“Mozart a Praga” di Piero De Martini

Il binomio Mozart-Praga è (dovrebbe essere) di quelli conclamati da una consolidata tradizione a uso e consumo di qualsiasi adulto alfabetizzato. Interroga gli studiosi di musica alla ricerca di eventuali peculiarità stilistiche nelle cartelle praghesi del Genio e richiama i doveri del turista frettoloso che una volta esposta la giugulare all’animazione della Torre dell’Orologio si affretta a timbrare il cartellino delle tappe mozartiane. Ma – è storia – alimenta anche l’invenzione narrativa degli scrittori. Basti pensare alla novella Mozart in viaggio verso Praga, di Eduard Mòrike (1804-1875).

Nella città che un letterato di finezza oggi inimmaginabile come Angelo Maria Ripellino definì “magica” (in un libro che lo è davvero) Amadé dunque trovò una consonanza speciale. Soprattutto vi conobbe una fortuna superiore a quella ricevuta a Vienna e nella nativa, ottusa Salisburgo. Piero De Martini ne ricostruisce ora i motivi, i passaggi, le occasioni in un piccolo volume edito da Bruno Mondadori (Mozart a Praga). I due termini hanno lo stesso peso, come per siglarne una sorta di compenetrazione. Ben cifrata in un periodo storico preciso, ricostruito puntualmente: il crepuscolo del secolo illuminista. Momento presago di inquietudini che verranno poi definite romantiche, non estranee, come peraltro il loro rovescio di convincimenti laici e illuminati (e massoni), alla coppia Mozart – Da Ponte. Chiamata in causa non casualmente, se a Praga Mozart diresse personalmente Le Nozze di Figaro (il successo fu grandioso), e ivi tenne la prima del Don Giovanni e, secondo vulgata, scrisse in una notte l’ouverture. Della cui demoniaca ispirazione pure tanto s’è detto.

Al netto di improbabili nature metafisiche, quella curvatura cupa (il tono, l’accento, presenti anche, seppure in maniera minore, nella Sinfonia 38 KV 504 del 1786, detta "Praga" appunto) non è azzardato sostenere avesse qualcosa da spartire con certo clima praghese. Anche vero che nell’arte mozartiana qualsiasi repertorio di stramberie e stravaganze – il côté esoterico descritto e narrato nell’opera di Ripellino – è sempre tenuto sotto controllo. E difficilmente sprofonda nella fola astrusa, nella fumisteria astrologica, nell’eccentricità inafferrabile e misteriosa che si alimenta nei gangli sotterranei della città del Golem. Essa – in quegli anni in particolar modo – è pure uno scrigno toccato dalla grazia. Esibita, ammaliatrice, davvero senza confronti. Fra Mala Strana e il monastero di Strahov e Villa Bertramka, Mozart si sente a suo agio. Questo libro ne ricostruisce i passi, non solo musicali, e fornisce indicazioni anche per un viaggio orientato, disciplinato, nei luoghi che furono quelli del musicista: fuori dalla chincaglieria di bancarellari e hard rock cafe che ha ormai reso il centro di Praga pericolosamente simile a quello di tutte le altre capitali del pianeta.

(Piero De Martini, Mozart a Praga (1787-1791), Bruno Mondadori, pp. 150, euro 19)

[BioSong] “She’s leaving home” dei Beatles

Marzo 1966.

Lo schizzinoso Radio Corriere TV, settimanale ufficiale della RAI, decide sfrontatamente di mettere in copertina la foto del quartetto di Liverpool che stava facendo girare la testa a tutto il mondo. Un evento storico che anche in Italia, seppur con qualche dubbio, in coloro che non volevano accettare le new entry del panorama musicale, stava via via avvicinandosi.
Lo speciale Appuntamento con i Beatles, difeso e voluto da un finissimo intellettuale come Mario Carpitella, uno di quei giovani dirigenti progressisti e illuminati che la gerentocrazia Rai amava chiamare corsari, fu un altro segnale che qualcosa anche nel Belpaese stava cambiando.
L’ultima hit dei temibili scarafaggi è Michelle, una ballata dolcissima e melodica che scala le classifiche per 27 settimane, conquistando la vetta e stracciando tutti i record di vendite beatlesiane in Italia. La febbre è esplosa: e di lì a poco non ci sarebbe più stata una cura. Prossimi a registrare il loro terzo film musicale, dopo il grande successo di A Hard Days Night e di HELP! la band dedica ormai tutto il tempo a cercare nuovi suoni e registrare qualcosa di inedito. Il successo e la vetta si ha con Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band La Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper un disco che a detta di BIG, settimanale dedicato alla musica e al cinema, sarebbe divenuto un cult.

Registrata venerdì 17 marzo 1967, She’s Leaving Home può ben rappresentare lo stile ballad mccartiniano. Tratta da un fatto di cronaca, apparso sul Daily Mirror del 27 febbraio 1967. Ragazza da dieci e lode lascia la macchina e svanisce nel nulla, narrava la storia di Melanie Coe, una bionda studentessa della Grammar School di Skinner a Standford Hill che scomparve lasciando la sua auto parcheggiata vicino casa, tutti i vestiti nell’armadio e il libretto degli assegni nella sua stanza. Un caso strano ma vero, emblema di un gap generazionale del dopoguerra con cui molti giovani si confrontavano. Il baronetto Sir McCartney a riguardo disse: «E’ una ragazza molto più giovane di Eleanor Rigby, ma è lo stesso tipo di solitudine». Nella realtà Melanie era scappata con un croupier che aveva conosciuto in un locale e con il quale era andata a vivere in un appartamento a Sussex Gardens, Londra. Nel testo, invece, il suo amante viene descritto come un uomo che commerciava in automobili. La magia con la quale Paul McCartney sviluppò l’atmosfera di questa storia d’amore da una parte, e l’immenso dolore dei genitori dall’altra, impregnò tutta la canzone di struggente dolcezza melodica, come uno dei più alti momenti di lirica pop. Il testo tiene conto del tormento familiare per l’inaspettata scomparsa e della difficoltà a comprendere un gesto così incomprensibile: «What did we do that was wrong/cosa abbiamo fatto di male».

