Pop-up

«You better think! Think about what you’re tryin’ to do to me! Think! Let your mind go let yourself be free!»
Decine di paia di gambe pedalano su biciclette immaginarie, moltiplicandosi all’infinito nelle pareti a specchio. Una moretta alta non più di un metro e cinquanta, corpo scolpito nella tutina da fitness nera, urla battendo le mani a ritmo: «Forza, forzaaa! Su, su, su! Pedalare! Facciamolo vedere a quelle pance!»
Cerco un angolo in cui infilare il mio tappetino, il parquet è gremito oltre ogni possibile immaginazione, guardare questo caleidoscopio di zampette che arrancano ha il suo fascino, tanto che mi ci perdo e dimentico che avrei dovuto buttarmi nella mischia già da dieci minuti buoni.
«Freedom! Freedom! Freedom! Freedom!» urla Aretha dalle casse.
Guarda lì, quelle coscettine rotonde e biancastre quasi mi commuovono per come spuntano dagli shorts neri, sotto la magliettina La corsa del cuore, con il cuore disegnato rosa e gonfio. E i muscolacci pelosi del tipo stagionato sulla sinistra. C’è una storia dietro ognuna di quelle paia di gambe che avanzano verso il nulla.
Finalmente scorgo un angolo possibile per entrare a far parte della magnifica batteria di polli. A dodici minuti dall’inizio della lezione, io, Amelia, mi inserisco nella biciclettata virtuale con tutto il vigore che posso. Nemmeno a dirlo, dopo venti secondi ho già il cuore che esplode.
O forse è per quello che mi hai detto ieri, Mister G? Oh, G! Cos’è che mi hai detto? Vogliamo vivere questa vita pop-up?
«E ora giù i piedi! Mani dietro la nuca, fatemi un bel crunch! Forzaaa!»
Mi si infuoca il ventre tutt’altro che piatto, mentre coscette pallide sbuffa esalando l’ultimo respiro.
Oggi viene a cena la Fra, che fugge dal condominio e da casa di mamma dove la braccano fameliche zie e vicine attempate.
La signora Vanda: «È vero che ti sei divorziata da quel bel ragazzo, ma come mi dispiace!»
O Lucilla: «Non è che ti faceva le corna, il disgraziato?»
Francesca e Roberto si sono lasciati, ebbene sì: matrimonio bianco, lui ha non so bene quale problema della sfera psicosessuale, insomma non sono riusciti a risolvere e la cosa è finita. Su invito di mamma è andato persino don Patrizio della parrocchia: «Figliola, ma le promesse scambiate davanti al Signore, quelle vanno mantenute. La promessa di dare al mondo dei figli, forse dovreste provare, il Signore misericordioso ve ne manderà e vedrai che tutto andrà meglio». Così ha anche peggiorato le cose, che la Fra non era andata certo a dire al parroco delle disfunzioni erettili del marito, ostacolo non indifferente per ricevere queste benedette creature del Signore.
«E ora tutti in piediii! Prendere gli step!», urla la panterina ginnica guardando severa noi pecorelle smarrite.
Oggi viene a rifugiarsi da me, la Fra, se esco viva da questa palestra la proteggerò da ogni attacco nemico.
Io la mia dimensione l’ho trovata, con Andrea e la piccola Lu, davanti al focolare finché morte non ci separi.
Poi sul più bello arrivi tu, G caro, e mi mostri questo cielo stellato. Io che mi metto a guardarlo e poi ti mostro un ciliegio in fiore. Tu che annusi il ciliegio e poi mi prendi la mano e ci si tuffa in mare. Io che apro gli occhi nel blu in un banco di pesciolini e poi ti abbraccio e ti porto in volo sulla luna. G, zucchero del mio caffè, viviamo così: come in un libro per bambini. Stai andando tranquillo per la tua storia e come se niente fosse sollevi un lembo della pagina – pop! – ti compare un universo tintinnante di meraviglie. Questo è un campo di quadrifogli, oh mio G!
Il sudore mi riga la schiena.
«Dài ragazzi! Dàidàidài! Spingete con quelle braccia!»
Vorrei spingere la moretta giù da una rupe. Penso che morirò fra pochi secondi.
A Francesca dirò che l’amore è come un viaggio,e il compagno giusto deve essere adeguato alla meta. Per questo non è mai definitivo: dipende da dove vai, dalla fretta che hai, dal modo in cui ti piace viaggiare. Ci si associa con gioia per partire, ci si dissocia quando si arriva, o magari si decide di ripartire insieme, se le prossime mete coincidono ancora.
E guarda qui a sorpresa cosa succede, mio G? Che nel viaggio perfetto col compagno perfetto ci ritroviamo a passeggio in un libro pop-up. Che possiamo fare, se fra quelle pagine sentiamo il profumo delle caramelle e delle violette? Solo deliziarci di un momento, e continuare a camminare. Amelie (come mi chiami tu), viaggio e sorpresa sono il sale e lo zucchero della vita, mi dici. Non si scambia lo zucchero col sale: per esaltare il sapore dell’esistenza sono necessari entrambi! E io ti credo, mentre ascolto le tue parole di baci.
Ora sogno di bere tutta l’acqua dell’universo e lavare via queste tossine sotto i vapori della doccia. Il branco di bestiole sfiancate si riversa negli spogliatoi in un frusciare di microfibra multicolore, urtarsi di flaconi di plastica e ciabattare diffuso. E poi è solo schiuma.
Tra le panche e gli specchi è un avvicendarsi di carni sfatte e corpi tenuti su a suon di massaggi e liposculture, pelli tatuate, rasature improbabili, bucce d’arancia e capelli tinti.
Apro la parentesi dello spogliatoio per farmi raccontare da questa specie di girone dantesco cosa nascondono le Impeccabili Signore della porta accanto, le ragazze con le unghie laccate, le giovani donne in carriera.
Le vedi passeggiare per strada, sotto il tiro del gossip di quartiere, vestite a modo, con le borse chiuse, i foulard al collo, gli orecchini trendy, e non puoi immaginare che asciughino le intime umidità col getto d’aria calda del phon, ignorando che gli odori sono molecole sparse al vento e ce le ritroviamo incastonate nelle narici o nei bronchi. Siamo geneticamente modificati dagli umori altrui.
Ora sono pronta per Francesca, la salverò da zie e preti vampiri, per portarla su un prato fresco di fiori e ricordarle che nello specchio c’è sempre una sola immagine riflessa, ed è a quegli occhi che tocca rispondere, i suoi occhi nocciola belli e imperfetti, e a nessun altro.
Quanto a te G, mon choux, so che non mi porterai mai in nessun posto. Ci sarà un bacio azzurro solo sognato, un abbraccio stretto sfumato in arancione, tante parole intrecciate su fili luminosi, mentre la vita scorre allegra fra le pagine. Per un incantesimo, gli inserti pop-up potrebbero rimanere incollati chiusi, o esplodere tutti insieme in un boato, facendo perdere senso a ogni cosa. È di queste mirabolanti eventualità che abbiamo paura. Proviamo un testa o croce col coraggio?
Il branco s’è rimesso in ordine. Usciamo dal covo segreto per tornare negli appartamenti, dove stirando camicie e lucidando pavimenti si spazia coi pensieri sull’amore che non esiste, che è una vecchia coperta logora o sempre uguale a se stessa, convinte che questo sentimento che muove il mondo sia esclusivo, mentre è per sua natura inclusivo. Non si spende mai in amore, si guadagna e basta.
E invece siete lì, come su un girarrosto.
Se solo l’avessero saputo, poveri polli, che il loro destino era di finire nudi a graticolare in fila sotto gli occhi golosi e rapaci dei passanti.
Io ho scelto una vita leggera. La mia vita pop-up.

