[Flanerí night #5] Conosciamo le tre band

A due giorni dalla Flanerí night #5 dell’11 aprile conosciamo meglio i Montag, Grannies Club e Downpour Swing Band, i tre gruppi che a partire dalle 22 animeranno per noi il palco del Contestaccio per oltre due ore di musica dal vivo.

Ricordiamo che durante la serata verranno proiettate inoltre le tavole dell’eBook illustrato Mr. Minimal 00 – Il piacere è tutto mio, di Gabriele Mannarino, pubblicato da Il Menocchio eBook e co.
 

 

Montag

Cos’è, oggi, il post-rock?

Siamo decisamente convinti che oggi, il termine post rock, con l’accezione classica che gli si dà, non significhi assolutamente più nulla. Un’etichetta come tante per definire in modo comodo una certa maniera di fare musica ma, in definitiva, una corrente i cui margini, ormai, sono talmente sottili da confondersi con tutto il resto. Quando anni fa si parlava di indie rock, la gente pensava a una certa chitarra o a una certa batteria, ma era solo uno modo di suonare in quella particolare epoca musicale, in maniera indipendente e fuori dal circuito mainstream, nel migliore dei casi. Indie rock non significa più i Franz Ferdinand, e allo stesso modo post rock non significa più i Sigur Rós e per i più sarebbe sconvolgente ragionare sul fatto che in realtà qualsiasi cosa possa essere indie rock almeno quanto possa essere post-rock. Quello che fanno i Montag, quando sono sul palco, è creare ambienti sonori che la gente possa sfruttare a suo piacimento, senza il vincolo e il limite di un testo o dell’interpretazione di una voce che per forza di cose guidi l’ascoltatore. Ci piace pensare che se un pezzo è triste, evocativo o esaltante, sia chi l’ascolta a deciderlo, noi semplicemente mettiamo a disposizione uno spazio all’interno del quale ognuno possa crearsi le immagini che preferisce. Ecco, se ci fosse l’assoluta necessità di una definizione del post-rock sarebbe questa, il più democratico dei modi possibile di fare musica.


In cosa può evolversi una corrente musicale che, forse, ha avuto la sua massima espressione negli anni ’00?

Fare musica nasce da un’esigenza, ci piace pensarla così. Si fa musica per bisogno di esprimersi, senza pensarla in maniera filologica. Pensare a sedicenti correnti musicali che abbiano esaurito o meno la propria potenzialità espressiva è roba da giornalisti, da critici o da filologi musicali appunto. Se proprio bisogna parlare di etichette per noi le paroline post e rock vogliono rappresentare un’attitudine più che un genere o una corrente. È come dire punk, o hardcore, soltanto con un impatto un po’ diverso e un senso più concettuale. È qualcosa che ha a che vedere con l’idea di utilizzo di attrezzi, utensili, strumenti (le chitarre, i bassi, gli effetti, una batteria) propri di un linguaggio (in questo caso il rock) ma per usarli in maniera diversa, alternativa, per composizioni libere che trascendono dai classici sviluppi del rock così come siamo abituati a intenderlo.

 
Quali sono i vostri modelli?

I nostri modelli guardano più alla cinematografia che al mondo musicale. Prendiamo i vecchi film giapponesi per esempio: sono molto lunghi, dilatati e non hanno praticamente nessun dialogo, se non alcune frasi scambiate sporadicamente dai protagonisti. Noi Montag abbiamo un simile approccio: pezzi strumentali dilatati, quasi rarefatti, come film con una fotografia perfetta, dove la trama è secondaria, ma le luci e i colori devono essere impeccabili. Questi sono i modelli ai quali ci ispiriamo. Musicalmente parlando poi ci sono sostanziali differenze tra i vari componenti della band, per cui in ogni nostro pezzo si sentono differenti influenze che si scontrano tra loro per creare un equilibrio stabile.
 


 

Facebook: https://www.facebook.com/montagtheband?fref=ts

Grannies Club

Cosa comporta scrivere testi in inglese per un gruppo italiano, da un punto di vista artistico e non commerciale?

È un fatto di ritmo, per lo più. L’inglese ha una musicalità diversa dall’italiano, che si sposa meglio e più velocemente con il rock’n’roll. Di sicuro conta anche molto la musica su cui io e gli altri del gruppo ci siamo formati. Se cresci con i classici degli anni cinquanta e sessanta nelle orecchie, hai imparato a canticchiare dall’infanzia in una lingua che non è la tua. Per noi è stato quasi automatico scrivere in inglese. Nel nord Europa è considerato normale. Mi sono sempre chiesto perché non poter essere come gli svedesi The Hives e Mando Diao dopo tutto.


È possibile che, da quando gli Afterhours (2009, con “Il paese è reale” e l’esibizione a Sanremo) hanno in qualche modo gettato luce sull’underground italiano, convenga, da un punto di vista commerciale, comporre canzoni in italiano?

Dipende da quello che si vuole fare. Se sei italiano, vivi in Italia e suoni in Italia prima o poi con la tua lingua madre ci devi venire a patti, perché questo Paese non è interessato prima di tutto a certi generi musicali, fra cui il rock’n’roll, e in secondo luogo non dimostra alcun interesse per il cantato in inglese. L’inglese è accettato solo ed esclusivamente dagli artisti stranieri. Quindi è ovvio che per ragioni commerciali l’italiano convenga. Il mercato discografico è un fossile un po’ ovunque, ma se in Italia devono scegliere se investire qualche soldo di certo non lo fanno su un artista che canta in inglese.

 
Cosa ha significato vedere i vostri brani finire in un programma Rai di grande successo?

Dare le nostre canzoni a una fiction in onda su Rai Uno è stato emozionante. Avevamo già provato quella sensazione quando il video di “Never” venne messo in rotazione su Mtv Brand New, ma capire che quello che hai scritto, suonato in giro, inciso a tue complete spese sia poi risultato utile al lavoro creativo di qualcun altro, e degno di essere infilato in un programma di prima fascia su Rai Uno, è una bella sensazione. Ti aiuta a pensare di non essere totalmente pazzo a fare la vita che fai con tanta fatica. Quando poi sulla pagina Facebook ufficiale della fiction le nostre canzoni sono state scambiate con quelle dei Rolling Stones e ci è toccato pure rettificare, abbiamo quasi pensato di poterci montare la testa. Giusto un minuto. Poi eccoci qua. Non è mica cambiato granché. Ci chiediamo oggi cosa sia necessario per essere considerati una band di belle speranze dagli addetti ai lavori. Colonna sonora? Fatta. Video su Mtv? Fatto. Adesso dovrebbe anche partire un programma di Sky con un nostro pezzo in sigla. Who Knows? Per il momento noi suoniamo, ci divertiamo e facciamo divertire.
 


Maggiori informazioni:www.granniesclub.com

 

Downpour Swing band

Che tipo di mercato è quello del jazz, oggi, in Italia?

Del mercato jazz italiano non sappiamo nulla. Non ci interessa tanto in realtà, siamo nati da poco e quello che vogliamo è suonare, crescere come musicisti e far stare bene le persone che ci ascoltano!


Avete mai pensato di lasciare l’Italia, magari di avere maggiori possibilità all’estero?

All’estero sarebbe fantastico, ma prima bisogna conoscere bene la realtà musicale dei live in Italia: vogliamo viverla come fosse una palestra.


Quali gruppi vorreste aprire in un concerto?

Ci piacerebbe aprire a tutti i gruppi che fossero disposti a sopportare sette matti come noi!

 

Non ci resta che attendere giovedì 11 aprile. 

“Il cacciatore di larve” di Amir Tag Elsir

Il sempre più intenso interesse verso la narrativa araba fra gli editori italiani, dopo La migrazione a Nord (Sellerio, 2011) del celebre Tayeb Salih, si riconferma con Il cacciatore di larve (Nottempo, 2013), di Amir Tag Elsir, finalista nel 2011 dell’International Prize for Arabic Fiction. Nel suo primo libro tradotto in Italia, Tag Elsir irride l’amara, quanto attuale scommessa che chiunque possa scrivere un romanzo godibile, soffermandosi sui chiaroscuri fra la realtà narrata e la narrazione. Un’impostazione problematica espressa attraverso la più classica dialettica del doppio: se ne I Fiori blu Queneau domanda invano chi sia dei due protagonisti il sognatore e chi appartenga al sogno, qui Tag Elsir gioca con un koan ineffabile all’interno di una struttura narrativa altrettanto ben architettata, dando voce ai vaniloqui esasperati di un romanziere e agli strazianti abbozzi di scrittura del suo allievo, due personaggi che paiono contendersi la creazione dello stesso romanzo.

