“L’artista” di Gabriele Romagnoli

Quando le storie si intrecciano e nella lettura gli anni scorrono fin troppo rapidamente, dalla penna di uno scrittore molto probabilmente sarà uscito un ottimo risultato. Così nel romanzo L’artista (66thand2nd, 2013), il passato ha bisogno del presente per realizzarsi, e il futuro diviene l’unica cosa certa, in un turbinio di sensazioni ed emozioni. Il romanzo dello scrittore e giornalista Gabriele Romagnoli, pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 2004, viene a illustrare e a rendere omaggio alla città di Bologna.

L’artista è il classico libro che vogliamo leggere per emozionarci e rilassarci allo stesso tempo. La storia, nella fattispecie una relazione potente e vera tra un padre e un figlio, si materializza ai nostri occhi in un buonissimo e avvincente romanzo temporalmente suddiviso in tre parti, in cui i dialoghi scorrono leggeri e sinceri. È uno di quei libri che scorgi aggirandoti per la libreria, finché quella copertina, il ricordo marinettiano in una silhouette apparentemente stilizzata, cattura la tua attenzione dall’alto dello scaffale.

La vicenda coinvolge tre figure. Un padre, un figlio e una misteriosa, singolare, magica figura… per l’appunto, l’artista. È un romanzo fatto da tre uomini (quattro con l’autore stesso), un viaggio intimo e personale che cattura, nero su bianco, il susseguirsi di tre generazioni, le loro interazioni, il loro rapportarsi con lo scorrere del tempo. L’artista non è il personaggio principale su cui è incentrato il lavoro di Romagnoli, bensì è il collante che amalgama la relazione intergenerazionale tra Remo, il padre, e il proprio figlio. Ed è così che “l’artista” appare sempre in tre momenti decisivi nella vita dei due uomini. Dapprima salva il padre da una fucilazione certa nella campagna emiliana durante l’occupazione, è il momento di resistenza della guerra partigiana. Qui l’elemento magico descritto dalla penna di Romagnoli è strabiliante e ben descritto. Poi, ricompare nel 1964, il giorno dello scudetto del Bologna, momento epico per la storia locale emiliana; per apparire, infine, una terza e ultima volta, quasi fosse una proiezione immaginaria, nel 1977, in quelle che sono ricordate come le tristi e sanguinose giornate di una Bologna in subbuglio e sconvolta dal terrore.

Romagnoli affresca delicatamente una storia locale, intrecciandovi bellissimi ricordi familiari e personali. Storie e ricordi di quelle che ormai vanno perdendosi e che tanto rimpiangiamo. Una memoria che va troppo rapidamente eclissandosi. Nella scrittura di Gabriele Romagnoli c’è tanto della prosa di Guccini, si intravedono parole sofferte e altamente vissute. Tre piani temporali che si sovrappongono e si intrecciano. Le descrizioni degli ambienti circostanti sono piccoli gioielli di letteratura, tra aggettivi ricercati e curati, con maestria di scrittura.

L’artista è l’attore non protagonista, pedina fondamentale per il susseguirsi degli eventi. Snob, eccentrico, incantato, è l’invenzione letteraria che consente all’autore di mediare in una relazione ben più profonda, come quella che lega un padre a un figlio: i tre insieme danno vita a una moderna Trinità. Con questo romanzo, Romagnoli affronta la vicenda ordinaria tra due persone, una relazione che però trova la propria coscienza, la propria consapevolezza esistenziale, grazie a questo deus ex machina che viene a muovere gli eventi circostanti. Gli accadimenti si sarebbero succeduti a prescindere dall’interposizione dell’artista. Tuttavia, la sua figura viene a rappresentare la presa di coscienza dell’agire umano combattuto tra affettività profonda e storia.

Un romanzo potente che indaga in modo delicato i temi sociali, politici e personali che tutti prima o poi ci siamo trovati ad affontare.

(Gabriele Romagnoli, L’artista, 66thand2nd, 2013, pp. 264, euro 16)

“Televisione”: a tu per tu con Carlo Freccero

Si chiama Televisione (Bollati Boringhieri, 2013) l’ultimo libro di Carlo Freccero, ma per il massmediologo ed ex dirigente televisivo parlare di tv è soltanto un punto di partenza per osservare il panorama sociale e politico del nostro paese.

Dagli esordi televisivi negli anni ’80 come direttore di palinsesto delle neonate Italia 1 e Canale 5 e Rete, all’esperienza francese a La Cinq con Fininvest, poi France 2 e France 3, fino a Rai 2 dei primi del 2000 con Michele Santoro e Daniele Luttazzi, ai tempi del cosiddetto «editto bulgaro» berlusconiano che bandì i due autori dalle reti Rai insieme a Biagi e, di fatto, lo stesso Freccero, che tornò a dirigere una rete solo nel 2008 con l’avvento del digitale terrestre e Rai 4, rete che ha lasciato soltanto lo scorso agosto per andare in pensione. Almeno dalla Rai, perché Freccero è attivo più che mai con i suoi libri, convegni, partecipazioni televisive e nel dibattito politico. Dalla “lite” con Brunetta sul servizio pubblico e la Rai, alla recente intervista su il manifesto in cui analizza il “fenomeno mediatico Renzi” definendolo «un gattopardo che invoca il cambiamento perché nulla deve cambiare».


Freccero partiamo dal suo libro, Televisione. Perché la tv costituisce un punto d’osservazione privilegiato per un’analisi sociale e politica del Paese?

Questo libro prende spunto dalla celebre frase del sociologo canadese Marshall McLuhan secondo cui il medium è il messaggio. Il contenuto della scrittura è il discorso, il contenuto della televisione è l’immagine. Se condividiamo le teorie di McLuhan dobbiamo ipotizzare che la televisione abbia imposto le sue regole anche alle altre sfere della società, come la politica, il mercato, la stessa organizzazione del pensiero, così come la stampa aveva creato l’uomo tipografico. La teoria è chiarificata da McLuhan nel suo testo più famoso La galassia Gutenberg, e la mette in qualche modo alla prova nei medium più disparati negli Strumenti per comunicare. Il motivo che rende attuale l’approfondimento di quest’ipotesi, relativamente alla televisione, è dato proprio dal contesto di forti rivoluzioni mediatiche che stiamo attraversando.
La televisione ha sostituito ai concetti di verità e qualità, i concetti di maggioranza e quantità.
È il “vero” prodotto di successo che raccoglie audience, consenso, e permette di scalare i sondaggi. Non conta più il contenuto, la politica con la “P” maiuscola. Conta la capacità di comunicazione! Ma la comunicazione è anche inganno, illusione, effetto speciale.


Quali elementi decretano l’efficacia di un messaggio comunicativo? A quale pubblico si rivolge?

