“Fiori di rovina” di Patrick Modiano

«La notte è così profonda con i suoi odori di vino e di carbone e i ruggiti delle bestie feroci che un barbone può cadere dal ponte di una chiatta sulla Senna, annegare e nessuno ci fa caso».
Immaginiamo una notte buia e impenetrabile o nebbiosa e rarefatta, ebbene in questo scenario è ambientato l’ultimo romanzo di Patrick Modiano, Fiori di rovina, pubblicato in Italia da Lantana edizioni nel 2012.
Il punto di partenza della narrazione è un fatto di cronaca accaduto il 24 aprile 1933: due giovani sposi si suicidano in circostanze misteriose. Molti anni dopo un uomo andrà alla ricerca delle motivazioni profonde che hanno spinto al gesto estremo, cercando di raccogliere indizi e testimonianze per ricostruire i fatti.


Fiori di rovina è il titolo suggestivo ed evocativo insieme di un’opera fortemente autobiografica in cui si muove il narratore/protagonista flâneur in una Parigi notturna in decadenza. I quartieri della ville lumière avvolti nel mistero sono attraversati in silenzio dallo scrittore/detective nell’intento di ricostruire la drammatica vicenda dei coniugi T. «Quella domenica sera di novembre» l’uomo percorre vicoli e strade in cui ha giocato da bambino, si muove in luoghi divenuti familiari alla sua topografia affettiva: la Rive gauche, Saint-Germain-des-Prés e il Quartiere Latino.
La narrazione riflette sensazioni epidermiche, forme e colori vengono restituiti per mezzo di impercettibili stimoli che sfiorano la sensibilità dei lettori: «Avevo la sensazione», «sembra». La visione che ne risulta è offuscata, sfocata sia che si tratti di un ricordo («la luce cadeva da un vetro sporco e coperto di ragnatele»), di un sogno o della realtà: «invano spalanco gli occhi nel buio».
L’opera di Modiano può essere considerata un tentativo di strappare all’oblío i ricordi e far ritornare alla memoria gli eventi del passato. Man mano che il protagonista si addentra nel mistero, anche nella sua vita personale emergono dei vuoti; la figura del padre, presente anche in altre opere, è centrale ma qui si fa insistente nel rimpianto di una perdita definitiva: «Pensavo a mio padre (…) l’enigma di un uomo che non avevo nessuna possibilità di ritrovare, e tutte quelle domande che non avrebbero mai avuto risposta». La parola “enigma” torna per esprimere il vuoto incolmabile di un rapporto non vissuto cui il padre inafferrabile si è sottratto per sempre.
La spazialità parigina è descritta rendendo omaggio a un grande poeta che ha fatto innamorare intere generazioni, come non sentire l’eco di Prévert nel seguente passo: «Quando pioveva in rue d’Odessa…mi sentivo in un porto bretone sotto l’acquerugiola. Dalla stazione…sfuggivano folate di Brest.” Brest, città tanto cara al poeta, incanta nella poesia “Rappelle-toi Barbara» («Ricordati Barbara/pioveva senza tregua quel giorno su Brest»), la stessa pioggia che annebbia la vista, la stessa inguaribile malinconia che attanaglia il cuore. Il giardino del Parc Montsouris, in cui il protagonista passeggia, fa da décor al “bacio” Prévertiano tra innamorati: «Des milliers et des milliers d’années/ne pourraient suffire/pour dire/la petite seconde d’éternité/où tu m’as embrassé/où je t’ai embrassée…au Parc Montsouris à Paris/à Paris/sur la terre/la terre qui est un astre» (Mille anni e poi mille/non possono bastare/per dire/la microeternità/di quando m’hai baciato/di quando t’ho baciata…al Parc Montsouris a Parigi/a Parigi/sulla terra/la terra che è un astro).


Fiori di rovina spuntano «tra vasche e statue rotte, pietre e foglie secche» e proprio in un giardinetto frequentato con il fratello negli anni dell’infanzia «le lancette dell’orologio non camminavano. Indicavano eternamente le cinque e mezza. Quelle lancette ci avvolgevano in un silenzio profondo e rassicurante. Basta restare nel viale e niente cambierà mai». Il tempo si è fermato in un istante preciso nel passato e solo voltandosi indietro si può cullare ancora l’illusione di un sogno. 


(Patrick Modiano, Fiori di rovina, trad. di Maruzza Loira, Lantana, 2012, pp.113, euro 13,50)

“Breaking Bad” di Vince Gilligan

Lo abbiamo celebrato nei recenti Flanerí Awards: un motivo ci sarà. Se riceve ogni anno incetta di premi ed elogi, e ormai tutti ne parlano e il bacino di spettatori si fa sempre più ampio, una spiegazione ragionevole ci deve essere. Se tra i fan-series più incalliti il suo nome è ormai fisso insieme ai giù cult Dexter, Walking Dead e Trono di Spade (solo per citare i più amati), delle giuste cause ci sono. Breaking Bad, a conclusione della quarta stagione, si è imposta come serie somma del momento.
Le ragioni del successo sono tante. Innanzitutto va dato plauso al creatore Vince Gilligan – già sceneggiatore di X-Files. È riuscito a calare una vicenda molto contemporanea e attuale – legata al contesto economicamente critico attraversato dall’America nel 2008 – e trasformarla in una avvincente sceneggiatura che ha davvero pochi pari nella storia della televisione: senza dire troppo, basta vedere il finale della seconda stagione, in cui l’epilogo svela tutti i misteriosi flash apparsi in ogni puntata.
Quindi, di cosa parla Breaking Bad (il cui titolo si riferisce alle rotture dei legami nei composti chimici, e non solo…)?

Presto detto: al centro della vicenda c’è Walter White. Encomiabile professore di chimica di scuola superiore nel Nuovo Messico, che per sbarcare il lunario lavora part-time in un autolavaggio. A casa l’attende la moglie Skyler e il figlio disabile Walter Jr. Nella prima puntata dello show gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni in fase terminale con pochissime aspettative di vita. Di lì a poco assisterà a un’operazione di polizia insieme a Hank Schrader, marito della sorella di Skyler, agente della DEA. E a casa di chi avviene la retata della polizia? Ovviamente a casa di Jesse Pinkman, ex alunno di White e ora perso nel tunnel dello spaccio e della tossicodipendenza. Da questo momento le cose cambiano. Ecco la breaking bad, la brusca rottura. Infatti il termine, oltre ad essere usato in chimica, è una frase del gergo del sud degli Stati Uniti per dire che qualcuno sta lasciando la retta via per intraprendere dei traffici loschi e pericolosi. Walter White non sarà più uno stimato professore e dipendente, ma deciderà di entrare con Jesse nella produzione e nello smercio di metanfetamine, in modo da garantire con i cospicui introiti del traffico di droga un futuro dignitoso alla famiglia quando lui non ci sarà più. E il suo nome non sarà più Walter White, ma Heisenberg – citando il nome del fisico tedesco premio Nobel, fondatore della meccanica quantistica e dal controverso approccio e collaborazione con il regime nazista.

