“A Young’s Doctor Notebook”, la piccola perla di Sky Arts

[Attenzione, questo articolo contiene spoiler su una serie inedita in Italia]

Si diffonde a macchia d’olio la pratica da parte di cinema e televisione di spostare l’attenzione da progetti originali ad adattamenti di libri o fumetti. Se spesso si tratta di grandi successi pronti a sfondare anche sul grande e piccolo schermo, in alcuni casi è il puro interesse per una particolare opera a motivare la produzione.

In Gran Bretagna, Sky Arts ha portato sotto l’albero di Natale di molti telespettatori A Young Doctor’s Notebook, mini-serie ispirata alla raccolta di racconti dello scrittore russo Mikhail Bulgakov. Giunto in Italia come I racconti di un giovane medico, il libro, fortemente autobiografico, narra le vicende del dottor Bomgard (neo-laureato in medicina) in un ospedale situato in piena campagna, lontano da qualsiasi centro abitato. Il giovane medico dovrà fare i conti con tutti i disagi e i problemi dovuti al passaggio dall’università alla dura realtà che lo costringerà a far fronte alle più disparate emergenze, per le quali spesso, almeno nei primi tempi, si renderà conto di essere impreparato.

La mini-serie – solo 4 episodi per una durata totale di un’ora e mezza circa – si fa forte di due grandi fan delle opere di Bulgakov come protagonisti nel ruolo del vecchio dottore che rilegge i suoi appunti di gioventù e la sua controparte appena giunta all’ospedale: se il primo dei due è Jon Hamm (il Don Draper della pluri-premiata serie Mad Men), il secondo è addirittura Daniel Radcliffe, ormai famoso in tutto il mondo per aver interpretato Harry Potter nella saga tratta della opere di J.K. Rowling.

Proprio su quest’ultimo erano concentrate le maggiori attenzioni: dopo il successo planetario al cinema ci si è spesso chiesti se fosse stato capace di togliersi di dosso l’etichetta di giovane mago che sembrava tatuata addosso come una seconda pelle. Dopo un primo tentativo nel film The Woman In Black, Radcliffe ha deciso di lanciarsi questa avventura anche per cercare di dimostrare il suo valore come attore.

La rampa di lancio è sicuramente un’opera piuttosto controversa, che attinge intanto a eventi molto lontani sia nello spazio (come già accennato) sia nel tempo, riportandoci alla Russia dei primi decenni del ventesimo secolo, ormai a un passo dalla rivoluzione, che però non avrà alcun ruolo almeno nell’adattamento televisivo.

La vena umoristica quasi grottesca e una vivida rappresentazione delle operazioni chirurgiche del periodo rendono A Young Doctor’s Notebook un prodotto per palati fini, sinceramente sconsigliato agli spettatori più sensibili o impressionabili. Non tutti, infatti, potrebbero essere pronti a “gustarsi” la scena dell’amputazione della gamba di una piccola bambina realizzata con una sega smussata, pur trattandosi di completa finzione (almeno in televisione, non scordiamoci comunque della base reale da cui sono tratti tutti i racconti).

Parallelamente, verrà trattato anche il tema della difficoltà di sopravvivere in un luogo così sperduto e senza svago alcuno, il triste presupposto che spingerà il giovane dottore nel tunnel della morfina e della conseguente dipendenza. Sarà proprio lo stacco tra Radcliffe e Hamm, tra la spensieratezza e la delusione, tra l’intraprendenza e la rassegnazione segnata sul volto del “vecchio” costretto a firmare ricette al posto dei suoi colleghi dell’ospedale ormai morti per recuperare una dose in più, a segnare tutti gli episodi. Un crescendo fino al finale in cui il passato e il presente cominceranno a farsi vicini, lasciandoci l’incognita di cosa potrà accadere nel frattempo.

Proprio dopo aver visto l’ultimo episodio, molti spettatori si sono augurati di ricevere la notizia di un rinnovo per una seconda stagione (ancora in bilico), sia per sapere di più dopo quanto visto, sia perché quest’ora e mezza è sembrata fin troppo poco per un esperimento sicuramente ben riuscito come questo. A sottolineare la bontà del lavoro c’è sicuramente l’ottima prova davanti alle telecamere di Radcliffe, decisamente a suo agio nel ruolo di giovane dottore e sempre all’altezza della situazione, sinceramente lontano da Harry Potter e forse pronto per lanciarsi verso il prosieguo della sua carriera.

Per tutti gli stomaci forti la visione di A Young Dcotor’s Notebook è fortemente consigliata, proprio per la sua grande carica emozionale nascosta da un velo di ironia. Un prodotto interessante di cui si sentiva il bisogno dopo la visione, augurandoci che possa arrivare presto anche in Italia, magari grazie a Sky Arte HD, uno dei nuovi canali satellitari nato recentemente.
 

“Litigando con il mondo” di Ivo Andrić

I sette racconti di Ivo Andrić riuniti nel volume Litigando con il mondo (Zandonai, 2012) hanno in comune un protagonista giovane. Si tratta di un’età delicata, difficile e crudele che spesso ha un sapore di amarezza e delusione e in cui si finisce spesso, appunto, a litigare con il mondo che si ha intorno.

I giovani protagonisti dei racconti sono incantati davanti a parole nuove di cui non colgono completamente il significato, fatto che rende quei concetti ancora più affascinanti agli occhi dei ragazzini. Sono anche diffidenti verso il nuovo mondo che iniziano pian piano a scoprire; rimangono delusi di fronte all’inutilità delle fiabe, di fronte ai primi baci privi di sapore. Combattono spesso con la voglia di abbandonarsi al pianto, di tornare a nascondersi nel grembo materno e, d’altra parte, s’affrettano a dimostrare ai propri coetanei che sanno già camminare con passi sicuri nel mondo degli adulti.

Diverse sono le situazioni in cui dovranno questi ragazzi dovranno dimostrare la propria risolutezza: la prova di coraggio per Marco sarà buttarsi nel gelido fiume, dare il suo primo bacio – parola di cui conosce vagamente il significato – a una ragazzina che tutti i ragazzi del gruppo vorrebbero baciare. Per Lazar sarà invece trovarsi da solo nel buio corridoio circolare di una torre abbandonata, dove durante il giorno passa ore a giocare alla guerra con gli amici. Una volta che ci si troverà da solo, sentirà finalmente l’impulso di sfidare le proprie paure infantili: «Sentiva l’impulso di gridare per spaventare la propria paura o forse per chiamare qualcuno».

Le nuove, sconosciute emozioni la cui grandezza si intuisce solamente, le piccole gesta eroiche dei piccoli protagonisti, non sono però trattate da Andrić con un distacco ironico, o come se si trattasse di cose di poca importanza: l’autore dimostra invece rispetto per questi anni turbolenti, quasi una sorta di nostalgia.

Un’altra cosa che accomuna i protagonisti è la strana e imprecisa attesa in cui vivono: tutti aspettano che succeda qualcosa di nuovo, di inaspettato ed eccitante che cambierà la loro esistenza. E tale desiderio non è limitato soltanto ai personaggi giovani; nemmeno gli adulti riescono a nascondere la loro curiosità verso l’ignoto.