Il risultato è un felice incastro di voci e sentimento. Dal punto di vista metrico, le terzine in anafora «She is/leaving/home (lei se ne va di casa)» sono ripetute due volte, mentre «She is/having/fun (lei si diverte)». impreziosisce la chiusura. Paul voleva che fosse George Martin, il loro arrangiatore, a curare la traccia, ma in quel periodo era impegnato con Cilla Black, una cantante del periodo del Cavern Club con la quale Lennon aveva fatto amicizia (fu anche grazie a lui che la neo pop singer venne in contatto con il suo futuro manager, Brian Epstein). Per l’arrangiamento viene quindi contattato Mike Linder e per la prima volta, tra i musicisti, c’è una donna a eseguire, all’arpa, un loro brano, Sheila Bromberg. Gli arrangiamenti, volutamente dolci, sono eseguiti dai soli violini, violoncelli e contrabassi, oltre allo strumento femminile. Realizzato in due giorni, il brano viene inserito nell’ottavo e, forse, miglior prodotto del quartetto di Liverpool che esce negli USA il primo giugno del 1967 e in Gran Bretagna il giorno seguente. Traccia numero sei.
La celeberrima copertina ricca di personaggi famosi, celebrità morte o viventi, venne da un’idea di Paul, e fu criticata da tutti, Brian Epstein per primo; egli credeva che la copertina non mettesse in luce il gruppo di Liverpool. A discapito di tutti coloro che non credettero nel progetto, e di chi tentava, con scarso successo, di imitarli l’album fu un trionfo clamoroso e scalò le classifiche internazionali. Il resto è solo orecchio e buon gusto.

 

“Limonov” di Emmanuel Carrère

Si potrebbe dire che il compito era facile. Spulciare tra grumi d’incontri eccellenti e pescare i più interessanti, potendo vantare un’esistenza tutt’altro che consueta. Da figlio di un’accademica sovietologa in viaggio continuo, spesso situata intorno a tavoli in cui i commensali erano ben più golosi delle pietanze servite. E che ben presto iniziò a portarlo con sé. Certo, Emmanuel Carrère è partito avvantaggiato. Di materiale ne abbonda parecchio in mezzo ai suoi giorni. Ma lui in questo caso ha scelto di imbattersi in un personaggio solo, eppure sempre in compagnia: ingombrante, sfaccettato, addobbato di ogni veste possibile, di un’etichetta precisa e del suo esatto contrario.

Nasce come Eduard Savenko il 2 febbraio del ’43, ma nessuno lo ricorderà così. Per tutti è solo Limonov (Adelphi, 2012), pungente come il frutto, agrumato e devastante come una granata. La trama è già pronta, snocciolata nel susseguirsi degli anni. Basta raccoglierla. E Carrère l’ha fatto. La sua strada s’interseca con quella di Eduard in occasione dei funerali di Anna Politkovskaja, la voce molesta del regime di Putin, stroncata davanti alla porta di casa, eliminata così, come una scheggia nel piede. Per il lancio di una rivista di attualità serve un numero forte, un pezzo incisivo. E il soggetto selezionato da Carrère sembra il migliore possibile. Un mastodontico punto interrogativo. «Una vita romanzesca, pericolosa, una vita che ha accettato il rischio di calarsi nella Storia.»

Un coacervo di curve a gomito, spigoli e contraddizioni. Bisogna intervistarlo e poi compattare i frammenti. Ci vorranno più tappe e quattro anni per completare l’opera. Per farle assumere la forma che oggi leggiamo. Che tanti hanno amato, premiato e commentato. E allora forse, il risultato non è sottinteso. Perché fare il biografo non vuol dire soltanto raggruppare date, eventi, confidenze. O inventarsi un ordine per dipanare i fatti. Non è solo un bieco dilemma tra sincronico e diacronico. Evitare l’agiografia così come il rotocalco. E qua e là guarnire con dettagli succulenti, perché un po’ di prurito, o di verità accaldata, potrebbero giovare alla causa. Fare il biografo vuol dire assumersi il peso di ciò che si racconta, a tratti scomparendo, perché siano i fatti a pronunciarsi, a scrivere se stessi. E poi conferendo all’insieme la forza di un romanzo, senza scassinarne l’autenticità. Vuol dire farci conoscere Limonov per come l’autore stesso si è accostato a lui, disegnarci degli ingressi in cui permetterci di entrare. A volte sarà quello principale, altre ancora sarà quello minore sul retro, ma tutti sono dei punti d’osservazione strategici, il cancello in ferro battuto come lo spioncino sull’angolo buio. E noi siamo con Eduard. Quando ancora bambino adora pulire gli stivali di suo padre che fa il militare, affondandoci dentro con tutto il braccio. Quando la povertà costringe la sua famiglia a spostarsi di continuo, lungo il Volga e poi a Char’kov, in Ucraina. Quando cambiare quartiere significa marcire tra gente malfamata, che Eduard comincia a frequentare perché non ci sono alternative. Quando bere diventa un’esigenza, un rito allungato per una settimana, un respiro etilico con cui battere il freddo e poi la noia. Quando assistere a uno stupro sembra quasi normale, quando in ogni confronto vince solo chi è pronto a uccidere. Quando, per chi cresce ai margini, la galera nobilita e trasforma in eroi.

E non resta che inalare le sue stranezze, cavalcare i saliscendi del suo ego ipertrofico, gli incessanti cambi di scena, gli incontri che lo avvicinano senza soluzione di continuità al crimine, alla poesia, ai salotti borghesi, alla guerra nei Balcani, al carcere e alla protesta civile. È il suo carisma a fare la differenza, a circondarlo di un’aura indiscussa di fascino e rispetto. È la sua personalità a dettare le regole, nel bene e nel male che spesso si assomigliano. A stabilire che tutto può essere ammesso nelle pieghe della sua vita, tranne l’anonimato. Perché Limonov non può sopportare di essere oscurato. Le retrovie non lo riguardano, non possono ospitare neanche uno starnuto. La sua residenza è in prima linea. Sempre, a prescindere. Indossando gli eccessi, capitanando un gruppo di nazbol, tentando più volte il suicidio, per amore, per disincanto o per bisogno di attenzione.  Rifiutando con sdegno i panni dell’uomo ordinario, di ciò che era suo padre e che non si addice affatto alla sua fame insonne.

Ma il libro è anche molto più di questo. Ci offre uno specchio attraverso il suo volto. Con il ritmo possente di un reportage, tramite le crepe del suo protagonista, ci consente di analizzare anche il rapporto degli intellettuali e della gente comune con la cultura del proprio Paese, e in particolare con la cultura di un Paese come la Russia, grande e denso come un continente. Possiamo spiare i contrasti, le evoluzioni dei suoi sogni e dei suoi mostri, che spesso scivolano gli uni negli altri. Possiamo capire o intravedere cosa è significato il comunismo per i suoi discepoli e per i suoi detrattori. Per tutti quello che temendolo o amandolo si sono comunque nutriti del suo latte.