La crisi economica ha contribuito a falsificare in senso pauperiano l’idea di un benessere raggiungibile da tutti. Improvvisamente la crisi ha smascherato l’idea che il capitale economico non comportasse, come risorsa culturale, differenze sostanziali. Con la crisi, ricchi e poveri sono risultati ancora una volta divisi, e chi si trovava ai due estremi della piramide sociale ha dovuto riconoscersi rispettivamente come casta e come rifiuto sociale. Da un lato manager, politici, grandi funzionari pubblici, dall’altro cassintegrati, disoccupati, esodati. Una nuova comunità si è allora andata sostituendo alla maggioranza costituita dalla televisione generalista commerciale. La separazione non è più come nell’universo gutenberghiano tra chi sa e chi non sa, o come ai tempi della tv generalista, tra chi è ricco e chi è povero. Nell’epoca della rete, insomma, nei social network non contano ideologie o differenze di classe. Non c’è opposizione tra imprenditore e lavoratore. L’unità della moltitudine si costruisce su una serie di valori nuovi, quale l’onestà, la moderazione, correttezza, rispetto della differenza, bene comune.


Quindi la rete, il web ha sostituito la televisione favorendo la democrazia? Che implicazioni comporta il rapporto tra rete e politica?

Siamo in una transizione da un contesto multimediale in cui la cosiddetta élite trae ancora la sua autorevolezza dalla consuetudine con la Galassia Gutenberg, dalla sua capacità di comprendere situazioni complesse, di conoscere leggi nella loro formula teorica, e di padroneggiare le capacità di esposizione e di scrittura elaborando teorie e programmi di oggi. Da tempo su questa intellighenzia legata alla pagina scritta ha preso il sopravvento una forma di populismo di matrice televisiva. I meccanismi di rilevazione dell’audience rivelando i gusti del pubblico in direzione di una media capace di catturare il pubblico più vasto possibile, ha finito per creare un modello di cittadino conformista e superficiale, interessato al successo materiale e ai consumi. Alle spalle di questa nuova ideologia c’è l’idea dell’intelligenza collettiva di Pierre Lévy, unita al concetto di decrescita felice di Latouche, e questo universo multimediale ha subito recentemente un grosso riaggiustamento con il web. Paragonabile alla rivoluzione vissuta ai tempi della tv commerciale.


Dunque se la rete sostituisce la televisione, cambiando il mezzo cambia il messaggio?

Il mio libro si chiede proprio cosa succede quando a un medium dominante se ne sostituisce un altro. Ho portato a termine il libro “profetizzando” in qualche modo quanto avvenuto alle ultime elezioni politiche, ma posso dire di avere avuto fortuna nella misura in cui c’è stato restituito uno scenario sino a pochi mesi prima imprevedibile: l’affermazione grazie, anche, alla rete di Beppe Grillo e del suo movimento. C’è stata una profonda frattura che è stata sorprendente, ma era già nell’ordine delle cose. Nello stesso tempo l’analisi dei media e della comunicazione in atto suggerivano ampiamente gli esiti successivi. La sorpresa sta piuttosto nell’improvvisa implosione delle logiche del passato. Sono abituati a pensare che tutto cambi ma lentamente e impercettibilmente invece i cambiamenti a volte arrivano tra fratture e crolli. Il crollo del muro di Berlino è simile a quello che nel mio libro definisco «il crollo della maggioranza» e quindi queste ultime elezioni politiche sono quanto di più didascalico possa esistere rispetto all’ipotesi di base che è il medium a generare il messaggio.


È in quest’ottica che va intesa la sua definizione del movimento di Grillo «Mediaset 5 Stelle»?

Grillo sta usando internet come Berlusconi ha usato la tv generalista in senso maggioritario. Grillo tende a ridurre internet a un mero “mi piace” e “non mi piace” e a tradurre internet come se fosse una qualsiasi rete commerciale.
Grillo e il Movimento 5 Stelle grazie al web raggiungono una sinistra bersaniana ancora obsoletamente legata alla Galassia Gutenberg e la destra berlusconiana legata alla tv commerciale. La causa è l’incapacità della sinistra di superare la Galassia Gutenberg. Il popolo della sinistra è rimasto legato ai concetti di onestà, verità, logica e non compromissione, che confliggono con l’universo ancora recentemente dominato dalla televisione generalista e commerciale.
L’incapacità della sinistra a comunicare attraverso la televisione non è solo un dato di fatto, ma anche una scelta programmatica. Per tutto il corso della campagna elettorale Bersani si è rifiutato di fare propaganda proprio per evitare l’effetto ingannevole. Il rifiuto della propaganda è stato un atto di “serietà” che non ha pagato elettoralmente. La sinistra ha sperperato per questo principio quel gruzzolo di voti che aveva accumulato.


Secondo le sue analisi, nel panorama politico attuale qual è l’esempio di efficacia comunicativa? Matteo Renzi sembra proporsi come personaggio politico che riesce ad accumunare un pubblico eterogeneo alimentando un immaginario comune.

Renzi è bravo, ha idee che non possono definirsi né di destra né di sinistra e come tali possono rivolgersi a un pubblico in qualche modo più ampio, ma nasce fuori tempo. Sarebbe stato un perfetto antagonista del Berlusconi “unto dal Signore”. Oggi che Berlusconi è superato, anche la comunicazione di Renzi mostra la corda. Renzi, nella sua sfida a Bersani, ha cercato di traghettare la sinistra dalla Galassia Gutenberg alla maggioranza della tv generalista commerciale, proprio quando questo modello di televisione era ormai superato.
Ma l’uso che Berlusconi ha saputo fare della televisione generalista, ne ha rivelato per certi versi la forza residua nei partiti. In queste elezioni la televisione generalista è stata ancora essenziale.
Lo stesso Grillo, che ha fatto della rete il suo simbolo, non ha giocato su un solo tavolo. Non è andato direttamente in tv ma l’ha sfruttata.
Grillo ha infatti utilizzato tre canali per la sua campagna elettorale: la piazza, il blog e la televisione. Non comparendo mai in quest’ultima ma essendo spesso oggetto di discussione nei talk show, nei programmi d’approfondimento.
Renzi come Berlusconi è un comunicatore senza contenuti. E proprio questa cosa allarga il suo potenziale bacino elettorale. Come per l’audience, l’insieme più ampio è quello meno definito, così Renzi è un comunicatore che con un linguaggio televisivo potremmo definire generalista, e per questo motivo è inclusivo e non esclusivo. Ha una buona parola per tutti, non demonizza l’attuale classe dirigente. Vuole solo rottamarla. Nel linguaggio di Renzi si sostituisce l’attuale classe politica con una nuova. C’è discontinuità solo nel testimonial, più che nei programmi e nei contenuti.


«La rottamazione di vecchi “testimonial”» mescola il linguaggio pubblicitario, la lapidarietà degli spot, al messaggio politico. È un’esemplificazione dello sconfinamento di campi che ci riporta al punto di osservazione privilegiato, la televisione?

