“Prima di scomparire”: a tu per tu con Xabi Molia

Cinque libri pubblicati alletà di 35 anni: sei entrato molto presto nel mondo della letteratura (i primi premi arrivano nel 1997, il primo romanzo è del 2000), hai mai sentito su di te il peso e a volte i pregiudizi dell’essere un giovane autore di punta nella letteratura francese?

Sarebbe bello sentire della pressione, perché vorrebbe dire importare qualcosa nella letteratura francese! Quando ho iniziato mi sentivo molto solo perché ero molto giovane – ho pubblicato il mio primo libro quando avevo 22 anni – e nessuno della mia età stava pubblicando; il libro non è andato, non è successo niente e mi sono reso conto di quanto potesse esser difficile essere uno scrittore. Ai francesi non piace la letteratura francese, preferiscono la letteratura straniera, americana, credono che la letteratura francese sia noiosa, forse è per colpa del nouveau roman, che è visto come qualcosa di molto intellettuale. Io prendevo spunto dalla cultura pop, volevo scrivere qualcosa che fosse letterario e d’evasione al tempo stesso; penso che tutti gli scrittori della mia età provino questa voglia, forse ora qualcosa sta cambiando davvero, ma all’inizio è stato molto difficile.

Prima di scomparire è stato ben accolto in Francia; quella italiana è la prima traduzione? Pensi che con la traduzione si possa perdere “qualcosa” dei tuoi romanzi?

Quella italiana è la mia prima traduzione in generale. All’inizio non ci credevo davvero che un editore italiano volesse tradurre il mio libro, per noi gli italiani non sono molto seri [ride, ndr], non pensavo sarebbe mai successo! Comunque non è la mia prima esperienza fuori dalla Francia; come regista ho viaggiato molto. Con la letteratura però è diverso, perché mostri il tuo libro a persone che sono molto lontane dal tuo mondo.
Sinceramente, spero che qualcosa sia andato perso nella traduzione! Se c’è qualcosa di perso allora vuol dire che ho scritto qualcosa di difficile da tradurre, se è così vuol dire che il mio linguaggio è stato molto preciso in francese, molto originale.

Nel tuo libro mi è sembrato di leggere spesso dei rimandi alla realtà contemporanea: quello che ci sta intorno è stato per te fonte di ispirazione o collegamenti per il romanzo?

Volevo scrivere un libro sulla situazione francese prima della seconda guerra mondiale – il governo Vichy, quando i francesi collaborarono con i nazisti – ma non ero abbastanza storico per essere uno storico. Così mi sono chiesto: come scrivere di questa vergogna, di questo periodo? Ho preso la storia e l’ho spostata nella letteratura, nel mio libro. Ma è anche uno sguardo verso alla realtà dei sans papiers, che ora vivono in una posizione di stallo nella società francese: come in passato preferivamo non vedere cosa succedeva con i nazisti, oggi non vogliamo vedere cosa succede ai sans papiers, preferiamo essere un po’ ciechi forse.

Le narrazioni di spunto apocalittico e post-apocalittico sono molto numerose ultimamente; secondo te si può parlare di vera e propria corrente? Come potresti spiegarti questa “tendenza”?

La mia tesi di dottorato era sui film apocalittici; alle volte non bellissimi film, ma sempre interessanti. Ed è interessante che l’idea della fine del mondo ci spaventa e ci attrae allo stesso tempo. Amiamo l’idea della fine, del mondo che brucia. E nonostante un’intera tesi e la relativa ricerca, non ho ben chiaro il meccanismo per cui tutto ciò risulti così interessante.
È un tema frequente nei videogiochi, nei film, nella musica… e quando Prima di scomparire è stato pubblicato, in libreria c’erano altre due o tre novità che trattavano della fine del mondo. Mi son chiesto come avrei potuto parlare di qualcosa che fosse appunto così comune, con i suoi cliché, e renderlo qualcosa di mio, originale, nuovo per il lettore.

Sei uno scrittore, ma anche uno sceneggiatore e insegnante di cinema all’università di Poitiers; in che modo nei tuoi romanzi i due mondi si incontrano o si scontrano? O tieni sempre separate le due parti? Ho notato parecchie “inquadrature”, leggendo il libro, come quella veramente cinematografica della Tour Eiffel spezzata.

La mia speranza è che non abbiano niente in comune. Quando scrivo penso solo a quello che può dare la letteratura; un sacco di persone mi dicono che da questo libro potrei trarre un buon film, per l’atmosfera; ma buona parte del libro è fatta di pensieri del protagonista. Quando lavori su un film hai un limite che è anche una sfida, quello di mostrare solo l’apparenza delle cose. Nei libri questo limite non esiste. Per me ogni storia ha bisogno della sua piattaforma. Gli adattamenti non riescono mai alla perfezione. Un ottimo libro secondo me non si può trasporre in un film. Per quando riguarda la Tour Eiffel spezzata, be’, raccontarlo in un libro è molto più economico, non potrei romperla per un film, non credo di potermelo permettere! [ride, ndr.]

Nel romanzo, dopo le mutazioni e la semidistruzione dello stato, i cittadini diventano letterati, filosofi, artisti, attori: credi davvero che in presenza di una catastrofe simile l’uomo possa ritrovare sé stesso, anziché scordarsene del tutto e confondersi nel caos che lo circonda?

La mia idea è che quando accade qualcosa di terribile la gente cerca di essere estremamente normale; il governo farebbe propaganda dicendo: «Leggi! Vai al cinema!». Credo succederebbe una cosa del genere. Questo, almeno, è quello che sta succedendo in Giappone. In Prima di scomparire i personaggi attingono alla cultura ma lo fanno in modo molto superficiale, è una “tendenza” di normalità, è anche una parte satirica del romanzo.
In caso di apocalisse, comunque, non credo diventeremmo mostri anche noi.
 