Dal breve accenno al plot si capisce subito quanto sia elevato il tasso d’empatia e di drammaticità. A rendere più coinvolgente il tutto, ci pensa l’interpretazione di Bryan Cranston, verso il quale sono finiti gli aggettivi per descrivere la bravura nell’impersonare WhiteHeisenberg. Famoso nel piccolo schermo per essere stato il papà di Malcolm nell’omonima serie di successo, qui l’attore lascia ogni verve istrionica e comica per abbandonarsi completamente al ruolo che gli ha dato la gloria. Sul suo volto segnato, passa la sofferenza di un padre di famiglia costretto a fare i conti con dilemmi più grandi di lui, con delle scelte difficili e con un futuro illegale e pericoloso visto come unica via possibile. In questo ambito Cranston si supera di stagione in stagione, mostrando come l’innocuo professore riesca poco a poco sia ad affrontare la malattia, sia a diventare uno dei nomi più temuti e spietati della criminalità americana. A supportarlo c’è l’altrettanto bravo Aaron Paul, alias Jesse Pinkman, anche lui “cuoco di cristalli”. Per non citare tutti gli altri spettacolari personaggi che di puntata in puntata popoleranno la serie: dall’avvocato salva-criminali Saul Goodman, al sicario Mike, fino ad uno dei più grandi villain mai apparsi in tv: Gustavo “Gus” Fring, che nella quarta stagione si mostrerà in tutto il suo malefico splendore.
Lo avete capito: il livello di Breaking Bad è alto. Ma la questione è ancora più semplice: basta infatti vederlo per capire di che capolavoro si tratti. Insomma: Kiss the cook.

 

“Il salario della paura” di Georges Arnaud

Ecco, si parte. Ci si allaccia i pensieri per non inciampare nelle scarpe. Perché la strada avrà mille strati e pavimenti scomodi. Non ci si volta più, il passato meduseo pietrifica i passi. Ci si imbarca verso l’ignoto ed è permesso dire solo “domani”. Da quando esiste un altrove, l’uomo non fa che raggiungerlo.

E non parliamo soltanto dei cercatori d’oro, dei conquistadores spinti lontano dal feticcio del denaro facile, della terra più fresca e mai posseduta. Esistono stormi di esseri umani che dentro ogni stagione si distaccano dal proprio suolo, perché è talmente secco da cacciare anche le lacrime. Perché la guerra, la fame e altre favole nere hanno ucciso il futuro prima ancora di averlo promesso.

Perché nel loro caso l’oro è sopravvivere.

Sono loro, i disperati del pianeta, i flussi vagabondi, i tramps, coloro che camminano a ritmo cadenzato, i protagonisti assoluti del romanzo di Georges Arnaud Il salario della paura (Fandango, 2012).

Ed è difficile immaginare un titolo più indovinato. A Las Piedras, nel Guatemala sventrato e annerito dai pozzi petroliferi, un branco di avventurieri viene reclutato dalla Crude Oil per trasportare nitroglicerina su una pista crudele a bordo di due camion senza dispositivi di sicurezza. È l’unico sistema possibile per placare l’incendio del “taladro”, la torre di trivellazione andata a fuoco in una notte di canicola e sudore.

Il vento infiammato dilata l’orrore e O’Brien, il boss, l’irlandese sbucato dalla miseria avvezzo a fronteggiare cataclismi di ogni sorta, dovrà ingaggiarli personalmente.

Anche lui, che «per anni ha trascinato i suoi quattro cenci da un porto all’altro in cerca di una via d’uscita», sa cosa significa ingoiare polvere e scambiarla con la propria vita, inzuppare magliette, annacquare giorni interi aspettando tempi giusti, cieli più teneri. Ora spetta a lui incontrare quell’ammasso di negletti, spiegare loro il da farsi e lasciare che scelgano.

C’è posto solo per quattro persone, che reputeranno mille dollari un prezzo ragionevole per il peso della loro esistenza, per il rischio incessante di saltare in aria al minimo sobbalzo.

Cinquecento chilometri fatti di centimetri infingardi, di strattoni in agguato, di mosse impercettibili e fatali.

Restano Gerard, Johnny, Juan e l’italiano Luigi. Sono loro i «candidati a morte». I quattro figli del niente immolati al pericolo, al 50% delle probabilità di deflagrare per una frenata di troppo.

Ognuno di loro cavalca quel “sì” perché l’alternativa è peggiore. L’alternativa è non riempire il piatto, farsi mantenere dall’amore e dalle grazie di una donna che si offre agli avventori, giocare sporco con se stessi.

La paura, quella legata a doppio filo alla loro ricompensa, fa parte del viaggio, ma non può prevalere.

La paura non ha tinta, non ha foggia, «è un liquido incolore, inodore, insipido», un veleno infilato nel bicchiere, da sorseggiare un tanto ogni minuto, per mitridatizzarsi, per dissetarsi con l’antidoto.

Quel tragitto costerà caro, costerà comunque. Imbottire i camion, inzavorrare, premunirsi per quel che si può, non sarà sufficiente. Ma il desiderio di andarsene, di scavalcare anche la sorte, di vincere quella scommessa cosmica da cui si è usciti sempre stracciati, pesta i piedi e fa rumore.

L’istinto irresistibile di scrivere un finale diverso, di provarci comunque.

Perché il miraggio corrode, perché l’idea di qualche istante al sole è più potente del terrore, deve esserlo per forza. E quella barca con cui ricominciare è la sola immaginare da tenere stretta.

Arnaud ci trascina nella loro cenere, nel caldo delirante di quel tempo sabbioso, di una cittadina inizialmente fiorente e poi lasciata appassire; un vicolo cieco in cui è facile arenarsi, tra sogni malarici e noia febbrile. Si sente l’odore della sifilide, la dissenterica atmosfera senza scampo, in cui o si va o si crepa.

Descrive magistralmente un girone dantesco dove si aggirano fantasmi in cerca di fuga. Non tratteggia, ma incide i volti di uomini che «hanno scartato le vere parole», che indossano un’identità «virile e banale di ombra cinese». E non ci sono finestre pulite, né altri finali da prendere in prestito.