La cosa è ancora peggiore e le spiego perché. Oggi con Renzi si fa evidente una cosa terribile, ovvero il ruolo limitato giocato oggi dalla politica nei confronti dell’economia. È in economia il luogo dove si prendono le decisioni vere, quelle che spesso sopravanzano i singoli stati.
Compito della politica non è tanto quello di guidare le cose sulla base di scelte e valori.
Oggi la politica è ridotta a “creare maggioranza” per vincere qualsiasi tipo di elezione ma senza contenuti. Mi chiedo: perché tutti quanti si sono accodati a Renzi nel Pd anche se lui viene visto come un corpo estraneo? Proprio perché anche gli avversari interni al partito hanno capito che Renzi è capace di fare due cose che il Pd non è mai riuscito a fare: comunicare e coagulare maggioranze.


Grazie Freccero per la sua disponibilità.

 


(Carlo Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 172, euro 9)

“Il soccombente” di Thomas Bernhard

«Chiamarlo il soccombente è stata una geniale invenzione di Glenn Gould, pensai, Glenn ha capito Wertheimer fin dal primo istante, Glenn ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che ha conosciuto».

Pubblicato in Germania nel 1983 e due anni più tardi in Italia da Adelphi, Il soccombente è il primo dei tre romanzi dedicati alle arti sceniche e visive di Thomas Bernhard; tre sono anche i protagonisti della storia, l’io narrante, di cui ignoriamo il nome ma che si può facilmente associare alla figura di Bernhard, il virtuoso del pianoforte Wertheimer e il famoso pianista canadese Glenn Gould.

Spina dorsale del racconto è l’imperituro conflitto tra il talento acquisito e il genio indiscusso, in questo caso impersonato da Gould, che porterà immancabilmente al suicidio di Wertheimer.

Nel limbo dell’ignavia si colloca il narratore, compagno di studi di entrambi al Mozarteum di Salisburgo che in Gould riconosce il genio e l’impossibilità di eguagliarne le doti, rassegnandosi così all’idea di abbandonare la carriera musicale.

Lo stesso non succede a Wertheimer, che sin dal primo ascolto delle “Variazioni Goldberg” di Bach per mano dell’amico canadese, viene colpito da un’angoscia ossessiva che non si riduce semplicemente all’invidia, ma che, come un parassita, avvelena tutto ciò che lo circonda, gli amici, l’amata/odiata sorella, la servitù, arrivando persino a detestare la tenuta in cui abita, ignaro del declino che lo attende.

Martellante sin dalle prime pagine, il racconto non segue una trama, ma ci rivela subito e bruscamente il tragico esito del pianista, come se la fine – e dunque la morte – fosse paradossalmente il punto di partenza per capire l’uomo dietro lo strumento, un uomo che neppure ambisce alla gloria del palcoscenico,  destinato soltanto a essere succube della sua stessa esistenza.

«Non era riuscito a rassegnarsi al fatto di essere stato partorito in un mondo che in sostanza e fin dall’inizio lo aveva sempre disgustato in tutto e per tutto». Così Bernhard cristallizza nello spazio e nel tempo questo ambiguo personaggio, la sua staticità è oltremodo accentuata dall’imperante e dinamica figura di Glenn Gould fino a renderla esasperante agli occhi del lettore che ne desidera la fine, quasi dimenticando che questa fine effettivamente c’è già stata.

È interessante constatare che è Glenn Gould il vincente indiscusso, vincente anche nella prematura morte, un uomo che non brilla poiché è, ma è su Wertheimer che il narratore sposta l’attenzione, colpevolizzando e compatendo l’esteta perduto, il perfezionista incompleto, fino all’inevitabile depersonalizzazione espressa chiaramente nel titolo del libro.

Titolo più che risoluto se ci si lascia sedurre dall’etimologia della parola tedesca Untergeher che in sé ingloba sia il fallimento psicologico e morale di Wertheimer, sia l’atto di soccombere definitivamente di fronte alla vita (letteralmente «che va sottoterra»), significato in parte perduto nella traduzione italiana.

Efficace, inoltre, è la capacità di Bernhard di creare uno schema narrativo preciso: il linguaggio volutamente soffocante, che a primo acchito dà l’impressione di un groviglio di associazioni mentali sconnesse, è in realtà organizzato in modo tale da riproporre sistematicamente poche considerazioni chiave come se fossero sempre diverse, se assumessero nuovi significati.

Non è un libro che mira a creare una coscienza morale nel lettore, tutt’al più cerca di svelare l’uomo da vicolo cieco dietro il gesto plateale di una morte annunciata, ci sobbarca di conseguenze più che di risposte, delle presunte spiegazioni del “dopo” che inevitabilmente ronzano nella mente e asfissiano chi resta.

(Thomas Bernhard, Il soccombente, trad. di Renata Colorni, Adelphi, 1985, pp. 186, euro 10)

“Come il vento” di Marco Simon Puccioni

Basato sulla storia vera di Armida Miserere, Come il vento è il terzo film di Marco Simon Puccioni, già in evidenza con l’esordio di Quello che cerchi (2002) e con il successivo Riparo, passato per Berlino nel 2007 per essere poi invitato a più di ottanta festival internazionali.

Armida Miserere (Valeria Golino) è stata una delle prime donne a dirigere un istituto carcerario in Italia nei vent’anni tutt’altro che semplici dei grandi processi per mafia, terrorismo e corruzione politica. All’inizio del film è in servizio nel carcere di Lodi. Nonostante il lavoro, nonostante le minacce recapitate in forma di proiettile per posta, la sua vita è comunque felice. È impegnata con Umberto Mormile (Filippo Timi), educatore carcerario presso il centro di Opera, che cerca di introdurre i detenuti sulla strada del teatro. Fuori dalla prigione la loro vita scorre normale, con gli amici, una gravidanza interrotta naturalmente e la voglia, comunque, di continuare a provare. Poi una mattina presto, mentre Umberto va a lavoro, una moto si affianca alla sua station wagon e una raffica di proiettili lo uccide. Non si sa perché, sembra a tutti gli effetti un attentato di mafia. Armida vive la sua vita sprovvista del conforto della realtà al di fuori. Accetta gli incarichi più duri, cresce in cinismo e severità, sempre più sola, incapace di aprirsi, in attesa di una verità su Umberto che possa darle un sollievo di qualsiasi tipo.

Era soprannominata la fimmina bestia, Armida Miserere, negli anni in cui diresse il carcere dell’Ucciardone, in mezzo a detenuti in regime di 41-bis su un’isola in cui non c’erano altre donne. In un ambiente ancora fortemente maschilista e organizzato con rigore militare, seppe imporsi come una delle più importanti risorse nella gestione dei detenuti speciali e pericolosi, senza piegarsi mai alle numerose minacce e agli attacchi violenti che subì.