 

(Xabi Molia, Prima di scomparire, trad. di Stefano Lazzarin, L’Orma editore, 2012, pp. 352, euro 14,50)

Soppeso

Da circa un anno svolgo la mia funzione con un tipo diverso. Maschio, sulla quarantina credo. Ho capito subito il tipo: niente fronzoli, tinte unite, un solo piumino ma di quelli pesanti. Dorme nudo, tendenzialmente, non fosse per la magliettina quando fa freddo, ma davvero freddo. Curato nell’igiene, si spazzola persino i capelli prima di dormire. Appartiene alla razza di quelli che non lo dominano, il letto, anzi: se ne sta dal suo lato preferito, sempre il sinistro per chi guarda. Composto. Mi pare il tipo da rituale, ma non maniacale: acqua sul comodino, spesso un libro, non passa mai più di un quarto d’ora tra quando si corica e quando prende sonno. Non si trastulla, a letto: non ci ha mai mangiato, di rado tira tardi al mattino anche se sotto le pezze ci si è messo a notte fonda. Qualche volta (chissà che lavoro fa: in casa, in effetti, ci sta pochino) si concede un pisolino la domenica, dopo pranzo.

Ma io lo sento, che non gli piace dormire da solo.

Qualche volta mi ha ceduto. A dire il vero, sempre alla stessa persona (di norma, gli ospiti li fa dormire sul divano). È talmente garbata che nemmeno la sento, quando si corica. Lei no, non s’abbiocca subito: lei ci sta parecchio prima di dormire. Un paio di volte nemmeno c’è riuscita, povera stella… Ma si sa, le poetesse non hanno animo lieve e cuor leggero. Però poi alla fine ho vinto io (o lui, che l’ha trattata come una principessa e fatta ridere tanto, specie un giorno in cui aveva capito che stava giù giù: mi pare proprio una brava persona, questo tizio), e lei s’è fatta un sonnacchione davvero ristoratore. Al mattino pareva una bimba, tanto aveva il volto rasserenato.

Dicevo che non gli piace dormire da solo. Lo sento, è il mio lavoro in fondo, e di queste cose me ne intendo. Ma non è che ci abbia portato chiunque, eh! In un anno siamo a due. In entrambi i casi, s’è tolto pure la maglietta. Ha gusto, non c’è che dire. Belle donne. Ma non è quello il punto. Cosa combini e con chi, in fondo, sono fatti suoi. Io vedo le cose nella mia prospettiva, e quello mi va di raccontare qua.

Io certe cose le soppeso.

In entrambi i casi le fanciulle hanno preso il suo posto. Quello a sinistra. A lui ha dato fastidio, ma non ha parlato (lo ripeto, è una brava persona…). Il posto a sinistra è senza dubbio alcuno quello del controllo: c’è il comodino dove poggiare il cellulare in ricarica, l’interruttore della lampada, l’acqua… E difatti entrambe avevano un caratterino! Una è praticamente scappata via, all’indomani. Deve essere andato storto qualcosa a livello affettivo, tra loro, perché a me pareva tutto ok (quasi, a dire il vero… ma, ancora, non sono fatti miei) e anche, riferisco la confidenza del lavandino, lei aveva messo il suo spazzolino nell’apposito contenitore accanto al suo (di lui). Non lo fanno tutte. L’altra è stata di più, ma credo lui non le abbia perdonato (sempre silente…) l’aver mangiato a letto. Io sono d’accordo, figuriamoci: sono fatto per dormire, non gozzovigliare. Sa di svacco, ecco. E lui mi pare tipo rigidino, su queste cose. Uniforme ci cova, anche se a vederlo ora pare di più (quante volte la ripete, 'sta storia…) un “malavitoso argentino”.

A me piace questa cosa che nonostante non gli garbi dormire da solo (ne sono certo, ormai) sta molto attento a chi mi fa coricare sopra. Mi pare una forma di rispetto verso se stesso. E anche, non è cosa da poco in questi tristi tempi di egotismi e -lalismi, per me. Il suo materasso.

“Le Prince Noir. Omaggio ad André Héléna” a cura di Alessandro Greco

Le Price Noir (Aísara, 2012) è composto da dodici omaggi ad André Héléna, uno scrittore ancora relativamente poco noto in Italia, e rivalutato solo negli ultimi anni in patria, dove assieme a Malet e Simenon è stato una delle voci più autorevoli del noir francese. L’intraprendente editore sardo Aísara ha da poco portato André Héléna all’attenzione dei lettori italiani, inaugurando, nel 2008, una collana di racconti e romanzi noir in suo onore.

Le Prince Noir rientra in questa collana di omaggi al maestro francese, proponendo dodici racconti di giovani autori italiani ispirati ai lavori di Héléna. Dodici storie legate dallo stesso filo conduttore di omicidi, ricatti, spionaggio e prostituzione, che mantengono però le proprie particolarità e diversità per quanto riguarda l’ambientazione, lo sviluppo e lo stile della narrazione, in cui si alternano altrettanti scrittori. Seppure tutti i racconti siano avvincenti e piene di suspense, è opportuno soffermarsi in modo particolare su alcuni di essi, che si sono rivelati delle scoperte estremamente piacevoli.

Di forte impatto “I clienti del Central Hotel” di Daniela Frascati, che si apre sulla figura di un anziano signore che riceve un invito per una mostra fotografica. La foto sulla locandina, una sala di torture e un uomo di spalle in penombra, fa iniziare un viaggio nel passato, riportando alla mente del protagonista alcuni ricordi sepolti in un angolo della memoria. Un periodo della sua giovinezza fatto di violenza gratuita, di sadismo, ricatti e torture. Questo salto indietro nel tempo si trasforma ben presto in un viaggio fisico per trovare l’organizzatore della mostra, e capire chi sta cercando di mandargli un messaggio e perché. In “Massacro all’Anisette” di Alessandro Greco, troviamo invece una comunissima riunione di famiglia, con i quattro figli che tornano a casa dopo aver appreso che il padre è affetto da una grave malattia. E, come capita in ogni famiglia, ci troviamo di fronte a dissapori nascosti, litigi malcelati, gelosie, tradimenti e perdite premature. Greco riesce a costruire un avvincente thriller in un contesto quotidiano e rassicurante come la famiglia.