(Georges Arnaud, Il salario della paura, a cura di Maurizio Ferrara, Fandango, 2012, pp. 190, euro 15)

“Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga” al Chiostro del Bramante

Dal 18 del mese scorso, fino al 2 giugno, è possibile vedere da vicino le opere della dinastia dei Brueghel negli spazi espositivi del Chiostro del Bramante. Ma «lasciate ogni speranza o voi ch’entrate»! Se pensate di poter ammirare capolavori come “Trionfo della Morte” o “Torre di Babele” di Pieter Brueghel il Vecchio, siete fuori strada. Questi sono rimasti al sicuro nelle loro sedi permanenti di Madrid e Vienna, mentre a Roma ne è arrivato soltanto uno, “La Resurrezione”, da una collezione privata belga, e non certo tra i migliori del celebre artista.
 


L’intento e l’obiettivo della mostra è quello di creare un percorso dinastico tra le opere dei vari componenti della famiglia Brueghel, ma purtroppo il risultato è confusionario nell’allestimento e scarso nell’ordinamento. Viene dato maggior risalto a Pieter il Giovane e a Jan il Vecchio, figli del vecchio Pieter e discendenti più diretti della maestria paterna. Pieter il Giovane riesce a far fruttare la fama del padre e si assicura un posto d’onore sul mercato d’arte delle Fiandre, accontentando la grande richiesta delle committenze private e delle corti europee. Il suo stile è totalmente dipendente da quello di Pieter il Vecchio e anche le tematiche sono di chiara ispirazione paterna, realizzando talvolta delle vere e proprie copie per andare incontro alle necessità di ciò che era in voga all’epoca. Ne sono un esempio alcune opere presenti in mostra, come “Trappola per uccelli”, esplicito riferimento a “Il ritorno dei cacciatori”, e “Danza nuziale all’aperto”, chiaro richiamo a “Il Banchetto nuziale”, entrambe a Vienna: simili sono i soggetti, la costruzione delle figure rappresentate, le ambientazioni, l’accuratezza dei particolari e la resa pittorica.
 


 

Discorso diverso per il fratello minore Jan il Vecchio, che ricevette vari soprannomi (Brueghel dei velluti, dei fiori e del paradiso) in ragione delle tematiche che amava dipingere maggiormente e del suo modo vellutato di stendere il colore. Si distacca dallo stile del padre e trascorre molto tempo in Italia, principalmente a Milano, dove ha la possibilità di conoscere e di essere ammirato dal cardinale Federico Borromeo. Collabora con Rubens e diventa il primo importante pittore di fiori e di nature morte, tanto da influenzare in maniera permanente gran parte della pittura fiamminga successiva. La sua tecnica pittorica dimostra una straordinaria abilità tecnica e un gusto sopraffino, la natura rappresentata nella sua opera è un costante richiamo a riflessioni profonde sulla caducità dell’esistenza umana, ispirandosi al concetto di vanitas. Esemplari sono “La Tentazione di Sant’Antonio nel bosco” e “Madonna col Bambino in una ghirlanda di fiori”, al quale si ispirerà il figlio, Jan il Giovane, per alcuni dei suoi dipinti migliori, anch’essi presenti in mostra.
 


 

Il percorso espositivo avrebbe potuto anche terminare qui, dal momento che il secondo piano del Chiostro è stato occupato da opere di veramente scarsa rilevanza artistica. Credo che ci sia una scontentezza diffusa tra gli utenti delle mostre che ultimamente si svolgono nel nostro paese, sia tra i più preparati, che tra i visitatori occasionali. Come al solito si preferisce investire in sapienti scelte di marketing piuttosto che prestare attenzione a garantire un’offerta culturale dignitosa: mostre già confezionate per fare il giro del mondo, non tenendo presente il contesto in cui verranno inserite (questa dei Brueghel infatti è già stata a Como e a Tel Aiviv). Gran parte delle esposizioni romane dell’ultimo periodo si sono fregiate di grandi nomi come Mondrian, Dalì, Vermeer, etc., per poi deludere il visitatore, una volta acquistato il biglietto, con opere di bassa qualità o con dipinti di altri artisti coevi a quello protagonista, esposte come riempitivo, per garantire la passeggiata pittorica a chi purtroppo ha già pagato, e non poco.

Abbasso i grandi nomi, viva le grandi mostre.

 

Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga
Dal 18 dicembre 2012 al 2 giugno 2013 presso il Chiostro del Bramante
Per ulteriori informazioni:
http://www.brueghelroma.it/

“Errata coccige” di Andrea Viviani

I versi di Andrea Viviani presuppongono l’emergenza, il disfacimento. Nell’immobilità di un caos interiore ma non esistenziale, che dunque ci riguarda tutti, la sua voce si alza sicura e incerta insieme, si fa potente e oltremodo sottile, rende il beneficio della contraddizione a chi ascolta, il dubbio della salvazione, la certezza della pena e dell’inganno.

In un certo senso questa raccolta di liriche può rappresentare un punto fermo nell’odierno panorama poetico italiano. La lirica, intesa come canto immateriale di sublimazione e suggestioni arriva a consumare se stessa nelle note più alte dello spartito, oltre rimangono appena i suoni inarrivabili all’orecchio comune. Esplorato questo passo estremo, il canto, il pianto, dovrà farsi qualche cosa di più o di meno, l’artificio per intero dovrà girarsi su se stesso.
 

“Ipotetico languire”

Pensa se ora
e non prima di adesso
quest’ostia in cielo che iridesce
stessi lì a guardarla pure tu.

Se rapita ti rapisse
riflessa
la luce del mio desiderar di noi.

Pensa se dicesse
meglio ti urlasse
che altro non vale il suo brillare
se non la quiete dei tuoi gesti.

Ricordo presente
mi dondolo
e cullo inebriato
le impressioni di te sulla mia pelle.
 

Errata Coccige è il debutto poetico di Andrea Viviani per le Edizioni Ensemble. Dell’autore leggiamo in quarta di copertina «(soprav)vive di parole da quando ne ha consapevolezza. Funambolo delle competenze, insegna quando impara e viceversa». Posti sotto un velo di ironia due informazioni importanti. La centralità della parola, passione, vizio, mestiere, e la sottile scomoda e privilegiata linea fra insegnare e imparare, unica condizione propizia alla ricerca. La piccola rivoluzione che questi versi contengono almeno in potenza riguarda proprio la parola, pronunciata, prima che una penna possa graffiarla sul foglio, carica e portatrice di significati e simbologie affettive. La parola come impulso fisico anziché mentale o sociale. Chiarita la visceralità di una comunicazione che sola è salvezza, si può risalire senza timore ai pensieri e alle occasioni, insomma alle significazioni, che, più o meno velatamente, soggiacciono alla trama (Trame è l’enigmatica epigrafe posta in apertura) e al sospiratissimo senso di questi versi.