Abdallah Harfash, ostacolato da una protesi di legno – un chiaro segno di elezione, ripete a se stesso – e costretto alla pensione per un incidente, concepisce ex-abrupto l’idea di scrivere, nonostante la sua tracotante estraneità verso i libri. «Scriverò un romanzo. Sì, scriverò. È strano davvero che un’idea simile sia venuta in testa a un agente segreto in pensione come me». Riversando nella scrittura le ambizioni di rivalsa verso l’inarrestabile nugolo di scribacchini di successo, l’uomo si presta a un turbinoso inseguimento di personaggi ricchi di spunti narrativi. Tuttavia gli automatismi della sua scrittura rendono ogni manoscritto simile a un’amorfa e affettata relazione di polizia e nemmeno leggere altre opere lo libera dal compiacimento focoso e solipsistico, poiché gli prospetta l’agognato trionfo attraverso il plagio.

Lo scrittore A.T. è il contraltare di Abdallah, al quale concede un rapporto esclusivo per ricambiare il suo intervento salvifico presso la polizia. Come se si specchiasse in un sosia sgraziato e privo di talento, A.T. gli rivela i propri segreti professionali: «La scrittura somiglia alle fasi di sviluppo degli insetti. L’uovo si trasforma in larva, che è una creatura piccola e fragile, poi diventa una pupa, dentro a un bozzolo per diventare un insetto adulto». Figura carismatica in una cerchia esaltata ed elitaria di un caffè letterario, A.T. non nasconde l’inconsistenza artistica di molti intellettuali, creduli e crogiolati in pose autocelebrative, ma ne sfrutta la suggestionabilità con aneddoti e sparate categoriche, approfittando degli spazi di inoffensiva espressione che il regime malvolentieri tollera.

L’affondo alla liberà di opinione è rappresentato con un’ironia caustica e ilare, che spiazza per la notevole capacità di dialogare con il tragico e con la quotidiana follia di una giostra grottesca di marionette, abituando il lettore al piacere dell’iperbole, suggellato nel finale attraverso un’abile mossa in grado di sovvertire le prospettive narrative.

La capacità di Tag Elsir di recidere l’incipiente cupezza di un’Africa spossata da regimi famelici e da inferni bellici e acclimatata ai desideri occidentali sta nell’incanto della «leggerezza dell’uccello e non della piuma» caldeggiata da Valéry, che, lungi dall’essere frivola, si armonizza con una rielaborazione genuina dell’espediente arabo per eccellenza del racconto-cornice, nel quale balugina una ragnatela di micro-storie illuminate da una lingua semplice ed espressiva, ben resa dalla traduttrice Samuela Pagani.
 

(Amir Tag Elsir, Il cacciatore di larve, trad. di Samuela Pagani, Nottetempo, 2013, pp. 191, euro 14,50)

“Pale Green Ghosts” di John Grant

Pallidi fantasmi verdi hanno sostituito la Regina di Danimarca. Nella musica, nelle parole e nell’animo di John Grant. Duemiladieci: il mondo della musica si emozionava con un esordio clamoroso: Queen Of Denmark. In quei brani c’era stillata la vita di Grant: il passato come leader degli Czars, il loro scioglimento, la frustrazione e la depressione, l’alcolismo e la tossicodipendenza, l’omosessualità e le piccole grandi battaglie di un quarantenne arrivato al punto di non ritorno. Fato vuole che i Midlake, ai quali Grant apre i live, rimangano talmente rapiti dalla sua bravura, da “sequestrarlo” in sala di registrazione. In due mesi scarsi nasce il disco, talmente unico e personale da diventare una pietra miliare della discografia degli anni Duemila. Di Queen Of Denmark colpisce tutt’oggi l’eclettismo, la profondità dei testi, il timbro vocale caldo ed emotivo e gli spiazzanti assoli di synth.

Bene, per parlare di Pale Green Ghosts – uscito a marzo 2013 – partiamo proprio dai synth, poiché il secondo album di Grant vira decisamente verso l’elettronica. Entriamo così nell’atipico e diversificato background musicale del cantante: Sinead O’Connor, Eurythmics, Journey, Kate Bush, ABBA e Dead Can Dance. Se nell’esordio l’anima cantautoriale prendeva il sopravvento, qui sono campionatore e sintetizzatore a dominare, in una via di mezzo tra Depeche Mode e New Order. L’iniziale title-track ne è la prova. Le basi e i battiti di “Pale Green Ghosts” dipingono in pochi secondi un’atmosfera sinistra, inquietante. Ancora una volta sono le vicende personali il cuore pulsante della musica di Grant. L’autore di Denver – che ha scoperto di essere sieropositivo – ha scelto d’affrontare i suoi fantasmi nell’isolamento di Rejkjavik, dove ha registrato l’album, in compagnia della O’Connor, presente in molte tracce ai cori. Intanto il ritmo aumenta, pesante e avvolgente, in “Blackbelt”. Ma è con “GMF” (ascoltate il ritornello e capirete l’acronimo) che Grant mostra la perla capace di far trasalire chiunque: il pezzo è diventato subito un cavallo di battaglia, già amatissimo tra i fan. Proseguendo, alla lenta “Wietman” succede un altro momento immenso, che rivaleggia con “GMF” per la canzone più bella del disco: “It Doesn’t Matter To Him”. Una traccia che poteva essere tranquillamente presente in Queen Of Denmark: sia per il ritornello, sia per il monumentale assolo finale di synth. Ma qui c’è un tocco in più: Sinead O’Connor.

L’album prosegue, senza altri picchi. Da notare “Ernest Borgnine”, altra presenza cinematografica usata per trattare delicate problematiche, come la “Sigourney Weaver” del primo lavoro. I sette minuti di “Glacier” chiudono le danze, e i fan e la critica già si dividono sulle scelte musicali e se il disco possa rivaleggiare con la Regina.

Ora, non credo sia produttivo entrare nel merito dei dibattiti. Il sunto è: quando ci si trova davanti a un artista di tale calibro generi e classificazioni passano in secondo piano. Un autore nel pieno possesso del proprio talento, può permettersi scelte azzardate e cancellare con un riga i favori del passato. Quello che conta nella musica di John Grant è il messaggio. Onesto, sincero, capace di emozionare. A prescindere dall’involucro, il nucleo della sua arte è sempre il proprio vissuto, filtrato mirabilmente – e dolorosamente – nei testi. Grant è talmente grande da scegliere di disco in disco quale vestito sonoro gradisce per avvolgere le sue emozioni, i turbamenti, le crisi, le speranze. Perfettamente conscio che quando gli intenti e gli esiti sono così puri, tutto il resto passa in secondo piano.

E i pallidi fantasmi verdi spariscono dall’anima. La sua e la nostra.
 

“Le ossa” di Eduardo L. Holmberg

«Ho la sensazione che finora il lettore non abbia trovato alcun motivo per interessarsi al disordinato prologo che precede queste righe […] Si trova tuttavia in errore, ed è verosimile che, giudicando con imparzialità e buon senso, arrivi a riconoscere che l’autore dovesse avere qualche buona ragione per offrirgli una matassa tanto ingarbugliata invece di un calice trasparente e traboccante di liquore forte. Se avrà la bontà di proseguire con me, nutro la speranza di fargli cambiare opinione, e, se mi perdonerà certi riferimenti a fatti personali, forse finirà per appassionarsi, com’è successo a me, alla singolare storia che sto per raccontare. Allora si renderà conto che le farfalle e i colibrì non hanno alcun ruolo nella vicenda e sono soltanto un ornamento che non guasta, proprio come un neo malizioso accanto a una bocca a confettino. Ero, dunque, di ritorno da un viaggio».

Sono proprio quei fatti privati e quegli ornamenti a fare di Le ossa di Eduardo Holmberg (Arcoiris, 2012) un piccolo gioiello. È uno di quei casi in cui finito di leggere si vorrebbe invitare a cena l’autore. Si tratta di un giallo, “un giocattolo poliziesco” che verrà inserito tra i testi fondamentali del genere poliziesco di lingua spagnola. Il protagonista, scienziato e intellettuale, si ritrova tra le mani delle ossa umane, di cui ignora la provenienza. Con l’aiuto di un frenologo scoprirà che gli scheletri ai quali manca, simmetricamente, la quarta costola, appartenevano a due uomini della stessa età, di indole e carattere diversi. In poche pagine si sviluppa l’indagine a colpi d’istinto dello scienziato che intende proseguire le ricerche in autonomia. Lo scienziato-scrittore è infatti mosso sì dal desiderio di arrivare alla soluzione del mistero, ma soprattutto dalla volontà di scrivere un romanzo ispirato alla vicenda dei due scheletri. Si innesca così un meccanismo metaletterario in cui il personaggio e lo scrittore si sovrappongono, sollecitando ancora una volta la curiosità del lettore nei confronti di chi scrive.