Quello che resta è il senso di un viaggio, dentro il fiato di una vertigine, dentro universi apparentemente inconciliabili e che trovano casa in un singolo cuore.


(Emmanuel Carrère, Limonov, trad. di Francesco Bergamasco, Adelphi, 2012, pp. 356, euro 19)

“La pillola del giorno prima” di Marco Malvaldi e Roberto Vacca

La pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità (Transeuropa Edizioni, 2012), è un libricino dalle grandi pretese: in poche pagine cerca di trattare dei più disparati argomenti riguardanti la salute fisica e mentale degli uomini riflettendo sul tema delle epidemie, siano esse causate da virus veri e propri, o dalla diffusione contagiosa di paure, che i mezzi di comunicazione della società contemporanea amplificano a dismisura.

Il libricino è scritto a quattro mani e si divide in piccoli capitoli ognuno firmato da uno degli autori, ma ci tengono a precisare che la firma è solo un indicazione di comodo in quanto la collaborazione è stata totale. Gli autori sono due persone conosciute. Roberto Vacca appare spesso in trasmissioni televisive in qualità di esperto di scienze e tecnologia. Dal volto a spigoli acuti, come le sue spiegazioni e l’invidiabile pizzetto brizzolato, di professione fa il matematico. Marco Malvaldi è invece un chimico, ed il suo volto è meno conosciuto, oltre che meno spigoloso, ma è noto per essere uno scrittore di romanzi gialli apprezzati dal pubblico e dalla critica. A nemmeno 40 anni ne ha già pubblicati sei, oltre a racconti, altri scritti e qualche saggio, e viene considerato una rivelazione nonché una bella promessa. Nessuno dei due ha studiato medicina sistematicamente, come viene dichiarato nella prefazione, e questo potrebbe essere un punto di forza del libro perché siamo convinti che un approccio diverso rispetto alla medicina può apportare considerazioni interessanti e nuove.

A patto di non votarsi alla superficialità. Argomenti importanti e complessi vengono affrontati con parzialità senza considerare tutte le problematiche che i vari temi trattati pongono. Si parla, per esempio, degli effetti che gli Organismi Geneticamente Modificati, o i pesticidi, naturali o di sintesi chimica che siano, possano avere sulla salute umana, senza minimamente accennare all’impatto che il loro utilizzo potrebbe avere sull’ecosistema.

Chi scrive è convinto che modificare un seme facendogli fare un salto evolutivo, per il quale la natura, da sola, impiegherebbe qualche milione di anni, in un piccolissimo lasso di tempo, possa creare gravi squilibri a un ecosistema complesso e delicato come quello della terra. E che l’utilizzo di pesticidi ha prodotto gravissimi danni all’ambiente, tra l’altro perdendo la battaglia contro i parassiti, che diventano sempre più resistenti e aggressivi e per i quali bisogna inventare sempre nuove sostanze, magari più pericolose, per poterli combattere. Inoltre affermare che sia stata fatta una lunga sperimentazione per gli OGM è quanto meno discutibile considerato il poco tempo trascorso dal momento della loro creazione. O ancora, sminuire l’importanza del Principio di precauzione, una grande conquista del diritto contemporaneo, affermando che sia uno strumento mediante il quale la politica, con decisioni arbitrarie, vuole sostituirsi alla scienza è assolutamente falso e fuorviante. Tale principio secondo la Comunicazione della Commissione Europea sul Principio di precauzione del 2 febbraio del 2000 trova applicazione tutte le volte in cui «una preliminare valutazione scientifica obiettiva» indica che vi siano ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione che la Comunità vuole garantire. Infatti Si può ricorrere a tale principio solo in presenza di tre condizioni: «L’identificazione degli effetti potenzialmente negativi; la valutazione dei dati scientifici disponibili; l’ampiezza dell’incertezza scientifica».

Il libro non è una lettura facile, anche se è scritto in maniera semplicissima (a parte il capitolo in cui vengono applicate delle formule matematiche): si fa molta difficoltà a capire quale sia la tesi o l’opinione dell’autore, e addirittura, a volte viene il dubbio che ce ne sia una per quanto il discorso tende a perdersi tra racconti bislacchi, formule matematiche e citazioni di articoli scientifici di riviste di grandissima rinomanza. Il discorso non è continuo, sembra slegato e a fine lettura quello che ci rimane sono dei piccoli flash, tanti dubbi e molte perplessità.


(Marco Malvaldi, Roberto Vacca, La pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità, Transeuropa Edizioni, 2012, pp. 172, euro 12)

“Vlad” di Carlos Fuentes

La lista delle opere letterarie e cinematografiche che hanno come protagonisti i vampiri in ogni possibile declinazione è incredibilmente lunga (è tuttora in corso, fino al 24 marzo, alla Triennale di Milano una mostra dedicata a Dracula), eppure, Carlos Fuentes deve aver creduto che queste creature avessero ancora qualcosa da dire. Nel suo ultimo e brevissimo romanzo, Vlad, il pluripremiato scrittore messicano dipinge di gotico i classici temi della vita, della morte, della famiglia e dell’amore.

Yves Navarro è un tranquillo avvocato di Città del Messico che vive, con soddisfazione e un pizzico di ignavia, la sua esistenza tipicamente borghese. Con la bella moglie Asunción, agente immobiliare, condivide l’affetto per la figlia Magdalena e il dolore per la perdita di Didier.

Un giorno il suo capo, Eloy Zurinaga, lo contatta per un incarico speciale: trovare, con l’aiuto di Asunción, una nuova dimora per il conte Vladimir Radu. Nonostante la richiesta sia preceduta da un preambolo che avrebbe insospettito chiunque e gli venga presentato il progetto di una casa con finestre murate, canaletti di scolo sparsi in ogni stanza e un tunnel sotterraneo, Navarro accetta ossequioso e obbediente. Yves viene così coinvolto in un’inquietante serie di incontri con l’aristocratico inquilino, «Vlad, per gli amici». Il padrone della tetra abitazione, irrita l’avvocato con conversazioni assurde («…No, il mondo dev’essere l’opera inesausta di un Dio incompiuto»), si fa trovare nudo nella stanza da bagno esclamando: «Finalmente ci mostriamo per quello che siamo…», e impone a Yves cene a base di viscere fumanti. Il lettore, tuttavia, intuisce presto che i problemi che l’avvocato dovrà affrontare vanno ben oltre l’eccentrico carattere del conte e che un grave pericolo incombe sulla famiglia di Yves, in particolare su Magdalena: la bambina, che tanto somiglia a Minea, la figlia di Vlad, un giorno non torna a casa e non è neanche andata a scuola… Il protagonista, invece, preferisce assumersi tutti i rischi preannunciati piuttosto che tradire «gli automatismi dell’educazione ricevuta e l’ancestrale cortesia» della sua estrazione borghese per contrastare i piani del vampiro.

