Giufà libreria caffè: spazio alla cultura indipendente

Scaffali di libri, un angolo bar e interesse per ogni forma d’arte: la cultura come strumento d’incontro. Questo è il principio ispiratore della libreria Giufà nel quartiere San Lorenzo di Roma. Nota nel panorama romano grazie all’organizzazione di numerose iniziative culturali, Giufà è un punto di riferimento per la diffusione di una letteratura altra (e alta). Il rispetto della qualità si rispecchia in ogni ambito della cooperativa: dalla selezione dei titoli all’offerta di prodotti artigianali presenti nel menù del bar. Per approfondire il progetto culturale, ho rivolto alcune domande a Susanna che mi ha accolta in libreria.

 

Come nasce la cooperativa Giufà e perché avete scelto questo nome?

La cooperativa è stata fondata otto anni fa con l’obiettivo di dare alla lettura un aspetto di partecipazione attiva. La nostra attenzione è riservata alle forme d’arte indipendenti che non trovano spazio nel mercato attuale, ma che possono generare scambi di idee. La letteratura su Giufà affonda le sue radici nella tradizione mediterranea e allo stesso tempo è emblema della cultura orale. (Nel 2001 Maria Corrao ha curato Le storie di Giufà per Sellerio editore). Questo nome evoca quindi l’idea di dialogo e contemporaneamente fa riferimento a un personaggio che si propone come ponte tra culture diverse.

L’interculturalità guida infatti il vostro lavoro.

Cerchiamo di promuovere la commistione tra culture. Dedichiamo spazio alla letteratura migrante, in particolare agli esponenti della prima generazione, ritenendo che la libreria possa porsi come occasione d’incontro e di confronto, aspetti che favoriscono le possibilità di integrazione.

 

 

Questo intento si accompagna anche all’idea di un consumo critico?

Certo. Per noi il consumo critico passa attraverso il nostro lavoro che si basa sulla ricerca di una qualità da porre come alternativa al consumo di massa.

In che modo selezionate i titoli, dal 2005 a oggi come si sono evolute le vostre proposte?

Oltre alla letteratura migrante abbiamo iniziato a proporre anche letteratura straniera di nicchia, fumetti, graphic novel, un genere che in altri Paesi, come la Francia, è molto diffuso da tempo. Cerchiamo quindi di specializzarci in alcuni settori che in Italia stanno prendendo piede da poco e di dare ampia possibilità di scelta a ogni lettore curioso o appassionato. Ad esempio proponiamo l’intero catalogo di alcune case editrici come Coconino Press o Bao Publishing, cercando quindi di essere concorrenziali con le novità.

 

 

Qual è il feedback che ricevete? Siete soddisfatti degli obiettivi raggiunti?

La risposta da parte del pubblico è positiva perché c’è partecipazione. Ma ci poniamo sempre nuovi obiettivi (uno potrebbe essere riuscire a fondare una rete con altre librerie indipendenti). Questo perché abbiamo un’idea della promozione e diffusione culturale come flusso in continua evoluzione.

Per ulteriori informazioni:
Giufà libreria caffè
via degli Aurunci, 38
Roma
Sito internet

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“Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria” di Michael Dahlie

Una laurea ad Harvard e i presupposti per un brillante avvenire, una eredità di circa quindici milioni di dollari e il non sapere bene cosa farci. Chi non ne approfitterebbe? Chi non si godrebbe la vita? Questo è lo spirito con cui viene affrontata la vita di Henry, giovane e scapestrato scrittore di Brooklyn, New York. Un po’ timido e impacciato, nuovo Holden sognatore. Questo è, altresì, l’ulitmo romanzo di Michael Dahlie, Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria (Nutrimenti, 2013), già vincitore del Pen/Hemingway Award 2009 e del Whiting Writers’ Award 2010, con il suo primo successo Guida per gentiluomini all’arte di vivere con eleganza (Nutrimenti, 2011).

Con una scrittura delicata e fotografica, ci ritroviamo dinanzi a un personaggio a volte bizzarro, altre volte molto vicino al nostro modo di pensare e vivere. Le pagine scorrono veloci e in modo accattivante, venendo a delineare una deliziosa commedia. Tutta da ridere, un filo irriverente, la vita stessa di Henry ricalca proprio la figura di un moderno Candido.

Henry ha un sogno: scrivere. Vuole percorrere la strada del successo e svelare a tutti i segreti più nascosti dell’animo umano. È attratto e ha una predilezione per i casi più disparati del mondo senile. Nel rapporto tra giovani e anziani, egli ritrova un elemento di redenzione, la morte prematura dei genitori, quelli che lo hanno lasciato miliardario, lo obbliga a cercare il successo malgrado sia in fondo di carattere mite. Un agente letterario lo nota, vede in lui una qualche potenzialità, e in questo modo iniziano le peripezie di Henry in qualità di ghostwriter. Henry è goffo e indomito, con l’altro sesso non sa assolutamente come atteggiarsi, passa le sue serata tra vernissage culturali e ristoranti dal sapore fusion, classici della scena underground newyorkese come ce la immaginiamo. Henry è quello che oggi definiamo comunemente con l’accezione di hipster (a questo proposito, le immagini in copertina sono particolarmente azzeccate).

Si tratta di un romanzo veloce e intenso che tratta in maniera delicata il mondo della scrittura, attraverso lo sguardo del suo protagonista e tutte le sue peripezie, tra imprevisti, guai con la legge e i normali fallimenti che prima o poi ciascuno di noi incontra sulla propria strada. Tutti vogliamo saper scrivere. Siamo tutti potenziali autori, più difficilmente scrittori. Sapientemente strutturato e con una narrazione dalla struttura semplice, ma lineare e ammirevole, Michael Dahlie riesce a ricostruire le sfaccettature più intime e ancora innocenti di un uomo, Henry, che continua a crescere, regalandoci per di più un bel colpo di scena.

Per un romanzo alquanto picaresco, dal sapore leggermente pirandelliano, potrebbe risultare una trama vagamente scontata, già sentita, già raccontata. E invece è proprio la capacità narrativa di Dahlie, la forza della sua prosa e la leggiadria con cui incalza problematiche e riflessioni, a rendere elettrizzante la vita di una persona come ce ne son tante altre, ed estremamente piacevole la lettura a noi che continuiamo a vivere la nostra quotidianità.

(Michael Dahlie, Trascurabili contrattempi di un giovane scrittore in cerca di gloria, trad. di Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai, Nutrimenti, 2013, pp. 296, euro 18)

“Under the Dome” di Brian K. Vaughan

Scende la cupola targata CBS ed è subito successo: in Italia Under The Dome di Brian K. Vaughan è approdata su Rai Due.

La Cupola è un’invenzione di Stephen King, il cui nome, di solito, è garanzia di qualità. Chi ha letto The Dome, il romanzo da cui è tratta la serie, conosce già la storia; Chester’s Mill, la classica cittadina americana in cui tutti conoscono tutti e non accade mai nulla, si ritrova improvvisamente intrappolata sotto una cupola impenetrabile che impedisce del tutto la comunicazione con l’esterno.

A prendere il comando sono lo sceriffo Linda Esquivel e Big Jim Rennie, quest’ ultimo presentato come rivenditore di auto usate ma caratterizzato subito come un uomo incline al potere, in grado di fare qualsiasi cosa per ottenerlo.