Molto coinvolgenteIl Gusto del sangue” di Giovanni Zucca, che tiene col fiato sospeso fino all’ultima riga. In uno scenario di ricatti, riciclo di denaro e titoli al portatore, ricettatori e assassini si muovono in una commovente storia di affaristi, tradimenti, vendette e colpi di scena. È forse il racconto che meglio di tutti rende l'atmosfera “nera” che si respira in tutta la raccolta: «Mio padre diceva che il mondo è un gran barile di merda, coperto da uno strato di miele. Gli esseri umani si lanciano sul miele, e dopo tre leccate sono nella merda».

Il buon Dio se ne frega” di Gianluca Morozzi tratta invece una simpatica situazione dei nostri giorni, in cui al protagonista viene commissionata la stesura di una sceneggiatura basata su un racconto di André Héléna. Si apre così un racconto surreale in cui si susseguono diverse sceneggiature alternative volte ad accontentare sia il produttore sia il pubblico televisivo.

Vita dura per le canaglie” di Claudio Bagnasco, siamo catapultati in un mondo dominato da due fazioni contrapposte che si contendono il territorio. Un contesto abitato da un assassino di professione privo di rimorsi e sentimenti, anche e soprattutto nei rapporti con le donne, di cui vengono tratteggiate con toni scuri la morbosità, la frustrazione, lo squallore e la dannazione.

Uno dei particolari che colpisce maggiormente in questa lettura è il ruolo che le donne svolgono in ogni racconto. I personaggi femminili sono tratteggiati con grande rilievo, e ricoprono un ruolo fondamentale nell’architettura noir, siano esse prostitute, fidanzate, mogli, figlie o mamme. L’apporto della donna in questo ciclo di racconti non è mai statico o di ausilio allo sviluppo del personaggio maschile: la donna si rivela essere sempre in primo piano, protagonista, a ricoprire ruoli forti, cruciali e vivi – sia da assassina che da vittima. Un sorprendente fil rouge in un'architettura noir.


(AA.VV., Le prince noir. Omaggio ad André Héléna, a cura di Alessandro Greco, Aísara, 2012, pp. 288, euro 16) 

“Il flauto magico” di Mozart secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio

Mercoledì 5 dicembre, Teatro Olimpico di Roma. È il debutto della nuova edizione de Il Flauto Magico secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio. La famosa opera di Mozart riletta, smontata e ricostruita da questa Orchestra multietnica, romana di adozione, diretta da Mario Tronco.

Una serata gelida, prendono posto gli ultimi spettatori, giornalisti, musicisti e tanti bambini. Buio in sala, rombo di batteria. Ha inizio il concerto che dura un fiato, un unico respiro. Luci sparate sull’Orchestra, sul fondale appaiono coloratissime immagini, disegnate ad acquerello, che immediatamente riportano all’atmosfera della favola.

È a questo punto che il simpaticissimo narratore (e musicista) cubano ci accompagna a conoscere i personaggi di questa avventura: il giovane e innamorato Tamino, che grazie al ritmo caldo delle sue congas cercherà di conquistare Pamina. Lei ha una voce sottile, rotta e con la sua fedele chitarra canta dolcemente la sua infelicità: è insidiata dallo scuro e perfido Monostatos, che cambia completamente ritmo e con un’aria incalzante e provocatoria, con inflessione arabeggiante, cerca di tenerla legata a sé.  La cattivissima e nera Regina della Notte appare, scompare e veglia su Pamina, per impedirle di lasciarsi andare al solare amore di Tamino. Il suo canto aggressivo, travolgente e acuto, incontra il ritmo lento, ammaliante e riflessivo di Sarastro, che appare come un saggio sciamano, custode della felicità.  In mezzo a loro, di tanto in tanto, fa il suo ingresso trascinante Papageno, la cui prima apparizione è preceduta da uno squillante trillo di cellulare; con i suoi tamburi africani e le sue percussioni sarà fedele amico di Tamino nella ricerca dell’amore.

A fianco ai protagonisti, tanti altri personaggi: le tre dame (viola, violoncello e violino), paggi e giovani fanciulli (basso, contrabbasso elettrico, kora, tablas) e al pianoforte Leandro Piccioni, ideatore – insieme a Mario Tronco – del progetto musicale.

La favola è raccontata in sei lingue e suonata con tempi musicali che vanno dal jazz al mambo, dal rap alla lirica: come se ciascun musicista tramandasse la favola di Mozart in forma orale, con i linguaggi e i suoni della propria cultura.  Un’ora e trenta di ritmi travolgenti e caldi, in cui la partitura e la melodia mozartiane vengono spezzettate e riarrangiate secondo le armonie e la musica tradizionale di dieci paesi del mondo. Un’ora e trenta – appunto – di grande spettacolo, secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio.


Il Flauto Magico Secondo l’Orchestra di Piazza Vittorio
di Mario Tronco
con l’Orchestra di Piazza Vittorio

“Se ti abbraccio non aver paura”: a tu per tu con Fulvio Ervas

Un amore senza limiti e senza confini, quello che racconta Fulvio Ervas in Se ti abbraccio non aver paura: un libro bellissimo, che doveva essere stampato in sole cento copie e che invece è diventato un best seller.
Abbiamo chiacchierato con l’autore di questa bella storia e di molto altro a Più libri più liberi.

 

La storia di Se ti abbraccio non aver paura è una storia vera. È la storia di Franco e Andrea, un padre e un figlio malato di autismo, e di un viaggio in America organizzato e portato avanti con grande coraggio. Che cosa l’ha spinta ad accettare di raccontare la loro avventura? E, soprattutto, a farlo in prima persona?