Il racconto è costellato delle piccole e grandi forzature tipiche del genere horror (in alcuni punti addirittura tipiche dei b-movie), con cui però l’autore gioca con piacevole e sapiente ironia. A una lettura superficiale nessun aspetto sembra essere veramente approfondito e tutto appare esposto con infantile semplicità. In realtà, Fuentes riesce a descrivere molto dell’uomo occidentale – senza perdersi in complicate spiegazioni e privilegiando decisamente un elegante showing a un potenzialmente farraginoso telling – attraverso una storia scorrevole che si legge in un attimo.

E, forse, questo conte – immortale ma legato al sangue e alla terra, fantastico ma fondato su un realissimo pezzo di storia europea – è davvero perfetto per raccontare il rapporto di un vecchio con la morte imminente, la brama di eternità degli uomini e il rifiuto di lasciare andare i propri cari.


(Carlos Fuentes, Vlad, trad. di Ximena Rodriguez Bradford, il Saggiatore, 2012, pp. 98, euro 12)

emons:audiolibri: a tu per tu con Viktoria von Schirach

Ogni mese cerchiamo di sottolineare le particolarità di un lavoro, studiarne il progetto e gli intenti che sono continuamente messi in discussione, e oggi potremmo dire anche a rischio, dal mercato. Talvolta occorre reinventarsi completamente per raggiungere meglio il pubblico, per tenere viva la sua attenzione con un libro. Il progetto emons:audiolibri ci ha convinto perché porta a un oggetto diverso, a un testo che non si legge, ma si ascolta.
La sede emons è coloratissima e accogliente, sorvegliata da un cagnolone morbido e nero di nome Tempesta. Una vetrina divide via Giuseppe Dezza, nel quartiere Monteverde di Roma, dalle pareti in cui fanno bella mostra le copertine degli audiolibri e dalle scrivanie dove questi prendono vita.
Viktoria von Schirach, direttrice editoriale, ci ha dato il benvenuto e ha risposto volentieri alle nostre domande.


Anche se la trasmissione orale del testo ha una storia millenaria, l’audiolibro è quello che di più nuovo abbiamo sul mercato editoriale italiano. Cosa vi ha convinto a muovervi in Italia, sapendo che sareste stati tra i primi?

Penso che ci abbia spinto l’esperienza all’estero, il sapere quanto la realtà dell’audiolibro fosse già consolidata in Germania, Inghilterra e America. Io personalmente sono cresciuta con gli audiolibri; sono stati davvero importanti per la mia formazione. Lo sguardo dall’esterno ci ha quindi aiutati a notare un’assenza, quest’assenza ci dispiaceva.

 

E avete voluto riempirla.

Esattamente.

La vostra esperienza, infatti, nasce in Germania e continua in Italia con emons:audiolibri. Di cosa vi occupavate prima?

Io mi occupavo, e mi occupo ancora, di editoria. Faccio la scout: cerco libri italiani per il mercato tedesco. I miei soci sono un editore e un uomo che sa fare miracoli (sorride, ndr).

Come avviene la selezione dei testi da leggere? Quali sono le caratteristiche salienti di un libro “ascoltabile”?

All’estero quasi tutto è stato già pubblicato, e con grande successo, in versione audiolibro: da Guerra e Pace alla Bibbia a L’uomo senza qualità. In questo, le case editrici di audiolibri sono aiutate dalle radio con delle coproduzioni: spesso l’audiolibro viene diffuso dalla radio in anteprima e poi commercializzato. Qui in Italia, purtroppo, non siamo ancora riusciti a creare un connubio del genere, che permetterebbe di realizzare delle produzioni più lunghe. Per noi uno dei criteri resta quindi che i libri non siano tanto lunghi. Ci sono, certo, delle eccezioni che confermano la regola: abbiamo fatto Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson. Per il resto, deve essere un buon testo, con un pubblico “probabile” (sorride, ndr) e già pubblicato. Quest’ultimo è un criterio di selezione fondamentale dato che lavoriamo con le librerie e i librai devono sapere cosa stanno vendendo. A differenza del libro cartaceo, infatti, l’audiolibro non è sfogliabile e comprare a scatola chiusa un testo che non si conosce per nulla è più rischioso rispetto al comprare un libro che ci è già piaciuto.
Comunque, ci basiamo molto sull’istinto. Facciamo delle riunioni editoriali in cui cerchiamo di mettere insieme i nostri gusti e lo facciamo divertendoci; non è un’impresa puramente commerciale, saremmo dei pazzi a farlo (ride, ndr).
 

 

A proposito dell’“istinto emons”. Per la selezione degli attori, come vi siete mossi? Avete una rosa di artisti a cui avete chiesto disponibilità o avete immaginare la voce più adatta al testo e contattato in un secondo momento il lettore?

La seconda opzione. È la parte del lavoro che ci diverte di più e su cui ci sono anche più discussioni, urla e “mai e poi mai”. Pensiamo subito al lettore ideale per quel testo e poi aggiustiamo il tiro in base alle possibilità, ma devo dire che finora siamo stati sempre fortunati e abbiamo avuto il lettore che sognavamo.

Sul vostro sito c’è la possibilità di ascoltare una pillola dell’audiolibro e devo dire che, nonostante la brevità, l’effetto è immediato e molto forte. Viene voglia di ascoltarle tutte!

Ti ringrazio, ma questo è vero per l’acquisto in rete. In libreria non si ha questa possibilità. Abbiamo installato dei juke-box dove poter ascoltare le pillole, ma solo in alcune librerie. Bisogna trovare la libreria disposta e non avremmo comunque la possibilità di installare le stazioni d’ascolto in tutte le librerie.
L’effetto del libro cartaceo, che si può girare e rigirare, guardare e sfogliare, difficilmente si ottiene scuotendo l’audiolibro vicino all’orecchio (sorride, ndr). Forse potremmo in futuro pensare a un codice che permetta di ascoltare un estratto sullo smartphone, ma sono possibilità futuristiche e a cui ancora non stiamo ancora pensando.

Recentemente abbiamo recensito Poesie di Emily Dickinson letto da Giovanna Mezzogiorno (il nostro articolo qui), che inaugura la collana di poesia. Come mai non vi eravate ancora buttati in questo genere?