I tempi veloci e i dialoghi sostenuti mantengono viva una sufficiente suspense, ma è soprattutto l’atmosfera restituita e la seducente personalità del protagonista a tenerci inchiodati. Come non assecondare e seguire un uomo che è appena tornato da un viaggio di esplorazione della fauna e della flora delle province argentine? «Le pianure, le montagne, i boschi e i fiumi della mia terra, così ricca e bella ma anche, per effetto della sua stessa bellezza, così tirannica e dominatrice, una terra che mi avrebbe trasformato in una specie di vagabondo, in un beduino, se non fosse stato per il desiderio del cuore e per il fascino vertiginoso di una città in cui si respira un’atmosfera intellettuale e imprescindibile». Viene voglia di sedersi e ascoltare ciò che il protagonista ha da raccontare. Nella voce narrante si ritrova lo stesso Holmberg, un medico che si dedicò allo studio della botanica, delle scienze naturali, della fisica e della chimica. Nel 1888 diventò direttore del giardino zoologico di Buenos Aires, il quale è tuttora testimone della sua visione originale e moderna, a partire dalla semplice idea di sistemare ogni specie animale in una struttura che ricordasse il suo paese d’origine. Con una scelta non ovvia Holmberg ambienta la storia nella sua città, dove nacque nel 1852, restituendoci una Buenos Aires inedita, lontana nel tempo, con le vie percorse da carrozze e le case aperte agli sconosciuti.

Il libro fa parte della collana Gli eccentrici, ed è corredato da un’interessante introduzione del curatore, Loris Tassi, grazie alla quale conosciamo qualcosa in più dell’autore, personaggio affascinante e poliedrico; della sua scelta di scrivere un romanzo poliziesco, un genere poco visitato, considerato popolare, che conoscerà la sua espansione nel secolo successivo, come la fantascienza e il terrore, altri generi cari a Holmberg. Uno sguardo da precursore e un atteggiamento pionieristico, comune anche alle sue ricerche scientifiche specialistiche, che rende difficile inquadrare questo scrittore e il suo stile in una scuola o un genere predefiniti.


(Eduardo L. Holmberg, Le ossa, trad. di Agnese Guerra, Arcoiris 2012, pp. 116, euro 10)