Anche il paesaggio si trasforma, funzionando da correlativo oggettivo delle emozioni dei protagonisti; la riva del fiume è nuda e rocciosa, sullo scarso terreno alluvionale solo qualche rara erba o qualche fiore che emana un leggero profumo riesce a sbucare fuori e cogliere qualche raggio di sole, mentre gli altri bruciano sotto il forte sole estivo come i desideri adolescenziali.

La narrazione procede lenta e quasi solenne, come è del resto tipico della scrittura dell’autore. Alle descrizioni realistiche Andrić a volte accosta in maniera molto efficace e quasi straniante delle immagini oniriche. Agli occhi dei ragazzini, la bellezza si presenterà sotto forma di un calesse che corre sulla strada battuta del paesino, con a bordo un gruppo di figure femminili, il cui fascino appare confuso, tra le visioni frammentarie dei vestiti bianchi che si intravedono dal finestrino e le immagini che fioriscono nella testa giovane e calda di questi giovani uomini. Un’altra caratteristica dello stile dell’autore è l’utilizzo di opposizioni molto efficaci: in un racconto, per esempio, accosta la descrizione di una giovane donna nel pieno della sua femminilità all’immagine di un vecchio decrepito il cui corpo si deforma e deteriora, senza alterare il ritmo della narrazione né rincorrere ai cambiamenti di registi.

Grande narratore, attento e calmo osservatore della vita, Andrić ci trasmette in modo assolutamente naturale e comprensibile le vite di piccoli uomini le cui paure, dubbi e desideri appaiono familiari, tragicomici e non così lontani dalle nostre quotidiane preoccupazioni di adulti.

(Ivo Andrić,  Litigando con il mondo, trad. di Alice Parmeggiani, Zandonai, 2012, pp. 148, euro 15)

“La ricerca del legname” di Marino Magliani

Quello della “letteratura animale” è un genere che nella storia della nostra cultura ha avuto rappresentanti davvero illustri, tra tutti ricordiamo il George Orwell de La fattoria degli animali e Natsume Sōseki con Io sono un gatto. Della collana ZOO ||| Scritture animali, forse creata immaginando di inserirsi in questo ricco filone, vi abbiamo parlato qui.

L’undicesimo titolo della collana è La ricerca del legname di Marino Magliani, che dedica il proprio talento ai topi proponendo un racconto che è tutt’altro che una fiaba, e che si inserisce come un piccolo e particolarmente ben riuscito esercizio di stile, da un lato, nel novero delle opere che hanno come protagonisti i negletti roditori, si ricordino Maus: A Survivor’s Tale, graphic novel di Art Spiegelman, e Firmino di Sam Savage, e, dall’altro, nel genere hard boiled più classico di Raymond Chandler e Dashiel Hammet.

Fernando è un investigatore privato, ex poliziotto e, per inciso, topo di fogna. L’universo nel quale si svolge la sua vita è marcio e buio, ma Fernando ha gli strumenti per sopravvivere, per sentirsi a suo agio tra strade e quartieri che hanno tutto di umano, e, soprattutto per indagare, seguire le tracce, per inseguire Rudy, un trafficante di pregiatissimo legname, la cui ricerca gli viene affidata da una mater dolorosa che risalta vividamente nonostante le siano dedicati solo pochi tratti di penna. Cercando inutilmente conforto dall’ombra di Pepe El Tira, già collega e maestro in polizia e ora mito assente, il protagonista intraprende una ricerca che lo porterà dapprima al Tombino, soglia tra il noto mondo di sotto, e lo sconosciuto e luminoso mondo di sopra, e poi fino ai limiti anche di quest’ultimo, dove i riferimenti sono tutti invertiti.

Questo racconto noir al contrario, che conduce il suo protagonista progressivamente verso una luce maggiore, piuttosto che in sordidi sobborghi, porta con sé anche spunti di riflessione particolari sulla volontà dell’individuo di cambiare. In un contesto di omologazione totale non c’è malattia peggiore che quella di volersi distinguere, quindi quella che affligge alcuni dei topi della comunità non può essere che una sindrome, una mutazione indotta dalla psicosi che li trasforma in altre specie di roditori solo per condannarli presto a morte certa, e quella che conduce Fernando non è solo una ricerca, ma anche un richiamo a tornare alla ragione, alla gabbia.

La ricerca del legname è un racconto estremamente valido. Godibile e sorprendente per la capacità dell’autore di fare della società dei topi un’allegoria della società umana e per la bravura con cui Magliani affronta il genere hard boiled senza volerne forzare le chiavi alla ricerca dell’originalità a ogni costo. Questo piccolo racconto è di quelli che vale la pena leggere ma, soprattutto, ha il pregio di far nascere nel lettore la curiosità di approfondire, da un lato, la bibliografia dell’autore e, dall’altro, i titoli dell’intera collana.

(Marino Magliani, La ricerca del legname, :duepunti, 2012, pp. 64, euro 6)

“Non ricordo se ho ucciso” di Alice Laplante

Non ricordo se ho ucciso, di Alice Laplante (Fazi, 2012), è la storia di Jennifer White, sessantacinque anni, malata di Alzheimer, nonché celebre chirurgo ortopedico in pensione. La sua migliore amica, Amanda, viene trovata uccisa e con le dita di una mano chirurgicamente amputate. Tagli netti da bisturi. I sospetti ricadono perciò sulla stessa Jennifer, anche per via del rapporto difficile e pieno di tensioni che la legava all’amica.

La narrazione svela i segreti e le verità latenti alla base del rapporto che la protagonista ha non solo con l’amica assassinata, ma anche con i suoi due figli, Mark e Fiona, col marito ormai scomparso, con il marito di Amanda e con l’infermiera Magdalena che vive con lei. Quelli che sembrano essere i classici rapporti tra familiari e amici, tipici della quotidianità di chiunque, si rivelano così per quello che sono: pieni di difficoltà, invidie e paure. La realtà non è quella che si vede ed è proprio la malattia, paradossalmente, a metterlo in luce.

Alice Laplante, autrice di questo incredibile romanzo, fa di Jennifer la narratrice di una storia intrigante, ma al tempo stesso inquietante, utilizzando lo stile tipico del giallo accompagnato, però, da numerosi risvolti di introspezione e riflessione. Ci si potrebbe infatti chiedere come un malato di Alzheimer, che nell’immaginario comune rappresenta “colui che non ricorda”, possa essere il narratore della propria storia. Ebbene, l’autrice riesce nel proprio intento attraverso una tecnica narrativa particolare, che suscita una forte inquietudine, e ricorda quella kafkiana, fatta di continui rimandi e ricordi del passato che si intrecciano con quelli il presente confuso e nebuloso che popola la mente della protagonista.

Viene dipinto, così, il labirinto della mente umana attraverso un racconto tortuoso, ma affascinante, in cui passato e presente si confondono fino all’epilogo della narrazione. La sospettata non può né confessare né difendersi dalle accuse che le vengono mosse, non avendo memoria di quanto è realmente accaduto. A colpire il lettore non è dunque il classico caso di omicidio commesso per paura, invidia o gelosia, ma lo stile virtuosistico utilizzato che riesce comunque a condurre alla tanto agognata “soluzione del caso”. La verità è però così labile nella mente della protagonista da svanire non appena raggiunta, perdendo la propria importanza.