Volevamo farlo, ma non avevamo ancora avuto il coraggio. Questo titolo ci sta dando grandi soddisfazioni e penso che continueremo senz’altro. A me piacerebbe anche far rivivere le voci dei poeti. All’estero ci sono tante antologie famose che sono vere e proprie registrazioni storiche delle voci dei poeti e anche in Italia si conservano registrazioni di Pasolini, Penna, Montale etc. Sarebbe bello poterlo fare anche qui; anche su questo fronte la collaborazione con le radio potrebbe aiutarci.

Una curiosità: ci spiega qual è la legge vigente sui diritti d’autore per la lettura di un libro? Immagino che i diritti per la stampa e la lettura di un testo siano diversi e si acquistino separatamente.

Sì, quasi sempre sono diritti appartenenti a due fonti diverse. L’autore dà all’editore il diritto di stampare. Noi andiamo direttamente dall’autore o dal suo agente per comprare i diritti della versione audio, che in Italia sono gestiti dalla SIAE, dall’autore stesso o dalla casa editrice. È una ricerca complicata da fare, soprattutto per i testi stranieri perché in quei casi bisogna acquistare anche il diritto per la traduzione.

 

 

La prima cosa che mi viene in mente pensando a un audiolibro è che l’esperienza di ascolto può essere condivisa. Ascoltare le Notti Bianche lette da Fabrizio Bentivoglio e distesi accanto a una persona cara, per fare un esempio, credo sia un’esperienza straordinaria. Tuttavia, l’audiolibro è ancora poco diffuso in Italia rispetto ad altri paesi. Come vi state muovendo per sensibilizzare le orecchie degli italiani?

Andiamo un po’ a tastoni. Adesso lavoriamo ancora molto con la stampa e le recensioni dei libri, ma si tratta di un canale che arriva a un pubblico forse più diffidente e crediamo invece che molto possa arrivare ai nostri utenti futuri attraverso la rete. La generazione che vive con le cuffie sempre a portata di orecchio potrà avvicinarsi più facilmente all’idea di libro che arriva da una voce e quindi l’audiolibro avrà una fortuna proporzionata alla sua diffusione su smartphone e tablet.
Se per i libri siamo in un momento di transizione dal cartaceo al digitale, possiamo contare sul fatto che l’audiolibro sia già digitale.

Qual è il libro che, a oggi, vi ha dato in assoluto più soddisfazioni, sia dal punto di vista della vendita sia dal punto di vista prettamente qualitativo? Qual è, a oggi, il capolavoro di emons?

Non si può dire. Noi amiamo tutti i nostri figli ugualmente (ride, ndr).
Ultimamente alcuni ci hanno dato grandi soddisfazioni, ma non posso nominarne nessuno perché farei un torto agli altri. Posso dire che gli ultimi usciti sono molto belli, ma l’ho detto anche di quelli che sono usciti prima.

È bello vedere con quanto entusiasmo parlate dei vostri libri. Credo che sia questa la chiave del vostro successo.

Per noi ogni produzione è una cosa a sé stante, ha delle sue ragioni, dei pregi. Si realizza con difficoltà e dà soddisfazioni.

Il prossimo appuntamento sarà con Cuore di tenebra di Joseph Conrad letto da Francesco De Gregori, che verrà presentato il 27 febbraio alle ore 18 alla Feltrinelli di Via Appia Nuova, 427. Avete qualche altra anticipazione per i prossimi mesi?

(Risponde Francesca Tabarrani, ufficio stampa emons)

A fine febbraio, oltre a Cuore di tenebra, uscirà Tra amici di Amos Oz, letto da Paola Pitagora. A marzo ricordiamo il primo anniversario della morte di Tabucchi con Sostiene Pereira letto da Sergio Rubini, un altro piccolo capolavoro, e per la primavera è in arrivo un bastimento pieno di novità! Ti ho mai parlato del vento del nord di Daniel Glattauer letto da Rolando Ravello e Claudia Pandolfi e La signorina Else di Arthur Schnitzler letto da Alba Rohrwacher, che ha già fatto delle cose meravigliose per noi, tra cui L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, Il buio oltre la siepe di Harper Lee e i Racconti dell’alloggio segreto di Anne Frank. 

Ringraziamo Viktoria e Francesca per la disponibilità e la piacevole chiacchierata, per maggiori informazioni, ecco il sito web della casa editrice: http://emonsaudiolibri.it/

“Castle – Detective tra le righe” di Andrew W. Marlowe

Certi personaggi hanno il potere di entrarti nella testa e non uscire più. A volte, usando un gergo cinematografico, un protagonista può valere da solo il prezzo del biglietto. Quando si nomina Richard Castle le conseguenze possono essere solo queste. Nel 2009 esordiva sulla ABC lo show Castle, che in Italia sarebbe arrivato con il sottotitolo Detective tra le righe (eliminato dalla FOX dopo le prime due stagioni), una creazione di Andrew W. Marlowe destinata a immediato e fragoroso successo.

Uno dei motivi maggiori è appunto il protagonista maschile. Richard è uno scrittore di libri gialli ricchissimo, affascinante, intelligente e oltremodo carismatico. I suoi “problemi” nascono quando decide di uccidere il personaggio principale dei propri romanzi, giunto a suo modo di vedere alla fine del ciclo. Questo gli crea un blocco dal quale sembra non poter uscire, fin quando la polizia di New York non gli presenta l’opportunità in grado di dare una svolta alla sua carriera.

Castle viene invitato a seguire le indagini su un serial killer che sembra seguire il modus operandi già incontrato nei suoi romanzi, e sul campo fa la conoscenza di Kate Beckett, detective della squadra omicidi. Entrata nella polizia dopo l’omicidio della madre è una splendida donna tutta di un pezzo, incapace di farsi mettere i piedi in testa da qualcuno, integerrima sul lavoro ma allo stesso tempo sensuale e integrante. La musa perfetta per una nuova collana di libri.

È da questa inedita unione che avrà inizio la lunga serie di casi in grado di ridare lustro allo scrittore ma anche una valida risorsa alla polizia. Castle è scrupoloso, esperto di medicina forense e psicologia, qualità necessarie per essere il più realistico possibile nelle sue opere, ma preziose anche per risolvere casi su cui persino Beckett si trova in difficoltà.