Something in the way

Era ormai un mese che dopo scuola andavamo tutti a casa di Chad. Entravamo in cucina e la mamma ci urlava dal piano di sopra di prendere quello che volevamo dal frigo. Ci preparavamo dei panini o delle frittelle facendo un gran casino. Era importante che facessimo confusione. Mentre Darrin, Ace e io riempivano fette di pane con burro d’arachidi e marmellata, Chad si infilava al piano di sotto, nella taverna del padre. La porta che dava sulle scale cigolava fortissimo e dovevamo coprire il rumore urlando e sbattendo i piatti. Non succedeva mai che la madre venisse giù a vedere cosa stessimo facendo. Stava di sopra a cucire costumi per il laboratorio teatrale del liceo. Tutto il giorno. Però una volta, la prima volta che Chad si era infilato giù nella taverna, la mamma gli aveva chiesto perché fosse sceso di sotto. Il padre di Chad non voleva che noi ragazzi entrassimo nella sua taverna. Chad se l’era cavata dicendo che Darrin aveva aperto la porta per caso, per vedere cosa ci fosse giù, ma che lo aveva fermato prima che potesse scendere. La madre gli aveva creduto.
La verità è che Chad doveva scendere giù nella taverna del padre per prendere da bere. Di sotto era sempre pieno di birre e di superalcolici. Così, mentre noi stavamo di sopra a farci i panini, attenti a fare più rumore possibile, Chad scivolava di sotto e riempiva lo zaino di birre o di improbabili miscugli di bourbon, gin, vodka e altra roba preparati riempiendo bottiglie di plastica con un po’ di ogni liquore.
L’alcol non era per noi. Magari noi ci facevamo una birra, così, tanto per non sprecare l’occasione, ma tutto quello che riuscivamo a prendere lo portavamo da Trevor, un tizio poco più grande di noi sempre pieno d’erba che ci faceva fumare nei boschi dietro la scuola se gli portavamo qualcosa da bere. Trevor preferiva l’alcol alla marijuana. Diceva che le canne lo facevano sentire stupido mentre con l’alcol si sentiva felice.
Io mi ero fatto la prima canna poche settimane prima, dopo che Chad aveva insistito per provare, e mi era piaciuto un sacco. Avevo detto: «È una cosa che farò per il resto della mia vita!», e tutti si erano messi a ridere, anche Trevor, che era rimasto seduto con noi e si stava finendo la quarta birra. Ace mi aveva preso in giro: «Ma come, non volevi fare il musicista?» «Sì che voglio fare il musicista! Ma voglio anche fumare tutta l’erba che voglio!»
Io volevo davvero fare il musicista. Mia zia Mary mi aveva regalato per il mio compleanno una scassatissima chitarra elettrica e io avevo preso a suonarla tutti i giorni. Mia madre non mi sopportava più, ma io me ne fregavo. Avevo iniziato a scrivere le mie canzoni, ma non volevo che nessuno le ascoltasse, ancora.
C’era una sola persona che avrei voluto sentisse quello che cantavo, in verità, ma mi vergognavo troppo per dirglielo: Melanie, la sorella di Chad. Aveva diciotto anni e un seno grande che sembrava scoppiare sotto le magliettine che si metteva per venire a scuola. La vedevo tutti i giorni, in un angolo della sala mensa o sulle tribune del campo da basket. Stava sempre da sola, a disegnare. Ogni tanto mi sembrava che mi guardasse e io giravo la testa imbarazzato, fingendo di fare altro. Si diceva che avesse dei problemi, che fosse ritardata o mongoloide, ma secondo me era una cosa che aveva messo in giro qualcuno che la odiava. Era solo timida e silenziosa, come me.
Chad non ne parlava mai. Il pomeriggio in cui avevamo fumato per la prima volta a un certo punto gli avevo chiesto se era vero quello che si diceva in giro su Melanie. Eravamo fatti pesantemente e io sentivo come una mano fredda che mi schiacciava il cervello e non mi faceva pensare bene. Chad si stava grattando l’orecchio sinistro, diceva che gli formicolava, che gli prudeva da matti. Quando gli chiesi di sua sorella smise di toccarsi e mi guardò dritto negli occhi. «Che si dice in giro di Melanie?», mi chiese con un espressione che non gli avevo mai visto.
«Niente Chad, che si dice? Che è un  po’ strana, ecco». Ero in imbarazzo, i suoi occhi non mi si staccavano di dosso.
«Strana? In che senso strana? Perché non pensi piuttosto a farti i cazzi tuoi e a ficcarti quella chitarra di merda nel culo?» Poi era scattato in piedi e si era allontanato nel bosco.
Io, Ace e Darrin eravamo rimasti lì a guardare la doppia fila di binari davanti a noi, in silenzio, stupiti e terrorizzati dalla reazione di Chad. Trevor russava contro un albero.
Poi Chad tornò, dopo mezz’ora più o meno, e si mise semplicemente a preparare un altro spinello e a cazzeggiare come sempre. Non ne parlammo più.
Qualche mese dopo andai a casa di Chad alla fine delle lezioni. Non era venuto quel giorno e volevo sapere che fine avesse fatto. In verità avevo finito l’erba e avevo bisogno di qualche birra per andare da Trevor. Avevo iniziato a fumare anche da solo, sul tetto di casa uscendo dalla finestra della mia stanza, e le mie scorte duravano sempre meno. Continuava a piacermi, fumare erba, ma non mi dava più lo stesso effetto delle prime volte.
La porta della cucina della casa di Chad era sempre aperta, così entrai senza bussare.
Al tavolo della cucina trovai Melanie, con addosso solo le mutandine e una maglietta attillata, un piede tirato su e appoggiato allo sgabello su cui era seduta. Stava mangiando dei cereali, davanti a sé aveva il suo quaderno pieno di disegni.
Era la prima volta che ero con lei, da solo, in una stanza.
«Ciao, sono Kurt, cercavo Chad», era la prima volta che le parlavo. Fortunatamente, lo spinello che mi ero fumato a scuola mi faceva sembrare meno agitato di quanto fossi, o almeno me lo auguravo.
«Lo so chi sei, Kurt, ti conosco», disse mentre tirava giù il piede e si sistemava meglio sullo sgabello. Poggiò i gomiti sul bancone, sporse il busto in avanti e si appoggiò alle braccia. Il suo seno non mi era sembrato mai così enorme. Non mi levava gli occhi di dosso. «Tu sei quello che vuole fare il musicista, vero?»
Sentii le guance diventare bollenti. Non sapevo come rispondere, così mi limitai a chiederle di nuovo se Chad fosse in casa, balbettando come non avevo mai fatto.
«No, Chad non c’è, è fuori Aberdeen con la mamma. Sono andati dai nonni. Non c’è nessuno a casa, tranne me. E te…» Melanie continuava a muoversi sullo sgabello, ad accavallare le gambe nude, senza smettere di guardarmi.
«Senti, ti va di vedere i miei disegni?», mi chiese indicando il quaderno sul bancone. Io ero rigido e incapace di parlare. Volevo andare via ma allo stesso tempo volevo avvicinarmi a lei, stare con lei, toccarla. Senza rendermi conto iniziai a muovermi verso il bancone.
Lei allargò leggermente le gambe e mi si avvicinò indicando i disegni sui fogli a quadretti. La sua tetta sinistra toccava il mio gomito destro.
Avevo iniziato a sudare. Sentivo il suo profumo, fortissimo, che mi riempiva il naso. Le pagine del quaderno erano piene di tratti di penna confusi che tracciavano vortici e spirali, labirinti in cui si spalancavano occhi blu di biro.
Il suo seno continuava a spingere sul mio braccio. Non capivo più niente. Con un occhio guardavo i disegni, con l’altro le spiavo le gambe, finché senza rendermene, conto, mi avvicinai al suo orecchio e le dissi: «Non dirlo a Chad, ma mi piaci un casino». Lei sorrise e mi baciò sulle labbra. Io ormai avevo smesso di pensare. Sentivo il cuore martellarmi le tempie. La mano fredda della marijuana mi spingeva le meningi sul cervello. Ero zuppo di sudore.
A bassa voce mi chiese: «Vuoi scoparmi?», e io mi limitai a fare di sì con la testa, la gola piena di qualcosa simile a palle di carta.
Mi prese per mano e mi portò di sopra, in camera sua. Iniziò a spogliarsi, lasciando la porta aperta. Si stese sul letto, completamente nuda.
Io ero immobile, ancora in corridoio. Mi grattavo nervosamente le braccia. Melanie mi fece cenno di entrare. «L’hai mai fatto prima?» Feci segno di no. «E tu?» riuscii a chiederle con un filo di voce. «Io sì, un sacco di volte. Quando ero più piccola con un mio cugino abbiamo scopato tutta l’estate, in campeggio a Barlow Creek. Adesso lo faccio con un mucchio di gente. Vieni qui che ti faccio vedere». La sua voce era morbida come una carezza.
Mi stesi accanto a lei e iniziai a baciarla, a toccarla. Sembrava che le piacesse, così continuai. Lei me lo teneva in mano e me lo accarezzava. Senza volerlo le morsi forte il collo e le scappò un grido. «Mi lasci il segno così!», mi bisbigliò in un orecchio. Poi mi disse di montarle sopra. Io mi calai i jeans sotto il sedere e feci come diceva. Mi misi su di lei e mi guidò dentro.
Mentre mi sostenevo sulle braccia vidi il suo comodino, pieno di tubetti di medicine, di quelli arancioni, con il tappo bianco, e il suo nome scritto sopra. Su un’etichetta lessi la parola «Litio».
Cercavo di scoparla, ma la testa mi girava forte e non capivo niente. Sentivo freddo e sudavo. La maglietta mi si incollava al torace in una morsa gelida. Il bordo dei jeans mi segava le natiche. Chiusi gli occhi sperando che tutto passasse. Quando li riaprii la vidi sotto di me, e mi sembrò orribile e grassa. Sentivo una puzza insopportabile che mi levava il respiro. Era la sua vagina.
Mi staccai da lei disgustato e scappai via con i pantaloni ancora calati.
Una mattina della settimana dopo, la porta della mia classe si spalancò e il padre di Melanie entrò come un toro, il preside attaccato alla manica della sua camicia di flanella che cercava di fermarlo. Mi urlava contro che ero un bastardo, che mi ero approfittato della sua bambina, che l’avevo morsa a sangue, come una bestia feroce.
Nell’ufficio del preside, il padre mi disse che dovevo ringraziare Melanie se non mi denunciava, perché nonostante tutto era maggiorenne e poteva decidere lei cosa fare, così dicevano gli assistenti sociali.
Io non l’avevo più vista da quel giorno. Chad non era più tornato dalla visita dai nonni e noi avevamo trovato un altro modo per portare l’alcol a Trevor. Non avevo raccontato niente a nessuno.
Il preside mi disse che non poteva sospendermi, ma che dovevo riflettere seriamente su quello che era successo. In poco tempo, tutti quanti a scuola vennero a conoscenza di me e Melanie. Mentre uscivo per tornare a casa mi piovvero addosso insulti e lattine di coca. Mi chiamavano “Stupratore di ritardate”. Qualcuno, invece, mi batteva sulla spalla e mi sorrideva. Non mi ero mai sentito così ricoperto di ridicolo.
La sera attaccai la chitarra a tutto volume e iniziai a cantare e a urlare finché mia madre non entrò in camera e mi portò via l’amplificatore. La mandai a fare in culo.
La mattina dopo non andai a scuola. Rientrai in casa dopo che mia madre era andata a lavoro, presi mezza bottiglia di scotch dalla cucina, tutta l’erba che mi era rimasta e una scatola di Lexotan e andai nel bosco dietro scuola a finirmi tutto.
Odiavo me stesso e volevo morire.
Barcollando per l’alcol e le droghe mi sdraiai sui binari. Presi due grossi blocchi di cemento e me li sistemai sul petto e sulle ginocchia. Mi accesi l’ultimo spinello mentre aspettavo che un treno passasse. Fumavo a boccate lente e profonde, trattenendo il fumo nei polmoni e guardando le nuvole uscirmi dalla bocca e dal naso. Poi lo sentii arrivare.
Mi volsi alla mia destra e lo vidi lontano che si faceva strada tra gli alberi. Provai a chiudere gli occhi per aspettare la fine, ma non ci riuscivo. Mi voltavo a controllare quanto mancasse. Non avevo paura. Volevo solo che quel treno mi passasse sopra e mi riducesse in poltiglia.
Quando vidi che prendeva lo scambio e passava sui binari affianco mi sentii di merda.
Sfrecciò a pochi metri da me, travolgendomi solo con il suo rumore. Poi rimase il silenzio.
Steso sui binari, con il blocco di cemento sul petto e sulle ginocchia, mi misi a ridere come non facevo da un sacco.
Avevo voglia di suonare. Di tutto il resto non mi importava.

“Sick City”: a tu per tu con Tony O’Neill

Leggere Tony O’Neill, equivale a entrare in un mondo. Un mondo che in Sick City (Playground, 2012, traduzione di Gaja Cenciarelli) esplode in tutti i suoi violenti colori e aspetti. Una città – Los Angeles – simile a un grande palcoscenico umano, dove i più efferati vizi e peccati si stagliano sull’ipocrisia e la falsità di un’America più corrotta e tossica dei protagonisti del romanzo. È talmente ampio e profondo lo scenario di Sick City, che l’unico modo per attraversarlo come meritava, era proprio tramite il suo autore. Cordiale e appassionato nel risponderci, O’Neill domanda su domanda, ci illustra le sfaccettature del bellissimo romanzo. Più che un’intervista, un invito a passare per Sick City.


Tony, da ex-musicista, quale sarebbe la canzone che farebbe da perfetta colonna sonora al romanzo?

Il titolo stesso del libro è stato in realtà ispirato da una canzone dei Primal Scream, “City” (dall’album Evil heat). Dal punto di vista del testo, e anche musicalmente, è la colonna sonora perfetta per la storia: «Sick Sick Sick City / Gonna be the death of me!»
In generale, la musica mi ispira molto. Un’altra canzone che ho ascoltato spesso nel periodo in cui stavo scrivendo il libro è la versione di Tom Waits di “Somewhere”, il motivo di West Side Story. Potrei dire che quella canzone riassume in qualche modo ciò che sento per Randal e Jeffrey – che sono due anime smarrite forzate ad adattarsi a un mondo che è semplicemente troppo retto per loro.