“Serve una casa per amare la pioggia” di Ingrid Thobois

La pazzia è un concerto. Anche quando si suona da soli. È lei la compagnia, la sinfonia plurale. E quella stessa partitura, ritualizzata fino all’orlo, identica allo stremo, dal lato di chi guarda sembra sempre un po’ spiazzante. Ogni volta lascia un andito, un perimetro incompiuto in cui tutto può succedere. È per questo forse, che ai matti ci si accosta volentieri solo quando non si toccano. Quando l’incendio lo si annusa dal balcone. Quando quei deliri non hanno arterie né saliva, quando l’urto si sfarina nel recinto di uno schermo. O magari di un libro.

Ed è esattamente questo che sibila il titolo di Ingrid Thobois, Serve una casa per amare la pioggia (Keller, 2013). Perché d’umido ci si può ammalare. E affacciandosi al romanzo la visuale è ottima, più che panoramica. I punti d’osservazione setacciati a dovere. Ad angolo giro. Quasi da torcicollo. La storia parte da un carcere, quello di Sollicciano, ma spalanca ben altre prigionie.

Protagonista è Norma Jean, insegnante di filosofia, donna/psiche sbriciolata attraverso il calvario dei suoi incontri, un mosaico che la sfalda mentre si compone. Sfortunata, Norma Jean, friabile come la diva di cui calza il nome. Un marinaio la stupra ad appena quindici anni, quando credeva di essere al sicuro; poi spunta un analista, Jean, a cui si aggrappa fino a diventarne moglie e infine Marco, suo studente fuori corso che la attrae senza sforzo. E perciò Norma Jean deraglia presto, senza aver mai saputo dove voler arrivare.

È la sua fragilità a scandire i tempi, la sua voce a cucire le altre, anche quando è dissolta e sono Jean e Marco a impugnare il racconto. La sua presenza, ossuta, tremula, maldestra, disordina le stanze e le vite che attraversa. Jean s’illude di averla guarita. Tra le parole da esperto e le braccia da uomo. Ha costruito per loro degli spazi paralleli, un nido parigino in cui non stare stretti, delle aree di confort dove conservare se stessi senza doversi sovrapporre.

Una memoria molle su cui scivola ogni numero, per non obbligarsi neanche a ricordare. Ma non basta, perché lei sguscia più dell’oblio. Va e viene. Sposta e si sposta. Da casa di Jean, dove svanisce e riappare. Dal parlatorio di Sollicciano, dove va a trovare Marco, detenuto per aver sparato alla sua donna, per essere impazzito dopo un tradimento. E quello stesso gorgo per Norma Jean è una chiamata irrinunciabile, la sirena d’oppio incollata al mare.

I frammenti vorticano fino quasi a spazientire, per poi scegliere il loro posto, quello giusto, l’incastro che li aspetta per formare l’intero. Anche le prospettive si rimescolano in fretta.Il narratore onnisciente esordisce e poi si sgretola per diventare lei, poi Jean, poi ancora Marco e avvitarsi di nuovo, cambiando gola e traiettoria.

L’eco di altre scritture si avverte facilmente. Il morbo d’amore di Patrick McGrath, che contagia le vicende di Follia e di Trauma, o le rifrazioni dissociate di un capolavoro come Spider. Ma anche le ombre ossessive di Dean Koontz e dei suoi Sussurri. Il salto dalla norma che si declina in mille mo(n)di, il prezzo estremo della libertà ritradotto in atomo, morte, isolamento, anche nella moltitudine. Perché la soluzione non prevede abbracci. La soluzione è dis-integrarsi. Come fa Adam Pollo, protagonista de Il verbale di J.M.G. Le Clézio. Che registra i dettagli di una civiltà respinta.

Nel romanzo di Ingrid Thobois, scritto con grande eleganza, si entra in un’autentica spirale: di flashback, umori, percezioni, in cui è difficile distinguere chi sia “normale” e chi deviato. Ognuno ha indosso il suo dramma e dentro quegli odori non c’è stranezza. Un tango di specchi rotti, in cui un amore si rovescia su se stesso e non può sopravvivere se non nell’ologramma, nell’idea di vetro che si è creato dell’altro.

Una trappola in cui incappare non è solo questione di follia. E non rimane perciò che ascoltare la pioggia, ben protetti fino all’ultima pagina.


(Ingrid Thobois, Serve una casa per amare la pioggia, trad. di Silvia Turato, Keller, 2013, pp. 208, euro 14,50)

“Guida alla letteratura di fantascienza”, a cura di Carlo Bordoni

Leggerla come un’enciclopedia e godersela come un libro. Questo il pregio più importante di Guida alla letteratura di fantascienza a cura di Carlo Bordoni per la casa editrice Odoya. Dalla A di “Alieni”, alla V di “Viaggi nel tempo” il lettore, più o meno legato al genere, può immergersi nello sterminato bacino testuale e iconografico della science fiction. Un universo che nonostante la plurisecolare discriminazione e rilegatura a letteratura di serie B, può vantare una lucidità di giudizio, una qualità narrativa e una lista di autori pregevoli. A breve ne citeremo qualcuno.

Per partire infatti conviene iniziare dalla prefazione di Carlo Bordoni, stimato sociologo, giornalista de il Fatto Quotidiano, del Corriere della Sera e direttore della rivista Insolito e Fantastico, scrittore e insegnante. Il curatore spiega infatti subito due concetti fondamentali: la fantascienza ha cambiato il mondo, ma essa stessa è cambiata. Dalle piccole riviste da pochi centesimi ai veri e propri romanzi, il genere ha permesso già dall’Ottocento di approcciarsi e vedere la realtà e il futuro in maniera nuova e innovativa. Non è un caso infatti che la fantascienza venga spesso chiamata anche «letteratura d’anticipazione».

Guida alla letteratura di fantascienza si impone come la miglior guida ragionata mai fatta in Italia: un’enciclopedia tematica strutturata in capitoli, con approfondimenti sugli autori più importanti e interessanti focus extraletterari, spesso riguardanti il cinema e il rock.