Nonostante queste premesse non sembrino discostare troppo Castle da altri polizieschi già famosi e apprezzati come ad esempio C.S.I., non si deve far l’errore di metterli sullo stesso identico piano. Lo show ABC ci porta nel mondo dell’investigazione attraversandolo con una spiccatissima vena comica, praticamente sempre presente nella figura di Castle e non solo. Una qualità difficile da ritrovare in una serie di questo genere, in grado di richiamare l’attenzione di spettatori anche poco avvezzi al genere (come il sottoscritto).

Dall’altra parte è giusto sottolineare come questo non pregiudichi la componente investigativa, ben strutturata e particolarmente efficace, avvalorata proprio dai metodi inusuali portati in tv dallo stesso scrittore.

Altro grande punto a favore della serie è stata sicuramente la scelta dei due attori protagonisti, Nathan Fillion (indimenticato nella sfortunata serie Firefly) e la bellissima Stana Katic (già vista ad esempio nel film The Spirit nel ruolo di Morgenstern), nominati entrambi – ma non vincitori – come migliori attori agli Emmy del 2009. Il vero successo è comunque arrivato ai People’s Choice Awardsdove negli ultimi anni lo show ha raccolto cinque premi.

In un genere ormai quasi abusato come quello poliziesco, Castle rappresenta una variazione sul tema assolutamente di valore che, come ho già detto, potrei consigliare facilmente sia ai più ferrati in materia sia ai profani meno attratti in cerca più di uno svago. Visto il grande successo la serie è inoltre stata velocemente tradotta in italiano e recentemente anche trasmessa in chiaro sulla RAI, non lasciando alcuna scusa allo spettatore in grado di reperirla ormai in qualunque modo.

Se poi nel corso delle puntata doveste innamorarvi del Castle investigatore ma anche e soprattutto di quello scrittore, da almeno un anno a questa parte le opere di Richard sono arrivate in libreria, seppure si abbiano poche notizie riguardo il vero autore di questa collana. Insomma, ce n’è per tutti i gusti.

 

[Oscar 2013] “Argo” di Ben Affleck

Continua l’ascesa registica di Ben Affleck, inaspettata rivelazione autoriale che dal 2007 ha avviato una produzione di tutto rispetto con il giallo Gone Baby Gone, per proseguire tre anni più tardi con The Town e arrivare nel 2012 alla consacrazione definitiva con Argo. L’apoteosi di un narratore inatteso: miglior film e miglior regia ai Golden Globe, ai BAFTA e ai Critics’ Choice Awards, candidato a sette premi Oscar tra cui il premio per miglior film che, stando ai pronostici, sembra poco più che una formalità, a questo punto.

Teheran, Iran, 4 novembre 1979. Una folla furibonda fa irruzione nell’ambasciata degli Stati Uniti e sequestra cinquantadue ostaggi tra membri del personale e visitatori in transito. L’accusa è di spionaggio. Il casus belli che porta all’occupazione armi in mano è l’asilo politico concesso da Washington a Reza Pahlavi, lo shah, con un cancro allo stadio terminale, che fino al giugno precedente aveva imposto il suo regime repressivo alla popolazione iraniana per essere poi costretto alla fuga da un’insurrezione armata e dal ritorno in patria dell’ayatollah Khomeini, guida spirituale sciita rifugiato in Francia. La richiesta degli occupanti è semplice: restituiteci lo shah criminale, noi liberiamo i prigionieri.

Nel tumulto generale, sei impiegati americani riescono a fuggire dall’ambasciata e a trovare rifugio presso la residenza privata dell’ambasciatore canadese. Negli Stati Uniti ritengono i sei molto più in pericolo degli ostaggi perché lontani dall’attenzione dei media. È per questo che la CIA decide di affidare all’esperto di esfiltrazione, ossia le missioni di recupero all’estero, Tony Mendez (Affleck) la messa a punto di un piano per riportare in patria i fuggitivi. La strategia approntata da Mendez sembra una follia: allestire una produzione cinematografica perfetta in ogni dettaglio, dalla stampa al coinvolgimento del produttore Lester Siegel (Alan Arkin, candidato Oscar come non protagonista), di un film di fantascienza da girare in Iran per riuscire così a prelevare i sei cittadini statunitensi. Il titolo del film? Argo.

Le perplessità sono molte, ma sembra essere l’unica via possibile.

Perplessità, sì, perplessità. Come quelle dello spettatore che fa fatica ad abituarsi all’idea che Ben Affleck non sia più solo l’interprete mediocre di una serie di film (a dir poco) discutibili, ma sia diventato soprattutto un autore concreto e coraggioso. Partendo dalle vere memorie dell’ex agente CIA Anthony Mendez, Affleck ricostruisce la vicenda autentica di una missione rimasta segreta fino a pochi anni fa affrontando senza timore la storia di un paese che è tornato a essere centro di tensione internazionale negli ultimi anni. Lo fa con equilibrio e distacco, confezionando un film solido e compatto nella struttura, sorretto da un’accuratissima ricostruzione storica che ricalca alla perfezione i costumi, lo stile e l’atmosfera degli anni tra i settanta e gli ottanta (la galleria fotografica nei titoli di coda lo dimostra), nonché con un’aderenza quasi storiografica ai fatti che concede pochissimo alla finzione narrativa se non nelle, necessarie, forzature drammaturgiche che concorrono alla tensione crescente verso il lieto fine, unico momento debole per l’abuso di retorica a stelle e strisce.

Ponendosi nel prolifico solco già tracciato da altri attori di formazione liberal divenuti registi(si pensi a Robert Redford più recente o al Clooney, qui in veste di produttore, di Goodnight and goodluck e Le idi di marzo), Ben Affleck si muove con disinvoltura tra thriller, dramma e commedia (nella ricostruzione delle dinamiche hollywoodiane, un po’ satira, un po’ nostalgia) recuperando la tradizione del miglior cinema politico americano degli anni settanta uscendo dal tratto, seppur ben fatto e apprezzabile, del cinema di genere dei suoi precedenti lavori e imponendosi definitivamente come autore da seguire con attenzione.

Una conferma che ha il sapore della scoperta.

(Argo, di Ben Affleck, drammatico, 2012, 120’)

“Apocalisse per principianti” di Nicolas Dickner

A che cosa può essere paragonato il piacere di aver visto un film che ricorderemo per sempre o di aver ascoltato un brano musicale che vorremo risentire decine di volte? Probabilmente alla soddisfazione di aver letto un libro che ci coinvolge fino alla fine e parla a voce alta, ben chiara e diretta, efficace nel suo intento. Considerazione banale, ma da non dare per scontata, vista la sovente predilezione per la quantità indiscriminata di prodotti che consumiamo, compresi libri, pellicole cinematografiche e dischi musicali, a scapito della qualità del contenuto. Giunti all’ultima pagina di Apocalisse per principianti (Keller, 2012), la considerazione più spontanea che si possa fare è che, pur nel marasma indiscriminato di input che la nostra società globale ci vende a prezzi scontati giorno dopo giorno, è ancora possibile imbattersi in contenuti che valgano realmente il tempo che gli dedichiamo. È bello sentire qualcuno che ha qualcosa di diverso da dire. È bello sentire il modo in cui lo racconta Nicolas Dickner.