Non ci conoscevamo. Questo libro può sembrare un omaggio a un amico, a un rapporto padre-figlio che conoscevo, e invece non è andata così. Io e Franco abitiamo in paesi differenti, abbiamo reti umane differenti. Accade che, nel luglio 2010, Franco fa questo viaggio; torna a settembre inoltrato, ha la sensazione di aver fatto una cosa molto importante e decide di raccontare questa esperienza di viaggio ai parenti e ai genitori dei ragazzi che vanno a scuola con Andrea. L’obiettivo, all’inizio, era quello di far capire alle persone più vicine che Andrea non era un pazzerello, non era un ragazzino sciocco e che anzi con lui si potevano fare cose molto belle. Cercava uno scrittore. Un suo amico ci mette in contatto e io, molto curioso, vado là ad ascoltarlo.
Inizialmente non mi colpì molto, mi fece vedere delle foto del viaggio e in quelle foto io vidi due persone normali e temevo volessero un racconto della vacanzina con due frasi belle. Poi vidi Andrea, in questo bar dove eravamo, e fu lui a colpirmi, a coinvolgermi emotivamente: lo guardai e vidi il suo mondo, come se fosse su un ottovolante. Solo allora dissi a Franco, ai tempi ci davamo ancora del lei,«Sì, la ascolterò».
E per undici mesi l’ho ascoltato; tutti i venerdì ero libero dal mio lavoro (sono un insegnante) e lui veniva a casa mia. E per undici mesi l’ho ascoltato, ho raccolto questo diario e poi con calma e in un altro anno ne ho fatto un romanzo.

 

Ieri, nella presentazione del suo libro a Più libri Più liberi, ha usato un’espressione molto bella: ha detto di essere diventato il “padre  narrativoˮ di Andrea e di aver dovuto prestare molta attenzione soprattutto al suo modo di comunicare. Le persone autistiche hanno un modo di comunicare molto particolare, tutto loro. Com’è stato trasferire nel romanzo questo linguaggio e farlo arrivare al lettore attraverso uno strumento, mi permetta il termine, “normaleˮ, come la scrittura?

Siamo nell’epoca dei telefonini e della comunicazione facilitata al massimo. Nelle persone affette da autismo la relazione comunicativa è invece la prima sfida perché è la prima cosa che si inceppa. Ed è una sfida assoluta, in ogni istante. Con Andrea i tempi della comunicazione a cui siamo abituati erano sfasati; a volte improvvisavo, a volte non capivo. Tentavo, ma i codici di comunicazione erano completamente differenti. Il mio sforzo è stato quello di farlo essere comunque presente nel romanzo. Lui fisicamente è molto presente perché ha una grande fisicità, però un romanzo vive di parole, di un “esserciˮ in maniera un po’ più forte, e allora ho usato tutte le poche parole che lui usa e che ho ritrovato nei suoi scritti realizzati con la comunicazione facilitata che il padre mi aveva fornito e che risalivano anche a periodi precedenti il viaggio. Ho selezionato i pezzi migliori e li ho contestualizzati, li ho inseriti nel posto giusto, come si fa in ogni narrazione.
A questi ho aggiunto le poche frasi che Andrea riesce a dire. Se sei bravo a comporre la domanda, Andrea usa un pezzo della domanda per risponderti: «Com’è la giornata oggi?» «Giornata bella». Ma se gli chiedi: «Di venerdì cosa ti piace fare?», lui ti guarda e un po’ annaspa. Senza che gli chiedessi nulla, diceva spesso: «Un po’ sì», anche a sproposito; «Stare in pace», che ha imparato a dire quando vede persone agitate o quando è lui stesso ad agitarli, e «Bello». Attribuisce «bello» a tutte le cose ed è una cosa veramente potente se a dirlo è una ragazzo che ha mezze gambe nella palude dell’autismo. Ho cercato di usare queste tre frasi e di inserirle in un contesto, facendomi aiutare anche da Franco. Gli chiedevo «Ma quand’è che Andrea potrebbe dire “un po’ sìˮ?», e gli ritagliavo, nel racconto di ogni giornata, una sua finestra, un suo spazio.
È stato molto faticoso, ci ho dovuto lavorare.

 

Mi permetto di fare una domanda al Fulvio insegnante. In Follia docente ci parla del mondo della scuola, dell’Impero della Pubblica Istruzioneˮ. Quali sono le nuove difficoltà che un insegnante incontra oggi nel rapportarsi con i propri alunni?

La scuola è un sistema complesso. Ogni tanto dimentichiamo che ottocentomila e più docenti e otto milioni di studenti rappresentano un sistema complesso che oggi vive molte difficoltà per diversi motivi: alcuni riguardano la situazione economica e i tagli che fa il governo, altri invece sono insiti in una generazione che è di per sé complicata. Gli insegnanti italiani hanno in media più di cinquant’anni, sono più vecchi degli insegnanti del resto d’Europa e si trovano, anche qui, ad affrontare un problema di comunicazione perché non hanno lo stesso linguaggio dei loro alunni.
I ragazzi sono educati a leggere poco o a leggere cose molto diverse da quelle che leggiamo noi; la loro formazione è soprattutto visiva, sintetica e avviene in gran parte attraverso il computer. Mentre noi insegnanti siamo ancora lì a parlare, a farli scrivere, a combattere come poveri disgraziati per avere la loro attenzione, ed è  molto più difficile anche solo rispetto a quattro o cinque anni fa. Devi inventarti delle sceneggiate, devi diventare “attore dell’Impero della Pubblica Istruzioneˮ.
La società educa la nuova generazione a modelli mentali velocissimi e visivi, mentre la scuola è in parte ancora analogica, fatta di gesti, di parole. Insegnante e studente rischiano per questo di isolarsi reciprocamente, rischiano l’“autismo socialeˮ. Bisognerebbe lavorare su questo perché la scuola è un’opportunità gigantesca e l’investimento educativo è un investimento sociale collettivo che quando funziona ha una valenza stratosferica. La scuola ce la invidiano gli extraterrestri.

 

C’è un episodio o un personaggio, tra i tanti che racconta e descrive nei suoi romanzi, a cui è legato in modo particolare? E perché?