Il film di Puccioni si concentra proprio sull’apparente divergenza tra la granitica immagine pubblica e lavorativa di persona inflessibile e invincibile e il ritratto privato carico di fragilità di una donna alla ricerca di quella sicurezza privata, intima, psicologica, che solo l’amore per Umberto Mormile era stato in grado di darle.

Quando fu trovata morta suicida la mattina del 19 aprile 2003, nel suo appartamento annesso al carcere di Sulmona che dirigeva, sul suo letto c’erano la pistola, uno dei suoi due cani e le foto della sua vita precedente, quella con Umberto. Su una sedia i vestiti che avrebbe voluto indossare per l’ultima volta erano sovrastati da un biglietto in cui chiedeva di essere cremata e dispersa nel vento, «perché vento sono stata».

Come il vento non parla di mafia o criminalità se non nella misura in cui le grandi vicende del Paese hanno coinvolto la dottoressa Miserere. È un film privato, girato su Armida, seguendola nei corridoi delle carceri e in casa, senza spazi ulteriori se non quelli della sua quotidianità.

L’insistenza sull’elemento abitudinario della vita di Armida, divisa sempre tra lavoro e casa nonostante i cambi di destinazione sempre più frequenti, tende a sancire una ripetitività dominante nell’andamento drammatico. Occupandosi di coprire un arco temporale di quasi quattordici anni – dalla morte di Umberto al suicidio di Armida – Puccioni, anche sceneggiatore con Nicola Lusardi e Heidrun Schleef, non riesce a mantenere una costanza emotiva omogenea, diluendo il progressivo inaridimento e la perdurante sofferenza della sua protagonista in poche isolate sequenze (l’incontro con il secondino Maurizio, i dialoghi con gli amici Rita e Riccardo).

Rimane un film di solida onestà nel rendere giustizia alla drammatica e difficile vita di una figura importante delle istituzioni che riesce a resistere alla tentazione di facili cedimenti emotivi o di partigianerie sommarie (tipo: i prigionieri sono tutti bestie, i carcerieri tutti torturatori), preoccupandosi esclusivamente di ricordare Armida Miserere.

Passato fuori concorso all’ultima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Come il vento ha ricevuto il premio collaterale della Libera Associazione Rappresentanti di Artisti per l’interpretazione di Valeria Golino.

 

(Come il vento, di Marco Simon Puccioni, 2013, drammatico, 110’)

 

“La Piramide” di Juan Villoro

Messico, un passato terribilmente recente, un’atmosfera a tratti apocalittica e fin troppo verosimile: con  La Piramide (Gran Vía, 2013) Juan Villoro, scrittore messicano di rado arrivato fino a noi, fa il suo ritorno in libreria.

In una narrazione fluida e continua, il romanzo è animato, come nella migliore tradizione latinoamericana, da una galleria di personaggi originali e quantomeno bizzarri, molto ben delineati. Tutti sembrano essere vittime, ognuno a suo modo, di un passato del quale ricordano tutto o niente, ma che li perseguita. Il solo fatto che vivano in un albergo fa di loro esseri transitori, senza patria né legami. Un esercito di “sopravvissuti” che, in un modo o nell’altro, è attirato verso la Piramide, quasi il complesso turistico in cui la storia è ambientata – centro e ulteriore personaggio del romanzo – fosse un catalizzatore di miseria umana. E in un certo qual modo lo è, perché non si tratta di un albergo come tutti gli altri: presso la Piramide, infatti, si organizzano vacanze non solo avventurose, ma al limite del pericolo, del rischio e della paura, secondo la teoria della “paranoia ricreativa”: «Non vendiamo tranquillità. Su tutti i giornali del mondo pubblicano notizie orrende sul Messico: corpi mutilati, volti sfigurati dall’acido, teste mozzate, una donna nuda appesa a un palo, pile di cadaveri. Tutto ciò provoca panico. E questo, per assurdo, è ciò che vuole provare certa gente che vive in posti tranquilli. […] Se sentono paura, significa che sono vivi: vogliono riposare sentendo paura. Quello che per noi è orribile per loro è un lusso. Il terzo mondo esiste per salvare gli europei dalla noia».

Questa la dichiarazione di intenti di Mario Müller, gestore dell’albergo e inventore di questa forma di turismo perverso, che sembra avere molto successo quando tutti gli altri alberghi della zona sono ridotti a spettrali casermoni vuoti. È in questa cornice – in questo «Disneyland con herpes» in cui degli attori inscenano rapimenti e sparatorie e le telecamere registrano praticamente tutto – che i nostri personaggi cercheranno una via di riscatto.

La voce narrante è quella di Antonio Góngora, detto Tony. Ex bassista di una rock band messicana, ex tossicodipendente, ha da poco trovato un angolo di pace presso la Piramide, dove lavora grazie all’amico di sempre: Mario, un tempo cantante del gruppo. La Piramide è, anche e soprattutto, la storia della sua redenzione. Antieroe per eccellenza, Tony è il risultato di una serie di sfortunati incidenti: da bambino un’auto l’ha investito lasciandolo zoppo per tutta la vita; lo scoppio di un petardo, pochi anni dopo, gli ha portato via un dito, la droga, poco più avanti, gli ha sottratto l’amore e metà dei ricordi. Alla Piramide lavora anche Sandra, istruttrice di yoga che «allenava i turisti al controllo della violenza e gli attori alla sua rappresentazione»: americana, da oltre vent’anni in Messico, si è lasciata apparentemente alle spalle un passato di droga e prostituzione. Il Gringo Peterson, infine, è il proprietario del complesso turistico. Anche lui americano, ha una vita mediocre e felice che in poco tempo crolla: perde il figlio e la moglie nel giro di un anno e, per ironia della sorte, non si può arruolare per il Vietnam, in un momento in cui la guerra gli sembra l’unica soluzione possibile per porre fine a una vita che d’improvviso si trasforma «in qualcosa che era già accaduto. Il resto, il futuro, non esisteva».

Ciò che scuoterà ulteriormente queste esistenze tormentate, che hanno trovato il loro apparente equilibrio nell’assurda dinamica della Piramide, è l’omicidio di due sommozzatori: uno dei due viene trovato morto nell’acquario dell’albergo; l’altro, suo amico e amante, qualche giorno dopo, affogato durante un’immersioneal largo della costa messicana. Il pericolo reale e tangibile sembra quindi infiltrarsi nella violenza programmata dell’albergo, e il fatto che i due morti sono “gringos”, americani, non può che peggiorare le cose. Le successive investigazioni faranno luce non solo sull’omicidio, ma anche sulla natura dell’hotel e sul comportamento di Mario, che scopriremo essersi identificato con «un dio ordinato e capriccioso, sovrano del controllo e del timore». Il suo regno, allusivamente battezzato la Piramide, diventa quindi metafora dell’intero Messico, che Villoro vuole mostrare senza mezzi termini, con tutto il suo carico di violenza e disperazione.