Provano un percorso simile Marco Gargiulo nella “Prefazione in forma di lettera” e Giuseppe Crimi, postfatore del volume: «un errore, un lapsus linguae, governa le poesie di Viviani, a partire dal titolo – Errata Coccige –, già un’incomprensione sullo sfondo, o di fondo. Un titolo come un sanissimo sberleffo, un dispetto premeditato alla lingua, che nasce da un sarcasmo esercitato quotidianamente, talvolta impercettibile, eppure sempre attento a registrare i fallimenti di comportamento e di comunicazione degli umani».
 

“L’itote”

Lascia che te lo argomenti,
il pallore del sentire.

Il non-gusto di insensato a meno che non sia per te.

Lascia che a spiegarlo siano i gesti,
gli occhi miei nei tuoi come a uno specchio.

Parlino le perle sulle tempie,
e quei goffi tremolii nella mia voce.

Le cose dette troppe, solo per non riagganciare.

Lascia tutto vivo in mente,
e poi oblia:
a te m’avvinghia ed è tuo solo
ciò di cui non ho bisogno.
 

Presto la via che Viviani addita si interrompe. La stasi sembra essere il secondo momento del suo non-disegno, l’attesa con lo sguardo rivolto al cielo, la dipendenza dell’essere che si è scoperto inerme davanti la sua stessa capacità di vibrare un aiuto o il confuso rimescolio di un sentimento. Questi versi non contengono nessuna risposta, e poche dolorose domande. Forse l’unica domanda a cui possa essere ricondotta questa esperienza poetica riguarda l’ordine, un ordine, superiore o inferiore, che sia in grado di far seguire una pace indiscriminata all’affanno della ricerca, l’unica domanda possibile che possa stare a monte di Errata Coccige riguarda l’esistenza o meno di una risposta, in definitiva ci troviamo di fronte la frammentazione dello sforzo primario dell’uomo nuovo, quello della fede. Come tutte le intelligenze pratiche da Pascal in poi Viviani sa che vale la pena scommettere su Dio, e la sua scommessa è infantile, capziosa. Il Dio delle sue preghiere è anche un personaggio ricorrente dei suoi versi, un compagno con cui intendersela, da riconoscere nei dettagli della vita con spirito di vigile attenzione.
 

“80”

A spasso con spasso,
io e il mio amico nuovo.

Narratore, amante del bello
e delle donne.

Aneddoti virili e un po’ marziali
imperano ormoni residuali.

Che sia ottantenne è un dettaglio
che mi scopro a trascurare.
 

Il finale, anche se provvisorio, non fa sconti. La distruzione presentita si fa sempre più vicina, il non-farcela si affaccia e diviene simile a un dente spezzato che taglia la lingua, un’ossessione dalla quale non è salvezza avere scampo. Il messaggio ultimo di questi versi sta, leopardianamente, nell’avere coraggio, la pur esclusiva tendenza individualistica si scioglie in una preghiera più ampia, ed ecco che solo la comunità, col suo plesso di valori, può camminare felicemente verso un mondo (e un modo) rinnovato. Tutto ciò resta sospeso dall’ultima piccola sezione a mo’ di sentenze, che come una giga sorniona riporta il sorriso sul volto segnato. La Sentenza, quella vera, l’unica, è rimandata fino alle prossime conclusioni provvisorie.  
 

 (Andrea Viviani, Errata coccige, Edizioni Ensemble, 2012, pp. 62, euro 12)   

“Comunque vada non importa” di Eleonora C. Caruso

«Ecco una storia triste, dovevate immaginarlo che ne avrei trovata una, è quello che succede quando parli con la gente prima o poi t’incula con qualche faccenda lacrimosa».

Comunque vada non importa (Indiana Editore, 2012) di Eleonora C. Caruso, nuova e interessante voce del panorama letterario nostrano, blogger e autrice di fanfiction, è una storia commovente e spiazzante ma allo stesso tempo corrosivamente autoironica, sarcastica e cinica, avvitata, come è, alle paure e agli umori della protagonista.

Darla è una ragazza particolare che crede che la vera amicizia femminile esista solo in Sailor Moon. Cresciuta nella provincia di Novara tra la casa di campagna diroccata dei nonni e la città dall’altra parte del marciapiede, appartiene a quella generazione di attuali ventenni sospesa tra rinunce e rinvii, attanagliata perpetuamente dalla noia e dalla steresis aristotelica, la mancanza, la privazione assoluta di qualcosa di essenziale.

Comincia ad annoiarsi assai presto. È poco più che una bambina quando chiede alla nonna il permesso di tirare il collo a una povera gallina con la stessa naturalezza con cui «le altre bambine lo chiedevano per mettersi lo smalto». Ma Darla ha in comune con i suoi coetanei anche il non riuscire a concludere mai niente e i continui fallimenti. Così, dopo essersi assentata un attimo, soddisfatta, per lavarsi il sangue dalle mani assassine, una volta tornata in cucina vede, incredula, la gallina, che pensava già a bollire in brodo, venirle incontro con «il collo a penzoloni, tenuto appeso dalla ragnatela stracciata dei nervi, e […] con occhi vitrei». Quel giorno apprende una grande lezione di vita dalla nonna, persona dura e poco delicata: «Le bestie sono come gli uomini», le dice, «se li colpisci non devi lasciarli rialzare».

Se l’infanzia determina il carattere di una persona, allora la radicale e ontologica estraneità al mondo della ventiduenne Darla ha radici antiche e profonde: «L’umanità mi sconcerta e poi puzza».

Vissuta in un ambiente familiare anaffettivo e segnata dalla precoce scomparsa della madre, rifugge nel mondo delle anime, i cartoni animati giapponesi, e si trascura trascinandosi con sfinitezza per casa e lasciando come unica porta aperta con l’esterno quella virtuale della rete e dei social networks.

La situazione non migliora neanche quando dalla provincia si trasferisce a Milano per seguire suo fratello Andrea deciso a iscriversi all’università. Ben presto impara a detestare anche la metropoli lombarda, «città di strade sporche e spesso dissestate», a disinteressarsi degli studi e a uscire solo due volte al mese per acquistare fumetti. Diventa così come gli hikikomori, ragazzi giapponesi che non escono più di casa. Sprofondata in una poltrona sfondata e sformata dalla sua silhouette simile a quella di Jabba The Hutt di Guerre stellari, protetta da un muro di manga, vive circondata dalla sporcizia e da pacchetti di patatine aperti e mai finiti, frammenti, rimasugli di un’esistenza in rovina. E se ne sta lì come «un bozzolo indifferente, intrappolato dalla corrente». A trascinarla fuori, in qualche modo, interverrà la scoperta (che poi tanto scoperta non è) della malattia del suo problematico e omosessuale fratello e l’attrazione per il fidanzato di lui, Alessandro.