Secondo te, quale autore ha colto meglio di tutti l’anima di Los Angeles, la città che è quasi un personaggio reale in Sick City?

Per me Charles Bukowski sarà sempre il poeta laureato di Los Angeles. Il fatto è che LA è una città del tutto schizofrenica. Beverly Hills potrebbe tranquillamente esistere in un universo diverso da Westlake o da East LA. Ma la Los Angeles che conosco io, la sporca, sudicia città che esiste alla sordida ombra di Hollywood – ecco quella Charles Bukowski l’ha raccontata meglio di chiunque altro. Uno scrittore contemporaneo che riesce a evocare altrettanto bene l’anima sporca di LA è Dan Fante. Proprio come suo padre John aveva colto appieno la Los Angeles degli anni Trenta in Chiedi alla polvere, Dan ha scritto alcuni dei romanzi definitivi sulla Los Angeles contemporanea.


Sick City tra i tre romanzi, è quello meno autobiografico: c’è comunque un’esperienza realmente vissuta che ti ha spronato nella stesura?

Certo. Tutto ciò che scrivo, in un modo o nell’altro, è autobiografico. Scrivere è per me un modo di esorcizzare, un tentativo di dare un senso non solo al mondo in cui vivo ma anche all’oscurità che mi invade. Ci sono frammenti autobiografici nascosti in tutto il romanzo – luoghi, personaggi, situazioni reali. Li ho semplicemente inseriti in una narrazione di più ampio respiro, differente dai miei due romanzi precedenti, Digging the Vein e Down and Out on Murder Mile, che erano praticamente dei memoir. Un personaggio come Pat, per esempio, è basato su diversi spacciatori che ho conosciuto. Allo stesso modo, gran parte dell’azione che si svolge nella clinica di riabilitazione è basata sul periodo che io stesso vi ho trascorso, per disintossicarmi, negli ultimi anni Novanta.


Pensi che temi come la dipendenza dalle droghe, la riabilitazione e l’omosessualità siano ancora dei tabù nella società di oggi? Trattarli in maniera così esplicita e realistica come nel tuo stile, è anche un modo per cambiare eventualmente le cose?

Lo spero. Credo in realtà che negli ultimi anni problematiche come quella della dipendenza e della disintossicazione siano ormai diventate mainstream, specialmente qui in America. Eppure il maledetto Puritanesimo continua a essere al centro della questione. Per me è stata una scelta quasi politica quella di costruire due protagonisti che fossero due tossici senza speranza e che coincidessero comunque con il centro morale del libro. Volevo che le persone, anche coloro che non fanno uso di droga, facessero il tifo per loro. Troppo spesso la dipendenza è trattata come una questione morale, quando in realtà dovrebbe essere semplicemente un fatto medico. Parlando personalmente, credo che le droghe dovrebbero essere legalizzate, a tutti i livelli. Lasciamo che le persone adulte prendano le proprie decisioni su quali sostanze assumere. I tossicodipendenti non hanno bisogno della prigione. Hanno bisogno di avere accesso a droghe pulite e abbordabili.


Pagina dopo pagina vengono scattate delle istantanee indelebili sulla città e sui personaggi: ce ne è una di cui sei particolarmente fiero?

È difficile per uno scrittore giudicare a tal punto il proprio lavoro. Ciò di cui sono più orgoglioso è quando qualcuno mi contatta e mi dice che non riusciva a smettere di leggere. Credo questo sia il complimento migliore che si possa fare a uno scrittore. È ciò che io stesso cerco nei libri, e che qualcuno lo dica a me… sì, quella è una sensazione molto speciale.


Se fossi coinvolto in una lite tra Jeffrey e Randal – i due personaggi principali di Sick City –, da che parte staresti?

Sarebbe impossibile prendere le parti di qualcuno. Vedi, Randal e Jeffrey sono semplicemente due parti della mia stessa personalità. Ci sono alcune scene nel libro in cui discutono sul restare puliti, e in un certo qual modo è come ascoltare una lite che avviene nella mia mente ogni giorno della mia vita. Quel tira e molla tra il volersi dare una ripulita una volta per tutte e la consapevolezza che il mondo è un gran casino comunque, con o senza droga. Alcuni aspetti del personaggio di Randal sono ispirati a un mio caro amico, morto davvero troppo presto. Molto della storia di Jeffrey, invece, viene dalle persone che ho conosciuto nel corso degli anni. Ma le loro anime, la loro personalità profonda… gran parte di me rivive in entrambi i personaggi.


Il Dottor Mike è l’emblema dell’ipocrisia e della falsità: c’è un personaggio dell’attuale scena mondiale che te lo ricorda?

Negli Stati Uniti c’è un tizio chiamato Doctor Drew che ha fatto fortuna sfruttando tossicodipendenti e questioni legate alla dipendenza in televisione. Ha un reality show in cui manda in riabilitazione celebrità stordite dalla droga. Ogni volta che qualcuno di famoso muore per cause legate alla droga è sempre il primo sulla scena, a specularci sopra e a cercare di farsi un po’ di pubblicità ancor prima che il cadavere si sia raffreddato. Soggetti come il Dr. Drew mi fanno davvero vomitare. Anche gli spacciatori sfruttano i tossici, ma se non altro gli offrono in cambio qualcosa di tangibile – la droga. I “Dr. Drew” di questo mondo non danno mai nulla in cambio.


Hai avuto dei modelli narrativi a cui hai attinto mentre scrivevi?

Sono uno scrittore puramente autodidatta. Ho scritto il mio primo romanzo perché mi stavo disintossicando dall’eroina e sentivo che se non avessi fatto qualcosa che mi impegnasse la mente sarei diventato pazzo. Quindi ho iniziato a scrivere le memorie della vita da tossico a Los Angeles, e quelle note sono poi diventate il mio primo romanzo. È stata una fortuna aver scoperto di avere talento per la scrittura, e firmare il primo contratto per Digging the Vein. Quella decisione, iniziare a scrivere delle mie esperienze, ha fatto prendere alla mia vita una piega totalmente diversa – e inaspettata. Scrivo provando e sbagliando, vado a tentativi. Sick City è stato un libro fortunato. Mi è uscito molto naturalmente, senza progettarlo. Era semplicemente “giusto”. Altri libri sono stati una tortura da scrivere. Ma anche nel corso della scrittura di Sick City ci sono stati moltissimi momenti in cui sentivo che non l’avrei mai finito, che l’intera impresa era una follia. È una cosa molto difficile scrivere un libro, tanto dal punto di vista fisico che da quello mentale. Non mi riferisco solo alla disciplina di cui c’è bisogno ogni giorno. Se sei uno come me, senti costantemente una vocina in testa che adora dirti che sei un fallito, che tutti odieranno ciò che hai scritto, che sei un semplice scribacchino senza futuro. Ho sentito quella voce dal primo istante in cui ho posato la penna sul foglio. Fortunatamente sono anche testardo e determinato, quindi sono in grado di andare avanti nonostante le urla che sento nel cervello.


Nel romanzo si parla della terribile storia di Sharon Tate: come ti è venuto in mente di calare questa vicenda nella struttura narrativa, e quale è stato il tuo approccio nei confronti di un fatto di cronaca così terribile?

Credo che il caso di Sharon Tate sia emblematico del lato oscuro di Hollywood. Univa celebrità, follia, e quella sorta di infetta oscurità che ribolle costantemente sotto la superficie di Los Angeles. Avevo davvero sentito strane voci riguardo quel nastro porno. Non credevo fosse vero, ma era comunque una storia intrigante. Quando ero alla ricerca di un motivo che facesse da forza gravitazionale attorno alla quale tutti i personaggi dovevano ruotare, mi è sembrata una scelta naturale.


Arrivato in clinica per disintossicarsi, Randal dice: «Cioè, trent’anni da sobrio a me suona come una condanna all’ergastolo». Ti spaventa la possibilità di subire tale condanna?