L’improvviso declino della Piramide non è solo il riflesso della situazione dell’intero paese, ma anche del declino psico-fisico di Mario, il suo ideatore. Da divinità onnipotente nel suo stesso regno, da apparente benefattore, Mario, in fin di vita, non è che un sopravvissuto lui stesso: farà in modo di lasciare ciò che resta della sua vita in mano a Tony, in un gesto che è tanto egoistico quanto generoso, poiché gli darà finalmente la possibilità di ricostruirsi una vita.

Attraverso personaggi impeccabili e dialoghi brevi e pungenti, Villoro ci racconta il suo Messico, con una critica visionaria che filtra dappertutto, in primis dalla lingua stessa. Sullo sfondo troviamo – come già nel Bambino che collezionava parole, di Juan Pablo Villalobos – il dramma delle persone che gravitano intorno ai narcos, soprattutto donne e bambini, maltrattati, abbandonati o uccisi. Frequente è la contrapposizione con l’Europa e, soprattutto, con gli Stati Uniti. In questo senso, è proprio il Gringo Peterson a offrirci i commenti migliori: «Sei messicano, Tony. Voi non avete bisogno di una guerra per intossicarvi. Qui la realtà è già alterata».

(Juan Villoro, La Piramide, trad. di Maria Cristina Secci, Gran Vía, 2013, pp. 240, euro 15)

“Nessuno ha mai visto decadere l’atomo di idrogeno” di Dario Pontuale

Dario Pontuale, autore di altri due romanzi prima di Nessuno ha mai visto decadere l’atomo di idrogeno (Bordeaux edizioni, 2012), fa conoscere al suo nuovo protagonista il significato della parola patafisica e lo mette alle strette con gli effetti di tale teoria pseudofilosofica.

Zeno Bizanti è un autore televisivo dal talento innato per l’ideazione dei tipici programmi spazzatura che raggiungono l’apice degli ascolti a discapito della tara intellettiva degli spettatori. Quando, in un azzardato moto di coscienza, cerca di elevare il livello culturale dei suoi programmi, la produzione lo licenzia in tronco e lui coglie l’occasione per trasformare la sua vita. Il cambiamento principale è l’acquisto al buio di una casetta piena di stranezze e misteri ma soprattutto invasa da una quantità impensabile di chincaglierie appartenute al vecchio proprietario. 

Con la ristrutturazione e il trasferimento nella nuova dimora ha inizio la vicenda: al nuovo indirizzo infatti vengono recapitate da strambi personaggi tre moleskine, apparentemente identiche, rinvenute in diversi punti della città.

Il mistero delle agendine e del loro contenuto coinvolge Zeno nella ricerca di prove circa l’esistenza di un popolo scomparso e di una società segreta, ma una soluzione ai dilemmi sorti si allontana sempre di più, finché non sembra scomparire completamente quando il protagonista giunge a scontrarsi con la patafisica, ovvero con la scienza delle soluzioni immaginarie. Se uno dei cardini portanti della scienza è che se un fenomeno procede in una determinata maniera è giusto dedurre che proceda sempre in quel modo, la patafisica postula che invece il procedimento cambi a seconda del punto di vista. In poche parole la patafisica è la scienza delle eccezioni e assicura una visione del mondo logicamente surreale.

A partire da questi presupposti la vicenda narrata si colora di situazioni al limite dell’assurdo e ne subisce i risvolti tragicomici tipici della commedia. L’autore si dimostra però bravo a mantenere il filo del racconto e il romanzo procede senza intoppi narrativi, articolato ma fluido. Un punto di debolezza del libro è rappresentato da un prologo e un epilogo che tendono a essere superflue didascalie: la storia è già bastevole a se stessa e ben architettata, ma questo dimostra forse solo la timidezza dell’autore. Uno dei diversi punti di forza del libro è invece sicuramente la descrizione dettagliata delle tante manie che caratterizzano i personaggi, che li rendono simpatici e inconfondibili e che rendono brillante una storia apparentemente semplice.

(Dario Pontuale, Nessuno ha mai visto decadere l’atomo di idrogeno, Bordeaux, 2012, pp. 209, euro 14)

[IlLive] Nick Cave and The Bad Seeds @Auditorium Parco della Musica, 27 novembre 2013

Sapete, per un attimo, prima di scrivere questo articolo, ho pensato che fosse quasi scontato dire quanto meraviglioso sia vedere Nick Cave dal vivo. Diciamo che le probabilità che lui e i fedelissimi Bad Seeds offrissero una performance di basso livello erano praticamente nulle. Eppure, anche stavolta è avvenuto quel piccolo miracolo che solo il rock ti può donare: e i presenti al concerto sanno bene di cosa parlo.

Sì, perché dopo solo una canzone, un Cave elegante e tiratissimo nel completo nero, decide di scendere dal palco. È il delirio: tutti i fan – e non solo – presenti all’Auditorium Parco della Musica abbandonano le loro poltrone e si prostrano ai piedi del Mito. Da lì in poi sarà un continuo buttarsi e gettarsi tra le braccia del pubblico, la cui rappresentanza femminile non mancherà in più occasioni di mostrare il proprio amore verso il cantante. Tra i Bad Seeds, l’ormai altrettanto celebre Warren Ellis è quello con una marcia in più: basta vedere il numero di archetti massacrati sul violino. Gli altri componenti della band, invece, appaiono un po’ freddi e statici.

Comunque l’atmosfera in sala è da subito caldissima: i brani dell’ultimo lavoro – Push the Sky Away – dal vivo hanno una marcia in più e sfoderare fin da subito un classico come “Tupelo” non può che stendere tutti dalla bellezza.

Come a volersi riposare dai tuffi, le corse e le mosse elettriche, Cave più di una volta si siede al pianoforte e i brividi si fanno palpabili: bellissimi quanto significativi gli sguardi che si lancia con Ellis, e soprattutto la grazia con cui quest’ultimo guarda il collega al piano: tra i due c’è un feeling eccelso. Da ricordare quindi il distico “God Is in the House”/“Into My Arms”, quanto le esecuzioni di alcuni capisaldi come “The Weeping Song” (tratta dal classico The Good Son) e “From Her to Eternity” dall’omonimo epico disco.

Intanto Cave continua a muoversi come un lupo cattivo – indimenticabile “Red Right Hand” – dando vita a una performance vocale impeccabile e non risparmiando mai divertenti scambi con il pubblico, che quando può, cerca di urlare qualche titolo di canzone da eseguire. E così, uniti da un’alchimia magica si susseguono brani distanti e diversi come “Love Letter” e “Higgs Boson Blues”, fino a che Cave e i Bad Seeds non salutano tutti, dopo i corposi bis.

Quando un mito della storia della musica sfodera un concerto del genere, bisogna sempre e comunque parlarne. O no?