Un episodio che mi è molto piaciuto è quello di un libro nato da un viaggio che ho fatto in Portogallo con mia sorella. In Portogallo mi è successa una cosa: arriviamo a Cabo da Roca, che è la parte più occidentale del continente, e lì, come poche volte nella mia vita, ho avuto la percezione del limite, la sensazione di essere arrivato. Lì, fermo davanti all’oceano, ho capito la finitezza; non quella della morte, ma quella delle cose che viviamo, che finiscono e non puoi farci niente ed è comunque bello così perché è bello essere arrivati, aver attraversato e aver vissuto.
Partendo da questa sensazione un po’ malinconica e un po’ romantica ho scritto Succulente, che è la storia di un uomo che viene ucciso per sbaglio; il narratore gli concede di indagare sul perché è morto e lui scopre che è stata, banalmente, colpa del caso. Grazie alla scoperta dell’essere morto per caso, e forse si muore quasi sempre per caso, lui riattraversa una serie di relazioni che ha avuto e luoghi bellissimi che ha già vissuto, ma che rivive con una nuova sensibilità. Uno in particolare è la serra delle piante grasse di Lisbona, che è un posto spettacolare. Se uno crede che esista un dio deve andare lì. Lui lì vede la bellezza e percepisce la forza delle piante grasse, le Succulente appunto, che è quella di adattarsi comunque ed è un po’ quello che dovremmo fare anche noi. Anche quando va malissimo, con un po’ di energie ci si può adattare, si può andare oltre.
Mi è piaciuto raccontarlo. Mi pare che esprima come io viva la vita. Sono convinto che voliamo tutti basso, che la vita è un bellissimo salire e scendere: quello che possiamo fare in questo salire e scendere è godercelo e non lasciare il posto più sporco di come lo abbiamo trovato. Se riesci a fare questo e a capire questo vivi bene. Se non ci riesci ti affoghi, ma si può provare. E io sarei per provare.

 

Un libro che ama e uno che invece non è mai riuscito a finire?

I libri che non finisco sono tantissimi. Non è una mancanza di rispetto, ma sono dell’opinione che la vita è breve e da ogni libro che leggo voglio imparare il più possibile quindi quando vedo che un libro non mi insegna nulla passo a un altro libro.
Per questo leggo pochi romanzi e molti saggi scientifici. In questo periodo sto leggendo libri di chimica: sto leggendo Il cucchiaino scomparso, prima avevo letto Favole periodiche.
Un romanzo che ho letto da poco e che mi è molto piaciuto è Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson, edito da Sellerio. Parla di un uomo che va in Siberia sul lago Bajkal ed è un libro sulla solitudine, quella positiva, che si sperimenta quando vuoi stare con te stesso perché hai molto da dirti. E scopri, come solo in solitudine puoi fare, se ti ami o meno.
Ha uno sfondo naturale ruvido, bellissimo, silenzioso e c’è un uomo che va lì con poche cose e riesce a stare bene. Stare da soli è difficile quando non hai nessun rapporto con te, quando hai un buon rapporto con te da solo stai bene.

 

Nel ringraziarla per la disponibilità e per la cortesia, un’ultima domanda sui progetti per il futuro. Qualcosa bolle in pentola?

Questo è un periodo intensissimo, sono sette mesi che giriamo l’Italia, io e Franco. Siamo contenti, siamo stravolti. Era un successo che non ci aspettavamo, perché non è di quei successi creati artificialmente con un investimento. Franco voleva stampare cento copie; sono stato io a realizzare che questa storia bellissima doveva essere raccontata a tutti i genitori, non solo a quelli che conoscono Andrea o che hanno ragazzi disabili, e alla gente che ama la vita, che ama la sfida.
Sto cercando molto faticosamente di lavorare a un altro giallo; torno al mio ispettore Stucky, che attualmente è in Dalmazia in un campeggio naturista. Sto scrivendo anche un altro libro su un gruppo di ragazzini che cerca di rubare il posto a degli anziani in una bellissima villa con un bellissimo giardino. Sarà un conflitto generazionale tra giovani e anziani e sarà metafora di una vita ormai consumata che non sempre lascia spazio alla vita che invece preme. Una cosa che non riusciamo a governare che diventa realtà in uno scontro spesso inutile e spesso sanguinoso, stupido. Sarà un libro contro la stupidità, spero. Se riesco a finirlo (sorride, ndr).

 

Buona fortuna allora e grazie ancora da Flanerí.

 

(Fulvio Ervas, Se ti abbraccio non aver paura, Marcos y Marcos, 2012, pp. 319, euro17)

Andrea Antonello ha anche un sito internet, dove i genitori raccolgono i suoi pensieri e le sue creazioni artistiche. Lo trovate a questo link: http://www.andreaantonello.it/ 
Vi consigliamo inoltre la visione di questo documentario fotografico sul viaggio in America di Franco e Andrea, che contiene anche alcune citazioni dal libro di Fulvio Ervas.

 

 

La collana Cronache di frontiera di laNuovafrontiera

Scrive Alessandro Leogrande nella prefazione a Operazione Massacro, dello scrittore argentino Rodolfo Walsh: «C’è una terra di mezzo tra letteratura e giornalismo. I nomi per definirla si sprecano: non-fiction, new journalism, nuevo periodismo, giornalismo narrativo, reportage, inchiesta letteraria… I percorsi e gli autori – non solo europei e nordamericani – sono molteplici. Difficile stabilire un canone, difficile ricondurre in un unico alveo i diversi approcci alla Storia e alle storie, alla realtà e alla sua narrazione. Di sicuro, però, ci sono dei libri che stabiliscono i confini del genere, dei modelli talmente fulgidi da apparire altissime torri». È proprio in questa zona d’ombra, indefinita e forse ancora indefinibile, che si inserisce Cronache di frontiera, la collana che la casa editrice laNuovafrontiera ha deciso di dedicare interamente al giornalismo narrativo.