Giovane autore canadese francofono, già conosciuto e apprezzato internazionalmente per il pluripremiato romanzo d’esordio Nikolski (Voland, 2009), Dickner trae di nuovo spunto dalla sua fertile immaginazione per regalarci una storia insolita e divertente, splendidamente narrata e accattivante dall’inizio alla fine. Oltretutto, la scelta tematica dell’autore colloca consapevolmente il suo nuovo romanzo al confine tra passato e presente, in uno scenario postmoderno di fine anni Ottanta che nelle sue visioni disincantate e apocalittiche della realtà ha molti punti in comune con il mondo di oggi. Era un giorno dell’agosto 1989 quando Ronald Reagan aveva lasciato la Casa Bianca, la guerra fredda stava per finire e il muro di Berlino per cadere, ma in una piccola cittadina del Québec, chiamata Rivière-du-Loup, faceva solo un caldo da morire, la piscina municipale era chiusa per un guasto alle tubature e mancavano tre giorni all’inizio della scuola. Con il morale a terra in quelle condizioni, l’adolescente Mikey Bauermann, figlio di costruttori di cemento da generazioni, non si sarebbe mai aspettato di imbattersi in un incontro fortuito con la maniacale intelligenza e l’ingenua bellezza della giovane Hope Randall, appena trasferitasi in città con la madre per sfuggire a un’imminente apocalisse frutto della folle immaginazione di quest’ultima. Affascinato dalla genialità di questa ragazza fuori dalle righe, ma anche dalla sua fragilità e forza nel gestire il rapporto con una madre totalmente assente e instabile, l’adolescente medio di una città di provincia del mondo occidentale nell’era della televisione e della globalizzazione presta la sua voce (anche se non i suoi intimi pensieri) per raccontare un’incredibile storia d’amore, di formazione, ma soprattutto, di fiducia e condivisione che sopravvivono nel corso del tempo e a distanza di chilometri.

L’apocalisse quotidiana di Hope, la vera protagonista di questa storia, è quella di essere stata chiamata a gestire la scomoda eredità di una famiglia bizzarra che da generazioni fantastica su presunte date di una imminente fine del mondo e condiziona realisticamente la propria esistenza, riproducendo catastrofi o nascondendosi in rifugi sommersi da provviste di viveri. «Come diavolo avrebbe potuto Mary Hope Juliet Randall, fervente ammiratrice di David Suzuki, asso dell’algebra e della chimica molecolare, sottoscrivere queste tesi medievali?» La sua maturità le permette di affrontare questa deformazione della realtà quotidiana dandole il dono di usufruire della sua acuta curiosità per osservare e conoscere il mondo che la circonda. Mikey lo sa e adora passare il tempo in sua compagnia a tirare fuori uno dopo l’altro tutta una serie di aneddoti storici e scientifici o considerazioni di tipo documentaristico piuttosto che esistenziale. Quello che colpisce di Hope è proprio la responsabile e razionale osservazione e gestione della realtà. Fino a che una nuova consapevolezza si apre all’improvviso di fronte ai suoi occhi…

Apocalisse per principianti è una fonte ricchissima di idee, immagini e citazioni che vengono affidate a una lingua vivace, ironica e allo stesso tempo accurata. È un romanzo stravagante e magnetico, come lo sono i suoi protagonisti, che in più lascia quella piacevole sensazione di immaginare che, una volta arrivati alla fine, tutto debba ancora cominciare.

(Nicolas Dickner, Apocalisse per principianti, trad. di Silvia Turato, Keller editore, 2012, pp. 226, euro 14,50)

“Infinita” di Familie Flöz

Un costante dialogo tra la vita e la morte. Nascita, sviluppo e decadimento fisico. La vita, per il collettivo dei Familie Flöz, è paragonabile allo studio metodico di uno strumento musicale: inizialmente il suono che produciamo è imperfetto, si va a tentoni, si sperimenta. L'adolescenza coincide con le partiture più impegnative, lo studio si fa più pressante, ma il suono del nostro strumento è già più definito. Tuttavia, in realtà, solamente la vecchiaia ci rivelerà il suo segreto e solo negli ultimi istanti della nostra vita. Il teatro dei Familie Flöz è unico al mondo, poetico, fantastico, pieno di trovate sceniche geniali e dense di emozioni. Non sappiamo se quelle risate sono amare o di gioia ma, a fine spettacolo, riusciamo a percepire pienamente il miracolo del Teatro. La grandezza di questa compagnia è proprio in quell'uscire ed entrare nei ruoli con una facilità sorprendente e, come per Buster Keaton, è il corpo a parlare, il movimento, dato che il volto e la bocca sono coperti da una maschera che conserva una sola espressione facciale ben definita. Il teatro dei Familie Flöz non può rientrare in una categoria, coinvolge realmente tutti – irresistibili le risate di un bimbo della prima fila – e rinuncia a ogni sorta di intellettualismo pur essendo, a tutti gli effetti, teatro di ricerca. Sono riusciti a costruire un linguaggio definito e personale, rinunciando alla parola, e l'hanno messo a disposizione di tutti. Tra i loro lavori, Infinita è quello più definito e compiuto e ha il pregio di riuscire a spiegare ai più piccoli la vita per quel che è.

Infinita
di e con
Björn Leese, Benjamin Reber, Hajo Schüler e Michael Vogel
regia di Michael Vogel e Hajo Schüler

Prossime date:
Viareggio – Teatro Politeama, 4 marzo 2013
Genova – Politeama Genovese, 5 marzo 2013
Cagliari – Teatro Massimo, 9-11 marzo 2013

“World Music” dei Goat

Chi ama la musica, ogni tanto, lascia i soliti posti e contesti. Abbandona i luoghi abitudinari e si lascia condurre da nuove note in terre misconosciute. La band in questione permette questo viaggio, portandoci in territori liberi, un po’ folli e privi di qualsiasi laccio convenzionale. In precedenza abbiamo visitato la solare Australia dei Tame Impala, ora viriamo verso il glaciale e oscuro Nord Europa. Siamo in Svezia e parliamo di World Music dei Goat.