“Tuttissanti” di Teresa Ciabatti

I vocabolari non mettono d’accordo. Anche quando si tratta di lavoro. C’è chi ogni giorno adempie al suo dovere e non per questo viene remunerato, sentendosi raccontare che a cieli così avari è inutile scuotere le tasche. Lo stipendio, poi, è quasi un corollario. Il fiore all’occhiello di chi non ha più una giacca. C’è poi chi si alza il pomeriggio, s’imbelletta anche il fiato, si acciambella su una sedia, infioretta qualche insulto e disseta il portafoglio. Nel tempo di una pausa pranzo. C’è un ultramondo a portata di zapping, un iperuranio mediatico, in cui sono Tuttissanti (Il Saggiatore, 2013). Basta sfregare la lampada al plasma e il gioco è fatto.

Peccato non fuoriescano geni. Ma mezze cartucce. Teresa Ciabatti, autrice sempre quest’anno de Il mio paradiso è deserto (Rizzoli) e per sua stessa ammissione gran divoratrice di programmi tv di ogni tipo, specie quelli nazional-popolari, ci porta al di là della soglia magica, in questo brevissimo docu-romanzo a bordo della vita di Lucio. Alter ego di Lele Mora.

Impresario, pigmalione, demiurgo, guru, profeta del trionfo possibile. Reclutatore e creatore di pseudo-talenti. Ovvero di involucri. Bambolotti lucidati, come il Ken/Tom Selleck della copertina. Ragazzi e ragazze ben assemblati, muscolosi, panati a dovere, replicanti intercambiabili dell’esercito del vuoto. Corteggiatori o tronisti, veline o concorrenti di reality, prodotti fiammanti del subumano. Spacciati per eroi, protagonisti incipriati dell’epica prêt-à-porter, con frasi agonizzanti da pronunciare come massime. Nella brillante scuderia di Lucio, un giorno approda Christian, paesano robusto e senza doti, che però vuole emergere, nonostante tutto, nonostante il suo niente da proporre al futuro.

Lucio non sa perché, ma resta attratto da quel tipo qualunque, da quell’umile pochezza che gli sgorga dagli occhi e cerca di regalare al nuovo arrivato il sogno che aspetta così forte. Lo travolge nella sua girandola di trasmissioni, paparazzi, serate in discoteca, in cui gli euro scrosciano a migliaia solo per entrare in un locale e sorridere dentro una foto. Si spalancano gli ingressi più lisci, quelli più ambiti. Christian in poche settimane può comprare quasi ogni voglia.

Sbarca in prima serata cavalcando un talent show, ma poi la salute lo abbandona e basta meno di un soffio a violare il cristallo di quell’universo.

Non per tutti è facile ingoiare una sconfitta. Anzi, per molti a quella è preferibile il veleno.

L’autrice conosce bene le coordinate di quel mondo, trasformandolo in materia letteraria. Permettendo una navigazione più che fluida nel suo interno iridescente. Con lei, nel suo periodare secco ed essenziale, ci si addentra agevolmente nelle ville in Sardegna, nel gruppo laccato e confuso di discepoli seriali, nelle fiere cerimonie d’aria trita dove solennizzare il nulla. In assenza di altro.

E ha ragione sempre la Ciabatti nell’affermare che quei programmi tanto dispregiati narrano qualcosa della nostra storia, le nuove categorie dell’appetibile per schiere sempre più folte di spettatori.

Sinonimo altamente digeribile di comune mortale. Ovviamente non vale per tutti. Ma ci sono sempre più adolescenti e ragazzi – descritti già qualche anno fa nel romanzo di Giulio Messina Prima che sia giorno (Marsilio, 2009) o nel saggio Gioventù sprecata di Marco Iezzi e Tonia Mastrobuoni (Laterza, 2010) – che da grandi vogliono diventare soubrette, “prezzemolini”, ospiti fissi di gossip e salotti. Nuove leve per cui la coniugazione dei verbi è un gruppo di facebook, miliziani del vacuo che credono basti galleggiare, ben vestiti, davanti alle telecamere.

Tutti genuflessi davanti al tempio del successo democratico. Aperto a chiunque ci sappia fare.

Col nome giusto a trainare la rotta.

Perché stare sotto i riflettori equivale a essere qualcuno. E guadagnare corrisponde a lavorare.

E se qualcosa s’incrina, quando le uniche guerre vissute sono quelle davanti alla playstation, le spalle potrebbero cedere.

Perciò affacciarsi a queste pagine è tutt’altro che superfluo. Capire cos’è diventato tanto desiderabile. Così come è interessante approcciare la figura di Lucio/Lele. La sua infanzia, l’inquietante purezza a baluardo dei suoi proseliti. Genitore e amante, professionale e affettivo, pastore e manager, grande moralizzatore, capace di costruire personaggi ad hoc, patrono di Tuttissanti. Questo, sia chiaro, non è un libro imprescindibile, i suoi dialoghi non entreranno negli annali letterari. Ma resta una lente d’ingrandimento, una guida turistica sui dintorni tv senza etichette né giudizi di merito. Per quelli bastano due minuti di messa in onda.

(Teresa Ciabatti, Tuttissanti, ilSaggiatore, 2013, pp. 64, euro 10)

“Il soccombente ovvero il mistero di Glenn Gould”, regia di Nadia Baldi

Il soccombente ovvero il mistero di Glenn Gould è tratto dal romanzo Il soccombente, che fa parte della trilogia sulle arti – gli altri sono A colpi d’ascia e Antichi maestri – che l’autore austriaco Thomas Bernhard scrisse tra il 1983 e il 1985.

Opera in parte autobiografica affianca a personaggi di fantasia, figure di eccellenti musicisti quali Vladimir Horowitz (1903 – 1989), pianista e compositore russo di origine ucraina, e Glenn Herbert Gould (1932 – 1982), pianista, compositore, clavicembalista e organista canadese. Quest’ultimo, soprattutto, ricordato per le sue registrazioni di Bach, per la sua eccezionale tecnica e la sua sensibilità.

Nella riduzione di Ruggero Cappuccio per la regia di Nadia Baldi, un anziano e fallito musicista cavalca a perdifiato il ricordo dell’amicizia fatale tra sé, Wertheimer e l’inarrivabile Glenn Gould nata durante un corso di perfezionamento pianistico tenuto dal maestro Horowitz al Mozarteum di Salisburgo.

Seppur parimenti ammessi alla vicinanza del celebre maestro, quando Wertheimer e il narratore sentono per la prima volta le Variazioni Goldberg suonate da Gould, vengono posti di fronte alla consapevolezza che li tormenterà per il resto della vita. I due comprendono istantaneamente, infatti, il genio del canadese e sono costretti ad ammettere di non essere in grado di reggere il suo confronto e sperare di diventare, nel futuro, i virtuosi del pianoforte che avrebbero voluto. La coscienza della mediocrità minerà irrimediabilmente il futuro di entrambi. Abbandonati gli studi pianistici saranno continuamente divisi, nella loro vita adulta, tra il richiamo ossessivo del pianoforte e l’incapacità di misurarsi con esso al livello dell’amico; una lacerazione a cui non sopravvivranno.