Da qui in poi, il viaggio inizia e la lettura della Guida è consigliata sia all’amante navigato, sia al lettore che sta iniziando a muovere i primi passi nell’ambiente, potendo vedere citati una miriade incalcolabile di scrittori e libri: una lista clamorosa di opere sui più disparati – e spesso disperati – argomenti. Munitevi di carta e penna perché molto spesso i titoli vi sommergeranno.

Tutte le categorie sono impeccabili: da quelle legati alle tematiche calde del genere – alieni, invenzioni, mostri, viaggi nel tempo, catastrofi, robot – ad altre molto interessanti, come New Wave, religione, sesso e generi. Illuminanti i capitoli su religione, politica, paranoia e complotti: perfetti per dimostrare quanto la fantascienza abbia sempre avuto i piedi ben saldi nella realtà e non abbia mai risparmiato una sana dose di cinismo per rappresentare un desolato presente ben mascherato da futuro.

I nomi ci sono tutti, dalla “triade” che più o meno consapevolmente ha fondato il genere – Poe, Verne e Wells – ai mostri sacri moderni come Asimov, Bradbury, Huxley.

A questi, si accostano i nomi di altri grandi, meno conosciuti a chi non è un vero seguace: Theodore Sturgeon – autore del capolavoro Il tuono e le rose –, Arthur Clarke di 2001: Odissea nello spazio e Robert Heinlein, grande modello della fantascienza classica. Ci sono poi scrittori totalmente trasversali e universali: il grandissimo Philip K. Dick, che dalla distopia della Svastica sul sole ai replicanti di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (leggi anche Blade Runner), nell’arco della sua sterminata produzione ha attraversato ogni aspetto del genere. Degno spazio è dedicato anche a un mito mai troppo celebrato del genere: Fredric Brown, geniale scrittore dei capisaldi assoluti “Sentinella” e “La riposta”: racconti brevi, devastanti e dal colpo di scena finale scioccante.

E se è un piacere vedere nella Guida alla letteratura di fantascienza anche gli apporti di maestri totali – basti citare Il complotto contro l’America di Philip Roth –, è altrettanto bello scoprire personaggi magnifici come Harlan Ellison. Chi è costui? In primis, uno che si fa espellere dal college per aver picchiato l’insegnante che critica la sua abilità narrativa e che una volta raggiunto il successo non mancherà di inviare a tale insegnante ogni copia dei libri pubblicati. Uno che viene assunto dalla Disney ma subito cacciato per essere stato scoperto a fare parodie porno. Oltre a questo, una grandissima penna, geniale e unica, abilissima nel miscelare una riuscita quanto inimitabile fusione tra horror e fantascienza. Da citare il racconto che ha segnato il suo successo, nel 1967: “Non ho bocca, e devo urlare”. Storia nera e terribile del dominio dei computer: dopo aver annullato la razza umana, l’elaboratore AM si diverte a sviscerare e mutilare l’ultimo uomo rimasto. Tra gli altri suoi cult, Jeffty ha cinque anni – sul tema dell’immortalità – e lo sconcertante Un ragazzo e il suo cane, sull’apocalisse post-atomica. Senza dimenticare che Terminator è tratto dal suo “Soldato”.

Insomma, un autore da recuperare, tra i tanti grandi presenti in questa Guida che, perdonando il gioco di parole, fantastica lo è davvero. Buono studio, anzi, meglio: buona lettura!


(Guida alla letteratura di fantascienza, a cura di Carlo Bordoni, Odoya, 2013, pp. 665, euro 26)

“La casa degli scambi” di Alberto Mussa

«Non è la geografia, non l’architettura, non sono gli eroi e neppure le battaglie, né tanto meno la cronaca di costume o le immagini nate dalla fantasia dei poeti: ciò che definisce una città è la storia dei suoi crimini».

Come afferma lo stesso Alberto Mussa nell’incipit del romanzo, La casa degli scambi (E/O, 2013) si propone di raccontare Rio de Janeiro attraverso diversi crimini che avvengono, e sono avvenuti in passato, al suo interno.

Il delitto che apre il romanzo è quello del segretario della presidenza della Repubblica, che viene trovato misteriosamente assassinato in una stanza della cosiddetta Casa degli Scambi, apparentemente una clinica privata gestita dal Dottor Zmuda, in realtà un sontuoso bordello dove si intrattengono amori clandestini e ogni tipo di scambi e combinazioni fra i partecipanti.

Contrariamente a quanto si possa pensare, i frequentatori abituali possono essere molto diversi fra loro, tanto che gran parte della borghesia di Rio de Janeiro di ritrova periodicamente alla Casa degli Scambi con la peggiore malavita, seppure l’anonimato sia garantito dai cappucci che il Dottor Zmuda fa indossare a ogni ospite.

Le indagini sulla morte dell’illustre segretario sono affidate al poliziotto Baeta, perito dattiloscopico, l’unico a Rio de Janeiro in grado di scovare e identificare le impronte digitali su una scena del crimine, nonché assiduo frequentatore della Casa degli Scambi, quindi apparentemente l’unico in grado di risolvere lo spinoso caso.

Da questo filone centrale parte una scorribanda che ci mostra gli angoli più reconditi e le tradizioni più antiche della metropoli, dai crimini della comunità dei capoeristi – con un’attenzione particolare alla storia dell’affascinante Aniceto – ai servigi di Rufino, uno stregone potentissimo, capace di usare le forze della natura per esaudire ogni desiderio, ovviamente dietro adeguato compenso, alla bella Fortunata, la prostituta della Casa degli Scambi che era in camera con il segretario, misteriosamente scomparsa subito dopo il delitto.

Eppure La casa degli scambi non tratta solo del delitto del segretario della presidenza della Repubblica, anzi, Alberto Mussa – brasiliano di origini libanesi – collega sapientemente il fatto di cronaca con tanti altri avvenuti nel passato nella stessa Rio de Janeiro, alcuni risalenti addirittura a prima che la stessa città fosse fondata, in modo da creare un filo conduttore di crimini che, come sostiene, definiscono ogni città e ogni popolazione.

Interessante è anche la riflessione che l’autore porta avanti, tramite il Dottor Zmuda, sui comportamenti sessuali e sulle preferenze degli avventori della Casa degli Scambi.

Analizzando gli atteggiamenti di tutte le persone che passano per la sua clinica, chi saltuariamente e chi periodicamente, il Dottor Zmuda ha iniziato a scrivere trattati sull’origine di particolari desideri, posizioni e perversioni, collegandole a diversi aspetti della natura umana e all’evoluzione della stessa umanità, la quale porterebbe, secondo lo studioso, a una regressione continua dei gusti sessuali al fine di sradicare quei tabù e quelle imposizioni morali che hanno tarpato le ali alla fantasia e all’immaginazione propria di un passato più selvaggio.

In un vortice di personaggi, storie, leggende passate e indagini contemporanee, Alberto Mussa ci fa scontrare violentemente con Rio de Janeiro, senza giri di parole per indorare la pillola, solo  con la volontà di mostrare la verità, ché la bellezza di una città risiede anche nell’efferatezza dei suoi crimini, nei sui vicoli bui e nei riti magici perpetrati in cimiteri isolati.