A rendere ancora più strana la situazione ci pensa l’ex militare Dale Barbara, detto Barbie, anche lui rimasto bloccato sotto la cupola mentre si trovava a Chester’s Mill per una missione. Ci viene introdotto nello stesso momento in cui la cupola cade, tranciando a metà una ignara mucca e facendo schiantare aerei e auto in rotta di collisione, in una scena assolutamente ben confezionata che lascia presagire un ottimo proseguimento.
Da qui in poi le prime puntate servono a noi spettatori – e ai personaggi – per capire cosa sta succedendo e quali misteri  nasconde Chester’s Mill, da buona cittadina anonima del Maine in cui occultare segreti è più facile che vivere senza.

Dal momento che il bello sta nel comporre il puzzle tassello dopo tassello non vi anticipo nulla sulla trama, limitandomi a sottolineare i motivi per cui vale la pena buttarci un occhio, specie se siete alla ricerca di una serie non troppo pretenziosa e piacevole da seguire.
Il pilot è sicuramente uno tra i migliori dell’ultimo anno: ben strutturato, avvincente, lascia intuire quanto la storia sia corposa e abbia a sua disposizione vari percorsi da intraprendere sul piano narrativo. Ciò che non va, però, diventa evidente già dopo un paio di puntate: il materiale da trattare, essendo consistente, non è gestibile senza evitare situazioni ridondanti e colpi di scena che non sortiscono l’effetto desiderato, conducendo a un finale di stagione inconcludente e un po’ caotico.

A tenere alti i buoni propositi per fortuna ci sono i protagonisti, volti già noti in altre serie tv (Dean Norris, Hank in Breaking Bad e Mike Vogel di Bates Motel) o film di successo (Rachelle Lefèvre, Victoria in Twilight) e la speranza che con King e Spielberg come produttori si riesca a piazzare una risoluzione geniale al momento opportuno.
Il telefilm è stato già rinnovato per un’altra stagione, anche se forse l’idea iniziale di farne una miniserie avrebbe reso Under the Dome un’ottima trasposizione del romanzo, in cui la Cupola scompare nel giro di una settimana.

È quindi appurato che la serie abbia intenzione di discostarsi parecchio dall’idea di partenza, puntando sulle dinamiche tra i protagonisti e sulla cooperazione finalizzata a riottenere la libertà, nonostante la Cupola dia segnali di collaborazione e sembri voler proteggere più che distruggere.

Abbiamo cercato di ottenere qualche anticipazione riguardo la seconda stagione durante la serata di presentazione dell’ultimo episodio in anteprima al Roma Fiction Fest, che ha visto come ospiti Dean Norris e Rachelle Lefèvre: gli attori hanno confermato è che King è entusiasta di proseguire e l’anno prossimo ci aspettano tante novità emozionanti, colpi di scena e nuovi plot twist. Fan della Cupola, siete avvisati!
 

“Glaxo” di Hernán Ronsino

C’è un luogo specifico all’interno di quella massa multiforme che è la letteratura, in cui l’aggettivo “breve”, spesso sottovalutato, bistrattato, diventa sinonimo di qualità. È sempre vero per i racconti, la cui brevità suppone un certo grado di complessità, in cui è più difficile dosare il flusso di omissioni rispetto a quello regolare delle informazioni. Talvolta, però, se ne appropria anche la forma romanzo, come nel caso di Glaxo di Hernán Ronsino (Meridiano Zero, 2013), secondo romanzo dell’autore e primo a essere tradotto in Italia.

Un romanzo breve, dunque, brevissimo: un mondo costruito e impacchettato in neanche cento pagine, un paio d’ore di lettura. Il centro del mondo creato da Ronsino è Glaxo, «un paese sperduto nella pampa argentina», microcosmo inventato ma plausibile in tutti i suoi aspetti di cittadina di provincia, in fondo non più di una strada: il tradizionale corso, testimone del succedersi dei giorni e delle stagioni. Lo scorrere di un tempo con cui l’autore sceglie di giocare, frammentando la narrazione in quattro parti, affidate a quattro narratori differenti: schegge di una storia che si svela in ordine non cronologico.

Un barbiere, un macellaio, un impiegato delle ferrovie, un sottufficiale: uomini comuni tra i quali si insinua una spia di violenza, un omicidio. La scena si apre nel 1973 con la voce cruda e insistente del Flaco Vardemann, il barbiere, da poco tornato al paese. La narrazione quindi si interrompe, dopo averci fornito dettagli che solo in seguito sapremo fondamentali, per riprendere nel 1984, quando un colloquio tra Bicho Souza, il macellaio, e l’amico Lucio Montes rievoca fantasmi del passato, di fatto anticipando il destino dei protagonisti. Nelle parole di Miguelito Barrios, ossessionato dalla visione della morte, apprendiamo i fatti risalenti al 1966; ed è solo con il racconto del sottoufficiale Ramón Folcada, violento marito della seducente Miranda la Mora, che il lettore può ricostruire la storia in tutti i suoi dettagli.

Glaxo è un mistero che resta insoluto fino all’ultima pagina, come nella miglior tradizione del genere, rendendo la lettura scorrevole, a tratti frenetica. A legare ulteriormente il tutto, l’incessante andirivieni dei treni. La stazione sembra essere il dettaglio che rende Glaxo reale: è il treno che collega il paese a Buenos Aires (al resto del mondo); su un treno inizia la caduta di Miguelito; il rumore di un treno in transito coprirà l’omicidio: «E allora inizio a sognare treni. Treni che deragliano. Dondolano, prima di rovesciarsi. Spaccano le rotaie. Sprizzano scintille. E poi arriva quel rumore, che precede l’arresto, così stridente. Da far male ai molari. Da far impressione».

Come per la maggior parte della letteratura argentina contemporanea, non mancano i riferimenti – seppur sapientemente velati – alla storia del paese: l’esergo con cui si apre il romanzo, una citazione da Operazione Massacro di Rodolfo Walsh, è in questo senso quasi una dichiarazione di intenti. L’ombra della Glaxo, fabbrica non meglio identificata attorno alle quale gira la vita del paesino, che da questa prende addirittura il nome, e la figura del sottufficiale Folcada tratteggiano l’infiltrarsi prepotente dello Stato nella vita quotidiana.

Il principale merito del romanzo, oltre a una scrittura (e a una traduzione) notevole, definita e incisiva, è senz’altro la maestria che Ronsino mostra nel costruire una realtà parallela, una galleria di personaggi dolorosi per quanto drammaticamente comuni, veri. Da qui, eccoci tornare alla brevità come valore aggiunto: in sole novantasei pagine, una densità rara. 

(Hernán Ronsino, Glaxo, trad. di Mariana E. Califano, Meridiano Zero, 2013, pp. 96, euro 9)

“Alea iacta est” di Moneyless alla 999Contemporary Gallery

Fino al 20 ottobre è possibile visitare la mostra Alea iacta est dell’artista Moneyless, a Roma, quartiere Testaccio, presso la 999Contemporary Gallery. La metratura della galleria non è ampia ma viene colmata dal circondario molto suggestivo, e la mostra ne segue la planimetria: una stanza rettangolare di 40 m² circa e un cortiletto interno speculare. Ci accoglie all’ingresso un grande disegno geometrico tubolare che si espande su tutta la parete frontale e fa da sfondo alle ventitré opere.