Ora, non andate su Google a inserire il loro nome: fatica sprecata. Troverete solo immagini di capre e altri simili della famiglia degli ovini. Andando su Wikipedia la situazione non migliora: nella versione inglese, leggerete solo due striminzite righe in cui non vengono citati nemmeno i membri del gruppo. Lo accenniamo, non per mortificare il vostro approfondimento, ma perché al primo impatto i Goat appaiono come un gruppo molto particolare, ai limiti del bizzarro, pieno di ironia. Le poche immagini fruibili raffigurano tre persone – due uomini e una donna – dal volto coperto da maschere inquietanti. Abiti tribali, ambientazioni stregonesche. Sicuramente, gran parte del look è dovuto al loro habitat. Nativi del Korpolombolo, hanno assimilato iconograficamente le leggende e i miti del paese: si narra infatti che il luogo sia da secoli avvezzo a rituali voodoo e celebrazioni nere. Un impatto estremo, perfettamente nello stile Goat, che nelle interviste non disdegnano la possibilità di essere una rincarnazione degli ABBA.

Superato il misterioso aspetto, focalizziamoci sul disco, perché come dicevamo all’inizio, è la musica che ci permettere di viaggiare verso lande oscure e ammalianti. In World Music i tre svedesi concentrano con originalità e mirabile bravura svariate atmosfere e influenze: rock tribale, psichedelia, hard core. In poco tempo World Music – dalla copertina iperipnotica – è salito alla ribalta come uno dei dischi più importanti dell’ultimo periodo. E per garantire tale risultato non basta l’apparenza, ci vuole la sostanza. E qui ne abbiamo molta.

È impossibile rimanere indifferenti a questo sound, che canzone dopo canzone, entra in circolo, tramutando l’ascoltatore in una vittima inerme di un rituale musicale. Sarà la batteria martellante e inarrestabile, saranno le chitarre acide piene di furore e noise? Saranno i femminili ritornelli urlati come un mantra? Possibile. Il dato di fatto è che i brani di World Music  non si possono dimenticare una volta ascoltati. Ed è bellissimo subire il loro effetto senza sapere bene il perché, costantemente attratti dal sottofondo tribale delle percussioni. Nove brani grezzi e pieni di energia, tra cui spicca il singolo “Goathead” – molti nomi dei brani sono declinazioni del termine –goat – e la coda finale “Det Som Aldrig Forandras Diarabi” dove anche l’organo fa la sua parte in maniera eccezionale.
Fare una selezione di canzoni da segnalare come le più significative in World Music è un atto svilente. Durando poco più di mezz’ora, il disco – vista la sorprendente bellezza –  va ascoltato dall’inizio alla fine. Solo così si inizia a capire quale magico e irresistibile mistero si celi dietro la musica della band che ha nome Goat.

(Goat, World Music, Rocket, 2012)
 

[Oscar 2013] “Il lato positivo” di David O. Russell

Il lato positivoSilver Linings Playbook, diretto da David O. Russell, tratto dal libro L’orlo argenteo delle nuvole di Matthew Quick, già vincitore del Premio del Pubblico al Toronto Film Festival e candidato a otto premi Oscar, tra cui miglior film, miglior attore e migliore attrice protagonista e non.

Pat Solano (Bradley Cooper) esce dopo diversi mesi da un istituto psichiatrico: il suo disturbo bipolare si è abbattuto violentemente su Nikki (Brea Bee), moglie fedifraga, e soprattutto sull’amante di lei, insegnante e suo ex- collega. Non ha più una casa, un lavoro. Torna a vivere con i genitori (Robert De Niro e Jacki Weaver) con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale. Nonostante tutto, non ha mai perso la speranza di tornare con Nikki. Vuole dimostrarle di essere in forma, va a correre tutti i giorni con un sacco della spazzatura addosso per sudare di più; vuole farle sapere che è cambiato, che è pentito di quanto è accaduto e che il loro amore supererà ogni cosa. Un’ordinanza restrittiva, però, fa si che non le si possa avvicinare. Durante una cena a casa di amici, conosce Tiffany (Jennifer Lawrence), sorella di un’amica di Nikki, ballerina e giovane vedova che ha cercato di colmare l’assenza del marito andando a letto con tutti i colleghi di lavoro. La loro fragilità li avvicina e lei gli propone di aiutarlo: consegnerà a Nikki la lettera che lui le ha scritto, ma in cambio lui deve farle da partner in una gara di ballo.

Pur reggendosi su uno svolgimento degli eventi fin troppo classico (l’innamoramento dei protagonisti che si manifesta solo alla fine, mentre allo spettatore è chiaro fin da subito) e su alcune scelte piuttosto facili, come la rivincita, durante la gara di ballo, dei protagonisti e del mondo che ruota loro intorno nei confronti di tutti gli altri e della società che non li ha mai capiti, Il lato positivo ha i propri peculiari punti di forza. Oltre al tema del “cavare qualcosa di buono da ogni situazione, anche dalla più complicata” ripresa dal titolo originale che fa da traino comune, il film è abile nella descrizione dei rapporti interpersonali, nel saper far trasparire un parallelismo tra l’atteggiamento di Pat e di suo padre verso la realtà su quanto gli avvenimenti siano gestiti dal caso, dalla volontà, o per alcuni dalla scaramanzia, che ogni tanto viene confusa con la volontà, vero e proprio motore del film, e di come e quanto ognuno di noi possa influire su di essa. E mentre Pat fa materialmente di tutto per tornare da Nikki, mentre è Tiffany ad avvicinarsi, suo padre passa le giornate scommettendo sui Philadelphia Eagles, squadra di football locale, pensando di incidere in maniera netta sui risultati delle partite posizionando i suoi innumerevoli telecomandi in una certa direzione, usando un certo fazzoletto sempre allo stesso modo, costringendo tutti quanti a guardare la partita e a concentrarsi. Una specie di dualità ragione/fede, per quanto possa sembrare assurdo, calata nei gesti del quotidiano.

Ottimo il cast: Bradley Cooper,  nel doppio ruolo di attore e produttore, Jennifer Lawrence, alla sua seconda nomination a soli ventidue anni dopo Un gelido inverno, Robert De Niro, che non riceveva unna candidatura dal 1992 con Cape Fear e  Jacki Weaver, candidata all’Oscar per la seconda volta dopo Animal Kingdom. Eccessive, forse, le otto candidature agli Oscar: l’impressione è che ne sarebbero bastate quattro.

(Il lato positivo, di David O. Russell, commedia, 2012, 117’)