(Alberto Mussa, La casa degli scambi, trad. di Paola Vallerga, edizioni E/O, 2013, pp. 208, euro 18,50) 

“The Americans” di Joe Weisberg

In amore e in guerra tutto è lecito. Se la guerra è la guerra fredda e l’amore è una copertura ideata dal KGB allora parliamo di The Americans, una delle rivelazioni della scorsa stagione oltreoceano. Per il canale FX i numeri parlano chiaro, il debutto della serie di Joe Weisberg è uno dei migliori di sempre. Il passo (almeno grammaticalmente) diventa breve per arrivare a Fox, pronta a cogliere la palla al balzo e regalarci la prima visione italiana negli ultimi mesi del 2013. Se qualcuno d’istinto storce il naso si pone per un istante la fatidica domanda la risposta è sì, vale assolutamente la pena di seguire questa serie.

Nel 1981 la guerra fredda sembra assumere proporzioni più contenute, con una tensione ridotta tra le due grandi potenze mondiali rispetto agli infuocati decenni successivi alla seconda guerra mondiale. A Washington però l’URSS mantiene viva l’attenzione infiltrando tra le linee nemiche due spie, al secolo la felice coppia formata da Philip ed Elizabeth Jennings. Vivono tra i loro nemici, parlano l’inglese bene come loro, conducono una vita serena e felice con i loro due figli, lavorano in un’agenzia di viaggi. Praticamente impossibile per il governo americano scoprire che il loro lavoro è una semplice copertura, che il matrimonio è un’idea dei servizi segreti russi per mettere a stretto contatto i suoi agenti, che quell’intera vita è una farsa.

Eppure c’è sempre un ma. Dopo quindici anni di convivenza è sempre più difficile fare i conti con la propria condizione e viverla col necessario distacco. Per Philip ed Elizabeth è altrettanto difficile costruire un rapporto nato tra bugie, missioni e tradimenti continui. Come riuscire a servire il proprio paese dopo essere penetrati così a fondo nel mondo e nella cultura nemica? Come ignorare la luce negli occhi dei propri figli, cresciuti come veri americani per tutto quel tempo all’ombra del capitalismo e di una vita a stelle e strisce?

Tra dilemmi etici, missioni sotto copertura, intrighi internazionali e continui ribaltamenti, The Americans si propone come una delle migliori novità passate forse un po’ troppo (colpevolmente) in sordina rispetto ad altri grandi nomi menzionati in ogni dove. Una serie in cui gli Stati Uniti si schierano dall’altra parte della barricata per svelare i proprio segreti e i propri punti deboli. Curiosa l’idea di raccontare la guerra fredda nel proprio paese ma con gli occhi di chi vi ci trasferì per distruggerlo. Sullo sfondo, quando possibile, FX ha portato anche qualche lezione di storia. Interessante immaginare cosa successe ad esempio nei giorni immediatamente successivi all’attentato al presidente Reagan del 1981. Sono stati i russi? Bisogna prepararsi alla guerra? John Hinckley era forse una spia al soldo del governo russo? Momenti di grande preoccupazione e paura per l’America, riportati sul piccolo schermo così bene da sembrare opera di qualche sceneggiatore.

Eppure il nemico ti può vivere accanto anche (e forse più facilmente) se sei un infiltrato del KGB in un ridente quartiere di periferia, come si scoprirà molto presto nel corso delle puntate. Da qui il continuo conflitto della coppia tra i due fuochi, con l’obbligo di rischiare sempre più per la propria patria e la possibilità di essere scoperti ogni giorno sempre più alta.

E per tutti i curiosi che si sono convinti, o per tutti coloro che grazie ai canali satellitari hanno avuto già il piacere di apprezzare questa serie, è già il momento di ricominciare. FX conferma la qualità e il successo di The Americans annunciando per il 26 febbraio la premiere della seconda stagione.
 

“Di carne e di nulla” di David Foster Wallace

In un saggio del 2011 su David Foster Wallace, J.J. Sullivan scriveva: «Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore così creativo che, quando muori, il linguaggio ne rimane impoverito. Questo è ciò che ha compiuto il suicidio di Wallace, due anni e mezzo fa».

Sul perché la prosa dolorosa e caustica di David Foster Wallace riscuota successo di pubblico e non solo di critica, il dibattito è aperto. Ma è un dato di fatto che la schiera dei suoi lettori si irrobustisca di anno in anno, trasformando questo vuoto letterario in un’opportunità editoriale.

Dalle lettere ai greateast hits, gli scaffali delle librerie si riempiono di volumi che assicurano al lettore il proseguimento di un legame arbitrariamente spezzato.

Di carne e di nulla(Einaudi, 2013) si inserisce così nel filone delle opere postume in cui David Foster Wallace è autore di contenuti, mentre la forma, il senso stesso della raccolta è affidata a un lavoro editoriale privo però di feedback. Eppure Wallace era ossessionato dal timore dell’incomprensione, tanto da allegare ai manoscritti le norme redazionali per i correttori di bozze, un’ingerenza autoriale che aveva come fine il riscontro.

Le pubblicazione post mortem, di David Foster Wallace solo per metà, hanno l’effettivo merito di far circolare il suo materiale. Tuttavia questi testi, che consolano e rassicurano il lettore, scaturiscono da un impianto ideologico che pone dei dubbi sull’effettiva esistenza di una linea di demarcazione tra il valore letterario, le argomentazioni accademiche e il funzionamento del marchio registrato.

L’inquietudine intellettuale rischia così di cedere facilmente il passo al fascino del personaggio suicida, tormentato in vita dai pungoli di una mente difettosa, alimentando prima di tutto un rischio culturale: al di là degli ingranaggi commerciali, il danno del consumo feticistico sta nel permettere l’approdo disinvolto  alle letture postmoderne senza curarsi della «testardaggine filosofica» che permea e intrica le pratiche di scrittura di David Foster Wallace. Allora più delle introduzioni patinate e degli strilli, avrebbe senso, forse, un’edizione ragionata, correlata da apparati critici.  

Di carne e di nullaè un libro difficile perché gli interventi di Wallace sono agganciati alla realtà del tempo, dunque non è facile seguirne i riferimenti. Il tentativo editoriale è di annientare la morte puntando sulla capacità della letteratura di eternizzare le voci, ma il risultato è la pubblicazione di contenuti lasciati risuonare datati perché scollati e introdotti senza prospettiva storica: c’è la riflessione sull’AIDS sostenuta dall’urgenza di quegli anni, il saggio su Terminator, un’analisi sulla tendenza letteraria dei primi anni Duemila (i cui autori erano definiti Vistosamente Giovani), una recensione sul Prose Poem del 2001, un’intervista del 1996 su Infinite Jest, una conversazione telefonica con Gus Van Sant (la cui struttura somiglia in modo sconcertante a un’intercettazione) eccetera.