Su di Andrea, bello e intelligente ma dall’indole autodistruttiva, le aspettative della adorante madre hanno avuto l’effetto di una bomba atomica che lascia una terra desolata e devastata. Quella terra è il suo corpo, martoriato dalle cicatrici procuratesi e dal vomito autoindotto. Andrea, protagonista mancato per un altro romanzo, finirà in una clinica per disturbi alimentari mentre Darla e Alessandro si rimbalzeranno la palla della colpa tra sfuriate e rappacificamenti.

Comunque vada non importa è un romanzo sorprendente che tratta della maturazione differita e tardiva di una ragazza che in realtà dovrebbe essere già da tempo una donna, dei rapporti difficili fra padre e figlia e fratello e sorella, della incapacità di affrontare il dolore, la morte e l’amore. Un romanzo vero, denso di umorismo ma fondamentalmente duro, come spietata è con il suo personaggio l’autrice, che non mira all’empatia bensì alla distanza.

(Eleonora C. Caruso, Comunque vada non importa, Indiana Editore, pp. 224, euro 14,50)

“Ecco” di Niccolò Fabi

«Tendere il mio arco fino a non potere fare di più». Sembra ripartire da questo verso di qualche anno fa (tratto da “Evaporare”, contenuto in Novo Mesto) Niccolò Fabi con il suo ultimo disco, Ecco. Una citazione intersemiotica, o se preferite un cortocircuito della memoria e del cuore, quella che balza ai sensi di chi si ritrova tra le mani il nuovo album. Il cantautore romano nella foto di copertina è ritratto come un arciere. Un arco in tensione e una freccia che sta per essere scoccata. Il percorso che seguirà, ci piace immaginare, lo possiamo conoscere ascoltando i brani contenuti in Ecco.

A partire da “Una buona idea” fino a “Ecco”, l’autore ci presenta undici brani ciascuno con sonorità diverse, e tutti splendidi. Non c’è all’interno del disco un’esplicita ricerca di compattezza tematica, o per lo meno non ce n’è la preoccupazione. E questo si sente e concede grande respiro ai pezzi.  La bravura di Fabi, sia come cantautore che come musicista, sta nel riuscire a declinare la sua profondità e finezza attraverso suoni e atmosfere musicali eterogenee. In “Io”, l’introspezione sull’individualità e la riflessione sull’egocentrismo imperante avvengono a ritmo di reggae. Con “Elementare” siamo sfiorati da una melodia delicata come una carezza e da un testo di una grazia intraducibile, «come un bacio in una favola».

A seguire, “Le cose che non abbiamo detto”, ci destano e vengono a «disturbarci il sonno». Le parole del brano andrebbero ascoltate ogni volta che ingoiamo un pensiero invece di esprimerlo, quando rimandiamo una dichiarazione. E ogni volta in cui pensiamo di non avere più tempo per dichiarare, per confessare, per ammettere, per mettere a tacere le difese.

Di partenze necessarie per tornare, e scoprire ciò che molto spesso si perde vista poiché troppo vicino, ci raccontano le canzoni “Sedici modi di dire verde” e “Lontano da me”. Due maniere distinte ma complementari di cercare e cercarsi, l’una immergendosi «ai confini del niente» e l’altra prendendo le distanze dalla pesantezza di sé stessi.

Niccolò Fabi torna a farci dono di parole che nutrono e musiche che vestono, con la sensibilità e la precisione filologica che gli appartengono. E non si ripete mai uguale, anzi: riesce a sorprenderci.Ecco è un disco libero, senza una definizione e genere. Un lavoro pieno di passione e condivisione. Nel settimo album si respira, molto più che nelle opere precedenti, un’atmosfera di lavoro corale.

Il testo di “Una buona idea”, per esempio, è stato scritto insieme a Stefano Diana e la voce di Fabi è accompagnata da quella di Roberto Angelini. La squadra di arcieri/musicisti convocata dall’autore romano vede schierati: Roberto Angelini, Daniele Rossi, Gabriele Lazzarotti e Fabio Rondanini che, con il loro apporto, arricchiscono di entusiasmo e bravura l’album.

In attesa del tour teatrale che partirà a gennaio, vi invitiamo a lasciarvi sorprendere dalla luce di Ecco.  Preferiamo non aggiungere altro. Perché? Perché la bellezza non si spiega, ecco.

(Niccolò Fabi, Ecco, Universal, 2012)
 

“Critical Mass. Noi siamo il traffico” a cura di Chris Carlsson, Lisaruth Elliott, Adriana Camarena

Come tutte le cose sotto il sole, anche il movimento dell’uomo ha una storia. Conquistare lo spazio, attraversarlo, scoprirlo – soprattutto – sono azioni che compiamo ogni giorno, sia per salire su un autobus per andare al lavoro, sia per partire verso un viaggio nello spazio.

Ma è per le strade, quello spazio sul quale affaccia ogni nostra finestra, che appare inequivocabile la magnificenza del moto perpetuo di noi tutti. Tracciarne i profili e raccontarne la storia mostra di pari passo un’altra costante caratteristica dell’uomo: il cambiamento. Stanchi di selle, bighe e carrozze, in preda alla necessità di compiere passi più grandi, l’evoluzionismo scientifico ha creato sempre nuovi modi di muoversi che man mano hanno modificato ciò che vediamo al di fuori di quella finestra. Tuttavia, “cambiamento” non significa soltanto che la nostra realtà si apre a qualcosa di nuovo. Spesso uno dei modi principali di vivere il cambiamento è ricodificando vecchi significanti con nuovi significati, ed è questa una delle caratteristiche che si avvicinano di più a quello che è la bicicletta oggi.

Se la figura della ruota resta nella nostra storia di esseri umani tra le più grandi rivoluzioni, perché allora ci scandalizziamo tanto se in fila al semaforo ve ne troviamo due? Forse perché oggi, appunto, imbattersi in un tranquillo ciclista che usa la bicicletta per andare a prendere il figlio a scuola è qualcosa che ha in sé un significato nuovo di cui ci eravamo probabilmente dimenticati a causa dei troppi clacson e dell’abitudine. La realtà sembra però voler come al solito aggiungere qualcosa in più alla nostra concezione di “normalità”, figuriamoci a quella di “movimento”.