Il titolo della mostra riprende la famosa frase pronunciata da Giulio Cesare davanti al fiume Rubicone, che segnava il confine oltre il quale un generale romano non poteva portare le armi. La leggenda narra che Giulio Cesare lo attraversò con il suo esercito pronunciando la famosa frase «il dato è tratto» e la sua entrata a Roma fu ricordata come una delle più trionfanti della storia. Parafrasando la frase, Moneyless con questa sua prima personale romana vuole, anche lui, conquistare la Capitale.

L’artista – nato a Milano, classe ’80, vissuto e cresciuto in Toscana – è infatti conosciuto più all’estero che in Italia, e vanta esposizioni in molte gallerie, da San Francisco, a Los Angeles, a numerose città europee.

Essenzialmente street artist negli anni Novanta, ora Moneyless concentra il suo lavoro sulla rappresentazione di una geometria ontologica che riprende il concetto dell’estetica platonica della forma, per cui ogni forma terrena corrisponde a un archetipo o idea pura nella dimensione gnoseologica. Il suo background di writer e nell’uso del lettering gli ha permesso di conoscere ed evolvere il concetto di studio della geometria: «Spogliare le lettere dalle presenza dell’alfabeto».

Il fulcro della mostra è rappresentato dalle dieci tavole incise sul legno – 123×93 cm – coloratissime con pure geometrie in movimento, che si intrecciano e si diramano tra cerchi e triangoli in una dimensione costruttivista  suprematista.

 

 

Queste tavole occupano gran parte dell’allestimento curato da Gianluca Marziani, che sottolinea come alla base dell’estetica dell’autore ci sia una forte componente di dinamicità. L’automobile, il futurismo di Balla sono l’essenza dell’universo cosmico di Moneyless, composto da luci, colori e compenetrazioni di solidi. Buckminster Fuller è il suo principale ispiratore, il designer e inventore statunitense che che per primo studiò e progettò la cupola geodetica: una struttura emisferica composta da una rete di travi giacenti su cerchi massimi. Le geodetiche si intersecano formando elementi triangolari che giacciono approssimativamente sulla superficie di una sfera. Da qui il concetto di cerchio presente in Moneyless: creatore e generatore di tutte le altre forme geometriche.

Nella parete di destra troviamo dodici tavole bianche e nere su carta, raggruppate in modo compatto e unitario, formate da un tratto leggero creano reticoli coreografici quasi a formare un lungo tubo in estensione.

 

 

Da questi giochi di geometrie: il concetto di cerchio, movimento, forza centrifuga e quindi di anima viva dell’opera. Quella di Moneyless è «un’indagine sugli elementi più puri ed essenziali della natura elaborati in un processo di continua evoluzione».

Per completare la mostra due foto stampate che rappresentano un paesaggio con al centro due istallazioni geometriche, per l’artista è infatti fondamentale l’uso di spazi pubblici come ambienti esplosivi. La forte componente essenziale, fa sì che senta il bisogno di dirigersi verso materiali primordiali e tridimensionali. Influenzato da costruttivismo, minimalismo e arte povera, il suo interessa si sposta anche e soprattutto sullo spazialismo di Fontana, Manzoni e De Luigi, nella necessità di esprimere la sua arte anche in forma tattile e creando nuove energie.

Coerentemente con il progetto, la mostra si conclude nel cortiletto interno con un site-specific: un lungo filo bianco sollevato in aria che crea una geometria triangolare sospesa, quasi fosse incollata al cielo.

“Cattiverìa” di Rosario Palazzolo

Ce la fa un accento a riscrivere un concetto? E non stiamo dondolando nel ginepraio degli omonimi omografi, quelle coppie di lemmi siamesi in cui basta che la pronuncia slitti un gradino per scoperchiare già la pagina. Qui la parola è una sola. Semplice, come un utensile in mezzo alla lingua. Una di quelle che s’imparano col latte, che galleggiano tra mensole di favole e moniti grandi quanto finestre.

“Cattiveria”, quella inversa alla bontà, si dice e si appunta da sempre in un modo soltanto. Oppure no? Oppure esiste la Cattiverìa (Perdisa, 2013), quella virata sottile che spiazza i programmi?

Rosario Palazzolo, drammaturgo e scrittore siciliano, non s’impegna a dimostrarlo. Ci trascina dentro la vertigine, con un prologo che non si formalizza, con un preambolo senza preamboli, preannunciandoci una «storia in cui non si fa altro che morire […], del tipo il marito che scassa la moglie o la portinaia che ammazza il cognato o il vecchio che infila il nipote o il prete che fa fuori il rosario», perché chi racconta sa che il pubblico frigge, che «si scannerebbe ogni giorno per garantirsi una storia in cui non si fa altro che morire».

Lo spettacolo, per definizione, è fatto per essere ammirato, dall’ovatta del proprio terrazzo, soprattutto quando il rischio è grosso. Per gli altri ovviamente. Come un incendio che si scioglie i capelli, lontano da noi e slaccia solo qualche odore di bruciato. E così è necessario «avere un inizio che ti fa lo scombussolo nella pancia, con dei personaggi quadrati il giusto che si vivono cose a uso spaventevoli e strambe e fuori dalla tua norma senza essere troppo anormali e poi ci devono pure avere uno sviluppo che si fa sempre più complicatello e smerdarello con delle belle musichette stile paura e con il cristosanto di turno […], e insieme al cristosanto ci vuole un romano qualsiasi, un cattivo, uno che si prende la briga di fabbricare la croce».

Il menu è pronto, contiene tutti gli ingredienti da sciorinare con cura, perché il racconto sia ben mantecato. A smatassare la trama due voci, asimmetriche e sdrucciole, parallele e perpendicolari. Una è quella del “figlio”, rintanato in un segmento di ospedale psichiatrico, da cui comincia a dipanare il suo passato.

Il gomitolo è arruffato, è una parrucca di riccioli scomposti. Il piccolo non è un bambino facile, questo lo si intende subito e ogni frase è un labirinto, un dedalo di immagini in cui chi si specchia si confonde coi riflessi, come pensava Durrenmatt del suo Minotauro. La sua testa è una scatola di mondi, dove i mobili ti afferrano, dove il corridoio è un bosco di conifere. E la sua infanzia è fatta di soprusi, della cacca travasata nello zaino dai compagni di scuola, della voglia di cantare quando nessuno crede a quelle note. Di pochissimi amici, della bella Giustina, che però non sempre gli sorride, che può mutare all’improvviso e forse inviperirsi più di un nemico. Di Barbabaffo, che lo incita davvero a non arrendersi, a spargere ogni sua canzone, a non ascoltare chi gli consiglia la rinuncia.

Il resto è un buco nero, in cui è automatico impigliarsi mentre avanza la vicenda. In cui si aggiunge la voce della “madre”. Mariolina, donna scorbutica e molesta, piena di inciampi, impazienze, inesattezze, ruvida e scorretta nel suo divulgarsi.  Moglie di uomo ingiusto e mamma di una creatura non capita, che impiega poco a diventare sbagliata.

La storia sfugge, si divincola, fa di tutto per non essere afferrata, fino alla fine, quando il pettine vince ogni nodo e ci acconcia una tragedia, spietata a devastante come i grandi esempi classici.

Lo fa cedendo spesso il passo alla follia, come hanno fatto Patrick McGrath con le sue schizofreniche passioni, Janet Frame e i panorami da elettroshock, Günter Grass e la deformità di Oskar, protagonista de Il tamburo di latta. Ma qui, con Palazzolo, sembra quasi di entrare in un libro illustrato, una fantasmagoria risucchiante, come le tavole di Rebecca Dautremer, con colori che divorano. O in un disegno di Escher, con quelle forme che intrappolano. Siamo nel gioco di un accento, che si sposta per «uscirsene dalla parola e andare verso la bontà», perché forse basta scivolare di un soffio per cambiare canale.