Sfugge quale sia il principio unificatore della raccolta e quali criteri ispirino la selezione dei brani. E se da un lato queste carenze accelerano il metabolismo del lettore, dall’altro denunciano l’impossibilità di sopperire a un’assenza autoriale. Nell’economia di David Foster Wallace, l’architettura, l’inclusione e la composizione del testo sono studiate per diventare parte imprescindibile della sua opera che volutamente ci complica la lettura perché l’ostacolo è il suo più grande atto di generosità.

 

(David Foster Wallace, Di carne e di nulla, trad. di Giovanna Granato, Einaudi, 2013, pp. 256, euro 18)

“Lo zio Oswald” di Roald Dahl

Nello spassoso Lo zio Oswald (Longanesi, 2013), ambientato nell’Europa di inizio Novecento, Roald Dahl descrive con umorismo e creatività l’ascesa di un autentico e instancabile viveur, personaggio già apparso in precedenza in due brevi racconti.

Ha le idee chiare fin da subito il giovane Oswald Hendryks Cornelius, nella Londra anteguerra, dove il desiderio di voler vivere una grande vita è l’unico obiettivo da perseguire. La sua esistenza sarà votata all’agiatezza e alle delizie, con l’intenzione di anteporre a tutto il sesso. Una delle prime regole è dunque quella di non andare mai più di una volta con la stessa donna, il che la dice lunga sulle aspirazioni che il giovane e intraprendete Casanova si era prefisso.

Tutto ha inizio con l’incontro fortuito con un elegante signore che gli fornisce la notizia dell’esistenza di un certo scarabeo vescicante sudanese (cantharis vesicatoria sudanii) e delle sue miracolose proprietà erotiche. Si diceva che assumendo una piccola quantità dell’insetto essiccato, quindi polverizzato, si riuscisse a riesumare anche il più addormentato degli amanti, rendendolo in pochi secondi un insuperabile e prestante amatore.

Inizia così la bizzarra avventura dello zio Oswald, che lo avrebbe poi portato ad essere il milionario godereccio che è poi effettivamente diventato. Da qui il viaggio in Sudan, per reperire quanti più scarabei possibili, per poi tornare in Europa, a perfezionare il preparato e servirlo dunque, con astuzia, a coloro che avrebbero dovuto fruttargli il maggior guadagno. Oswald frequenta le ambasciate, i palazzi reali, ed è a loro che si rivolge in primis, a quei vecchi politicanti atrofizzati gonfi di grana, che avrebbero dato qualunque cosa per riscoprire l’ormai perduto vigore sessuale: si sa, il potere vuole il sesso facile e tracotante, una costante che lega i regnanti di tutte le epoche.

Arrivano dunque i primi successi, i primi guadagni, mentre l’ascesa viene stoppata momentaneamente da una guerra mondiale a cui Oswald partecipa, ma che omette totalmente dal suo incalzante diario, in cui non v’è spazio per morte e sofferenza.

Niente può fermare la sua ambizione, sempre in cerca dell’idea sublime, che gli viene fornita quando comprende di poter congelare sperma di toro per una eventuale fecondazione artificiale. Dal toro agli uomini il passo è breve, ed ecco l’idea rivoluzionaria: congelare lo sperma delle più grandi menti e personalità dell’epoca, per poi rivenderlo a caro prezzo alle donne che avrebbero voluto un figlio da reali, scrittori, musicisti.

Così, grazie all’aiuto della disinibita e intraprendete Yasmin e del professor Woresly, Oswald riuscirà a ottenere il liquido seminale dei più grandi d’Europa: in successione Monet, Renoir, Conrad, Puccini, Einstein, persino quello del sodomita Marcel Proust. Così la narrazione diventa oltremodo surreale, mai ridicola e sempre divertente, anche se vagamente ripetitiva nella caccia ai grandi per tutta Europa. Tutto sembra filare liscio dunque, fino al colpo di scena finale che rientra nell’iconografia delle commedie che trattano truffe e raggiri.

Con una scrittura brillante e ironica, Dahl crea un personaggio sferzante, colto, quasi un antesignano del rampantismo industriale di più recente concepimento, ma mai volgare, come invece i nostri giorni ci hanno abituato. Far soldi, per Oswald, deve innanzitutto essere un divertimento, e ancor di più deve recare piacere a coloro ai quali si sottrae il bottino. Leggendo, inoltre, non si può far a meno di attualizzare la vicenda, e giocare così sui grandi nomi, o presunti tali, dei nostri giorni; la lista, probabilmente, risulterebbe alquanto caotica e delirante, per l’inabilità culturale che le ultime generazioni hanno dimostrato d’avere, nel riconoscere universalmente le menti più brillanti.

(Roald Dahl, Lo zio Oswald, trad. di Silvia Piraccini, Longanesi, 2013, pp. 247, euro 14,90)

“Le vie del Sacro”: gli scatti di Kazuyoshi Nomachi a La Pelanda, Roma

A Roma, nel complesso La Pelanda a Testaccio, fino al 4 Maggio è possibile visitare la mostra Le vie del Sacro, del fotografo giapponese Kazuyoshi Nomachi, che per la prima volta in assoluto espone in Occidente – questa è la più grande mostra antologica dedicatagli. Duecento scatti di forte carica emotiva che indagano il senso e la ricerca della sacralità. La mostra, che documenta i quarant’anni di lavoro dell’artista e si divide in sette sezioni – “Sahara”, “Nilo”, “Etiopia”, “Islam”, “Gange”, “Tibet” e “Ande” –, rivela la dimensione quotidiana del Sacro rappresentando culture lontane, stili di vita e condizioni di culto molto dure ed estranee alle nostre tradizioni.

Kazuyoshi Nomachi, originario di Mihara, un villaggio nel distretto di Hata, inizia a scattare fotografie fin dall’adolescenza. Decide subito di dedicarsi al foto-giornalismo dopo un viaggio nel Sahara nel 1971. In questo viaggio decide di intraprendere un percorso di scoperta e ricerca del Nilo – Il Nilo, perenne flusso d’acqua che mai si prosciuga e scorrendo nel nitido Sahara – che lo porterà a esplorare uno dei più grandi deserti esistenti. Nomachi sarà affascinato dalla forza visiva ed emozionale che risiede nei visi della gente, nel panorama che li circonda, e dalla forte componente spirituale e sacrale che accompagna gli uomini durante i duri impegni quotidiani e nelle estreme condizioni di vita che sono costretti ad affrontare.
 


L’allestimento curato da Peter Bottazzo è composto da assi di legno che creano una struttura stabile dove sono collocate le foto, come se stessimo attraversando un ponte in passerella. Questo forte elemento strutturale e il contrasto di colori nelle foto produce una carica emotiva nello spettatore che si sente catapultano in un ambiente primitivo da riscoprire.

La prima sezione della mostra, “Sahara”, riguarda il viaggio nel Sahara dall’Etiopia fino all’Africa Nera. Qui, in paesaggi al limite della realtà dove i colori solo i veri protagonisti, i ritratti di bambine e madri Tuareg si alternano con i corpi nudi e scurissimi delle tribù africane della Nigeria.