La dipendenza ha gettato una lunga ombra sulla mia vita, e il percorso che ho scelto – quello per cui non mi astengo dal consumo di alcol o altre droge, ma cerco di rimanere sano e di avere pieno controllo – è difficile. Non mi buco più; evito droghe pesanti come cocaina ed eroina. Ma quando bevo o fumo resto comunque estremamente consapevole del lato oscuro che è in me, e che mi spinge alla dipendenza. Per me la dipendenza non è una malattia. È una questione di esposizione, e con la giusta dose di forza di volontà gli eccessi che ne derivano si possono mettere a freno. Una vita di totale sobrietà mi spaventa almeno quanto una vita piena di quel tipo di disperazione e angoscia che ho provato nel periodo peggiore della mia dipendenza da eroina. Ho scelto io di camminare su questo filo. Ma allo stesso tempo questo tira e molla interiore è fonte di grande ispirazione per me. Senza tutta questa follia e questo dolore, non sarei mai stato in grado di scrivere i libri che ho scritto.

 

Traduzione di Giulia Zavagna.

“La deriva dei continenti” di Russell Banks

«Le loro vite ben presto si trasformeranno da una realtà di un certo tipo – praticamente una non-realtà – in una nuova realtà superiore, suprema. Barattare una vita per un’altra a quel livello equivale a barattare un’assenza per una presenza, una condizione per una sorte. Queste persone non stanno semplicemente cercando di migliorare il proprio destino, stanno cercando di averne uno».

La deriva dei continentidi Russell Banks (Einaudi, 2013) è di uno di quei libri che, una volta letto, lascia un sapore duraturo e quasi tangibile di amaro in bocca. È un libro tosto, crudele e intrigante caratterizzato anche da un certo distacco – a tratti quasi pseudoscientifico – del narratore nei confronti dei personaggi e del loro triste e (non) comune destino.

Bob Dubois e Vanise Dorsinville rappresentano due esistenze umane diverse, in quanto a nazionalità, età, sesso, situazione economica e, infine, personalità, e anche la loro fine è diversa, ma sono accomunati dal grigio che domina le loro vite e dall’illusione di trovare fortuna in una nuova terra apparentemente colma di sogni e oro. Ovviamente, falliscono.

Il lettore segue le due traiettorie, illudendosi che prima o poi si intreccino in modo felice e quasi preconfezionato. Si intrecciano, sì, per brevi pagine del romanzo che sono al contempo tra le più drammatiche, ma quella di Vanise, giovane e coraggiosa donna di Haiti, e quella di Bob, operaio del New Hampshire, sposato, due figlie, amante, lavoro frustrante, rimangono di base due storie parallele e separate che piano ma inevitabilmente si muovono l’una verso l’altra, passando da una situazione problematica all’altra, ancor più travagliata della precedente, e che il lettore trascinato dalla coinvolgente scrittura segue dall’inizio alla fine del romanzo.

Il mito del sogno americano, il declino di un matrimonio, la violenza, la fuga, le disumane condizioni degli immigrati, la globalizzazione, l’instabilità del benessere economico e la morte sono alcuni dei temi indagati tramite una narrazione che procede per sequenze a tratti cinematografiche, molto efficaci. Le singole situazioni funzionano quasi fossero parti autonome, in quanto sono perfettamente indipendenti, così concrete, descritte con la dose giusta di informazioni e immagini, per poi unirsi felicemente nell’immagine complessiva del romanzo.

Il culmine del romanzo è senz’altro raggiunto con le riflessioni “pseudoscientifiche” del narratore, che sembra dare sfogo a un suo pessimismo, diremmo, biologico, paragonando la sbandata esistenza umana agli scontri incontrollabili e imprevisti dei continenti che tra di loro si urtano, si avvicinano, per poi di nuovo spingersi, allontanarsi, cercarsi.

La fine di queste vite inventate – come vuole sottolineare lo stesso narratore nelle ultime righe del romanzo – non segna certo anche la fine della tragicommedia umana: «il mondo così com’è continua a essere se stesso». Tuttavia, anche soltanto sfiorati dalla compassione e magari allo stesso tempo anche meravigliati di fronte a questi destini fittizi, qualcosa, secondo il narratore, possiamo cambiare. «Sabotaggio e sovversione, dunque, sono gli obiettivi di questo libro», scrive Banks, e noi vogliamo sforzarci di essere ottimisti e accostarsi all’idea sua.


(Russell Banks, La deriva dei continenti, trad. di Paola Brusasco, Einaudi, 2013, pp. 496, euro 19,50)

“Hitchcock” di Sacha Gervasi

Dal libro Hitchcock – L’incredibile storia di Psycho di Stephen Rebello (1990, ripubblicato ora da Il Castoro), Sasha Gervasi ha tratto Hitchcock, bio-pic che parte dalla lavorazione di uno dei più importanti capolavori della storia del cinema per arrivare a osservare la vita privata e le ossessioni del Maestro del Brivido, interpretato mimeticamente da Anthony Hopkins.

È il 1959. Alfred Hitchcock è reduce dal successo di Intrigo Internazionale e alla ricerca di un soggetto per un nuovo film. Rimane colpito dalla vicenda di Ed Gein, assassino seriale perseguitato dalla figura della madre al punto da riesumarne il cadavere. Decide che Psycho, il romanzo di Robert Bloch ispirato alla vicenda, sarà il suo prossimo film. Nessuno deve sapere la trama, per questo fa acquistare tutte le copie del libro di Los Angeles e dintorni. Alla Paramount, intanto, i dubbi sul suo nuovo progetto sono molti: troppo violento, crudo. Il finanziamento per la produzione non arriva. Hitch decide di intervenire di tasca propria, ipotecando la casa e rinunciando controvoglia a non poche delle sue costose abitudini. Psycho diventa un’ossessione: Ed Gein inizia a comparirgli in sogno, la commissione per la censura solleva obiezioni sulla scena della doccia prima ancora che venga girata, mentre Alma, la moglie adorata nonché collaboratrice più autorevole di sir Alfred, sembra sempre più vicina a Whitfield Cook, sceneggiatore sciupafemmine che vorrebbe convincere il regista a lavorare su un suo copione.

Si trova a proprio agio il regista Sacha Gervasi nel ricostruire il lavoro dietro le quinte e la vita privata di personaggi pubblici. Lo aveva già fatto nel 2008 con l’acclamatissimo Anvil! The story of Anvil, documentario in cui si seguiva la band metal canadese Anvil alle prese con un nuovo tour mondiale venticinque anni dopo l’effimera gloria degli anni ottanta. In Hitchcock parte da materiale narrativo di sicuro fascino come la realizzazione di uno dei film più importanti e conosciuti di tutti i tempi, ma finisce troppo presto per deragliare nel binario parallelo della storia d’amore e gelosia già vista tante volte. Se è vero che il legame tra Alfred Hitchcock e Alma Reville andava oltre il matrimonio verso una simbiosi assoluta anche sul piano lavorativo (al punto che ricevendo l’AFI Life Achievement Award nel 1979 il regista dedicò il premio alle quattro persone che gli erano sempre state accanto nella vita, «una montatrice, una sceneggiatrice, la madre di mia figlia e la cuoca a cui ho visto fare miracoli in una cucina domenstica, e il loro nome è Alma Lucy Reville») il film di Gervasi finisce per banalizzare in un andamento televisivo le dinamiche delle loro turbolenze sentimentali, le infatuazioni, più o meno innocenti, di Hitch per le sue bionde, la frustrazione della vita nell’ombra di Alma, il ricongiungimento alla base del trionfo di Psycho.

Peccato, perché quando il film fa metacinema interessa e diverte. I nervosismi del set, le dinamiche produttive, i problemi tecnici e le numerose trovate di Hitchcock sono ricostruite con cura partendo dal monumentale lavoro documentario fatto da Rebello nel suo libro.

Con il trucco di Howard Berger e la voce di Gigi Proietti, Anthony Hopkins evita il rischio caricatura che la mole, sia fisica che artistica, del personaggio comportava, finendo per scomparire in un Alfred Hitchcock assolutamente credibile nelle sue debolezze private e nel suo manierato umorismo. Al suo fianco si muove un cast di alto livello con Helen Mirren nei panni di Alma, Toni Colette in quelli della segretaria Robertson, Jessica Biel come Vera Miles e Scarlett Johansson chiamata a dar vita alla protagonista di Psycho Janet Leigh, che ripropone magistralmente la celeberrima doccia, momento culminante delle tensioni personali e professionali di Hitchcock durante le riprese.

Notevole la sequenza della prima, in cui Sir Alfred, rimasto fuori sala a spiare il pubblico, dirige con coltello/bacchetta invisibile la colonna sonora nella scena della doccia, quando agli agghiaccianti violini arrangiati da Bernard Hermann si aggiungono le grida degli spettatori terrorizzati.