Siamo in un gioco che approda in tv, perché tutto si può condividere, soprattutto con gli estranei. A debita distanza, ma con dovizia di dettagli. E allora anche il dolore, anche il sangue, si fanno guardare anche se non ci riguardano. Sono la ferita già medicata, a prova di schermo. Che appunto, ci rende protetti.

Ma la forza reale, tracimante del testo, è il suo linguaggio. Sgrammaticato e letterario, frenetico e ironico, commovente e quotidiano. Un flusso di coscienza che mina ogni certezza. Soprattutto quella del lettore.

Un progetto pensato per il teatro e poi dilatatosi a tal punto da farsi romanzo, sfida immobile e imprendibile. Avventura in cui solo chiudere il libro, per un attimo, ci fa sentire al sicuro.

(Rosario Palazzolo, Cattiverìa, Perdisa, 2013, pp. 320, euro 16)

“È così che la perdi” di Junot Díaz

Leggere è scoprire che un libro riserva sempre qualcosa di nuovo, che le parole possono succedersi in un ordine originale e diverso, creando immagini parlanti. Questo è quello che riesce a Junot Díaz nel suo terzo libro, È così che la perdi (Mondadori, 2013), una raccolta di racconti sulla vita degli immigrati dominicani negli Stati Uniti attraverso cui l’autore descrive, con parole scarne, il mondo di tanti personaggi, centrali e laterali, dando vita a una composizione a più voci: esistenze multiple legate assieme da un senso di ineluttabile tristezza, da un implacabile cinismo e da un’inestinguibile nostalgia della patria.

In un tempo non cronologico, si snodano i racconti incentrati sull’infedeltà quasi patologica dell’uomo dominicano, affetto da una sorta di bisogno irrefrenabile di conquista, come quello di Yunior, alterego dell’autore, protagonista ricorrente, che dopo anni di fidanzamento, peccando di superficialità, lascia che la fidanzata scopra cinquanta diverse relazioni fedifraghe. Dopo vani tentativi di recuperare, finalmente abbandonato, Yunior cade in un baratro di afflizione e di incapacità che lo rende più umano, che gli permette di emozionarsi ogni volta che torna a Santo Domingo, suo luogo natio, «a cui non pensi finché non lo hai perduto, che non riesci ad amare finché non l’hai abbandonato».

Le debolezze umane, le smanie, sembrano sempre avere la meglio sulla ragione e il machismo condiziona il destino di ogni personaggio maschile. Anche di quel bambino che, lasciatosi alle spalle un mare cristallino, si ritrova a giocare in mezzo alla neve tra una discarica e una metropoli, e che crescendo finisce per assomigliare inesorabilmente al padre-marito inaffidabile e traditore, che abbandona la sua famiglia; al fratello malato di cancro che persevera nell’irragionevole condotta di vita, dimenticandosi della madre disperata; all’amico sposato che gestisce, con inaudita tranquillità, due famiglie.

Sorprendente è vedere lo stesso mondo dalla dimensione femminile, vissuto dalla donna dominicana. In “Otravida, otravez”, Yasmin, che lavora duramente ogni giorno, è legata a un uomo che ha già una famiglia a Santo Domingo. La donna che vive inseguendo un futuro dignitoso con il compagno, finirà per rimane profondamente turbata dal passato di questo.

Junot Díaz, quarantaquattrenne naturalizzato statunitense, vincitore del premio Pulitzer nel 2008 con La breve favolosa vita di Oscar Wao, è considerato un talento naturale e sembra confermarlo con questo suo terzo lavoro. È così che la perdi, costruito sulla vita in dettaglio, apre a temi generali come il rapporto uomo-donna, l’integrazione, la scoperta di sé e lo fa con un linguaggio chiaro, leggero, ma diverso. Una prosa asciutta che passa dal registro colloquiale a quello letterario, regalando momenti di malinconica poesia, nuovamente interrotti da elementi linguistico-stilistici propri dello slang di strada. Meritevole anche il lavoro della traduttrice, Silvia Pareschi, che preserva la musicalità dell’originale rispettando la commistione di inglese e spagnolo cercata da Díaz.


(Junot Díaz, È così che la perdi, trad. di Silvia Pareschi, Mondadori, 2013, pp. 169, euro 16)

“Hey Saturday Sun” di Hey Saturday Sun

Se siete alla ricerca di qualcosa che, tra le ultime uscite per le etichette indipendenti, si stagli decisamente rispetto al resto, non posso esimermi dal consigliarvi Hey Saturday Sun, lo sfaccettato album d’esordio del musicista umbro Giulio Ronconi, in arte Hey Saturday Sun. Un discoche incuriosisce e sorprende per diverse ragioni, a cominciare dalla seducente copertina verosimilmente evocativa di quel senso di lontananza, fragile quiete, ambigua (poiché a volte distesa e incoraggiante e altre tristemente presaga) vastità che sembra pervadere buona parte del disco – con i verdi acidi a dominare la scena e a contrapporsi al “realismo” della rappresentazione, così come sul piano musicale strumenti classici e qualche effetto dal sapore “naturalistico” vengono accostati a sonorità più marcatamente artificiali ed elettroniche.

La sua musica, disvelatrice appunto di ampi spazi aperti, si nutre di suggestioni volutamente incompiute che sfumano spesso delicatamente ma allo stesso tempo radicalmente l’una nell’altra, per un approccio che sembra più interessato ad alludere che a precisare, a suggerire piuttosto che a dire.

Prendendo in prestito un termine dal linguaggio cinematografico, credo si possa infatti affermare che l’uso insistito della dissolvenza incrociata sia uno dei tratti distintivi di Giulio Ronconi, che nel servirsene riesce a connettere con creatività passaggi che sembrano a volte appartenere a brani totalmente distinti – quasi fosse l’operatore d’un furtivo occhio di bue focalizzato giusto per un istante su un certo scenario, appena il tempo di adombrarne i caratteri, e poi virato rapidamente verso nuovi e ancora una volta soltanto accennati orizzonti.

Ciò è rintracciabile già in “Pulsewidth.noise”, il cui attacco è affidato a un efficace giro di basso al quale fa presto eco una sorta di tagliente ventata marina, col tessuto sonoro che rapidamente si infittisce per l’introduzione di un arpeggio di chitarra, un “micro-solo” di un’altra e sparute e tenui note di tastiera. L’atmosfera ariosa e incantata si intensifica quindi ulteriormente poiché incoraggiata, tra le altre cose, da armonie d’archi e un dolce e semplice motivo ancora una volta eseguito alla tastiera; si giunge così al breve, soave e un po’ nenioso cantato a due voci (una maschile e l’altra femminile) che in qualche modo segna una netta cesura nel pezzo e a cui fa seguito quella già nominata dissolvenza incrociata che, in questo caso, apre il campo a un piano indugiante, sottilmente drammatico e vagamente misterioso, i cui accordi sembrano risuonare come da lontano.