La mostra continua indagando il Nilo con tutti i suoi vari riti e aspetti bizzarri che sono alla base della cultura dei popoli che loro circondano: «Nel Sudan meridionale, m’imbattei in una tribù di pastori che viveva a stretto contatto con una mandria di bestiame, come in epoche preistoriche».
 


Il percorso espositivo si incentra poi su tre grandi religioni rappresentate in “Etiopia”, “Gange” e “Islam” – Nomachi è il primo ha documentare in modo così approfondito il pellegrinaggio annuale di due milioni di fedeli mussulmani verso la Mecca.

Il viaggio fotografico si conclude con “Tibet” e “Ande”. In “Tibet” le fotografie mostrano i monaci tibetani buddisti che percorrono il periplo del monte Kailash per cinquantadue chilometri impiegando due settimane. «La ragione per cui gli occidentali si rivolgono sempre di più al Buddismo tibetano, che considerano il Buddismo in senso assoluto, deriva in modo particolare dal mite ottimismo che lo caratterizza, radicato nel riconoscere l’uguaglianza tra gli uomini, anche in virtù delle estreme condizioni ambientali del Tibet e dell’Himalaya».

I paesaggi densi di colori e atmosfere rappresentano luoghi quasi inesplorati e fanno a gara con i ritratti carici di emozioni e forza degli abitanti di questi luoghi incantanti e incontaminati.
 


Il viaggio espositivo di Nomachi si conclude con le Ande. Come l’Etiopia all’inizio della mostra, le Ande accolgono una piccola comunità cristiana che ha inglobato e rivoluzionato la tradizione dei popoli andini. Uno di questi scatti lo testimonia molto bene, raffigurando la figura di Gesù nero sulla vetta delle Ande peruviane. Lo scatto che meglio chiude e suggella la mostra è la superficie del Salar de Uyuri , il più grande deserto di sale del mondo, che si copre di un sottilissimo velo d’acqua che riflette l’immagine del cielo, e pare che l’uomo che lo percorre stia camminando sull’acqua. Un’incontro tra cielo e terra , che testimonia la dimensione sacrale dell’infinito. Le vie del Sacro, ci portano a riflettere sulla dimensione personale della nostra sacralità, come se la mostra non fosse solo il viaggio di Nomachi, ma anche il nostro!

 

Le vie del Sacro
Roma, La Pelanda
Dal 14 dicembre 2013 al 4 maggio 2014.

Qui
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“Lo sguardo di Satana – Carrie” di Kimberly Peirce

Aggiornamento al tempo dei social network per Lo sguardo di Satana – Carrie, nuovo adattamento del romanzo di Stephen King a quasi quarant’anni dal film di Brian De Palma che per primo portò il maestro dell’horror sul grande schermo.

Carrie White è un’adolescente insicura e solitaria, schiacciata da una madre fanaticamente religiosa e isolata all’interno della vita scolastica. È abituata a camminare lungo i muri, a non essere notata, finché un giorno il primo ciclo mestruale la sorprende sotto la doccia in palestra, insieme al terrore per quel sanguinamento di cui mai nulla aveva saputo. Finisce vittima della derisione della compagne, aizzate dalla capetta Chris, che filmano il suo terrore e lo spalmano tra cellulari e internet esponendo Carrie all’umiliazione e derisione pubblica. L’orrore dello scherno feroce sveglia il senso di colpa di Sue, la più bella della scuola, che cerca di rimediare al torto spingendo il suo ragazzo a invitare Carrie al ballo di fine anno. È lì che Chris ha preparato la sua vendetta contro la “strana”, colpevole, con la sua paura, delle sanzioni disciplinari che il preside le ha inflitto su pressione della professoressa di educazione fisica, unica amica di Carrie. Ma Carrie non è come le altre ragazze della sua età, e non solo per l’educazione da fondamentalista cristiana che le ha inculcato la madre Margaret, che si martoria la carne e rinchiude la figlia nell’armadio a pregare ogni volta che pensa abbia peccato. Quando è spaventata riesce a muovere le cose, e quando la vendetta di Chris la colpirà, i suoi poteri telecinetici si scateneranno contro ogni cosa.

Ha senso misurarsi con un classico del cinema e della letteratura con una nuova versione che espone inevitabilmente a schiaccianti paragoni con l’ingombrante precedente? Quelli della Metro Goldwyn-Mayer devono aver pensato di sì, ma è difficile, se non impossibile, sollevare interesse intorno a una storia già nota con lo spettro del film passato sempre costantemente presente. Ci ha provato la regista Kimberly Peirce concentrando lo sguardo sul disprezzo del diverso, tema caro al suo cinema sin dai tempi dell’apprezzato Boys Don’t Cry. Così, il bullismo di Chris e delle altre ragazzine diventa cyber, passando anche sul web oltre che attraverso i consueti mezzi del dileggio adolescente. Sostanzialmente, il contenuto simbolico del romanzo di King (la scoperta del paranormale come momento del passaggio della pubertà) rimane invariato, così come era stato mantenuto nel film di De Palma. Rispetto al film del 1976, la regista e lo sceneggiatore Roberto Aguirre-Sacasa recuperano alcuni elementi di contorno del romanzo mantenendo quasi immutate le modifiche per il finale e nella figura della madre, senza aggiungere significativi elementi di originalità.

Proprio la madre, interpretata da Julianne Moore, aiuta a comprendere il cambio di prospettiva del progetto remake. Margaret White è una disturbata vittima di una visione distorta della religione, pronta a salvare a ogni costo la figlia dalla dannazione che ritiene inevitabile. Non c’è malvagità nelle sue azioni, solo un amore deviato. Proprio questo atteggiamento svuota Lo sguardo di Satana di quella componente di inquietudine propria dei film dell’orrore. Rimane sì un senso di tensione generato dalla componente religiosa mescolata con il paranormale, ma appare evidente l’intenzione di concentrare lo script sull’elemento sociale e formativo della crescita di Carrie. La presa di coscienza dei propri poteri della ragazzina conduce a un uso volontario, anche compiaciuto, delle capacità soprannaturali, assumendo quindi il connotato di una vendetta consapevole e spietata frutto della scelta di non essere più vittima ma carnefice, non di un travolgente predominio di una forza inarrestabile, che si esprime perfettamente nello sguardo della sempre più convincente Chloë Moretz durante la violenza finale.

Inutile dilungarsi in paragoni più dettagliati con il film di De Palma. Farcito di intenzioni che mirano più al sottotesto socio-antropologico che al testo, Carrie in versione Peirce non riesce a sviluppare compiutamente la riflessione sulle nuove forme del bullismo e sull’universale senso di inadeguatezza del diverso, non offrendo nulla di realmente significativo, se non le interpretazioni delle due attrici principali, rispetto al modello del 1976.

