’oro lo attira, è per la sua purezza. Non un volgare teppista o materialista del crimine, insomma: la sua sensibilità per l’arte è meravigliosa. come la paradossale “magia” che gli fa detestare i neonati al punto di volerli uccidere. E spropositato è il suo odio per Peter, costretto a fuggire da una parte all’altra con il suo cavallo, schizzato nel cronotopo che configura il suo destino: spazi (di trasparente incanto descrittivo) e tempi sciolti da qualsiasi vincolo per inseguire a sua volta un amore che credeva perduto. La vicenda così trapassa dai primi del Novecento a una New York più recente.

Un romanzo che chiama lettori disposti a storie favolose, ma non solo: Helprin, columnist per il Wall Street Journal e il New Yorker oltre che narratore, ha scritto un libro che se appare a prima vista cifrato in una mappa di incantesimi “facili”, è pieno di sorprese per essere il mero fantasy tirato in ballo da alcuni commentatori. La ricchezza delle immagini, l’invenzione e la complessità dei personaggi ne fa un libro indefinibile, godibile da lettori diversi per motivi diversi.

(Mark Helprin, Storia d’inverno, trad. Adriana Dell’Orto, Neri Pozza, 2014, pp. 848, euro 18)

“Molto rumore per nulla”, regia di Giancarlo Sepe

La riscrittura di Giancarlo Sepe di Molto rumore per nulla di William Shakespeare è decisamente originale. Poiché si tratta di una delle opere più rappresentate del poeta inglese, il regista sceglie nella sua traduzione e nel suo adattamento, di rinnovarla cambiandone l’ambientazione. La presenta, per usare le sue parole, come una «versione gipsy in cui il luogo è la strada e la gente che recita è gente che vive la strada». Le vicende si svolgono all’interno della popolazione gitana, in un’atmosfera fresca e giocosa, con un ritmo veloce e mai monotono. I personaggi, come nella cultura gitana, passano insieme la loro giornata e condividono qualsiasi esperienza. Li vediamo, quindi, mentre ridono, ballano, cantano, cucinano, vivono insieme la loro quotidianità.

Molto rumore per nulla è una pièce corale, in cui attorno alle due storie d’amore – il giovane conte Claudio si innamora di Hero e Benedetto di sua cugina Beatrice – ruotano numerosi personaggi come fossero una grande famiglia composta dagli elementi più disparati, i buoni e i cattivi, gli invidiosi e gli amici sinceri, i più giovani e il vecchio saggio capostipite. Questo aspetto del testo è rafforzato dalle scelte della regia: i personaggi sono quasi sempre tutti in scena e spesso si creano momenti che ricordano il calore degli anziani che si riuniscono per raccontare ai più giovani storie e leggende.

I popoli nomadi sono spesso un insieme di etnie e quindi nello spettacolo di Sepe si sentono diversi accenti, dal siciliano al napoletano all’emiliano, ripercorrendo i molti dialetti italiani; inoltre si sottolinea l’importanza della tradizione e della memoria collettiva con numerosi canti popolari.

All’interno di una scenografia che richiama un tipico accampamento gipsy, uno spazio aperto allestito con poche sedie e pezzi di vecchia mobilia, la recitazione è movimentata da musiche e balli tipici. La vivacità è data anche dai costumi zingareschi, coloratissimi ed eccessivamente estrosi. All’ambiente malmesso e disordinato corrisponde un linguaggio informale e molto colorito.

Teoricamente tragicommedia – la vicenda della finta morte di Hero, a seguito del disonore subito, crea dei momenti di dramma – la versione di Sepe è una divertente commedia. Quello che manca, forse, è una chiave di lettura finale: a parte la volontà di fare qualcosa di nuovo, si apprezza l’allegria generale ma non si capiscono le motivazioni di questa particolare ambientazione.

Lo spettacolo è impreziosito dalla bravura degli attori e, su tutti, spicca Francesca Inaudi. Siamo abituati a vederla sul piccolo schermo, in una serie Tv leggera e scanzonata, ma Francesca ha iniziato proprio dal teatro, con il diploma alla scuola del Piccolo di Milano, diretto in quel periodo da Giorgio Strehler e, sul palco dell’Eliseo, è perfetta. La sua Beatrice è spavalda, coraggiosa, affascinante, arguta e vitale; come nel testo shakespeariano, viene ben accompagnata da Benedetto (Giovanni Scifoni), altrettanto acuto, attraente e sicuro di sé.

Tra musica, dialoghi brillanti e battibecchi amorosi, un paio d’ore scorrono veloci e non c’è spazio per noia o distrazione.