L’incedere temporeggiante e sentimentale della prima parte di “Silent Kids” è invece tutto giocato sul dialogo tra il piano ed evanescenti sonorità di sottofondo, prima dell’improvviso e imponente ingresso di un’elettronica caotica, ascendente, lirica e quasi trionfale, condita di insistenti fruscii e combinata a una voce pressoché impalpabile, smarrita in un amalgama sonoro nel quale sembra dimenarsi per arrivare infine a essere percepibile, il tutto sotto i suggestivi colpi di percussioni scarne, schioccanti e cariche di delay.

“The Other City” è poi un brano dalle tinte soffuse e discrete, il cui motivo cantilenante fa da accompagnamento all’acuta, aggraziata e rapita voce femminile, variamente modulata e trasformata a un certo punto, a suon di massicci effetti, in una sorta di fiabesco ululato. Qua e là si rispondono cauti rumori, remoti bisbigli di tastiere, scintillii ai limiti del pudico, inserti elettronici dal timbro rotto e dalla melodia un po’ stonata e infine sobrie e iper-riverberate chitarre, per una composizione intima il cui senso di quiete quasi ultraterrena è solo lievemente scalfito da una vaga malinconia soggiacente, puntellata forse dal piano a cui spetta, ruolo non inusuale in questo lavoro, il compito di chiudere il pezzo ribadendo a suo modo il motivo che lo percorre tutto.

“Liric” è una breve creazione che, almeno nelle sue prime battute, potremmo forse definire alla Nyman, in cui un piano inquieto e non privo di trasporto viene accompagnato da una chitarra appena avvertibile, finché uno stridulo e squillante ronzio di synth non rende più straniante e concitato l’intero clima, sfumando infine in una specie di ondata che col suo infrangersi decreta la conclusione del brano stesso.

Segue quindi l’elettronica gioviale e persino ballabile di “Lullaby 1”, la cui sezione ritmica, estremamente fluida, è affidata a un basso marcatamente “synth pop” e una drum machine vagamente “glitch-oriented”; dominano una spensieratezza e una “positività” che, in una forma così intatta, sembrano assenti nel resto dell’album e la mente (almeno quella del sottoscritto) si popola ben presto d’immagini di concilianti vedute panoramiche in soleggiatissime giornate primaverili; voci femminili si rincorrono e rispondono all’interno di un tessuto sonoro che, come spesso accade, è denso e caratterizzato dalla presenza di tastiere limpide e trasognate.

Hey Saturday Sun fa quindi mostra di spiccata ironia con l’intro di “1.9.8.9”, in cui la voce di Pippo Baudo ci regala una forse inaspettata (da parte sua) affermazione sulle imprescindibili virtù della tecnologia musicale («Come potremmo vivere senza sequencers?»). Tale ironia viene però bruscamente interrotta dalle sofferte note del piano e da una voce maschile fortemente effettata, prima che il tutto acquisti energia e dinamicità – assumendo una veste marcatamente dance – grazie ai colpi d’una cassa dritta e di un basso ludico e punzecchiante in pieno stile Pet Shop Boys, gruppo che del resto la canzone nella sua interezza pare proprio voler omaggiare; l’atmosfera è eterea e sognante e un indecifrabile ottimistico anelito sembra fondersi magicamente a un’ispirata seppur non rassegnata malinconia.

Si arriva così al Nu gaze un po’ onirico di “Museum of Revolution 1”, uno sfavillio di chitarre riverberate, dolcissime tastiere e frastagliati brusii sintetici, in un inquieto ma al tempo stesso trattenuto crescendo che sfocia infine, sottolineato dai battiti d’una batteria incentrata sul regolare impiego di cassa, piatti e rullante, in un cantato speranzoso che sembra echeggiare senza posa tra nebbiose vallate.

Al paesaggio vagamente “sotterraneo” tratteggiato all’inizio di “Museum of Revolution 2” fa poi seguito, grazie al solito dosato gioco di dissolvenze, un arpeggio di chitarra che costituirà di lì a breve l’accompagnamento alla melodia di un’altra (acustica), melodia che nella sua elementarità è forse, con quel sapore lontanamente orientaleggiante, una delle più accattivanti dell’intero album – benché a ogni modo l’estrema disinvoltura e prolificità nel concepire linee melodiche che fanno fatica ad andarsene dalla testa sia a mio avviso un’altra delle spiccate peculiarità di Hey Saturday Sun. Sullo sfondo, suoni a metà tra il subacqueo e il cosmico arricchiscono le maglie di una composizione che sfuma quindi in un tripudio di schitarrate post-rock, sul cui tappetone noise si stagliano il pianoforte e una batteria tuonante; il finale è ancora una volta affidato a un piano riverberato che ribadisce a mo’ di congedo la melodia precedentemente eseguita dalla suddetta chitarra.

Il sound ipnotico della prima parte di “Swine Flu Shot” è costituito da gravi accordi di synth su cui si innestano confuse registrazioni vocali, delicate tastiere e infine un arioso e sgargiante motivo la cui pasta timbrica ricorda quella di sirene spiegate; la seconda e decisamente pittoresca parte, è invece la riproposizione di uno spot statunitense di metà anni ’70 sull’influenza suina (da cui appunto il titolo del pezzo), spot che, a detta dello stesso Ronconi, affronta tale tematica con quel tono amorale, malato e al contempo scanzonato così tipico della cultura americana.

Arriviamo infine, senza quasi accorgercene, a “Lullaby 2”, stringata e insolita fatica che inizia con quello che potrebbe essere il rumore di una palla da biliardo che cadendo a terra si mette a ruzzolare; seguono scarni accordi di piano accompagnati da sonorità celestiali e un po’ cantilenanti, fino all’esasperarsi di interferenze che finiscono come per mandare in tilt il pezzo stesso, il quale si dissolve allora in brulicante pulviscolo digitale, a ulteriore e conclusiva testimonianza di un certo eclettismo del musicista ternano, che suggella appunto, con una cifra marcatamente elettronica, un prodotto che sembrava in principio aver preso le mosse, lo abbiamo visto, da un intento quasi “veristico”.


(Hey Saturday Sun, Hey Saturday Sun, Stupid Alien Records/Somnolabel, 2013)
 

“Suburra”: a tu per tu con Giancarlo De Cataldo

Giancarlo De Cataldo è magistrato, scrittore, autore di testi teatrali e sceneggiatore. Dal suo celebre libro Romanzo criminale sono stati tratti prima un film diretto da Michele Placido, poi una serie diretta da Stefano Sollima. Da pochi giorni è in libreria la sua ultima fatica letteraria, Suburra (Einaudi, 2013). Si tratta di un noir scritto a quattro mani con il giornalista di La Repubblica Carlo Bonini.

Un romanzo certo. Ma anche un terribile e realistico affresco della Roma (e più in generale dell’Italia) contemporanea, sempre più schiava di clan criminali, speculazioni edilizie, politici corrotti, alti prelati intrallazzatori e forze dell’ordine conniventi.

Abbiamo dunque l’opportunità di farci raccontare la genesi di Suburra dall’autore stesso,ma anche l’occasione per poter parlare un po’ del nostro tempo, dell’Italia di oggi.


Innanzitutto una curiosità: Giancarlo, com’è nata l’idea di scrivere un libro insieme a Carlo Bonini? Immagino che in questa scelta abbia giocato un ruolo importante il fatto che quest’ultimo, in più occasioni, si sia occupato per conto di La Repubblica della malavita romana, in particolare del traffico di stupefacenti e delle speculazioni edilizie lungo il litorale di Ostia, temi centrali nel vostro romanzo. Da chi è partita, per esempio, l’idea della collaborazione?