Ed ecco che allora se guardiamo con maggiore attenzione fuori dalla consueta finestra, possiamo renderci conto che quell’eterogeneo spettacolo che è il movimento si va sempre di più arricchendo di un fattore nuovo quanto antico: il muoversi in bicicletta, che fino a qualche tempo fa poteva rappresentare un aspetto tipico di alcune culture e luoghi, diventa sempre più una scelta di massa, una massa che comincia a rivendicare il diritto di questa scelta e lo fa pedalando contro un modo di vivere la città rinchiuso nella consuetudine delle logiche alienanti simboleggiate dall’ingorgo stradale, dove ognuno è nessuno se non una targa o un modello d’auto. Partendo da San Francisco e arrivando a Roma, Shanghai, fino in Palestina, invece, sono ormai vent’anni che si diffondono per il mondo nuove idee nate dal basso per riappropriarsi dello spazio urbano, ormai colonia dei mezzi a motore, unendo a questo il piacere di essere produttori del proprio moto. Creando nuovi e insoliti ingorghi, per le strade incontriamo chi ha lavorato su quelle idee che hanno plasmato e portato ovunque iniziative come Critical Mass, Ciemmona, Critichella e tante altre che a livello planetario rappresentano il manifestarsi di un movimento che ripensa il movimento.

E Critical Mass. Noi siamo il traffico è proprio questo; il pensiero vivo che invade le pagine così come invade le strade, per voler lasciare una traccia e continuare un percorso sempre più consapevole ed estenderlo a chi non ha ripreso ancora a pedalare. È il tentativo di raccontare, come fa un racconto, e inscrivere, nella storia, la storia di un movimento senza il bisogno di rivendicare principalmente un pensiero politico, perché si rivendica prima di tutto il diritto a essere ciò che si vuole, chi si vuole e, soprattutto, su due ruote.

La bicicletta diventa nei nostri giorni un luogo fisico, rigido, e non liquido o sfuggente; un luogo di affermazione del sé e una piattaforma di scambio al tempo stesso. Così i racconti/saggi o reportage di Critical Mass disegnano la storia di come sta cambiando il significato della bicicletta nel mondo contemporaneo e di come sia anche il mondo a cambiare in relazione a quello che dentro di sé muta. Una testimonianza di come insieme alla bicicletta cambiano i luoghi, cambiano le idee, cambia il modo di rapportarsi tra gente diversa che sceglie di uscire fuori dai gusci di metallo delle auto per fare dei propri corpi i gusci della propria persona.

Ripercorrendo le tappe di un movimento nato da poco più di qualche ruota sparsa per il mondo, leggendo, arriviamo a capire i motivi e le idee di quelle masse che incontriamo sempre più spesso nelle nostre strade, scopriamo le alternative possibili che potremmo darci e, di pari passo, una realtà che da sotterranea si fa sempre più terrena, perché è fatta di persone. Pur cambiando nome a seconda del luogo in cui siamo, non possiamo non accorgerci allora che quella massa critica che sta modificando il suo modo di pensare esiste, pedala ogni giorno insieme a noi e ha il gigante suono di milioni di campanellini.

(Critical Mass. Noi siamo il traffico. A cura di Chris Carlsson, Lisaruth Elliott, Adriana Camarena, Edizioni Memori, pp. 256, euro 15)

“Flan-Natale Story 2”: torna il concorso delle feste natalizie

Anche quest’anno, nonostante i nefasti presagi derivati dalle capziose interpretazioni di antiche profezie, è arrivato il Natale, con le sue agognate vacanze. Noi della redazione di Flanerí andiamo in pausa fino al 7 gennaio 2013, data in cui riprenderanno le pubblicazioni giornaliere. E come ogni anno, nell’augurare buone festività ai nostri lettori proponiamo l’ormai consueta sfida natalizia:

«Amate il Natale e vi sentite dei moderni Dickens? Oppure odiate il Natale e vorreste descrivere la maldestra – e maledetta –incapacità di un grasso signore vestito di rosso? Volete raccontarci di un’imprevista disavventura horror durante una delirante festa di Capodanno o, ancora, di una serata scivolando sui tetti gelidi in compagnia della vecchia signora Befana? Questa è l’occasione giusta! Sbizzarritevi!»

Non soddisfatti, abbiamo deciso di aggiungere, rispetto alla scorsa edizione, un tocco catastrofista al concorso: il mondo è ancora qua, ma come sarebbe stato se davvero la fine dellumanità fosse arrivata? Che scenario vi sareste trovati davanti se foste stati dei sopravvissuti? O, ancora, come raccontereste gli ultimi istanti prima della fine? Date dunque via libera al vostro ingegno pre/post-apocalittico.

Uniche due condizioni: che i racconti siano inediti e compresi in 8000 battute (spazi inclusi). Una volta scritto il testo, basta inviarlo, rigorosamente in formato Word (nominando il file nel seguente modo: cognome_nome_titoloracconto), all’indirizzo mail premi@flaneri.com specificando come oggetto: “Flan-Natale Story 2”.

All’interno della mail inserite i vostri dati e la dicitura: «Dichiaro che il testo inviato è di mia proprietà, che i diritti sulla stessa rimarranno miei e che autorizzo Flanerí a pubblicarla online».

I tre racconti vincitori saranno premiati con la pubblicazione nella sezione “Altre Narratività”. Al primo classificato saranno inoltre regalati tre libri messi a disposizione da alcune case editrici indipendenti romane.

Ricordatevi di inviare i vostri testi entro e non oltre il 7 gennaio 2013.

La classifica dei racconti vincitori sarà resa nota il 19 gennaio 2013 su Flanerí.

La partecipazione all’iniziativa è completamente gratuita.

Per ulteriori informazioni non esitate a contattarci: info@flaneri.com

[Best 2012] I film

Classifica di fine anno… quanto di più inutile e irrinunciabile possa esserci, come il cinema del resto… e allora più che per una vera graduatoria, stilare il “Best 2012” di Flanerí vale come occasione per segnalare e recuperare quanto di irrinunciabile visto in questo anno di “crisi”. Una crisi, identitaria prima che globale, presente in molte delle migliori pellicole dell’anno, rappresentazioni di un cinema come al solito in gran parte ancora tristemente fantasma nel bel paese.


1) Holy Motors di Leos Carax

Che lo si sia amato o odiato poco importa, il ritorno del folle Carax è, senza dubbio, ciò che ha segnato maggiormente questo 2012. Esibizionista e ridondande per alcuni, visionario e omnicomprensivo per molti, Holy Motors è L’uno nessuno e centomila cinematografico degli anni ’10. La storia di tutte le non storie possibili, talmente oltre la post-modernità da sembrare il vero nuovo classico. Un’opera da vedere a tutti i costi, imprescindibile.

2) Moonrise Kingdom di Wes Anderson

Il definitivo capolavoro di un autore spesso sopravvalutato, qui capace di sintetizzare i suoi eccessi di stile e colorare le sfumature, spegnere l’aurea intellettuale e snob di tutto il suo cinema e accendere una squisita e contagiante leggerezza. Una storia d’amore dai contorni e dai modi adorabili.