Narrazioni giornalistiche, dunque, che richiedono una precisione chirurgica nella ricerca e nella verifica delle fonti, e insieme una sensibilità tutta letteraria nell’uso del linguaggio e delle strutture narrative. Giornalismo d’inchiesta, che tuttavia si legge come un romanzo. Apparentemente qualcosa di caotico, una massa magmatica e informe. Nei fatti, la semplice volontà di proporre un certo tipo di sguardo sul mondo. Abbiamo fatto due chiacchiere con Francesca Bianchi, curatrice insieme a Lorenzo Ribaldi della collana, che ci ha svelato come è nato il progetto: «Nel 2008 vivevo in Spagna e mi capitò di leggere nel supplemento Babelia un articolo dedicato al giornalismo narrativo in America Latina. Lo trovai molto interessante e pensai che in Italia una cosa del genere sarebbe stata utile quanto impossibile. Qualche tempo dopo trovai in libreria uno dei libri che venivano citati in quell’articolo, Sexografías di Gabriela Wiener. Dopo averlo letto ho capito che non era solo utile ma necessario e così ho studiato e letto molto e ho iniziato a proporre il progetto a varie case editrici italiane. laNuovafrontiera, che stava elaborando un’idea simile, ha subito accolto la mia proposta».

Come sapete, l’obiettivo di DietroLeQuarte è scoprire, per ogni editore, quel qualcosa in più, quel quid che lo rende assolutamente inconfondibile nella marea editoriale che giornalmente si riversa in libreria: in questo caso non potevamo che occuparci di Cronache di frontiera, la scelta più innovativa di un editore da sempre teso alla ricerca: «seguiamo le novità di questo genere letterario sul mercato editoriale in lingua spagnola e portoghese, ma non solo. Cerchiamo di dare spazio sia alla tradizione (Rodolfo Walsh, Alma Guillermoprieto) sia alle nuove voci che si stanno alzando dal continente (Gabriela Wiener) e che hanno suscitato un rinnovato interesse per questo genere letterario».

Inaugurata circa un anno fa, la collana raccoglie la lezione di Truman Capote, Tom Wolfe, lo stesso David Foster Wallace, filtrandola con le successive contaminazioni latinoamericane: un nome su tutti è quello di Gabriel García Márquez, senza dimenticare poi figure come Juan Villoro e Martín Caparrós, attualmente tra i maggiori portavoce del genere. Un genere, quello delle crónicas, che rispecchia più che mai la contemporaneità. Come le informazioni e la quantità di stimoli ai quali siamo quotidianamente sottoposti si sono fatte molteplici e sempre meno definibili, anche le modalità di narrazione del reale si sono trovate a ibridarsi tra loro: «Le nostre cronache sono un genere ibrido, mutante, composto da ingredienti tipici del romanzo, del reportage giornalistico, del racconto, del saggio… che “mescolati” insieme danno vita a un testo che va oltre la mera rappresentazione della realtà. Una realtà che esplora frontiere sconosciute: quelle tra nazioni, quelle interne alle grandi città, ai piccoli paesi. Le Cronache di frontiera attraversano frontiere geografiche e letterarie».

Il tutto rientra però con impeccabile coerenza nel progetto fondante della casa editrice: l’interesse per la letteratura di lingua spagnola e portoghese, con una particolare attenzione all’America Latina.

Andiamo quindi a scoprire i titoli che hanno animato il primo anno del progetto.
Cronache di frontiera non poteva che aprire i battenti rendendo omaggio a uno dei maestri e fondatori del genere del giornalismo narrativo: Rodolfo Walsh, con l’indimenticabile testimonianza di Operazione Massacro. Pubblicato nel 1957, il libro racconta l’inchiesta svolta dall’autore in seguito all’uccisione di un gruppo di civili innocenti ad opera della giunta militare golpista. Un pezzo di storia che brama per venire alla luce, e che costerà la vita al suo autore, tingendosi oggi di una nuova attualità.

Segue Cronache da un continente che non c’è, volume che raccoglie i migliori reportage sull’America Latina scritti da Alma Guillermoprieto dagli anni Ottanta a oggi. Messicana trapiantata negli Stati Uniti, la Guillermoprieto si dedica da più di trent’anni a raccontare il suo continente ai lettori statunitensi, affrontando le tematiche più varie: dalle figure di Fidel Castro ed Evita Perón alla parabola di Sendero Luminoso in Perù, fino alle incursioni nella politica di Mario Vargas Llosa.

Terzo e più recente titolo della collana è Corpo a corpo di Gabriela Wiener, che vi avevamo già introdotto qui, e che contiene tredici brillanti «storie di giornalismo gonzo», che indagano gli aspetti meno esplorati delle società latinoamericane e non solo. Tra carceri, locali per scambisti e le profondità della selva amazzonica, la Wiener scioglie una serie di tabù sulla concezione del corpo, del sesso e della donna, testando sulla propria pelle tutte le situazioni di cui poi scriverà.

Le novità però non sono finite: «in questo momento stiamo lavorando a un libro che ha tutte le carte per diventare un caso editoriale, un “libro che scotta”, ci anticipa Francesca. «Questo libro è un esempio perfetto della qualità letteraria del giornalismo narrativo, scritto da un giovane giornalista che è degno erede di Rodolfo Walsh, e come tale verrà promosso, senza gonfiare il caso perché non è necessario». 

Non vediamo l’ora di scoprire di che cosa si tratta, e di tenervi aggiornati sulle prossime uscite. Nel frattempo, grazie a Francesca Bianchi per le anticipazioni.

Tempo di bilanci: Mid Season 2012.

Quando si avvicina il Natale non vanno in vacanza solo le persone, ma anche gli show televisivi. Come sempre succede, molte serie ci hanno già salutato dandoci appuntamento al prossimo autunno, altre non sanno starci lontano e dopo un po’ di meritato riposo torneranno nelle prossime settimane, o nei prossimi mesi. Alcune, purtroppo, devono dirci addio dopo gli annunci dei vertici dei canali delle loro cancellazioni.