La malattia, vera protagonista di questo romanzo, è dura e difficile da sopportare per chi la subisce e per le persone che ha accanto. Il suo progredire comporta la perdita anche delle più elementari facoltà mentali; le persone amate diventano, pian piano, una moltitudine di estranei, le parole e le sensazioni perdono senso e tutti i discorsi si riducono a «chiacchiere tra creature appartenenti a un’altra specie».

L’autrice dipinge magistralmente, nonostante sembri impossibile, quel black out che si annida nella mente di un malato di Alzheimer, lo sforzo di ricordare, di sembrare ancora “normale”, fino però a sentirsi come un visitatore di un altro pianeta.

(Alice Laplante, Non ricordo se ho ucciso, trad. di Manuela Francescon, Fazi, 2012, pp. 300, euro 17)

“Lavoricidi italiani” di Jonathan Arpetti e Paolo Nanni

Nel 2007 l’allora ministro dell’economia del secondo governo Prodi, Padoa Schioppa, aveva definito “bamboccioni” quei giovani, che sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere a casa con i genitori. Benché contestata, quella espressione è diventata un abusato luogo comune. Ciò ha dato adito ai successivi ministri di coniare altre poco lusinghiere definizioni dei giovani italiani, stavolta è il caso di dirlo, cornuti e mazziati, solo perché non avevano conseguito la laurea nei tempi previsti o perché aspiravano a un posto fisso in un mercato del lavoro che dire flessibile è un eufemismo e nel quale i giovani non hanno alcuna garanzia: “mammoni” (Brunetta), “sfigati” (Martone), “monotoni” (Monti), “choosy” (Foriero). Lavoricidi italiani, romanzo cooperativo edito da Miraggi Edizioni e nato nell’ambito di Zaratan Clan, un progetto di scrittura collettiva ideato dai maceratesi Jonathan Arpetti e Paolo Nanni, raccoglie venti storie scritte da venti autori emergenti che contribuiscono a comporre un mosaico raffigurante questa nostra società che uccide sogni e aspirazioni. Si tratta di storie intrecciate fra loro e autonome al tempo stesso dove fanno la loro comparsa personaggi protagonisti in altri racconti che si richiamano a distanza in questo romanzo corale: laureati e non, badanti, bibliotecari, aspiranti attrici e modelle, insegnanti di religione, escort e cameriere. 

La nostra Costituzione, recentemente spiegata ed esaltata da Benigni, recita all’articolo 1 che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e all’articolo 4 che “ La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Se il lavoro determina la persona, “lavoricidio” diventa quindi sinonimo di assassinio dell’identità. “Tu non sei il tuo lavoro” dice Tyler al protagonista di Fight club. Eppure di lavoro in Italia ci si ammala perché perderlo significa smarrire se stessi. Lavorocidi italiani è una radiografia sullo stato di salute dei giovani dai venti ai quarant’anni che fanno parte dell’esercito dei precari, «un esercito sempre più numeroso e sempre più incazzato». Quest’epoca senza più certezze, che frusta qualsiasi speranza di una felicità futura, ha partorito una genia di perenni adolescenti. Del resto la maturità la si conquista al termine di un lungo percorso irto di ostacoli al termine del quale si deve dare la possibilità di tagliare il traguardo e conquistarsi il meritato premio, ma se questa possibilità non viene data, crescere diventa un problema serio. Anche per Kant la maturità non dipendeva dall’età ma dalla capacità o meno di servirsi della propria intelligenza senza fare affidamento sulla guida di un altro. Quando dunque viene permesso a un giovane di assumersi le proprie responsabilità e rendersi autonomo, se molto spesso, al termine dei famosi stage, molte aziende, usufruita della forza lavoro il più delle volte senza sborsare un euro, invece che assumere sostituiscono semplicemente quell’elemento con un altro come si fa con un paio di calzini rotti che non vale la pena rammendare? Non ci sono più maestri ma sfruttatori. Oggi sarebbe quindi impensabile il dialogo che mette in scena Platone nel Sofista fra il giovane Teeteto e un altrettanto giovane Straniero proveniente da Elea sull’opportunità di seguire o meno l’insegnamento del maestro Parmenide.

Lavoricidi italiani racconta le storie di personaggi che vorrebbero fare ciò che vogliono e quando ci riescono devono scendere a compromessi e fare enormi sacrifici. Racconta di rinunce e fallimenti restituendoci un’immagine impietosa del nostro corrotto Paese: «Suvvia, siamo in Italia. Un Paese dove la parola novità è bandita dal vocabolario. Qui si cambia tutto per non cambiare niente e non occorre essere Baroni di Salina, bastano già quelli dentro le università, per capire quest’amara verità», dice un dottorando aspirante alla carriera accademica in apertura del racconto Tokyo love di Marco Apolloni (a mio avviso uno dei migliori). I personaggi di Lavoricidi italiani sono ragazzi malati di incompletezza e di illusioni. Ma tra la sicurezza del passato e l’ansia del futuro, per il presente, a ben vedere, rimane ben poco.


(Jonathan Arpetti e Paolo Nanni, Lavoricidi italiani, Miraggi Edizioni, 2012, pp. 192, euro 14,90) 

“Phineas Gage” di Roberto Angelini

Senza riserve, né timori. Roberto Angelini scrive una nuova pagina della sua carriera con Phineas Gage. Il titolo dell’album (il quarto da solista) elegge a modello di riferimento l’omonimo operaio statunitense che a metà Ottocento sopravvisse a un grave incidente sul lavoro. Un ferro gli aveva attraversato il cranio e, se è vero che quello che non ti uccide ti fortifica, il buon Gage ne uscì vivo ma trasformato nel modo di agire e di relazionarsi. Questo, musicalmente, si traduce in una raccolta di brani in cui Angelini non si nasconde e non si risparmia.

L’album appare come una sorta di Canzoniere contemporaneo, la forza generatrice è una donna, un’assente eccellente, presente nei pensieri e nei discorsi. Ma come ogni canzoniere che si rispetti, l’indirizzo dell’opera è centrifugo. Allontanarsi da un centro per mettersi in discussione. Nell’album convivono organicamente canzoni e pezzi esclusivamente strumentali. Come la prima traccia, “Nella testa di Phineas Gage”, in cui Angelini attraverso sonorità elettroniche e psichedeliche riesce a evocare i moti della mente e gli stravolgimenti del pensiero. “Cenere” coniuga l’energia musicale al disincanto emotivo. Passando in rassegna un elenco di nomi femminili emerge, per contrasto, la Lei che manca: «e amore tu sei solo parte di una scena che è stata tagliata». In “Roma mia d’estate” il pensiero di Lei si sovrappone all’immagine di una Roma deserta che restituisce ricordi, con una sfumatura di nostalgia. «Più ci ragiono meno comprendo l’alchimia della felicità, che più ti stringo e più ti perdo è questa la verità»,  i versi di “Come sei” descrivono l’arte di perdere, del lasciare andare. L’anafora del refrain e la raffinatezza della voce di Awa Ly (suo è il featuring) producono come risultato un brano al tempo stesso vitale e sofisticato.