Ci siamo incontrati un giorno per caso nella redazione romana della casa editrice Einaudi. Ci siamo accorti che stavamo lavorando sullo stesso soggetto, Roma oggi, e abbiamo deciso di unire le forze. È nata insieme, questa collaborazione.


Scrivere a quattro mani un romanzo è sicuramente molto diverso dal prendere parte alla stesura collettiva di un saggio, ovvero di un testo specialistico in cui ogni autore porta in dote le proprie conoscenze, come può fare anche in maniera individuale. In questo caso, invece, si è trattato di ideare personaggi, costruire dialoghi, ambientare delle scene. Che metodo di lavoro avete seguito?

Nella prima fase abbiamo ideato, attraverso lunghe riunioni, una “scaletta” degli eventi e, contestualmente, individuato i personaggi e poi identificato gli snodi narrativi e predeterminato l’esito di ciascun “surplot” cioé, in soldoni, ci siamo raccontati inizio, sviluppo e fine dei destini dei nostri eroi. Ci siamo divisi i capitoli e abbiamo cominciato a scriverli. Ce li scambiavamo, li leggevamo a voce alta, intervenivamo, integravamo, cambiavamo in corso d’opera ciò che non ci convinceva. Alla fine, autonomamente, abbiamo “riscritto” l’intero romanzo, adattando le varie parti che stridevano alla lingua comune che si stava costruendo. Infine, abbiamo letto ancora a voce alta ma con la presenza di Severino Cesari, l’editore/editor di Einaudi Stile Libero al quale, per il suo ruolo determinante, abbiamo dedicato il libro. Et voilà, ecco, nel bene e nel male, Suburra.


Leggendo una recente inchiesta riguardo alla malavita del litorale romano effettuata proprio da Bonini, ho trovato tantissime analogie con il vostro racconto. Dagli incendi agli stabilimenti, alla speculazione edilizia, agli omicidi fatti passare dalla stampa come episodi di piccola criminalità, magari legata all’immigrazione, perché si sa, a Roma non c’è la mafia… Ecco, a questo proposito, quanto c’è del “Bonini giornalista di inchiesta” e del “De Cataldo magistrato” in questa vostra opera? Sembra proprio in effetti che dietro ci sia un grosso lavoro di indagine e di documentazione.

Documentazione e indagine non mancano mai, nel nostro modus operandi. Però, attenzione: mentre Romanzo criminale, per esempio, era un’opera che pescava a piene mani nella Storia, una storia ormai consacrata da atti giudiziari, dichiarazioni dei protagonisti, ricostruzioni degli storici di mestiere, in Suburra c’è una notevole parte d’invenzione, visto che si prende spunto da fatti recenti, anzi, recentissimi. Non sapevamo, mentre scrivevamo, come sarebbe andata a finire, e non lo sappiamo neanche adesso. Quindi, abbiamo inventato molto.


La Suburra nell’antica Roma era un quartiere situato fra il Quirinale, il Viminale e l’Esquilino, perlopiù popolato da gente di malaffare, tant’è che oggigiorno il termine rimane in uso per indicare un luogo in cui regna la criminalità. Dunque, in pochi anni, siamo passati dalla “Gomorra” di Roberto Saviano alla “Suburra” di Bonini e De Cataldo. Prima Napoli e adesso Roma come metafora di un intero Paese sempre più sprofondato nel marcio? Nel libro, a un certo punto, un carabiniere afferma che Roma va salvata da sé stessa. Tuttavia, l’impressione che si ha è che stia pensando più all’Italia intera che a un’unica città. Gomorra non fece una bella fine (fu distrutta a causa della corruzione dei suoi abitanti). Riuscirà invece Suburra (riusciranno Roma e l’Italia) a salvarsi?

Il contenuto metaforico è indubitabile, e apertamente denunciato: nella scena degli scontri di San Giovanni, la Suburra come luogo storico romano è dichiaratamente evocata. Comunque, né Carlo né io siamo iscritti al partito dei pessimisti apocalittici (tutto è perduto) e nemmeno a quello di coloro che rimpiangono il tempo andato (è tutto sbagliato, è tutto da rifare, si stava meglio quando si stava peggio, ecc.). Abbiamo figli ragazzi (lui addirittura bambini) e se comunicassimo un senso di rassegnazione saremmo di pessimo esempio. Finché ci saranno leali servitori dello Stato e finché ci sarà la libertà di esprimere le proprie idee e di metterle in scena in forma narrativa, nulla sarà veramente perduto. È una fase dialettica, di cambiamento. Non si può dare niente per scontato. L’Italia ha passato periodi peggiori (il Fascismo, due guerre mondiali) e si è sempre ripresa. Ce la faremo anche questa volta.


È vero. In effetti l’Italia sembra sempre passare di crisi in crisi per poi uscirne, salvo poi ripiombiare nel baratro. A questo proposito i sociologi hanno spesso fatto notare come nel nostro Paese, in epoca moderna, non sia mai nata una “religione civile”, un ethos collettivo capace di tenere unito l’individuo alla società. Le persone dunque (non tutte ovviamente), si comportano come se non avessero la consapevolezza di vivere in una comunità, cercando esclusivamente il proprio tornaconto personale anche attraverso la prevaricazione. È la certezza di farla franca che, per esempio, nel vostro romanzo fa affermare con spavalderia a un politico corrotto: «L’Italia non cambierà mai. Noi staremo sempre sopra, e i miserabili sotto». Che ne pensa di questa chiave di lettura? Lo chiedo oltre che allo scrittore anche e soprattutto al magistrato. Del resto lei, per il ruolo che svolge, ha un osservatorio privilegiato. E l’Italia, cambierà mai?

L’Italia si confronta sin dalla sua fondazione con la convivenza di due opposte tendenze: una rapinosa, egoistica, gretta avida e meschina, l’altra solidale, aperta sul mondo, orgogliosa di una missione culturale che la nostra Storia ci assegna. L’Italia degli affaristi e dei gattopardi e quella nobile di Mazzini convivono da sempre. Di solito è la prima a prevalere, ma la seconda riesce a contenerne gli effetti devastanti. Quanto al magistrato, il rispetto della legge è soltanto uno degli aspetti del problema. Non si possono risolvere i problemi della collettività a botte di sentenze: quelle servono, ma a riparare un danno. Mentre noi dovremmo lavorare tutti per creare le condizioni perché i danni non si creino, o per limitarne la portata. Il che presuppone massicci investimenti in cultura, etica, educazione al senso collettivo. Guai a pensare che le manette rimettano le cose a posto!


Poco fa, ha fatto riferimento a servitori dello Stato leali e alla libertà di stampa. Fortunatamente, ve ne sono molti, così come molti sono i giornalisti liberi e amanti della verità. Tuttavia, credo che Suburra fotografi molto bene un aspetto emblematico dei nostri tempi: la contiguità. Nel libro succede sovente che nei medesimi luoghi (magari un noto ristorante oppure un “salotto buono”) si possano incontrare indistintamente faccendieri, giornalisti, alti prelati, escort, politici ed esponenti delle forze dell’ordine. Non necessariamente tutti questi individui si trovano lì per delinquere. Tutto ciò lascia però la sensazione che non ci sia più distinzione né di luoghi né di ruoli, che tutti siano amici di tutti e che tutti vadano ovunque. Questa situazione rispecchia, dal mio punto di vista, anche l’Italia di oggi, dove i controllori sono spesso amici dei controllati (se non nominati dagli stessi) e i giornalisti, magari, danno del tu ai politici che intervistano. In poche parole, si forma una casta in cui il delinquere diviene quasi fisiologico, lei che ne pensa?