Questa complessa opera sull’invidia, sull’ossessione, sull’ambivalenza dei sentimenti, sull’esperienza della musica, sul genio e il suo fatale isolamento, viene affidata completamente alle parole. Il verbo, incalzato dall’ossessivo «pensai» del contrappunto femminile inedito al racconto rappresentato da Maria Sorrenti, è quasi ridondante ed eccessivo nel ritmo incalzante e continuo, senza pause, senza respiri, simile a quello delle Variazioni Goldberg.

Ad ascoltare questa opera per clavicembalo composta fra il 1741 e il 1745, vengono in mente i “trilli” che Roberto Herlitzka, vincitore quest’anno del Nastro d’argento alla carriera e del David di Donatello, replica piegato sugli sgabelli per pianoforte distribuiti sul palcoscenico, curvo come appare lo stesso Gould nelle immagini che di lui ci restano.

Il soccombente ovvero il mistero di Glenn Gould è un esperimento colto e ricco di citazioni che non si offre a un pubblico ampio. Richiede pazienza ed esercizio, ma paga rinfocolando il tormento passionale nello spettatore educato alla musica e istillando curiosità in quello meno preparato.
 


Il soccombente ovvero il mistero di Glenn Gould
riduzione di Ruggero Cappuccio
regia di Nadia Baldi
con Roberto Herlitzka
e con Marina Sorrenti

Prossime date:
Roma – Teatro Eliseo dal 12 novembre al 8 dicembre
Milano – Teatro Franco Parenti dal 8 al 19 gennaio
Asti – Teatro Alfieri 21 gennaio
Salerno – Teatro Antonio Ghirelli dal 30 gennaio al 2 febbraio

“Cuore di bestia” di Noëlle Revaz

La prima pagina è sufficiente per entrare in un mondo a sé, anzi basta il primo rigo per capire di essere altrove, nella realtà semplice di un villaggio alpino, nella vita di un fattore rozzo con le sue vacche, uno stuolo di figli e la sua povera moglie malata.

Pubblicato in Francia nel 2002, vincitore, tra gli altri, del Prix Marguerite-Audoux e del Prix Lettres frontière, Cuore di bestia è stato stampato in Italia soltanto nel 2013. Il merito è della casa editrice Keller e della traduzione di Maurizia Balmelli, la quale ha sapientemente rispettato le sgrammaticature dell’originale e ricreato la stessa espressività di questo romanzo dalla fabula lineare, eppure ricco di suggestioni.

Cuore di bestia è un romanzo nuovo e antico, ti porta nel silenzio della montagna, dove il tempo è scandito dalla natura, dalle necessità della fattoria e tutto si ripete ritmicamente. Qualsiasi creatura deve attenersi alle regole del fattore Paul, convinto della liceità del suo dominio e della giustezza di ogni sua azione. Un’immobilità atroce, che però viene scossa dall’arrivo del bracciante Jorge, un vigoroso moro del Portogallo, con un largo sorriso sereno sul volto: figura rassicurante, che conquista tutti, persino Paul, ottuso e prevenuto eppure coinvolto nelle elucubrazioni dello straniero. Il loro rapporto interrompe la routine e il romanzo improvvisamente si accende in un confronto continuo fra i due, teso fra bisogno e insofferenza. A tratti sembrano trovare un equilibrio e Paul sembra avere un cuore, una sensibilità, come quella che dimostra per le sue bestie che si ammalano e muoiono inesorabilmente; ma sono attimi, momenti in cui speri che anch’egli possa uscire da quella stasi inumana e dimostrare tenerezza per la moglie, Vulva. Sì, Vulva, così la chiama, ed è fastidioso leggerlo, soltanto nella prima pagina viene ripetuto quattro volte: «La Vulva traccheggia, si strofina in un angolo e si asciuga in cucina», «la Vulva non pensa. Si addormenta da sola e mugugna la notte intera». Distrutta da una realtà che non tollera più, con un tumore curato esclusivamente grazie ai riguardi del bracciante, la donna non parla, i suoi interventi verbali nella storia sono rari e ridotti a strepiti, urla e sussurri dolenti. Così, quando l’estate finisce e il moro riparte col suo bagaglio di intelligenza, garbo, sensibilità, si ripiomba nella realtà ancora più immobile e soffocante e soprattutto inevitabilmente segnata, consapevole di nuove possibilità.

Noëlle Revaz ottiene un risultato eccezionale per questa storia semplice ricreando nella lingua il parlato contadino del semianalfabeta Paul. Una scelta coraggiosa e geniale che dà vita a una prosa rapida e a un linguaggio efficace, calando il lettore in quella casa triste, nella stalla, nel cortile, nella serra. L’io narrante è proprio lui, Paul l’inetto, Paul la bestia, che parla di sé in terza persona, altro espediente fondamentale per la riuscita di questo libro di valore.

Questa scrittrice, dal volto pulito e delicato, che non ti aspetti dopo aver letto il libro, ha racchiuso una complessità ruvida in un tutto apparentemente semplice ed elementare: questo è talento e il risultato è qualità.


(Noëlle Revaz, Cuore di bestia, trad. di Maurizia Balmelli, Keller, 2013, pp. 219, euro 14,50)

“La biblioteca di Gould. Una collezione molto particolare” di Bernard Quiriny

In quale misura si può parlare di un uomo attraverso i libri che ha letto? Possono le scelte di lettura tracciare il profilo di una personalità? In questo senso La biblioteca di Gould. Una collezione molto particolare, opera di Bernard Quiriny (L’Orma, 2013), è la biografia di un uomo fuori dal comune, eccentrico, dandy, originale à tout prix.

Gould appare come un modello al suo amico/narratore che ne racconta incontri, aneddoti e bizzarrie. Questi fa da interlocutore alla incredibile avventura attraverso i libri di un viaggio chiamato lettura.

Potremmo azzardare  che Gould è anche il risultato di quelle scelte. Noi lettori ci identifichiamo con il narratore che da uomo semplice rimane di volta in volta ammirato e abbacinato da una personalità magnetica.

Gould è un inventore, uno scrittore, un conferenziere, un poeta, un talent-scout di libri: «passeggi con lui e a un certo punto, di botto, si ferma, come inebetito. Impone il silenzio e si mette ad annusare tutt’intorno con il naso per aria con l’aspetto comico di un segugio: c’è della letteratura nei paraggi!».I libri sono i suoi «preziosi gioielli». Così li definisce, come fossero tesori da nascondere e custodire gelosamente salvo poi farne parte al suo confidente e amico, l’io narrante con cui si crogiola e si pavoneggia, novello Des Esseintes, delle sue scoperte al tempo stesso strane e paradossali ma affascinanti.