Dei dieci brani raccolti in Phineas Gage, infine, non possiamo fare a meno di citare “Vento e pioggia”. Si tratta di un pezzo strumentale, protagonista è il pianoforte. Angelini riesce a scrivere poesia senza ricorrere alle parole e affidandosi unicamente al linguaggio della musica. È uno dei brani più ispirati dell’album e conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, il talento dell’artista romano come compositore e musicista. Al pari di una nuova stagione o di un secondo atto, Roberto Angelini riparte da quello che possiede, dalle esperienze dell’uomo e dalla ricerca dell’artista, e viceversa, fuori da ogni parametro o calcolo, come “l’ icona di stile” a cui si fa riferimento nel titolo dell’album. In equilibrio tra pesantezza e leggerezza, Phineas Gage è una creatura artistica dal saggio furore.

 

(Roberto Angelini, Phineas Gage, FioriRari, 2012)

 

“Mancarsi” di Diego De Silva

«Nella vita i momenti importanti sono cinque o sei. Tutto il resto fa volume». Non lo asseriva solo Ennio Flaiano, campione indiscusso dell’aforisma carpiato, vera e propria disciplina olimpica. È la quotidianità a suffragarlo di continuo, mentre fingiamo di ignorarlo. Mentre ci dibattiamo tra immense masse d’aria: ferie, acquisti, feste, turni, litigi, file male incolonnate davanti a un evento microscopico, molto più breve della sua attesa. La chiamiamo “vita”, ma è solo una sequela di parentesi truccate. Quante secchiate di sole la faranno colare? Perché ci aspettiamo altro. Sempre. Un incontro che sovverta tutto quanto, che valga quell’isterico palpito d’ali, quel plotone di ricami maldestri diluiti nell’intanto. Una faccia in cui sciogliere la propria per spremere il cielo di giorni nuovi. Mancarsi (Einaudi, 2012) di Diego De Silva inchioda questo bisogno. Come una foto al negativo. Lo fa in virtù di un’assenza. Che intesse la trama con l’odore di un fantasma. Siamo lontani piedi e stagioni dalle vicende di Vincenzo Malinconico, protagonista scanzonato della brillante triade di romanzi inaugurata con Non avevo capito niente (Einaudi, 2007).

Questa è una storia sfiorata, nient’altro e poi di più. Sono le impronte parallele di Irene e Nicola. Un uomo e una donna dispersi tra gli altri, mescolati negli umori di una città innominata. Eppure una lente, un tocco, un satellite li immortala e li distingue. Nicola ha perduto la sua compagna. Lo ha fatto tragicamente, dopo un incidente che ha liquefatto il suo equilibrio. Licia è morta, ma forse era già distante, anche quando le viveva accanto. Come un pianeta che asseconda la sua orbita, malgrado sorrida. Licia non voleva figli e reputava bastasse il suo “no” a frenare ogni intento, a rubricare la questione come semplicemente inattuabile e quindi risolta. Ma a Nicola resta un taglio, che cercherà di sotterrare tra la barba che ricresce. Così, quando un momento qualunque decide per lui, inghiottendo la metà del suo progetto, Nicola deve ripartire da se stesso, con il solo desiderio di sentirsi acceso, di tornare a respirare i polmoni dei suoi passi. Anche Irene è sola, sola per sua scelta. Sola, quando ha carezzato il dorso della mano di suo marito e ha statuito in quell’istante che il suo matrimonio era ormai un verbo antico, coniugato al passato. Che quella mano era un saluto appoggiato sulla carne. Entrambi sanno quello che vogliono, da una storia, dal proprio futuro. E l’uno è il ritratto dei voleri dell’altra. L’incastro sognato, l’altrove necessario. E De Silva attraversa il fossato, penetra indisturbato tra le pieghe dei loro sospiri, come se entrambi avessero in grembo un appuntamento mai stabilito eppure fortissimo, un richiamo che striscia sulla schiena delle pagine. Nicola e Irene frequentano lo stesso bistrot, perché il caso li vuole vicinissimi, ma non abbastanza da farli scontrare. Quando Irene arriva Nicola è appena uscito o viceversa e quel minino starnuto di centimetri diventa uguale a un emisfero, un ponte tibetano con le tavole che tremano. Ma sappiamo, o intuiamo, che non potranno schivarsi per sempre, che c’è una ragione davanti a cui le coincidenze dovranno inginocchiarsi. E iniziare a chiamarsi “destino”.

Un’idea semplice, perché è con semplicità che i sentieri convergono, perché «le storie non durano se devono riabilitarsi, lottare, vincere, infliggersi e procurare sofferenze invece di dedicarsi serenamente a se stesse». Le storie hanno bisogno del loro fiato libero, il sussulto rampicante non può sopravvivere, perché il sangue degli altri diventa indigesto. Bisogna essere pronti a riceversi, perché l’altro è sempre un impegno. De Silva approfitta delle intercapedini per ritagliare scampoli di verità pulite, la fame impellente di felicità che ci taglia i pensieri anche quando siamo distratti. L’urgenza della comprensione, l’istinto di appartenere a un mondo in cui sentirsi al caldo, anche se non è il proprio. De Silva diverte e coglie sul fatto, non rinuncia mai all’ironia ficcante che lo marchia a fuoco, alla disamina impietosa delle pochezze collettive; segue, perlustra, registra il vissuto dei protagonisti e ci restituisce la radiografia asciutta di un tempo che aspetta di essere grande. Quando forse potrebbe esserlo già.


(Diego De Silva, Mancarsi, Einaudi, 2013, pp. 104, euro 10)

“Tutto cospira a tacere di noi”: a tu per tu con Daniela Ranieri

«Questo mi basta; il resto de la terra, / senza mai pagar l’oste, andrò cercando / con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra», scriveva Ariosto. Lui preferiva viaggiare a occhi chiusi, restando al caldo della sua casa. Se fosse vissuto nel XXI secolo, non avrebbe girovagato con le carte di Tolomeo; avrebbe usato Google maps. Nel suo viaggiare mentale, virtuale, i venti lo avrebbero sospinto da Facebook a Twitter, fin su un atollo, una punta nel mare del web, Carnation. Qua si sarebbe fermato per un po’, probabilmente colpito, di primo acchito, dal nome. Infatti se è vero, come dice, che «senza quel vizio son pochi umanisti», e che forse, dunque, nemmeno lui, sotto sotto, lo disdegnasse, come Dante (secondo una lettura di Massimiliano Chiamenti, in Dante sodomita) e l’arcinoto Virgilio (per outing ad opera del grammatico Elio Donato, nel IV sec.), Ariosto avrebbe apprezzato quel nome, carnation, che indica un colore particolare, una civettuola sfumatura del rosa.


Daniela, iniziamo da Carnation? Che cos’è? Perché questo nome?

È un blog in cui parlo di ossessioni letterarie, le mie, quelle degli scrittori, e quelle dei personaggi dei libri. Parlo anche di quelle che il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali chiama “parafilie”, ovvero perversioni sessuali. Ossessioni, nevrosi e parafilie sono le cose che mi piace più trovare nei libri o nei loro autori, altrimenti è tutta acqua di rose. Si chiama Carnation dal nome di una marca di latte in scatola o in polvere, ed è anche il nome di un tipo di garofano e del colore corrispondente, a me gradito.