Partiamo subito dalle note dolenti di questo autunno televisivo americano: i due nomi che hanno ricevuto la triste notizia sono Last Resort e 666 Park Avenue, entrambi appiedati dalla ABC. La rete ha avuto però il buon senso di avvertire per tempo (le conferme delle cancellazioni sono arrivate circa a metà stagione per entrambi gli show), in modo tale da non lasciare, come spesso capita, due serie televisive senza una degna conclusione per soddisfare le esigenze del pubblico. Rimane il dispiacere, soprattutto per 666 Park Avenue, un prodotto interessante e piuttosto ben realizzato, nonostante fosse passato un po’ in sordina, con una trama che si faceva sempre più fitta e intrigante col passare delle settimane e un Terry O’Quinn nel ruolo di Gavin Doran sempre sulla cresta dell’onda con le sue grandi interpretazioni.

Per parlare di tutti gli show (all’esordio o già ben avviati) andati in onda in questi mesi ci vorrebbe veramente troppo tempo, per questo cercheremo di fare una panoramica generale senza soffermarci troppo su show già presentati su Flanerí e di grandissimo successo. È il caso di Breaking Bad e Fringe, le cui quinte stagioni (in entrambi i casi saranno anche le ultime) sono iniziate tra luglio e settembre e stanno tenendo incollati allo schermo i fan che per tutti questi anni si sono appassionati e tra pochi mesi dovranno colmare il grosso vuoto che questi due colossi lasceranno. Sempre in questo lasso di tempo abbiamo potuto seguire i successi della prima stagione di Perception e la seconda di Hell On Wheels, due dei successi di questo autunno, prevedibilmente rinnovati per il prossimo anno, come anche Copper.

Menzione a parte va fatta per Revolution, uno show anomalo in questo autunno televisivo: inizialmente lanciata come una serie da 13 episodi ha visto un rinnovo in corsa per altre 9 puntate che avrebbero concluso la prima stagione visto il successo di pubblico. A differenza di altri show in questo caso ci siamo trovati di fronte al primo flop dell’anno, vista la piega presa da una trama nata come interessante ma a tratti sviluppata male, con una realizzazione che ha fatto storcere il naso a diversi spettatori (siamo passati da continue morti di personaggi più o meno importanti nella prima parte a un alone di immortalità nella seconda con i protagonisti mai colpiti da un proiettile tra le migliaia sparati dai soldati della milizia, da un eccesso all’altro) . Il decimo episodio, che ha segnato il finale di mid-season, ha riportato una flebile speranza per il futuro dopo aver relativamente rialzato il livello della serie, ma rimangono i rischi legati a quanto visto in precedenza. Al contrario, i complimenti vanno fatti ad uno show come Misfits, giunto alla quarta stagione, abile a resistere alla dipartita di Robert Sheehan (sullo schermo Nathan Young), forse l’attore più apprezzato tra tutto il cast, sostituito brillantemente da Joseph Gilgun (già visto in This Is England). Non è da tutti riuscire a cambiare diversi personaggi tra terza e quarta stagione e riuscire comunque a tenere vivo l’interesse degli spettatori, spesso affezionati ai loro beniamini dopo tutto questo tempo. Altri rinnovi importanti hanno riguardato Homeland e soprattutto Boardwalk Empire, il prodotto di Terence Winter che continua a riscuotere i complimenti da parte del pubblico e della critica.

Guardandoci indietro abbiamo trovato però una piccola lacuna, legata all’assenza delle serie comedy, una fetta di mercato sempre più grande per la televisione. L’elenco di questa categoria di show sarebbe lunghissimo e spesso si è assistito alla loro cancellazione, vista anche l’immensa concorrenza da affrontare.
Chi non corre questi rischi è Modern Family, da diversi anni premiata come migliore comedy agli Emmy Awards. Realizzata come se fosse un documentario, la serie ci mostra su schermo le divertenti vicende della famiglie del patriarca Jay Pritchett , della sua nuova moglie colombiana Gloria e dei figli Claire (sposata con tre figli) e Mitchell (un avvocato gay che convive col compagno Cameron; insieme hanno adottato una bambina). Un nucleo familiare assolutamente originale che si è portato dietro un successo difficile da replicare.

Prova a spodestarlo The Big Bang Theory, la storia di 4 nerd, fisici o ingegneri di grande intelligenza, impegnati a rapportarsi con Penny, la loro nuova vicina, una bella bionda che farà vacillare alcuni di loro e darà il via alla lunghissima sequenza di eventi caratterizzanti questo show. Dopo 5 stagioni però, la serie sembra aver perso un po’ di mordente e di quella brillantezza propria delle prime stagioni, nonostante risulti ancora godibile e divertente, e sembra difficile possa superare Modern Family.

È improbabile che ci riesca How I Met Your Mother, giunto all’ottava stagione e ormai fuori dal giro delle nomination agli Emmy da diversi anni. Nonostante tutto però questa comedy ha mantenuto un certo livello lungo l’arco delle ormai otto stagioni, lasciando tutti i fan col fiato sospeso in attesa di sapere chi sarà la moglie di Ted Mosby, uno dei protagonisti dello show. Nonostante questa fosse destinata ad essere l’ultima stagione si parla insistentemente di un possibile rinnovo per una nona (in questo caso però sarebbe sicuramente quella conclusiva).
Prima di partire a nostra volta per le vacanze vi diamo appuntamento alla prossima settimana: anche Flanerí vi proporrà i suoi personali Awards riguardanti questa prima metà di stagione. State sintonizzati!

(Nota: Cliccando sui nomi delle serie sottolineate in questo articolo, verrete linkati alle nostre presentazioni delle scorse settimane).

“Ho battuto Berlusconi!”: a tu per tu con John Graham Davies

Ho battuto Berlusconi! di John Graham Davies (66thand2nd, 2012), è un brillante monologo teatrale che unisce con verve comica calcio, politica e società, nonché, in qualche modo, Inghilterra e Italia. Kenny Noonan, il protagonista, ci racconta più di vent’anni di tifo sfegatato per i Reds, sullo sfondo di una Liverpool ribelle, dagli anni ’80 segnati dal thatcherismo fino a oggi. Calcio e politica sembrano suscitare gli stessi sentimenti popolari, forti e irriverenti, in un contesto in cui lo sport appare come l’unico riscatto da una vita quotidiana dominata dal grigiore del lavoro e dei doveri familiari.
In occasione di Più Libri Più Liberi, siamo riusciti a incontrare l’autore e a farci raccontare il percorso che ha portato il testo di Beating Berlusconi! a diventare un libro proprio in Italia, dove resta inevitabilmente attuale.