Mah, sono due questioni diverse. La seconda, che potremmo definire “conflitto prolungato d’interessi”, si risolve sul piano legale e amministrativo con provvedimenti fatti bene. Esempio: che i gruppi industriali esercitino pressioni sulla politica è notorio. Infatti, la democrazia americana ha istituzionalizzato la prassi disegnando la figura del “lobbysta” e ponendolo sotto controllo di legge. Potremmo fare, nella trasparenza massima, qualcosa di analogo, piuttosto che inseguire un’astratta e utopistica purezza francescana in base alla quale il politico è povero, scaciato, viaggia in autostop e colleziona maniacalmente gli scontrini del caffè, comunica via web solo con i suoi elettori, altrettanto puri di cuore, e diviene sostanzialmente una figura innocua se non dannosa. La prima questione, invece, è irrisolvibile sul piano tecnico: ciascuno può andare dove gli pare e frequentare chi gli pare. Perciò, ancora una volta, dipende da come il cuore e la coscienza degli uomini si atteggiano: educazione, istruzione, cultura. Siamo sempre là, non ti pare?


Certo, mi riferivo proprio a questo quando parlavo di ethos collettivo; non so neanche più in effetti se nelle scuole italiane si insegni tuttora educazione civica. Per concludere, vorrei parlare un attimo dei suoi tre grandi romanzi che hanno affrontato, fra realtà e fantasia, la cronaca italiana. Con Romanzo criminale ha tracciato un affresco della malavita degli anni Settanta-Ottanta, con Nelle mani giuste ha descritto gli anni Novanta, il periodo delle stragi di mafia e di Tangentopoli. Ora, con Suburra, siamo al crepuscolo della cosiddetta Seconda Repubblica. Alcuni personaggi sono persino gli stessi (si pensi alla banda della Magliana o, comunque, a chi di essa rimane). Anche lei dunque come James Ellroy (autore con American Tabloid, Sei pezzi da mille e Il sangue è randagio della Trilogia Americana) ha saputo creare una trilogia, una fiction, riuscendo a immaginare trent’anni di storia non solo criminale ma anche sociale e politica italiana. È solo una mia impressione o c’è stata sin dall’inizio l’intenzione di narrare questa grande storia? Ha mai pensato all’opera di Ellroy come un esempio da cui trarre ispirazione?

Inizialmente Romanzo criminale doveva chiamarsi Italian Tabloid, tanto era vivo e recente l’esempio di American Tabloid. In realtà, i miei veri maestri sono altrove: Balzac, Dickens, Maupassant. Narratori di destini individuali che si intrecciano con la Storia e ne diventano metafora. Da questo punto di vista, Romanzo e Suburra sono narrazioni storiche e “classiche”, anche se pescano in vari generi letterari (c’è più satira che noir in Suburra, secondo me).


Quindi, non parlerebbe di una vera e propria trilogia. Peraltro, se lo fosse stata, vorrebbe dire che saremmo giunti ora alla fine di un percorso. Che l’idea di ricostruire quarant’anni di storia criminale sarebbe giunta al termine.

Non credo che Suburra si possa legare né a Romanzo criminale né a Nelle mani giuste. Quel mondo, vedi, si reggeva su un grande collante: l’anticomunismo. Eravamo tutti figli della guerra fredda, e pertanto persino una banda criminale poteva avere un suo valore specifico come strumento da usare nella lotta ai “rossi”. Oggi siamo in un mondo completamente diverso. La guerra fredda aveva un che di nobile, perché inscenava la contrapposizione fra ideologie forti, ciascuna delle quali espressiva di una visione del mondo sostanzialmente tesa al governo del reale (e al sogno del possibile). Oggi siamo preda di un’unica ideologia – il liberismo – che sembra avere in odio l’idea stessa di governo: l’anima, l’essenza, è nell’osservazione del libero dispiegarsi delle forze del mercato, Osservazione, e non governo. Questo, almeno, ci viene venduto. In realtà, siamo avvinti da un reticolato di controlli asfissianti, calati in una realtà tanto parcellizzata da rendere impossibile, quasi sempre, l’identificazione di un “responsabile”. Chi decide dove confluiranno i fondi d’investimento X e Y? E a chi interessa se la scelta determinerà l’arricchimento di qualcuno e la catastrofe di molti altri? Siamo in un altro mondo. E Suburra cerca, a suo modo, di raccontarne un pezzettino.


E ci riesce benissimo: grazie a Giancarlo De Cataldo.

 

 

(Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo, Suburra, Einaudi, 2013, pp. 481, euro 19,50)

“Gravity” di Alfonso Cuarón

Dopo aver ricevuto una buona accoglienza alla 70ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Gravity, il nuovo lungometraggio di Alfonso Cuarón (I figli degli uomini, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban), arriva nelle sale con tutte le carte in regola per essere un successo hollywoodiano ai botteghini. Ovviamente sempre rimanendo con i piedi ben saldi a terra e prendendo le dovute distanze da chi lo definisce, come James Cameron, «il piu grande film mai realizzato sullo spazio dopo Kubrick». È un film sicuramente coinvolgente, un soffio al cuore lungo una vertiginosa montagna russa orbitale, un avventura visiva che tiene incollati alle poltrone. Ottimo è il dosaggio di suspense e angoscia. Gravity è il blockbuster, made in USA, di questa fine 2013.

L’assunto è semplice. Sandra Bullock, giovane recluta dello spazio, a seguito di un incidente avvenuto sulla stazione spaziale internazionale (ISS) inizia dapprima a volteggiare (la sequenza è frenetica al punto giusto, da mozzare il fiato) per poi finire alla deriva totale nello spazio. La terra è sempre lì davanti, in tutto il suo splendore e allo stesso tempo irraggiungibile. Ed è qui che la voce di George Clooney (il vecchio cowboy del cosmo) si fa intensa e consolatoria, ancora di salvataggio, unico appiglio di speranza. Ed ecco che una normale missione di routine, alquanto banale, rapidamente si trasforma in incubo. Soli, nel nulla, con il lato più oscuro e nichilistico della nostra stessa mente.

È un film che riesce a essere allo stesso tempo spettacolare e sperimentale, nel quale noi spettatori veniamo coinvolti attraverso una serie di virtuosi piani sequenza. È un ballo frenetico e silenzioso fatto di gesti tra due cosmonauti che gravitano sospesi nello spazio, alle loro spalle sempre tetro e oscuro. La vertigine viene data dal senso di infinito e di impotenza dell’uomo. La telecamera è onnipresente e rotea su se stessa continuando a passare di mano in mano, da un personaggio all’altro. In una sinfonia vorticosa tra movimenti e respiri, sempre più corti e affannosi, si percepisce un senso di sospensione e ansia.

La trama scorre seguendo il tentativo, quasi disperato, dei due astronauti di raggiungere una stazione spaziale orbitale, il tempo scandito dalla riserva d’ossigeno che i due posseggono, destinata inevitabilmente ad esaurirsi. È proprio qui, su questa lotta per la sopravvivenza e nell’empatia che si viene a creare tra due esseri umani, che Cuarón ha incentrato la sua visione ed il suo credo di speranza. Basta una frattura e tutto svanisce. Obbligati ad aggrapparsi l’uno all’altro, Gravity si fonda su di un semplice cordone ombelicale tessile che li unisce. La minaccia di una possibile rottura è sempre imminente. Con questo film, il regista viene a definire, in un modo fuori dal comune e immaginario, una tensione sempre presente, leggermente romanzata, del rapporto di coppia. Si tratta comunque di una buona allegoria sulla fiducia e sul senso stesso dell’essere umani, uniti dalle stesse necessità vitali.