(Lo sguardo di Satana – Carrie, di Kimberly Peirce, 2013, horror, 100’)

“La vita in città” di Donald Barthelme

A distanza di quarant’anni dalla prima edizione americana, i racconti de La vita in città di Donald Barthelme (minimum fax, 2013) sono una brezza diabolica che attraversa la coscienza dei (distratti) lettori di oggi.

È probabile che questi tredici pezzi inframezzati da immagini e scritte-slogan infastidiscano i fruitori di fiction, perché in essi la narrazione assume vesti diverse, varie, diseguali. Chi è in cerca della storia “ben spiegata” potrebbe non apprezzare l’incontro con Don Barthelme (1931-1989) che la casa editrice minimum fax sta propiziando, pubblicando e ripubblicando le sue opere (Ritorna, Dr. Caligari; Biancaneve; Atti innaturali, pratiche innominabili). Ma per chi è incuriosito dai volti della cosiddetta letteratura postmoderna, «fra i cui padri fondatori, semplificando, si può contare Don Barthelme», non sarà un problema inciampare nelle strane architetture di queste narrazioni in bianco e nero, dispotiche, commoventi, metà banali e metà incomprensibili, senza sapere quale metà si sta leggendo ora.

Dai flemmatici tormenti filiali di “Vedute di mio padre in lacrime”, a quel posto dell’anima chiamato “Paraguay”, passando per le atmosfere del “Museo Tolstoj” e del “Ballo dei poliziotti”, arrancando sulla lunghissima frase del racconto intitolato “Frase”, assistendo a una disquisizione “Sugli angeli” e approdando in fine alla città, alla “Vita in città”, questi racconti difficilmente inquadrabili assemblano «uno strano oggetto coperto di pelo che vi spezzerà il cuore», o tenterà di farlo.

«Cos’è esattamente che rende i racconti di Barthelme così teneri, così accattivanti? C’è un’emozione o un’atmosfera che li caratterizza. È un’emozione che non ha nome. A volte la si può chiamare “dolcezza”, altre volte “ironia”, a tratti “divertito cinismo”. […] Eccola qui la realtà, sembra dire Barthelme: è profondissima ed è struggente ed è qualcosa da riderci su», scrive Vincenzo Latronico nella prefazione.

Corredato da un Profilo bio-bibliografico e da una Bibliografia, come sempre per la collana minimum classics, La vita in città offre gli strumenti essenziali per cadere nella rete del brillante scrittore-giornalista.

Quello con Barthelme è un incontro che si afferma da noi con notevole ritardo rispetto alla forza di alcuni compagni della stagione postmoderna, di cui si è cominciato in questi anni a declamare la fine. Il senso di vintage che accompagna opera e autore gioca certo a favore di un’onda lunga che si irradia dalla carriera sicura, solida, senza flessioni, svolta negli USA tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. E la voce di Barthelme è una voce forte, conclusa, i suoi racconti muovono fino a noi percorsi da un sottile strato di ghiaccio, una frigidezza che è forse l’unico sentimento diperato che aleggia tra queste storie.


(Donald Barthelme, La vita in città, trad. di Vincenzo Latronico, minimum fax, 2013, pp. 163, euro 11)

[BioSong] “Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle” dei Nirvana

Parlandone ancora oggi, con lieve tono malinconico, viene fuori quella frase: «Kurt era il nostro amico che non ce l’ha fatta». L’«amico fragile» da ricordare sempre a chi non lo conosce. La mia generazione ha vissuto con Cobain già nel mito. Nevermind era nell’Olimpo, il grunge una moda ormai conclusa, le facce dei Nirvana stampate sulle magliette, il concerto a Roma e l’overdose, il fucile che spara, Courtney Love che piange sulla spalla di Michael Stipe: tutto fissato e immortalato nelle istantanee della Storia del Rock. Più che un coetaneo, per me Kurt Cobain è stato il fratello maggiore che ha urlato: «Prendi la chitarra, spacca tutto e fregatene!»

Parlando sempre con gli amici e gli esimi addetti ai lavori, prima o poi il discorso cade sulla sua fine. Qui il dibattito si fa più complesso, virando spesso e inutilmente sul complottismo e la leggenda metropolitana. Personalmente, non ho mai avuto dubbi e non ho mai creduto troppo a complotti o congiure. Ma non per arroganza o ottusità: per un motivo molto semplice chiamato In Utero.

I Hate Myself and I Want to Die: così Cobain voleva inizialmente chiara l’album. Chiaro no? Scherzo o meno, questa era ciò che rispondeva a chi gli chiedeva come stava.

“Serve the Servants”, a proposito del suo stato d’animo e il divorzio dei genitori:
«Adesso sono vecchio e annoiato».
«Questo leggendario divorzio è una tale noia».

“Dumb”:
«Il mio cuore è spezzato, ma ho un po’ di colla / aiutami a inalare e lo ripareremo insieme».

“Milk It”:
«Guardo verso la luce / c’è il suicidio».

“All Apologies”.
«Nel sole mi sento unico / sposato e sepolto».
 


Ecco alcune della frasi cantate nel terzo album in studio dei Nirvana. A livello tematico In Utero è un disco impregnato di frustrazione, dolore, morte. La copertina e l’art work del disco – fatti dallo stesso Cobain – sono un delirio violento: feti intrecciati, corpi sezionati, angeli dalle interiora esposte. Collage come istantanee della sua salute. I versi poi risultano una dichiarazione d’intenti. Peggio ancora: una lettera d’addio, esplicita come quella straziante che Cobain scrisse davvero prima di premere il grilletto. Tutt’oggi, mentre si celebrano i ventennali dell’uscita, è terribilmente doloroso riascoltare quelle parole, cantate in quella maniera, con un tono che alterna la depressione alla foga. È come ascoltare preavvisi e richieste d’aiuto mai decifrati e capiti davvero. Il tasso poetico dei brani di In Utero è altissimo. Basta prendere «i capelli d’angelo» e «la scatola a forma di cuore» di “Heart-Shaped Box”. Cobain è diventato Rimbaud ed è difficile scegliere il testo più bello. Ma fra tutte le canzoni, ce ne è una terribilmente significativa, simbolica e profetica. Un personaggio che dall’Oltretomba è pronto a chiedere ciò che gli spetta. “Frances Farmer will have her revenge on Seattle”.

Ma chi era Frances Farmer? Parlare di una stella del cinema tormentata e dalla carriera bruciata è dire poco. Le attuali cronache scandalistiche di Hollywood impallidirebbero al confronto. La bellissima e affascinante Frances Farmer, nasce a Seattle, come Cobain, nel 1913. Ma non è solo stupenda: influenzata da Nietzsche, nel 1931 vince il concorso di scrittura con il saggio Dio muore. Il premio? Un viaggio in Unione Sovietica, che nonostante il parere contrario di tutti, Frances accetta subito. A ventidue anni si trasferisce a Hollywood: la fama arriverà immediata e sarà clamorosa. Dopo la prova nel film Ambizione, la Farmer è una diva. È l’inizio della fine. Il carattere, l’abuso di droghe e alcol poco a poco la portano a litigare con gli Studios. Nel 1942 è rinnegata e abbandonato dallo star system. L’arresto per guida senza patente e le intemperanze verbali contro l’agente di polizia portano all’arresto e al processo, in cui la Farmer getta addirittura il calamaio pieno di inchiostro in faccia al giudice. Da qui, le cose prendono una piega terribile, fatta di lunghi ricoveri in manicomio e terapie poco lecite. Nella sua biografia – Will There Really Be a Morning? – la Farmer parla di stupri da parte degli inservienti, obbligo a prostituirsi con i militari della base vicina, lobotomie, degrado, umiliazioni indicibili.