 

Molto rumore per nulla
di William Shakespeare
regia di Giancarlo Sepe
traduzione e adattamento di Giancarlo Sepe
Con Francesca Inaudi, Giovanni Scifoni
e con Pino Tufillaro, Daniele Monterosi, Lucia Bianchi, Mauro Bernardi, Daniele Pilli, Valentina Gristina, Claudia Tosoni, Camillo Ventola, Fabio Angeloni, Leandro Amato

Roma – Teatro Eliseo, dall’8 gennaio al 26 gennaio 2014 

“Il male” di Massimiliano Santarossa

Cosa hanno in comune una bimbetta quotidianamente straziata dagli appetiti sessuali di un padre orco, un maiale grasso destinato al macello e poi al banco frigo di un supermercato e dopo ancora alle fauci di gente piuttosto raccapricciante, un operaio dell’industria metallurgica fresco di licenziamento e un consumatore inveterato di crack a buon mercato? Hanno in comune il marcio palcoscenico su cui si muovono e su cui recitano ognuno la propria minima tragedia, un palcoscenico che non è altro che la nostra maledetta contemporaneità urbana, suppurazione ultima dell’Occidente in declino, in sé destinato a generare la notte fin dal principio, nelle sue manifestazioni più marginali e periferiche.

È della sofferenza di simili soggetti che nel recente romanzo Il male (Hacca, 2013), di Massimiliano Santarossa, una sorta di antropologo d’eccezione vuole rendersi conto calandosi nelle tonalità grigie di una qualsiasi delle nostre città, osservando partecipe il triste destino degli umani. Questo antropologo d’eccezione, protagonista principale e voce narrante del romanzo, è Lucifero, l’angelo caduto, quello ribelle in quanto più splendente, portatore della luce, maggiormente prossimo all’albedine dell’Onnipotente e perciò incapace di vivere all’ombra sua, in obbediente subordine. Pur essendo per noialtri il depositario più legittimo del male in sé, Lucifero, nella narrazione di Santarossa, nella sua opera di studio e di ricerca è mosso da un interrogativo grande e totale che proprio al male si riferisce: quali sono le sfaccettature che esso può assumere e che concretamente assume nel terzo millennio, a più di venti secoli dalla morte del Cristo?, a più di duemila anni da quei chiodi piantati sulla carne e poi sul legno di una croce?

Nello studio etnologico che Santarossa affida a Lucifero, il Principe delle Tenebre si cala così in un inferno viepiù nero di quello che normalmente abita nel suo umbratile quotidiano, cercando di conoscere quale sia, davvero e fino in fondo, l’esperienza che tocca vivere ai veri dannati, ossia i vivi, gli abitanti dei putrescenti cantoni delle nostre strade più tetre e delle nostre case più promiscue. È così un mondo estremamente oscuro, quello che Lucifero si trova a osservare facendosi volta per volta commisto (entrando letteralmente con la sua diafana e immateriale sostanza nella loro carne) ai vari condannati alla vita, un mondo che non lesina su quanto di più terribile gli è dato di esprimere.

Ne viene fuori un racconto quantomeno parossistico, in cui una ripetitività di situazioni disagevoli vissute dal Diavolo per tramite degli esseri che popolano la Terra viene elaborata dall’autore attraverso una secca e scarna sequenza di parole che non lasciano spazio all’immaginazione. Così come nel libro il mondo visitato da Satana (il nostro mondo, quello che abitiamo giorno per giorno) è impero del male, infatti, il lessico di Santarossa è regno di un registro narrativo votato all’insistenza su un linguaggio scarno e asfittico, sull’utilizzo di poche parole sempre uguali dalle quali risulta impossibile sfuggire: nero, morte, buio, sangue, freddo. E naturalmente neanche l’ironia ha minimo spazio nel romanzo, come se anche la più trascurabile incertezza ridanciana possa distogliere il lettore da toni paesaggistici e morali fatti essenzialmente d’ombra e di cose molto brutte.

Dunque nulla sembra possa sfuggire, nemmeno temporaneamente, nemmeno nella negazione avversativa del tratto parodico, al vortice della continua apocalisse mondana che il Demonio di Santarossa vive e descrive, un’apocalisse di fronte alla quale egli stesso, nonostante il suo regolare imperio sulle regioni oscure dell’aldilà, che avrebbe forse dovuto renderlo già avvezzo a qualsiasi atrocità, sembra vacillare sbigottito, forse addirittura affranto al cospetto del dolore che quaggiù, sulla Terra degli uomini, tramuta i viventi in anime in pena.

(Massimiliano Santarossa, Il male, Hacca, 2013, pp. 224, euro 14)