Il tutto però è ostacolato da una particolare carenza di scrittura e sceneggiatura. Il film cade presto nella ovvietà, nel pomposo e sentimentale. Il ritmo incalzante svanisce rapidamente, in particolar modo quando la scena viene pervasa da un simbolismo grossolano e fetale, con lo spazio visto come un immenso contenitore di liquido amniotico. Sicuramente, rimane un buon film, destinato alla solita scorpacciata di premi Oscar per i diretti interessati, interpreti ed effetti speciali.

 

(Gravity, di Alfonso Cuarón, 2013, fantascienza, 91’) 

 

“Tefteri. Il libro dei conti in sospeso” di Vinicio Capossela

Il Tefteri è il libricino dei conti, quello su cui al negozio di alimentari si segnano i debiti, i crediti, i conti in sospeso. Il taccuino che Vinicio Capossela porta con sé durante il suo viaggio nella Grecia segnata dal tracollo finanziario è anche questo. Tefteri. Il libro dei conti in sospeso (ilSaggiatore, 2013) è un viaggio fra le strade e le taverne di Atene, Salonicco, Creta, fra le voci di chi mangia e beve e ascolta il suono del buzuki. Fra queste pagine risuona il rebetiko, musica nata dalla voce del popolo greco-turco che nel 1922 si trova sradicato ed emarginato nella sua terra d’origine. Una musica che è allo stesso tempo di tutti e di ognuno singolarmente, una musica di appartenenza, scelta politica, resistenza, anarchismo. La parola rebetiko racchiude in sé la ribellione, ma anche la contemplazione. Il rebetis, colui che lo suona, è una figura contraddittoria, un musicista nomade, è pacifico e allo stesso tempo è contro tutti nella sua “grecità”. Il rebetiko «ha un vaffanculo dentro», senza mezzi termini entra dentro e lascia scoperti, a fare i conti con la realtà. E quando la musica finisce si spaccano stoviglie, si rovesciano tavoli, la vita riprende prepotentemente il sopravvento. 

È unamusica della krisis, il rebetiko.«Krisis. Crisalide. Da chrisizo, splendere. Chrisalida. La crisalide, la farfalla prodotta dallo splendore della crisi, della trasformazione. Quindi crisi significa anche trasformazione, metamorfosi. Cambiamento di forma di cultura. La metamorfosi, come in Kafka, fa paura. È terrorizzante. Si ha paura della crisi perché si ha paura di cambiare, di esporsi al dolore. Il dolore si sviluppa nell’attrito. La resistenza al cambiamento produce dolore».

La crisi è una possibilità di cambiamento, un movimento tutt’altro che semplice. Ma è un movimento verso l’alto, sempre, perché l’ascesi è nella natura dell’uomo, dell’anthropos, che non deve fare nient’altro che affidarsi al proprio cammino, guardare in su, crearsi la sua strada solamente camminando, continuando il suo viaggio. La krisis è un’opportunità per costruire sé stessi, per darsi un’etica che vada oltre ciò che si possiede, un’identità che vale proprio perché prescinde da qualunque ricchezza.

«Bisogna tornare al potlatch, alla distruzione rituale. Come le antiche tribù distruggevano i beni in un rito sacro, perché non fosse la proprietà a determinare il valore di un uomo fra loro. […] Di modo che lo stato di un uomo considerato più elevato per quello di cui si disfaceva, non per quello che aveva».

La scrittura di Capossela è densa, fitta di sensazioni, impressioni, divagazioni e approfondimenti, in un diario che prima ancora di raccontare ascolta, raccoglie, registra ogni voce e suono. Questo suo libro non può che svilupparsi intorno alla musica, una musica che diventa voce collettiva, un mezzo per ri-costruirsi.

Le pagine di questo quaderno di viaggio descrivono una Grecia diversa da quella spesso più conosciuta, una Grecia fatta di racconti, persone, luoghi nascosti, bui e poco frequentati ma pieni di storie. Una Grecia che nella sua crisi, nel suo tracollo, nel suo essere schiacciata dal capitalismo continua a essere inclusa in un’Europa alla quale non si sente più di appartenere. Un paese con il quale forse dovremmo confrontarci. «“Non siamo la Grecia”, “non faremo la fine della Grecia”. Che peccato. Infatti, non siamo la Grecia. Per questo ne abbiamo bisogno».


(Vinicio Capossela,Tefteri. Il libro dei conti in sospeso, ilSaggiatore, 2013, pp. 160, euro 13)

“Agostino” di Alberto Moravia

Il quarto romanzo di Alberto Moravia, Agostino, scritto nel 1941, incontrò non pochi problemi per la sua pubblicazione, avvenuta solo nel 1944: il libro fu infatti vittima della censura fascista, che ne bloccò la diffusione considerando la trama di argomento troppo scabroso.

Il romanzo, ambientato in una località di mare della costa toscana, è la storia di Agostino – protagonista che dà il titolo al romanzo – ma è soprattutto la storia dell’evoluzione fisica e psicologica di un adolescente. Agostino è un ragazzo di tredici anni, cresciuto in una famiglia borghese: è ancora un bambino, ma vede improvvisamente cambiare il suo rapporto con la madre che, donna bella e piacente, ha ancora voglia di divertirsi, di essere amata.

Agostino si accorge di questo cambiamento non appena lei si accompagna a un giovane: non è più solo sua madre, dunque, ma diventa, improvvisamente, una donna. Nel frattempo, l’adolescente, frequentando una banda di ragazzi violenti e temibili che si riunisce al Bagno Amerigo Vespucci, ha un primo approccio con la sessualità. Il fanciullo riesce così a decodificare i gesti e i comportamenti che appartengono a sua madre e al giovane che la affianca; scoperte, queste, che mettono in crisi la sua identità di figlio.

Viene così deriso dai ragazzi della banda: è un ragazzo inesperto, ingenuo, timido, ed è presto vittima di un malinteso con gli stessi ragazzi del gruppo. Arriva a pensare che la soluzione a tutti i suoi problemi con la banda e con sua madre sia andare in una casa di tolleranza e avere un rapporto con una donna; ma anche questa ipotesi si rivela fallimentare. La vicenda si conclude con la richiesta di Agostino alla madre di lasciare quel luogo e tornare a casa.

Il romanzo, dallo svolgimento piuttosto semplice, è però un accurato ritratto della piccola borghesia di quegli anni, tendenza rintracciabile in tutta l’opera di Moravia, e soprattutto nel grande romanzo d’esordio: Gli indifferenti. Moravia fa critica di costume, analizza i personaggi, si esprime sulle tematiche più attuali del tempo. La realtà descritta è straordinariamente interessante, ma sempre realistica.

Agostino è allo stesso tempo un romanzo dal ritmo incalzante, ricco di colpi di scena: si legge tranquillamente, tutto di un fiato, grazie a una scrittura semplice e vicina al parlato. Lo stile spoglio e disadorno dell’autore si inserisce infatti in un progetto più ampio di scrittura media, facilmente traducibile anche all’estero.


(Alberto Moravia, Agostino, Bompiani)