Daniela Ranieri vive e lavora a Roma. È una giovane promessa della narrativa italiana. Il suo ultimo libro si intitola Tutto cospira a tacere di noi (Ponte alle Grazie, 2012).

Pensi che sia cosa buona per uno scrittore il filtro di un editor? Come ti sei trovata con Vincenzo Ostuni, editor di Ponte alle Grazie, nonché uno dei più bravi poeti viventi?

A Vincenzo devo l’uscita del mio libro, senza il suo lavoro paziente non avrebbe questa forma, anzi sarebbe stato illeggibile. In generale, detesto gli autori che non sono d’accordo coi propri editor in nome di un frainteso orgoglio dello scrittore, che il più delle volte è egotismo o schizofrenia.


Tutto cospira a tacere di noi apre uno squarcio su tutta una generazione. Non è scrittura che si chiude in sé, né il tipo che re-interpreta il mondo, ma è la scrittura che il mondo lo interpreta. Nel perseguire questo obiettivo, Daniela Ranieri si serve spesso dell’ironia. C’è un capitolo che mi ha colpito, “Nihil infrahumanum mihi alienum puto”. Qui riprende dall’Heautontimorùmenos di Terenzio la famosa espressione: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», e la capovolge in senso ironico. Quest’operazione si carica ancor più di significato e di amarezza se pensiamo che l’espressione di Terenzio compendiò per i secoli a lui successivi, l’idea di humanitas. Questo sguardo stralunato che evidenzia amaramente una considerazione sul presente, però, non cade mai nella delusa indifferenza. È un’ironia, mai distruttiva, che si oppone al cinismo.

Qual è la differenza tra ironia e cinismo?

Sono figure, o meglio strategie retoriche contigue, ma opposte. L’ironia stimola sempre l’intellezione, e pur avvalendosi della maschera ha sempre come fine una qualche forma diciamo di verità (o di contro-cifra delle cose); il cinismo contempla l’interlocutore solo come oggetto di derisione oppure come un avversario che bisogna ridurre al silenzio. Pensa a Socrate come iniziatore del dialogo ironico, e a Diogene come Socrate risentito, o come moralista deluso. Il cinismo è non a caso quasi sempre uno strumento del potere, dove l’ironia ne è sempre un’antagonista.


Nel tentativo di interpretare il mondo, su uno sfondo talora ironico, si staglia una lingua non semplice, articolata, che non teme di creare neologismi, in un’ansia di nominazione, che intende dare ordine. Il mondo è là, davanti ai tuoi occhi, in una massa informe e Daniela Ranieri, con le mani in pasta, dice. Pur facendo uso (non abuso) di ipotassi che rende ricco il flusso del discorso (a fronte di un marcato uso della paratassi della maggior parte delle pubblicazioni odierne), Daniela scende nei bassifondi, nelle spelonche ipogee e raccatta tutte le parole che le servono a significare; quando quelle esistenti non bastano, ne inventa. «Desiderioctomia» (p.109) è uno dei più bei neologismi, che si agitano come lingue di fuoco attraverso tutto il romanzo. La lingua usata da Daniela è quella dei poeti: nel tutto co-spira l’amore per la lingua, proprio dei poeti. Al tempo stesso la lingua di Tutto cospira a tacere di noi non si dimentica della tradizione e ricorre a molte citazioni.

Daniela, è vero che tutto è stato detto? O ti senti più un «nano sulle spalle dei giganti»?

Abbiamo negli occhi Giotto e 2001 Odissea nello spazio. Noi siamo epigoni, ci piaccia o no. In ogni caso, ci sono ancora molte cose da dire. E però nella maggior parte dei casi sono sbagliate.


Il libro è denso di riferimenti letterari, fin dal titolo, Tutto cospira a tacere di noi, che è tratto dalla seconda delle Elegie duinesi di Rilke. Qui si canta la dannata caducità dell’essere umano, seguita da un inno agli amanti, i soli sulla Terra capaci di avvicinarsi all’eternità: «Amanti, a voi, l’uno nell’altro paghi, / chiedo di noi. Voi vi afferrate. Avete le prove? […] / Voi invece, che nell’incanto dell’altro / crescete, fin che sovrastato / v’implora: non più…; voi che sotto le mani / diventate l’un l’altro copiosi come le annate dell’uva; / che talora svanite perché l’altro / del tutto prevale: vi chiedo di noi. Lo so, / così beati voi vi toccate perché la carezza trattiene, / perché non vien meno la parte che teneramente / coprite; perché sotto le mani sentite la pura / durata. Sì che eternità quasi dall’abbraccio / attendete […]».

Mi sembra però che tu dia degli amanti una visione ben diversa nel romanzo. In che senso questa porzione di verso è specchio del tuo romanzo? Si carica qui di un significato ulteriore?

In realtà il narratore e il suo deuteragonista, Arianna, sono o cercano di essere riflessi perfetti di questo specchio di cui parli: in quanto soggetti disciolti dalla catena della visione e del contatto, il sentimento che li lega – che è univoco, intransitivo – è una apoteosi dell’amore nella «pura durata». L’assenza di lei è davvero angelica nel senso rilkiano, cioè terribile.


Amore è una parola chiave di Tutto cospira a tacere di noi: co-spira non solo nella lingua, ma anche nella storia di Luigi Trevor e Arianna, i protagonisti.

Sulla prima di copertina, leggiamo: «Un grande romanzo d’amore e di rivolta al tempo delle passioni tristi». Perché di questi tempi le passioni sono «tristi»?

Per Spinoza lo sono quelle passioni nate e coltivate al di fuori della Ragione, senza la sua guida luminosa. Le passioni tristi dell’uomo che si lamenta della condizione umana senza porre in atto risoluzioni gioiose, gaie nel senso in cui Nietzsche intende la parola, sfociano quasi sempre nel populismo o nella ricerca di un uomo forte, un demiurgo, un risolutore. Quando si deride, si compiange, si detesta l’altro e sé stessi, si produce tristezza nel senso più politicamente cupo. Direi che limitandosi al contesto italiano ci siamo (ancora) dentro.


Ma nell’epigrafe che apre il racconto è espressa un’idea ancora più tragica, riprendendo un verso del VI libro dell’Eneide, dove l’amore non solo viene definito «durus», ma si dice che «peredit crudeli tabe», «consumò con una implacabile malattia».

È l’amore in sé a essere malattia o è l’amore dei nostri tempi a essere malato?

Una delle poche certezze che ho nella vita è che l’amore, intendo l’amore erotico, sentimentale, è più simile alla malattia mentale temporanea, volontaria e per fortuna reversibile, che qualsiasi altra bizzarria umana.


Per l’amore Daniela ha un interesse autentico. Ha scritto, infatti, anche un altro libro sul tema, un saggio, De erotografia. Nuove scritture del desiderio (Castelvecchi, 2004), dove prevale una lettura d’analisi antropologica. Tutto cospira a tacere di noi, invece, è proprio un romanzo, romanzo di amore, di passioni tristi, ma che approfondisce anche il tema del precariato: Luigi Trevor è una ex promessa della fisica, Arianna una ex-ricercatrice.

Perché sono fuori dall’università? Che cos’è il «precariato cognitivo»?