3) Beasts of the Southern Wild di Benh Zeitlin

Una esplosione di umanità. Il cuore sommerso di chi tira dritto senza sosta e con fierezza perché guidato da innocenza e purezza. Una bambina con dentro tutto un mondo e un popolo. Ricostruire fuori da sé partendo dentro di sé. Opera prima di genuina bellezza, imperfetta perchè libera, lontano anni luce dalle paludi stantie del cinima indie a stelle strisce perchè indipendente prima di tutto nella testa e nel cuore.

4) Tabu di Michel Gomes

Il cinema delle origini, nuovo e splendente, non il rifugio malinconico verso ciò che fu, bensì la potente dichiarazione politica dell’impossibilità di un altro cinema possibile. L’alba di un nuovo e vecchio raccontare per immagini pure.

5) The Grey di Joe Carnahan

Il freddo e il vento che soffiano in un anima silente e morente. La tragedia che si perpetua notte dopo notte e trascina via i giorni. L’altruismo in momenti di disperazione come unica via verso un’impossibile rinascita. Cinema oscuro, assoluto e potentissimo, i migliori primi 30 minuti dell’ultimo ventennio di cinema americano, talmente potenti da rendere quasi minore il prosieguo che tra sopravvivenza estrema porta a un finale di straordinario lirismo. Il cinema americano che non c’è più tra le tracce del genere e verso una nuova e agognata “New-Hollywood”.

6) Final Cut: Ladies & Gentlemen di György Pálfi

Il mash-up filmico definitivo o, perlomeno, la testimonianza di quanto il suddetto approccio possa riservare sorprese e potenzialità assolute. Immaginate una storia d’amore raccontata utilizzando spezzoni di centinaia di film, tra i più amati della storia del cinema, una storia vera, fatta di gesti, momenti ed emozioni, tutto questo è lo strardinario lavoro prodotto da Béla Tarr. Indescrivibile e commovente, il cinema del cinema, semplicemente geniale.

7) No di Pablo Larrain

Una ricerca sull’estetica vintage attenta ma priva di sterile fascinazione retrò; una scelta visiva forte e contestualizzata di grande efficacia, capace di raccontare la liberazione e nascita di un paese sull’onda di un’esplosione di modernità.

8) Good Vibrations di Lisa Barros D’Sa & Glenn Leyburn

Opera di grana grossa ed emozioni forti, spreme ogni analogicità possibile da una pellicola dai toni caldi in cui sono impresse emozioni e passioni irrefrenabili. Raro esempio di film sulla musica con il tiro giusto, con la musica protagonista ma non assoluta, strumento e veicolo di vite alla ricerca di identità e libertà

9) Looper di Rian Johnson

Rian Johnson, con Lucky McKee ed Harmoni Korine, è il talento più anarchico e ingestibile del cinema americano, autore e mestierante con tante idee da fare spesso a cazzotti tra loro. Qui tira fuori un gioiello mascherato da sci-fi rabberciata e di serie b con andatura e toni da comic-movie come si dovrebbe. Un film con l’aria sfigata ma bello per quello. Idee notevoli e originali come se piovessero. Un cinema che ti offre sempre quel qualcosa di personale ma che per questo è capace di parlare a tutti ridendo di se stesso e della post-modernità.

10) Nuit Blanche di Frédéric Jardin

Un ritmo serratissimo dal primo all’ultimo minuto, una forma asfissiante, un girato e un montato grezzi e sporchi ma efficacissimi, una fisicità dolorosa e percepibile, primi piani come cazzotti in faccia e camere a spalla che inseguono forsennate. A suggellare il tutto, una geometria e geografia strabilianti, con un andare e rivenire negli stessi luoghi che ha dell’incredibile. Una perla che lascia senza fiato.

[Best 2012] Gli album

Tra i tanti rituali di fine anno, c’è quello delle svariate classifiche e graduatorie. Noi di InMusica ne approfittiamo per fare un riepilogo e mettere in fila quelli che secondo noi sono stati i dieci album più belli e significativi di questo 2012 ormai agli sgoccioli. Perché i Maya avranno pure predetto la fine del mondo, ma non quella della musica. And happy new year.
 

1) Il Teatro degli Orrori, Il Mondo Nuovo

Era il loro anno, tutti lo aspettavano. A quelli che dicono che il rock italiano è malato, fate sentire questo disco. Un concept sull’immigrazione, produzione musicale immensa, testi indelebili. Un lavoro del genere in Italia ci riusciva a farlo solo un certo Fabrizio de Andrè.

2) Bob Dylan, Tempest

Quando il più grande personaggio musicale moderno sale in cattedra, non ce n’è per nessuno. Ci si inchina e si ascolta. Basta. Solo così si può sopravvivere all’avvento della Tempesta.

3) Leonard Cohen, Old Ideas

Con Mr. Cohen il discorso è semplice: il confine tra Poesia e Musica non esiste.
«I love to speak with Leonard / He’s a sportsman and a shepherd». Amen.

4) Alt-J, An Awesome Wave

Sì, sono loro l’esordio, la rivelazione dell’anno. La splendida ondata di folk e dubstep conquista e coinvolge. Una formula vincente. Che speriamo non venga logorata.

5) Tame Impala, Lonerism

L’originalità, la psichedelica e il talento al potere. Soprattutto se vengono da una Australia libera da fronzoli commerciali e stilistici. Sfido a trovare persone che dopo aver sentito il disco almeno una volta, non fischiettino subito almeno un ritornello.

6) The XX, Coexist

Un disco complesso, quasi incorporeo, difficile da sentire e da assimilare. Ma qualora riesca a passare, l’effetto va dritto al cuore.

7) David Byrne & St. Vincent, Love This Giant

Perché la stima nei confronti di Mr. Bryne non si esaurirà mai. Soprattutto se i dischi sono di questo livello.

8) TOY, TOY

Un esordio del genere non merita tante spiegazioni. Parla il loro rock, di una maturità e bellezza che lascia allibiti. E dal vivo il gruppo convince. Ad maiora.

9) Grizzly Bear, Shields

Quando una band di talento sale sugli scudi, il risultato parla chiaro. Non come Veckatimest, ma non ci possiamo lamentare.

10) Afterhours, Padania

Pluripremiato, osannato dalla critica. Il ritorno della band indie italiana per eccellenza ha però diviso i fan. Superati i primi ascolti necessari per far fluire il disco, alla fine il messaggio sia testuale che melodico arriva. E poi non ci dimentichiamo che: «Se un sogno si attacca come una colla all’anima, tutto diventa vero tu invece no».
 

[Best 2012] I libri

Il calendario è dimagrito. Abbastanza per suggerirci che ce ne occorre un altro.