 

(Hitchcock, di Sacha Gervasi, 2013, biografico, 98’)

 

“Il gioco lugubre” di Paco Roca

A undici anni dalla prima edizione, torna in libreria Il gioco lugubre di Paco Roca (Tunué, 2013). Non una semplice ristampa, ma un’edizione riveduta e ripensata dall’autore stesso, arricchita da una postfazione che spiega la genesi e la trasformazione dell’opera, uno dei primi tentativi del fumettista come narratore, oltre che come disegnatore.

Il gioco lugubre che Roca instaura tra realtà e finzione rievoca il titolo del primo quadro dipinto da Salvador Dalí dopo il suo ingresso nel gruppo dei surrealisti, così come la copertina del volume richiama chiaramente il volto del celebre pittore catalano. Il gioco lugubre è però anche il titolo di un dattiloscritto semisconosciuto a firma di Jonás Arquero che, tra le altre memorie, racconta il suo sinistro soggiorno in un paesino nei pressi di Cadaqués, quando lavorava come segretario presso un eccentrico pittore. Ed è proprio la storia di Jonás che Roca sceglie di raccontarci, attenendosi il più possibile alla presunta verità di quegli scritti, ma modificando il nome di Dalí in Salvador Deseo – termine tra l’altro cruciale nell’universo dell’artista catalano.
 


 

Spagna, 1936. Madrid è un tumulto di scioperi e rivolte, un’anticipazione della guerra civile che sarebbe scoppiata da lì a poco. Jonás desidera lasciare la capitale, e tramite l’amico García Llosa trova un impiego come segretario presso la dimora di Deseo, che vive in una casa isolata sulla spiaggia di Port Lligat, nei pressi di Cadaqués, solo con la moglie Galatea. Fin dal primo momento, Jonás percepisce una sorta di ostilità nel luogo e nei personaggi che lo abitano, e poco a poco la narrazione perde linearità per alternarsi a scene dal sapore onirico, o piuttosto allucinato: i tratti del fumetto si mescolano con le riproduzioni dei quadri di Dalí, piccoli dettagli sparsi tra le tavole, a testimoniare il meticoloso lavoro di ricerca e documentazione che ha preceduto la stesura del fumetto.
 


 

L’incontro con Deseo è folgorante, e riflette in modo brillante le leggende che si raccontava circa la personalità del pittore catalano, l’ostilità e il timore che suscitava negli abitanti della vicina Cadaqués, e le oscure pratiche che si diceva avessero luogo alla casa di Port Lligat. Lo stesso Roca, nell’introduzione, tratteggia a parole la figura di Deseo: «un personaggio eccentrico e contradditorio; paranoicamente pazzo, ma intelligentemente critico allo stesso tempo. E sempre eticamente scorretto».

Jonás viene letteralmente travolto dalla follia del pittore, di cui il fumettista non esita a mostrare i lati più oscuri, in un susseguirsi di scene in bilico tra la realtà e l’allucinazione, in cui le percezioni stesse del lettore sono alterate e incerte, in linea con i dettami del surrealismo. Il mondo di Deseo è popolato da incubi e situazioni al limite della perversione, e ben presto Jonás, apparentemente drogato o sedato da Galatea, si rende conto che la diffidenza dimostrata dai vicini e soprattutto da Roser, ragazza di Cadaqués di cui si invaghisce, è in realtà più che motivata. Sesso, morte e cibo sono i fulcri intorno ai quali sembrano girare le ossessioni di Deseo, che vediamo intento a fregarsi gli occhi per ore in modo da alterare la percezione degli oggetti e del mondo che lo circonda, addentare corpi putrefatti, cospargersi di feci o assistere ad aberranti rituali sessuali. Giochi più che lugubri, esperimenti visionari nei quali il valore dell’arte e del genio artistico superano quello di ogni morale.
 


 

Il tutto, rigorosamente in bianco e nero, con la sola eccezione del rosso brillante riservato ai dettagli di alcuni quadri e al sangue dei corpi mutilati nel vortice di follia che abita la villetta di Cadaqués. Questa è senza dubbio la maggiore novità, perché l’autore ha deciso di rimaneggiare il graphic novel procedendo a ricolorarlo integralmente, ottenendo in questo modo, con ampio uso di chiaroscuri, un’atmosfera ancor più inquietante e cupo, dai tratti quasi gotici, in netto contrasto con le tavole dai colori sgargianti della prima edizione, mirate forse a riflettere le sfumature utilizzate dal pittore stesso.
 


 

Ciò che stupisce, ancora una volta, è la versatilità di un autore che sembra potersi permettere di trattare qualunque genere e qualunque tematica, perfino una radicale rilettura di se stesso, nonché di un mostro sacro come Salvador Dalí. Dopo il successo di Rughe e di Memorie di un uomo in pigiama, Roca torna alla sua opera prima, che mostra forse un approfondimento limitato di alcuni personaggi, ma che ci rivela, in questa nuova veste, un potenziale narrativo notevole.

Vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, Paco Roca si è aggiudicato quest’anno il Romics D’Oro, insieme a David Lloyd, e sarà ospite al Romics proprio questo fine settimana: qui tutti gli appuntamenti.

(Paco Roca, Il gioco lugubre, trad. di Cristiana D’Onofrio, Tunué 2013, pp. 80, euro 12,50)

Questione di razza

Era vedova da tanti anni la signora Canegazzi e da quando il marito era morto girava sempre con un cagnoletto appresso, sua ultima consolazione. Senza non la potevi proprio pensare, come non potevi pensarla senza i capelli tinti gonfi di lacca a criniera di leone o gli ombretti brillantinati color cielo azzurro a primavera o al rossetto rossiccio slavato e sempre sbaffato. Era una signora molto chiacchierona, come di solito le persone sole, specie quando sono costrette a cibarsi ore e ore di televisione davanti a quella lì che c’ha la voce da uomo e che è comprensiva e bonaria con tutto e tutti che nemmeno il più santo dei santi. Adesso era qualche giorno che la signora aveva cominciato a girare per la strada con il cagnoletto nuovo che quello che c’aveva prima erano un paio di mesi che era morto: «Porello, j’ha stirato le zampe», rispondeva se le chiedevi che fine aveva fatto.

Più che un cane però, questo nuovo, pareva un topo per quanto era piccolo; e a dire il vero del topo c’aveva il pelo, che era cortissimo e liscio quasi da sembrare pelato, ma invece che grigio era nero brillante. In più era pure secco: gli si contavano tutte le costole e aveva gli occhi a palla che gli uscivano fuori dalle orbite. Sembrava che lo avessero sfoderato come si fa con i cuscini, lavato la pelle a 90 gradi in lavatrice, e che quando erano andati a rivestirlo non gli entrava più per via che gli si era ritirata. La cosa più impressionante però era la coda: lunga e tozza che di dietro al culo gli andava a penzoloni. Diceva la signora che questa era una vera e propria bestia rara che ce ne stavano poche al mondo perché l’avevano appena inventato dopo una selezione durata non si sa quanti anni, una roba da far impallidire pure un nazista. Era per questo che il suo cagnoletto era venuto fuori dieci volte più furbo di una volpe, veloce come un ghepardo e con l’occhio di lince che vedeva una pulce a trecento metri. Non solo, perché per andare incontro alle esigenze di spazio della vita moderna, oppure alle signore che se lo vogliono comodamente portare nella borsetta senza farsi venire la scoliosi, lo avevano fatto che pesava nemmeno un chilo. Insomma, era questione di razza, niente a che spartire, con tutto il rispetto, coi bastardacci di prima, pace all’anima loro.

Quando passava per la strada con quel coso dietro tutti si fermavano a guardarlo. Così quel cagnoletto, tra la gente del circondario, era diventato famoso che nemmeno i personaggi della televisione. I ragazzini andavano pure a suonargli a casa, alla signora, mica al cane, per vederlo e accarezzarlo. Era capitato addirittura che qualcuno gli aveva portato un qualche pupazzetto come giocattolo, di quelli che si muovono a batteria, per farlo divertire a corrergli dietro, ma lui li aveva sbranati tutti, talmente era selvaggio. Ad avvicinarlo non ce la facevi mica e se solo ci provavi cominciava a guardarti storto da lontano. Subito dopo arricciava il muso per mostrarti i denti e immobile come una statua di cera cominciava a ringhiare con un respiro profondo e lungo che pure se era piccolo ti metteva proprio paura.