Si sono misurati entrambi con la carriera universitaria, hanno fatto concorsi che si sapevano dall’inizio truccati. Sono entrati a ingrossare le fila dell’esercito sfinito dei precari per non morire di fame. Fanno gli operai di concetto, come si diceva un tempo. Solo che lui ha una strategia di evasione e di riscatto, lei è involuta dentro il suo risentimento.


Nel capitolo che si intitola “Vocazione” leggiamo: «C’è anche da dire che qui da noi le cose arrivano solo per sentito dire, e che i media, ormai inzuppati della semicultura d’impresa veicolata dal Presidente, balbettano pattern culturali globalizzati, provenienti per lo più da Stati Uniti e Occidente ricco, cioè da paesi rispetto ai quali il nostro è almeno diversamente progredito».

Questa semicultura d’impresa in che rapporto sta con quella che definisci «epoca del capitalismo cognitivo»?

Semicultura d’impresa è proprio il termine esatto. È un tipo di cultura che stimola l’acquisizione di un sapere specialistico, che non serve a niente fuori dalle mura aziendali, caratterizzata da un gergo, un para-linguaggio che invece invade tutti i campi della vita, tutte le occasioni in cui bisogna mostrarsi inseriti nel proprio tempo, attuali, aggiornati. Fa schifo, sì.


In un’intervista televisiva, Tiziano Terzani ha detto delle cose molto interessanti a riguardo:«Uno degli aspetti più micidiali dell’attuale cultura è di far credere che sia l’unica cultura; e invece è semplicemente la peggiore. Gli esempi sono nel cuore di ognuno: per esempio che la gente vada a lavorare 6 giorni su 7 la settimana è la cosa più pezzente che si possa fare; come si fa a rubare la vita agli esseri umani in cambio del cibo, del letto?». Anche Estensione del dominio di manipolazione di Michela Marzano, parla di questo tema e mette in evidenza come i sistemi capitalistici facciano leva sull’idea per cui l’unica, vera realizzazione umana si compirebbe attraverso il lavoro.

Più lavoriamo, più siamo felici. È un paradosso o no?

Sì, è da pazzi. Anche se eviterei le retoriche contrarie. Ci sono anche precari da 3000 euro al mese. Sputare sul lavoro alla scrivania 6 giorni su 7 dall’alto di una condizione privilegiata è forse l’unica cosa che mi fa più schifo del lavorare a una scrivania 6 giorni su 7.


Nel capitolo intitolato “Nihil infrahumanum mihi alienum puto”, c’è un brano scritto da Arianna dove si sente, a livello filosofico, l’influenza della Scuola di Francoforte. Si fa riferimento ai Manoscritti economico-filosofici di Marx. Qui, inoltre, si canta la de-erotizzazione della personalità di Arianna: «Non soltanto una parte del desiderio è stata sacrificata nell’economia che tanto facilmente si dissimula dentro le cose […], ma la sua interezza […], una desiderioctomia indolore». È un eros che trova come un unico spazio in cui riversarsi, la cosa meno erotica di tutte, il porno, riduttivo «ologramma del desiderio». Mi sembra che si possa mettere in relazione con quello che scriveva Marcuse in Eros e Civiltà, che invece augura «non soltanto una liberazione ma anche una trasformazione della libido: dalla sessualità che subisce la supremazia genitale ad una erotizzazione dell’intera personalità».

Marxistica liberazione del lavoro-fatica o marcusiana liberazione dal lavoro-fatica? Ci può essere un legame anche tra eros e lavoro?

No. L’unico legame tra eros e lavoro si avvera nel porno, per motivi troppo lunghi da spiegare e che non hanno a che vedere con la cosiddetta industria del sesso. Oppure me ne viene in mente un altro che però riguarda le fantasie da stanza delle fotocopie, e mi sta venendo da vomitare. Marcuse ha coniato un’espressione che è «desublimazione repressiva». Che è esattamente quello che dice: si ha una apparente liberazione dei significanti e dei significati del desiderio, ma quell’apparenza lavora solo allo scopo di confermare una nuova repressione, una nuova sublimazione. Internet va inserito in questa economia del desiderio apparentemente liberato.


Daniela vive della sua scrittura (libri, collaborazioni) o fa un lavoro alternativo?

La scrittura è il lavoro alternativo.


Ma scrivere è un lavoro?

Se lo è, lo è nel senso in cui lo è l’analisi.


(Daniela Ranieri, Tutto cospira a tacere di noi, Ponte alle Grazie, 2012, pp.368, euro 16,80)

“Flan-Natale Story 2”: i risultati

Sarà stata la sopresa per l’assenza di catastrofi annunciate, o i pranzi rituali delle feste natalizie, o forse ancora – e soprattutto – il poco tempo che vi avevamo messo a disposizione per inviarci racconti inediti. Sta di fatto che questa rapida seconda edizione del concorso Flan-Natale Story non ha regalato storie particolarmente originali o sorprendenti: purtroppo, molto del materiale ricevuto non rispecchiava a pieno i criteri formali e qualitativi posti dalla redazione. Così abbiamo deciso di scegliere solo due vincitori, invece dei tre stabiliti.


Si aggiudica la palma di vincitrice Mariateresa Stella con “Risparmiami a Natale”, un racconto dal buon ritmo narrativo che ricorda in parte le atmosfere di The walking Dead, per far riferimento all’attualità e non scomodare sempre i maestri del genere distopico.

Secondo racconto selezionato è “Pablo”, di Emilia Lugli, che costruisce in poche battute una storia che si estende per più anni, tra paura e nostalgia.


Questi due racconti saranno pubblicato su Flanerí giovedì 24 (“Pablo”) e sabato 26 gennaio (Risparmiami a Natale) all’interno della rubrica di narrativa “Spin-off”.


La redazione di Flanerí ci tiene a ringraziare tutti coloro i quali hanno partecipato al concorso, affidando il proprio testo al nostro comitato di lettura.

 

[Oscar 2013] “Django Unchained” di Quentin Tarantino

Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012). Letteralmente “Django scatenato”, nel senso di privo di catene, cioè libero. Perché Django è uno schiavo di colore negli Stati Uniti del sud del 1858, due anni prima dello scoppio della guerra di secessione. A liberarlo è il dottor King Schultz, bizzarro dentista tedesco, affettato e formale, che gira su un carretto con un dente basculante come insegna. La sua reale professione è quella di cacciatore di taglie. Acquista la libertà di Django perché ha bisogno che lo porti dai tre fratelli Brittle, ricercati criminali, un tempo aguzzini del neo-liberto, per eliminarli. Finirà per insegnargli il mestiere, diventarne amico e aiutarlo nella sua missione più importante: rintracciare e salvare la moglie Broomhilda, schiava a sua volta a Candyland, enorme piantagione di cotone di monsieur Calvin Candie, possidente francofilo ma non francofono, che sostiene, sulla base di una frenologia rudimentale, che i neri abbiano tre tacche nel cranio che li predispongono all’obbedienza. Acquistare la libertà della donna si rivelerà meno semplice del previsto e Django dovrà scatenarsi anche in senso figurato. Segue lieto fine con cavalcata verso l’orizzonte.