Un numero da aggiungere in coda pronto a dissestare i precedenti, a corrugare quel grumo di mesi che ci sbrigheremo a chiamare “l’anno scorso”, dopo i primi inciampi in salita. Lungi dall’emettere giudizi personali sulla qualità ontologica del 2012, perché ognuno potrebbe dire la propria, è stato comunque un anno di letture, di libri che hanno scandito e accompagnato i nostri giorni, le attese dell’autobus, le sere rintanate sul divano lontano da altri frastuoni che non fossero il fruscio delle pagine.

E ci piace concluderlo indicando i dieci titoli secondo noi più significativi che lo hanno contraddistinto, le tante vite che abbiamo/avremmo potuto scegliere in queste 52 settimane. Accanto a ogni selezione, segnaliamo anche il destinatario ideale, non solo perché il periodo festivo fa rima con regalo, ma perché un libro è un profumo di carta ed esiste per intonarsi alla pelle e alla storia di qualcuno.

Perciò ci siamo divertiti a tracciare l’identikit del lettore più adatto, ma senza porre limiti alle sfide, né ai più impavidi tentativi di avvicinamento.

1) Julian Barnes, Il senso di una fine, Einaudi

Un viaggio a ritroso sul filo di un diario, sulle righe scritte da Adrian, misterioso brillante compagno di scuola di Tony, che si suicida dopo il liceo. Tony dovrà ricostruire l’essenza della sua storia e di quella di Adrian, trovandosi davanti domande ciclopiche e la sola natura umana a tentare di rispondere. Perfetto per chi ama la scrittura profonda e potente, innervata di argomentazioni filosofiche e di straordinaria lucidità espositiva. Per un lettore adulto ed esigente.

2) John Niven, A volte ritorno, Einaudi

Esilarante e geniale come pochi altri esempi recenti, la storia ipotizza che Gesù si riaffacci proprio oggi, imbattendosi nelle nefandezze e le psicosi contemporanee. Scanzonato, ma affilatissimo, ironico e dissacrante, senza essere volgare, perché il confine è molto labile. E Niven sa giocarci divinamente. Ottimo per chi voglia e sappia ridere con intelligenza tagliente, non escludendo di commuoversi in un breve giro di capitoli. Target: 25-40 anni, maschio o femmina con uno spiccato humour caustico.

3) Andre Agassi, Open, Einaudi

Anche se uscito nel 2011, è l’autentico caso editoriale dell’anno. Ovviamente si fregia di un nome diverso da quello che appare in copertina, perché la vita del campione di tennis si è offerta come materiale ardente per un talento letterario in Italia poco conosciuto, come quello del Premio Pulitzer J. R. Moehringer. Due volti che incontrandosi si sono specchiati. Entrambi zavorrati da due padri mostruosi da cui era quasi impossibile riuscire a liberarsi, le vicende dell’uno sembrano confluire in quelle dell’altro. Agassi legge Moehringer e stregato dalle sue parole decide di narrare la sua vita. Con un risultato che conosciamo bene. Eccellente non solo per chi si tuffa curioso nelle biografie di grandi personalità sportive, ma per chi voglia leggere un libro scritto con maestria. Dove la storia è carne che respira.

4) ZeroCalcare, La profezia dell’armadillo, Bao Publishing

Le sequenze illustrate di un ventenne come tanti, alle prese con timori, ossessioni e vicissitudini iperquotidiane. Grottesco, graffiante e originale, ha avuto il merito di sdoganare le graphic novel, inaugurando un corso fortunato in cui anche i fumetti, se mai ce ne fosse stato il dubbio, possono aspirare alla dignità letteraria del romanzo. Padre di un successo a cui fa seguitoUn polpo alla gola, azzeccatissimo per un pubblico giovane (20-35 anni), ironico e creativo, incuriosito da un linguaggio narrativo fresco, immediato, distante dalle convenzioni istituzionali.
Pur sapendo che le immagini sono nate molto prima di ogni parola.

5) Karen Thompson Walker, L’età dei miracoli, Mondadori

Esordio letterario di una editor brillante. Ci racconta di Julia, del suo tempo sospeso di ragazzina di undici anni, che cambia in attesa di crescere e cresce in attesa di cambiare. In una città, in un pianeta in cui all’improvviso il tempo rallenta, goccia sempre più lento, fin quasi a volersi fermare, sconvolgendo chi lo abita e costringendolo a una scelta. Per un pubblico (tendenzialmente femminile) sensibile a un punto di vista delicato e non banale, espresso con semplicità pulita e penetrante.

6) Javier Marias, Gli innamoramenti, Einaudi

Il romanzo che abbraccia questo inverno. Maria, impiegata in una casa editrice, consuma gli occhi osservando ogni mattino una coppia seduta in un caffè. Un esempio di attrazione e tenerezza con cui affronta gli spigoli della sua vita. Finché l’uomo non viene accoltellato brutalmente, sfregiando l’equilibrio di quella perfezione. E disegnando la sua verità. Ovviamente per chi abbia amato Domani nella battaglia pensa a me e per chi desideri un romanzo spesso e raffinato. Dai 30 anni in su, senza preferenze di genere.

7) Rayk Wieland, Che ne dici di baciarci?, Keller Editore

Scoprire di essere stati spiati per vent’anni, durante la vita del Muro. Scoprire che oltre a quello di mattoni ne esiste uno trasparente ma impenetrabile che circonda le nostre sembianze, tutto quello che crediamo di vivere. Parodia della Stasi e delle ossessioni targate DDR, che temeva soprattutto la sua stessa ombra. Per chi apprezza i libri piccoli, deliziosi e ficcanti, come quelli di questa preziosa casa editrice.

8) Etgar Keret, All’improvviso ti bussano alla porta, Feltrinelli

Raccolta di racconti di eccezionale costruzione. Per chi non sia prevenuto nei confronti di questo genere letterario, in cui sa dispiegarsi il talento ingegneristico d’autore.

9) Sandra Petrignani, Addio a Roma, Neri Pozza

Un sentiero affascinante, in cui si snoda il fiato culturale e artistico dai primi anni ’50 fino alla fine dei ’60. Alba e crepuscolo, oro e metalli pregiati di una città polimorfa, bella di macerie e rinascita. Per i palati letterari sofisticati e sottili.

10) Giuseppe Aloe, Gli anni di nessuno, Giulio Perrone Editore

La vicenda di Gambart, che nasce nel buio e non riesce mai a uscirne. Personaggio che inscatola per sé una realtà di visi e di parole. Che sconfigga il suo silenzio. Per chi voglia addentrarsi in un romanzo denso, nel mondo di uno scrittore poco noto, ma acuto e capace di offrire una grande prova.  

Questo è il nostro firmamento. Ognuno scelga la sua stella, ricordandosi che le sfumature d’inchiostro sono molto più di cinquanta.