Nel 1950 Francis cerca di tornare alla normalità con piccoli lavoretti da impiegata. Nel 1958, dopo quindici anni, ritorna sulle scene, ma del suo talento radiante è rimasta solo la tenue ombra. L’unica oasi felice è il Frances Farmer Show, condotto con ottimi risultati fino al 1964, data in cui i problemi di alcolismo la faranno cacciare. Segue nell’ultimo periodo un alternarsi triste di attività commerciali di breve durata e arresti. Morirà di cancro ai polmoni a 57 anni.
 


Ora, bisogna chiedersi: perché Cobain era talmente legato alla Farmer? Fissato a tal punto da chiamare Frances la sua unica figlia, e da far indossare alla Love, nel giorno del loro matrimonio, un vestito verde appartenuto all’attrice. Confrontando le due biografie, i caratteri e le scelte di vita, le risposte vengono fuori. Il leader dei Nirvana ha sempre rifiutato il ruolo di star, di portavoce della Generazione X. Ha sempre reso palese, fin troppo, l’odio e il disgusto per il mondo discografico e gli squali che lo popolano. Sensibile ed emotivo, ha pagato in prima persona la fama e il successo mondiale di Nevermind. Un peso insopportabile e opprimente che, andandosi a legare con i traumi del passato mai del tutto superati e le dipendenze sempre più gravi, ha causato un infausto finale. Francis Farmer è una sorta di modello e di alter ego. Colei che fu tra le prima ad agire senza piegarsi alle regole degli Studios, agendo sempre di testa sua. Anche lei ha pagato a caro prezzo la sua fragilità e la sua purezza, tra il declino rapido e il logoramento dovuto a droghe e alcol. Cobain prova empatia e affetto per uno spirito affine dal tragico destino. Magari in un mondo giusto, sarebbe stata la diva tra le dive. Ma state tranquilli: avrà la sua vendetta.

In “Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle” Cobain proietta con terribile lucidità il suo futuro. Il tono è quello di colui che non ha più nulla da perdere. Il ritornello è straziante e annichilente: Cobain non sa bene più nemmeno quando è triste: «I lost the confort of being sad».

Poco da aggiungere: altro intaglio nero da mettere sull’incisione di In Utero. E il finale del brano è l’immagine definitiva. Il commiato assoluto e finale di Cobain e dello speculare modello Farmer: «Tornerà come il fuoco per bruciare tutti i bugiardi / lascerà un manto di cenere sulla terra.»

Essendo due angeli caduti, ora Kurt e Frances dividono lo stesso lembo di cielo, magari raccontandosi come sarebbero potute andare le cose. Per ingannare il tempo, progettano la loro vendetta su Seattle. E sul mondo.
 

(Nirvana, Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle, 4’ 09’’)

 

“Ologramma per il re” di Dave Eggers

«Maggiore efficienza senza i sindacati, eliminiamoli. Maggiore efficienza senza operai americani, punto, eliminiamo pure loro. Perché non ho visto arrivare la tempesta? Maggiore efficienza anche senza di me. Accidenti, Kit, rendemmo quella fabbrica così efficiente che diventai superfluo anch’io. Mi ero reso irrilevante». Con Ologramma per il re (Mondadori, 2013), Dave Eggers torna al romanzo attraverso il ritratto commovente e realistico di un uomo contemporaneo, Alan Clay, alle prese con la crisi economica mondiale e quella personalissima in atto nella sua vita.

Alan, l’americano medio, la persona comune: un uomo testardo, incasinato e sfortunato. Un self-made man che nell’epoca del boom economico ha avuto una brillante carriera passando da venditore porta a porta a manager aziendale della gloriosa Schwinn, famosa azienda produttrice di biciclette. Alan che si ritrova ora, a cinquantaquattro anni, a fare i conti con un divorzio, diversi fallimenti in ambito lavorativo e i debiti che lo sommergono. L’ultima occasione per assicurare a se stesso una vita dignitosa, e a sua figlia Kit la possibilità di proseguire gli studi al college, consiste nel vendere, direttamente a re Abdullah, sovrano dell’Arabia Saudita, un sistema IT dotato di un ologramma che permette di assistere a conferenze in 3D. Nella città di Gedda, dove alberga, e di KAEC (King Abdullah Economic City), futuristica metropoli in crescita nel bel mezzo del deserto, dove si reca nella speranza di finire il suo lavoro al più presto, inizia la parossistica attesa di Alan nell’incombenza di vedere il re. Clay vive questa sospensione tra momenti di asettico isolamento all’interno dell’albergo e tuffi improvvisi nell’umanità che lo circonda, impreziositi dagli importanti incontri con l’uomo che gli farà da guida, Yousef, e il medico che lo curerà, la dottoressa Zhara Hakem. Proprio in questi momenti Alan comincia a comprendere quanto scarse siano le sue possibilità di portare a termine il lavoro…

Attraverso le lettere scritte e mai spedite alla figlia e ricorrenti flashback, Eggers lo mostra come ipocondriaco, ritardatario, semialcolista: diviso a metà «tra l’uomo responsabile che avrebbe ingaggiato un autista a peso d’oro per poter fare il suo dovere nella futura città sul mare nel deserto, e quello che sbevazzava nella sua camera d’albergo pugnalando tumori fantasma, prendendo a calci le porte e scrivendo lettere che non era pensabile spedire». Lo scrittore poi, senza voler entrare nella dialettica politica, lascia intendere quello che è il suo pensiero sugli effetti devastanti della globalizzazione e scandaglia la degenerazione del capitalismo e la crisi dei mercati ma soprattutto le conseguenze che questi due fattori hanno nella vita del suo protagonista. Alan, difatti, è un uomo che ha contribuito perfino ad affondare la storia centenaria della “sua” azienda , la Schwinn (storia vera), e fa anche di questo il suo tormento.

Gli effetti perversi della globalizzazione sono infatti il cuore del romanzo, nel quale il sogno americano e l’occidente si sono infranti: una storia che Eggers ci illustra spassionatamente utilizzando al massimo l’alternanza di flashback. Ologramma per il re è stato inserito nella lista dei migliori cinque romanzi del 2012 dal New York Times e diventerà un film con protagonista Tom Hanks e la regia di Tom Tykwer.


(Dave Eggers, Ologramma per il re, trad. di Vincenzo Mantovani, Mondadori, 2013, pp. 281, euro 18,50)