Dopo averci girato intorno per tutta la sua produzione, Tarantino approda finalmente al genere western. Spaghetti western, per la precisione. Lo fa recuperando nome e personaggio da un vecchio film di Sergio Corbucci con Franco Nero e affidandosi alla sicurezza di un impianto narrativo solido e convenzionale (l’eroe che salva la sua bella vendicandosi dei cattivi che la tengono prigioniera) arricchito della tematica razziale, perenne nervo scoperto e peccato originale degli interi Stati Uniti e di Hollywood. La vera forza del film è un cast eccezionale. Il dentista/cacciatore di taglie di Cristoph Waltz, allo stesso tempo rassicurante e inquietante, e Stephen, l’anziano maggiordomo schiavo di Samuel L. Jackson, che ha passato talmente tanto tempo con i padroni bianchi da essere diventato autenticamente razzista, sono personaggi che rimangono impressi. Lo è ancora di più il poderoso Calvin Candie di Leonardo Di Caprio. Bisogna aspettare più di un’ora prima che appaia sullo schermo, ma quando finalmente arriva riempie la scena con un personaggio titanico, misurato e terribile, perennemente in bilico tra la forma e il terrore. Waltz ha ricevuto una nuova nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista e il Golden Globe, dopo il doppio riconoscimento del 2010 per Bastardi senza gloria. L’avrebbe meritata anche Di Caprio, ma l’Academy ha sempre teso a sottovalutare le interpretazioni del protagonista di Titanic.

Niente da eccepire su un film che, nonostante il corposo minutaggio, non si perde in elementi inutili e rimane compatto senza dilungarsi. Non annoia, sicuramente, ma neanche diverte come gli altri film di Tarantino. Perché è questo che si deve evidenziare di Django Unchained: è un film di Tarantino, senza dubbio, ma privo di molti di quegli elementi che hanno fatto grande il cinema di Tarantino. Gli elementi più importanti, come la brillantezza nella scrittura, i dialoghi e le sequenze memorabili (la tanto decantata scena del sangue che spruzza sui campi di cotone è poca cosa), i movimenti di camera eterodossi e spiazzanti, non ci sono o non emergono.
Da Bastardi senza gloria recupera efficacemente il gioco delle parti, il mascheramento dei protagonisti per entrare in contatto con il nemico (come i “bastardi” si travestivano da nazisti,  Django e Schultz si presentano a Di Caprio come schiavisti), ma a differenza del film del 2010 qui l’errore che rivela l’inganno, e la successiva miccia che fa esplodere la violenza finale, è debole e affrettato. Forse perché limitato all’interno di un genere, il regista non riesce a spaziare su registri differenti con la consueta abilità, muovendosi poco oltre i margini di un western tradizionale volgendo lo sguardo verso Est, al cinema di Hong Kong, nel sanguinolento finale.
Tolti i consueti punti di forza del cinema di Tarantino, rimane il solito universo di citazioni e strizzate d’occhio al pubblico (dall’uso spregiudicato dello zoom al cameo del regista nella parte di un minatore bifolco) e la violenza di fontane di sangue fatte esplodere a ripetizione. Un po’ poco, tutto sommato.

(Django Unchained, regia di Quentin Tarantino, 2012, western, 165’)

“Esercizi sulla madre”: a tu per tu con Luigi Romolo Carrino

Per quanto tempo si può aspettare senza perdere il senno? Per quanti anni si può riuscire a restare fermi, incastrati in un’immagine, concentrati su un movimento, intrappolati in una speranza e non impazzire? Scoraggiati a tratti, infreddoliti. E fermi. Mentre la vita continua lungo un binario impreciso tu ti sei fermato, seduto su un gradino. E aspetti.
Il 27 febbraio 1976 alle 21:06 Giuseppe, bambino, otto anni, si è seduto davanti alla porta chiusa della casa in cui viveva con i suoi genitori e ha aspettato che sua madre rientrasse a casa dalla salumeria. Sono passate dieci lunghe ore, ha fatto molto freddo e Giuseppe, nel buio della notte, bambino, ha avuto molta paura. Ma Madre non è tornata.
Esercizi sulla madre, terzo romanzo di Luigi Romolo Carrino edito da Perdisapop, è la storia di questa attesa, iniziata davanti a una porta chiusa e durata trent’anni di buio quasi totale e di pochi ricordi raccattati in quell’unica notte all’anno in cui Giuseppe, che oggi ha 42 anni ed è rinchiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario, può risvegliare il proprio pensiero dal torpore farmacologico e risedersi su un gradino, davanti a una casa che non è casa sua ma che un po’ ci somiglia, per provare a capire cosa è successo, per fare “l’esercizio del ricordo”. Anche oggi che è un pazzo e non più bambino, per dieci lunghe ore cerca una ragione, un motivo plausibile per cui Madre possa averlo abbandonato. Scava dentro di sé alla ricerca del difetto, dell’errore che forse lo ha reso insopportabile a quella donna bionda con gli occhi azzurri e l’ombretto verde; costruisce dieci altre realtà, una per ogni ora, per sfuggire all’unica verità, la verità che in tutti questi anni ha preferito renderlo folle piuttosto che rivelarsi in tutta la sua bruciante tragicità.
«Dire il tuo nome con lo sguardo fa il male di averti perduta più dolce, a mezzanotte, sul vetro di qualsiasi finestra che ho di fronte. Lo guardo, il tuo nome da dietro la finestra con le sbarre, tutto l’anno tranne stanotte. Stanotte sono dall’altra parte del vetro, sono dalla parte giusta della porta, quella che si apre».

 

Cominciamo con le presentazioni. Chi è Luigi Romolo Carrino? E perché scrive?

Un informatico (per ora ex) prestato alla scrittura. Perché scrivo? Non saprei come rispondere. È una passione urgente. La scrittura è un fondamentale della mia vita, sempre stata. Sono tuttavia stato sedotto anche dall’informatica, la parte di ingegneria del software, anche questa una passione per gli algoritmi volti a soluzioni di automazione. E poi, scrittura e informatica non sono così distanti…

 

Esercizi sulla madre affronta due tematiche profonde e complesse, quella del rapporto tra genitori e figli e quella della malattia mentale e le affronta dal di dentro, assumendo il punto di vista dei tre personaggi coinvolti (Giuseppe bambino, Madre, Giuseppe adulto). Nel mettersi nei panni del bambino che ha paura del buio e teme il mostro spaziale di Vega è stato certamente aiutato dagli occhi del bambino che è stato. Cosa ha fatto, invece, per aiutarsi a pensare come un pazzo rinchiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario?

Mi sono certamente documentato. Ho visitato alcuni OPG. Conosciuto molte persone con disagi psichici. Tuttavia, mi viene naturale trovare pensieri di una persona con problemi psichiatrici se cerco la forma dell’autenticità umana nel linguaggio della Poesia. Quelli che noi chiamiamo “pazzi” sono le persone che più di altre si avvicinano alla propria verità, più di altre riducono il gap tra la rappresentazione del sé voluta dal contesto in cui vivono e quello che naturalmente una persona è. Forse le ellissi della Dickinson e gli accostamenti sintattici della Gualtieri mi hanno aiutato. E poi, sono anni che studio il lavoro sulla memoria di Lurija.