Il fattaccio avvenne un giorno in cui la signora andò a trovare i suoi amici Pennacchioni. Era la prima volta da quando aveva il cane nuovo che andava a fargli visita e non era nemmeno entrata nella casa che già il cane si era precipitato a esplorare tutte le stanze. Prima le aveva guardate sommariamente una a una e poi, con incedere guardingo ma deciso, si era messo a esplorarle a fondo, infilandosi in tutti gli anfratti che trovava. Per un po’ i padroni di casa lo avevano seguito dicendo scherzosamente: «Fai pure come se fossi a casa tua», poi lo avevano lasciato tranquillamente a curiosare. Passato del tempo e non vedendolo più girare impegnato, i presenti si cominciarono a chiedere dove fosse finito. La signora provò a chiamarlo, ma all’appello pareva non aver proprio voglia di rispondere. Il signor Pennacchioni allora cominciò ad aggirarsi per la casa tirando fuori tutto il suo repertorio di versi e formule di richiamo per gli animali, dal «micio micio», pure se era un cane, al «qui bello», sorvolando solo sul «pio pio», ma del cane nemmeno l’ombra; fino a che, da dietro la porta socchiusa del ripostiglio, non sentì venire un sottilissimo mugugno. Spalancata la porta e guardato sotto uno scaffale si trovò di fronte a un’amara scoperta: il cane era rimasto attaccato alla colla topicida che i signori Pennacchioni usavano da sempre per combattere i topi. L’adesivo era stato spalmato su di una tavoletta di legno e il cane, poveraccio, era rimasto incollato tutto di un fianco fino all’orecchio compreso. Non appena la signora vide la sua bestiola immobile su quel pezzo di legno che sembrava un trofeo impagliato cominciò a piangere che pareva una fontana. Per staccarlo di lì sopra ci volle la mano di Dio e un bel paio di orecchi perché più il cane guaiva da una parte più la signora strillava dall’altra.

Per un mesetto almeno si portò dietro i segni del pelo strappato e quando per strada la gente le chiedeva che cosa avesse fatto, rispondeva: «Ma che non ce lo sapete che i cani de razza so’ difettosi!»

“Stella distante” di Roberto Bolaño

C’è una cosa su tutte che ho imparato leggendo i romanzi – l’ultimo in ordine di tempo, Stella distante (Adelphi, 2013), nella nuova traduzione di Barbara Bertoni – e i racconti di Roberto Bolaño: qualunque situazione descriva, qualunque cosa accada ai suoi personaggi, non bisogna mai dubitare di questo autore, bisogna fidarsi ciecamente di lui, come se fossimo seduti all’interno di una macchina sparata a folle velocità contro il peggio immaginabile e lo scrittore fosse il nostro autista. Perché Bolaño è un demiurgo scatenato che ha una visione totale delle cose, che manipola e trasforma, riordina e dà nuovo significato a ciò che già esiste, creando infiniti germogli pronti a sbocciare, come fiori magici o piante carnivore, o a morire del tutto, boccioli prematuri lasciati a seccare tra le pagine di un libro.

Stella distante, come precisa lo stesso Bolaño, nasce come ampliamento dell’ultimo capitolo di La letteratura nazista in America (Sellerio, 1998), che trattava, a suo dire «in modo forse troppo schematico», la storia del tenente della Forza Aerea Cilena Ramírez Hoffman, così come Amuleto sarà il prosieguo di uno dei capitoli di I detective selvaggi.

Tema centrale di questo quarto, breve romanzo dello scrittore cileno è la vita di Carlos Wieder, figura poliedrica e misteriosa: prima giovane poeta avanguardista; poi, durante la dittatura di Pinochet, vile e spietato assassino, artista acrobata che scrive poesie in cielo, volando su un aereo, e macabro fotografo; infine anonimo regista di snuff movies. Il narratore, alter ego dell’autore, ne ripercorre la vita come un investigatore: confronta ricordi, raccoglie testimonianze, rivive attraverso la corrispondenza con l’amico Bibiano O’Ryan momenti della loro giovinezza adombrati da questa «stella distante» che è Wieder.

A fare da sfondo alla ricerca ossessiva della verità c’è la violenza della dittatura cilena, i cui lampi di orrore tuonano lasciando tra le pagine del romanzo echi di morte e desolazione. Senza dubbio, uno dei meriti di Bolaño sta proprio in questo, nel saper raccontare il Male, quello che Fate in 2666 definirà, con le parole di Guadalupe Roncal, «il segreto del mondo», attraverso storie periferiche, minori ma altrettanto cruente rispetto a episodi di rilevanza storica, come possono essere, appunto, le torture e gli omicidi politici del regime di Pinochet.

Notevoli sono inoltre i racconti nel racconto: le brevi parentesi aneddotiche, cioè, che lo scrittore cileno apre nel bel mezzo della narrazione, creando quell’ipertestualità tipica delle sue opere. Ne sono un esempio le digressioni sulla vita dei poeti Juan Stein e Diego Soto. O ancora la storiella, quasi «una favola», del giovane Lorenzo, il quale, nonostante sia povero, omosessuale e senza braccia – aveva subito l’amputazione di entrambi gli arti superiori in seguito a una scossa elettrica – piuttosto che suicidarsi preferisce «diventare un poeta segreto».

Con Stella distante Bolaño riesce a porre un ulteriore tassello in quell’universo che sarà la sua opera omnia, giocando con il lettore, ammaliandolo con la sua ironia, il suo humour, e convincendolo infine che non c’è nulla di più falso della verità.


(Roberto Bolaño, Stella distante, trad. di Barbara Bertoni, Adelphi, 2013, pp. 147, euro 16)

“Sarà festa tutto l’anno” di Eduardo Zampella

Sarà festa tutto l’anno, oltre a essere la rassegna ideata da Eduardo Zampella in occasione del trentennale di Diffusione Teatro, progetto che ha diffuso negli ultimi trent’anni la cultura teatrale nella provincia napoletana, è anche il titolo del lavoro “in progress” messo in scena da Zampella sul concetto di diversità.

La performance, interpretata da Adelaide Oliano, è piuttosto un lavoro totale, che ben evidenzia la natura dei laboratori di Diffusione Teatro di Torre Annunziata ed è il risultato di un training preciso sull’attore che non mira alla rappresentazione di un quotidiano ma all’individuazione dell’attore come corpo scenico.

Eduardo Zampella ci mostra la figura del regista oggi, cioè un osservatore anche di fatti che non sono mai accaduti, un drammaturgo che lavora sull’atto e sulle azioni senza avviare una vera e propria descrizione. L’interprete – una bravissima Adelaide Oliano – o attore non è altro che un segno tra segni combinati che vive un presente dilatato, un corpo che si fa scena reagendo a stimoli esterni. E qui avviene il piccolo “miracolo” di Eduardo Zampella : il corpo interviene nella scrittura, nelle immagini e nei video proiettati fino a costruirsi come testo. Allora comincia a cercare soluzioni, si esprime attraverso la voce, acquisisce consapevolezza degli oggetti che lo circondano.

L’attore è il vero tributo alla diversità perché è tutto quello che non si conosce e che, forse, non si vuole conoscere perché, in fondo, ciò che importa agli spettatori è solo quel che il corpo rappresenta e non quel che sta cercando di essere. Probabilmente perché il teatro viene visto ancora come finzione, come rappresentazione, o puro estetismo d’autore.

Zampella non concede niente al pubblico, a lui interessa il corpo, la mente e la solitudine dell’attore. Un attore che limita i suoi movimenti all’interno della propria stanza ma che sta volando tra le note di Lucio Dalla o di Amy Winehouse, in un continuo repeat. All’inteprete viene chiesto di comprendere lo spazio che lo circonda e questo non deve essere altro che una sua estensione, permettendogli così di spingersi oltre quella barriera che solitamente il teatro di finzione impone. La barriera, solitamente, è il testo, che non diventa mai parte di un processo organico all’interno di un lavoro teatrale ma è solamente un mezzo per compiacere il pubblico.

 

Sarà festa tutto l’anno
con Adelaide Oliano
regia Eduardo Zampella


Prossime date del mese di aprile di Sarà festa tutto l’anno, presso il Diffusione Teatro di Torre Annunziata (NA):

05/04/2013 – Che fare?, di Enzo Scipione

12-13/04/2013 – Anna Cappelli, di Annibale Ruccello


Gli spettacoli avranno inizio alle ore 21.


Per info: www.diffusioneteatro.it