«Certi libri contengono di più di quanto pensiamo. A volte crediamo di avere fra le mani un romanzo di circa duecento pagine, che può essere letto d’un fiato in una sola serata. Sbagliato! L’aspetto esile del volume non è che un inganno. E sono dieci, cento, mille le serate che occuperemo, forse tutta la vita!» Questa affermazione del protagonista vale per tanti libri e potrebbe avere un valore autoreferenziale al romanzo stesso di Quiriny: confesso di aver letto e riletto più volte il testo come ipnotizzata vittima di un incantesimo… pagine rilette ad alta voce e declamate come un mantra.

I libri che fanno parte della collezione di Gould sono tutti pezzi unici e hanno in comune indistintamente la voglia di far interagire il lettore con loro; sembrano aver assorbito la lezione di Baudelaire che scriveva nel 1857 nella prefazione alla famosa raccolta Les fleurs du mal: «Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère». Si ha bisogno di un rapporto profondo e stretto tra lettore e scrittore per riuscire a cogliere ogni aspetto dell’opera. Proprio nell’ultima frase del romanzo l’amico di Gould nonché suo confidente rimanda a una rilettura di alcuni testi che gli sono stati consigliati e prestati da Gould in persona: «In un anno, dopo dieci letture, non  ho trovato niente nei tre romanzi che Gould mi ha dato da leggere. E allora che posso fare se non continuare a scavare per meritarmi la sua amicizia?»

Questo romanzo non racconta solo una storia ma tante storie, molteplici sono infatti i personaggi citati a volte come semplici comparse oppure come figure di primo piano dalle vicende più disparate. Si pensi a Oskar Schnell, artista sui generis, esecutore di tele ordinarie che con un semplice dettaglio trasforma in capolavori.

Ogni capitolo mostra un incipit accattivante che potrebbe essere l’inizio di una nuova storia avvincente. E a ogni capitolo si ricomincia daccapo come in un gioco dell’oca.

La biblioteca di Gouldè anche un viaggio fantastico in giro per il mondo, le cui tappe corrispondono a città di fantasia così ben descritte da far sembrare verosimile fermarsi e pernottare a Saint-Hermier, in Francia, il cui potere soporifero fa cadere in un lungo letargo da cui si rischia di non risvegliarsi più; o a Morno, in Cile, la città «specchio a due facce, con al centro un fiume», in cui si potrebbe incontrare il proprio clone come riflesso in uno specchio. Oppure nella decrepita Oromé, la città in rovina che si è arresa alla verità per cui: «Le città nascono, vivono e muoiono, proprio come gli uomini e gli animali; quando sono troppo vecchie, salvarle non è né possibile né auspicabile, e bisogna abbandonarle al loro destino senza rimpianti. È la profonda filosofia di questa città unica, la sola al mondo che si lasci morire».

(Bernard Quiriny, La biblioteca di Gould. Una collezione molto particolare, trad. di Lorenza di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, L’Orma, 2013, pp. 179, euro 16,50)

“Il mostro di Firenze” di Antonello Grimaldi

Partiamo da una domanda: la fiction italiana è pronta a trattare i fatti più sanguinari della sua storia?

14 settembre 1974. Prova a chiudere gli occhi e vedrai la bella campagna toscana di Borgo San Lorenzo. Il placido profilo dei rilievi, il tenero verde dei campi e della natura. Tutto questo fino a che il sole dona misericordioso i suoi raggi. Poi scende la notte. E arriva il mostro.

Sabato 14 settembre 1974 Pasquale Gentilcore – 19 anni – e Stefania Pettini – 18 anni – vengono uccisi a Rabatta, frazione di Borgo San Lorenzo. Sono circa le 23:45. Non soffermiamoci sulle modalità dell’omicidio: primo, perché non è questo il contesto adatto, secondo, perché la morte dei due giovani segna l’inizio delle più orribile parabola killer italiana: quella del mostro di Firenze.

Se, come si è giustamente detto in questa sezione di Flanerí, Romanzo criminale è la miglior serie italiana, credo per il secondo posto si debba considerare anche Il mostro di Firenze. Il prodotto tratto dal romanzo di De Cataldo ha dimostrato che una televisione di valore è possibile anche nel nostro paese, andando oltre i logori e imbarazzanti stereotipi incentrati su commissari, preti e medici in famiglia. Come Romanzo criminale, anche il Mostro prende vita da una pagina oscura della cronaca italiana, diversa vista l’entità degli eventi, ma comunque ancora molto sentita dalle persone che hanno vissuto in maniera più o meno diretta quei giorni.

Datata 2009, figlia della produzione del team Fox Crime/Cattleya, Il mostro di Firenze non possiede l’appeal per finire sulle magliette e nella venerazione dei fan come Romanzo criminale, ma il suo essere passata quasi totalmente in sordina lascia basiti. Le sei puntate mandate in onda da Fox Crime furono appena sufficienti a capire la mole del prodotto e l’ignobile programmazione affibbiatele in chiaro – in terza serata nel periodo estivo – suona tanto di autogol clamoroso.

La sigla è già il primo segnale che il prodotto merita rispetto: “Gioco di Bimba” di Le Orme è la melodia sinistra e inquietante con cui annunciare l’orrore.

La fiction percorre i binari della storia italiana e i fatti privati di piccoli eroi finiti per colpa di un folle destino nei meandri più oscuri della cronaca. C’è la battaglia disperata di Renzo Rontini, il padre di Pia, una delle primissime vittime del mostro, uccisa insieme al fidanzato nella campagna del Mugello nel 1984. Ci sono le indagini della Procura di Firenze, inizialmente spiazzate e allibite dall’inedita ferocia di un serial killer che l’Italia non aveva mai conosciuto.

Il mostro di Firenze seguirà il calvario e il dolore di un padre, ma anche tutti i suoi sforzi per trovare chi sta mietendo quel terrore. Ennio Fantastichini fornisce una pregevole interpretazione di Renzo, portando fisicamente e nelle espressioni il peso della battaglia. Tra i tanti attori invece nei panni dei rappresentanti della legge, Marco Giallini nel ruolo di Ruggero Perugini e Nicole Grimaudo nel ruolo di Silvia Della Monica.

Non calcando la mano sui particolari più forti e non sbilanciandosi sulle mille ipotesi ancora valide, Il mostro di Firenze è un gradino inferiore rispetto ai grandi romanzi noir televisivi stranieri, come per esempio l’immensa Red Riding, in cui si corre il rischio di scuotere visceralmente lo spettatore non per fini vani, ma solo per metterlo davanti i fatti. In bilico tra documentario, poliziesco e dramma, il lavoro rimane comunque ottimo – soprattutto se si considera il buonismo della televisione italiana – e ci permette di rispondere affermativamente alla domanda iniziale.

Magari in un prossimo futuro non dovremo aspettare il cuore della notte per rivedere quanto è stato oscuro il cuore omicida del Mostro.