 

Tre voci dunque, che prendono la parola alternativamente in un continuo andare avanti e indietro del tempo, ma ognuna con uno spazio preciso e circoscritto in cui esprimersi nelle dieci parti in cui è diviso il libro. E’ una rigida architettura che contrasta con il flusso dei pensieri, potente e violento tanto nel bambino quanto nell’adulto. Come mai ha scelto una struttura così ferma e ordinata?

Spesso si crede che un “pazzo” non abbia rigore nel pensiero. Non è così. Nel suo mondo funziona tutto secondo le sue regole, che non sono le nostre. E queste regole sono precise, è un sistema di riferimento esatto, scientifico, e quello che a noi “sani” risulta incomprensibile nella mente di uno psicotico ha la sua “ragione” di essere, il suo motivo, ha la sua struttura. Ho scelto di raccontare questa storia partendo dalle dieci tavole del test di Rorschach perché a guardarle superficialmente sembrano solo macchie d’inchiostro lanciate sul foglio da un bambino capriccioso. Invece, le macchie sono simmetriche, ovvero esiste una legge che ha guidato chi le ha create. Ho pensato che questo punto di partenza potesse funzionare per orientarsi nella mente di Giuseppe, per permettere anche a Giuseppe di orientarsi nel suo passato.

 

Un altro contrasto è quello tra il linguaggio, che è delicato, poetico e bellissimo, e i pensieri che esso veicola, così allucinati e dolorosi per la mente che li concepisce, ma anche per chi legge. E andando avanti si comprende che il libro procederà sempre in questo modo, un “esercizio del ricordo” dopo l’altro. Moretti direbbe «Continuiamo così, facciamoci del male!». Mi permetto di sdrammatizzare perché ho visto che anche lei lo fa, parlando del libro alle presentazioni. A cosa pensava quando immaginava il lettore intento a confrontarsi con queste immagini? Non ha avuto paura che qualcuno potesse spaventarsi e chiudere dopo poche pagine? Forse non è un libro proprio “per tutti”?

Non esistono libri per pochi. Esistono pochi che hanno voglia di leggere un certo libro. Chi sono io per decidere quale libro un lettore deve leggere? Però posso decidere cosa scrivere. Questo diritto me lo prendo tutto. Me lo sono preso. Ovvio, la domanda me la sono posta circa la fruibilità. Ho cercato di andare incontro il più possibile al mio lettore. Per questo ho rimaneggiato il testo fino all’ultimo secondo, anche prima di andare in stampa. E dire che ho cominciato a scriverlo dieci anni fa (il dieci che ritorna…).

 

Al termine del libro troviamo un suo scritto Al lettore” in cui chiede comprensione per i passi che risultano difficili, per le volte in cui è necessario tornare indietro per capire meglio, e conclude dicendo che se un romanzo non lasciasse un dubbio, un tarlo, non lo leggerebbe. Esercizi sulla  madre il tarlo lo lascia eccome perché la sua è una trama che non si completa da sola. Giuseppe fa un esercizio per scoprire la verità, ma lo fa anche il lettore che, leggendo, si siede sul gradino con lui. Lavora da sempre per far sì che i suoi libri rimangano “aperti” oppure c’è stato qualcosa che ha orientato la sua scrittura in questa direzione?

Sì, desidero che siano considerati “aperti”. Persino nel primo, Acqua Storta, che a detta dei lettori è quello più “immediato” dei tre romanzi che ho scritto, non ho lasciato dubbi sulla storia, ma l’intento delle azioni dei protagonisti è deciso dal lettore. Il mio è un tentativo di portare la suggestione che può dare il teatro e l’allusione tipica della poesia all’interno di una narrazione. Esercizi è proprio così: interseca la dimensione del monologo teatrale con quella del racconto, per dar vita a un romanzo spesso poetico.

 

Consiglierebbe ai nostri lettori un libro da leggere?

Trilogia della città di K., di Agota Kristof. Assolutamente.

 

Ringraziamo Luigi Romolo Carrino  per la sua disponibilità e invitiamo i lettori a prendere una pausa e a sedersi, in attesa, con una lettura che può sembrare una sfida, ma che ha una capacità oggi davvero rara da rintracciare, quella di arrivare e rimanere nel profondo.
«Sono passati più di trent’anni dal giorno che sei uscita, ma sono ancora qui con i pensieri del bambino che ero. Sono questo giorno ripetuto di febbraio e ho macchie nella memoria che mi scuriscono i pensieri, fanno diecimila ombre sulle pareti della stanza dove dormo e non lo so più se piangere o dirti addio, scriverti una lettera, perdonarti o dirti torna, io sempre ti aspetto».


(Luigi Romolo Carrino, Esercizi sulla madre, PerdisaPop, 2012, pp.168, euro 15)

“Unasolamoltitudine” de iLdoNo

Non capita tutti i giorni che qualcuno ti dica “toh, ascolta un po’ questo disco” e il disco ti rimanga davvero dentro. Non parlo della sensazione di ascoltare qualcosa di piacevole e fine a se stesso, ma di parole e musica che lasciano un segno. È quello che potrebbe capitarvi ascoltando lalbum a tutto tondo de iL dOnO.

La band di Velletri (Roma) è insieme dal 1999; dopo l’uscita di due LP autoprodotti, nel 2006 incide il suo primo album dal titolo Diversi stati di alterazione, contenente «undici tracce di spietata concretezza, dal forte impatto emotivo, dove la “dipendenza”, quella esistenziale, non trova collocazione tra gli innumerevoli rimedi artificiali di cui è invasa…». Garantiscono loro. Nel 2011, Daniele Cedroni e soci registrano UnAsOLamOLtiTuDiNE, dieci canzoni a cui va aggiunta “Stanza Blu”, brano del 2001 inserito per celebrare il decennale del gruppo. All’interno dell’album spiccano diversi brani, uno di questi è “Memento”, critica attenta nei confronti di un mondo troppo spesso asettico e oppressivo; altra traccia interessante è “Come il vento”, intro lungo e deciso, fatto di tanta chitarra, batteria ed energia esplosiva. Il genere di riferimento è il rock alternativo made in Italy ma non manca l’ormai consueto uso del synth a dare qualcosa in più. Nonostante questo, troviamo anche “Stare fuori” e “Vita propria”, brani lenti ed evocativi, accompagnati dalle calde vibrazioni di una chitarra acustica.

Ci sono gruppi rock che non curano molto l’aspetto del testo di una canzone e si limitano a tirare fuori solo la rabbia e la voglia di “spaccare”, senza provare a dire qualcosa di sensato, qualcosa che resti dentro. iL dOnO invece no. Le parole che usano sembrano rubate a qualche poeta decadente, sono sempre in perfetta sinergia con la musica, mai effimere o messe lì per caso. Le loro critiche alla società non sono campate in aria, ma attente e lucide osservazioni. Proprio per questo, quasi tutti i brani dell’ album non sono facili da decifrare al primo impatto, in quanto le parole usate non sono altro che proiezioni di un insieme di esperienze collettive. È un disco che «tende a emozionare», dal contenuto e dal carattere sorprendente, frutto di un lavoro ricercato.

(Il Dono, UnAsOLamOLtiTuDiNE, 29RECORDS, 2011)