Prima di tutto, parliamo della genesi del testo, che non è stato espressamente creato per farne un libro. Come si è passati dal teatro alla carta?

Com’è diventato un libro? Be’, abbiamo portato lo spettacolo a Londra, durante i mondiali, due anni fa, e un italiano, Pietro, il traduttore, venne a vederlo e mi propose di pubblicarlo in Italia con la prospettiva di rappresentarlo anche qui, prima o poi. È un monologo teatrale, ma è strutturato come se qualcuno stesse parlando con il lettore e gli raccontasse una lunga storia.


E la cosa particolare è che in questa forma è stato pubblicato prima in Italia che in Inghilterra. Non siamo soliti avere certi primati: avete intenzione di pubblicarlo anche in Inghilterra come libro?

Be’, in realtà ci ho lavorato ed è diventato un romanzo, praticamente tre volte più lungo, e più complesso della versione teatrale. Questo è proprio il copione dello spettacolo, mentre in Inghilterra lo pubblicheremo come romanzo.


Ecco, stavo appunto per chiederle se stesse progettando di dedicarsi alla narrativa, oltre che alla scrittura teatrale…

Sì, be’, ecco la risposta. Beating Berlusconi! è diventato un romanzo, ma normalmente lavoro per il teatro, prima facevo anche l’attore. Sono venuto in Italia con un mio collega, con cui sto scrivendo al momento. Stiamo lavorando a un progetto proprio in questo periodo, e incontreremo domani una professoressa italiana che insegna all’Università di Bari ed è un’esperta nell’area che ci interessa. Quindi posso già anticipartelo, per il prossimo progetto mi dedicherò nuovamente al teatro.


Bene, passiamo al libro in sé e per sé: i due temi principali sono evidentemente lo sport e la politica, che suscitano in Inghilterra come in Italia le reazioni più forti. Com’è nata l’idea di unire questi due grandi filoni nello stesso testo?

Dunque, tutto è nato da una storia vera che ho sentito, di questo tizio a cui era capitato di sedersi accanto a Berlusconi durante la finale di Champions del 2005, a Istanbul. Io lo conoscevo appena, aveva un negozietto da calzolaio e duplicazione chiavi a Liverpool, dove ho vissuto per un po’, e ogni volta che passavo parlavamo di calcio. La sua storia era ottima, ma non era che un semplice aneddoto sul calcio, quindi ho deciso di guardare più in profondità la gente e la personalità della città di Liverpool. Io non sono di lì ed è una città davvero interessante e caratteristica. Quindi ho iniziato a pensare a come avrei potuto usare quell’aneddoto di Istanbul trasformandolo in una sorta di climax all’interno di una storia sulla città e la politica della città.


Impossibile non chiederlo: cosa c’è di vero e cos’è inventato nella storia di Kenny, il protagonista?

Questa è una cosa che mi chiedono sempre dopo gli spettacoli. E la verità è che sì, quel tizio è riuscito a entrare nell’area riservata del Milan con addosso la sua maglietta del Liverpool, si è seduto accanto a quest’uomo con i capelli neri e un abito molto elegante, e questo ha iniziato a prenderlo in giro sul fatto che stessero perdendo 3-0, ma lui non si è reso conto che si trattava di Silvio Berlusconi, perché nella realtà non si interessa granché di politica. E Berlusconi faceva tutto il gradasso perché stavano vincendo. Poi però il Liverpool ha cominciato a rimontare, e tutti gli uomini del Milan, nei loro bei vestiti eleganti, hanno smesso di ridere, si sono fatti più seri e alla fine l’hanno cacciato fuori. E poi è finito davvero a vedere i supplementari e i rigori nella zona vip del Liverpool. Una cosa incredibile, da allora in città è famoso per questa storia.


Tornando alla politica, è stato difficile inserirsi così in profondità nello spirito della città e nelle posizioni politiche di Kenny, il protagonista?

Be’, no. Diciamo che tratto la politica in tutto ciò che faccio, sono sempre stato un uomo schierato politicamente, di sinistra, quindi non mi risulta particolarmente difficile esplorare questa tematica. In fondo, è ciò che più mi interessa: il modo in cui viviamo le nostre vite, piuttosto che raccontare una storia qualunque. Ciò che ho cercato di fare in Ho battuto Berlusconi! è stato portare in scena la politica con una commedia.


Non ho visto lo spettacolo, purtroppo. Il libro, però, funziona come tale, si ha fisicamente l’impressione di essere trasportati a Liverpool, e la scrittura regge di per sé. Scrivendo, qual è stato il peso dato alla parte attoriale?

Grazie, è una cosa per me molto importante perché come dicevo non sono di Liverpool, ho dovuto fare molte ricerche sulla città e sul modo di parlare tipico della zona, eccetera. Sapere che ciò che viene fuori è un’impressione realistica della città è la cosa migliore che posso sentirmi dire.
La parte attoriale è stata molto importante anche a livello di scrittura. Come dicevo prima, sono stato io stesso un attore, e ho interpretato spesso monologhi, quindi tendevo a ripensare e rielaborare le tecniche che ho utilizzato in prima persona in passato. Tuttavia, nello spettacolo la parte audiovisiva di sfondo ha un ruolo importantissimo, è come avere un altro personaggio sul palco: la personalità stessa della città di Liverpool. L’attore reagisce a ciò che vede e sente sullo schermo, quindi non è completamente isolato, e lo spettacolo acquista un’ulteriore dimensione teatrale.


Un’ultima domanda, pensate di portare lo spettacolo anche in Italia? Come crede che verrebbe accolto?

Be’, credo che portare la versione inglese sarebbe impossibile: nessuno capirebbe nulla, perché l’attore ha un fortissimo accento di Liverpool, però sarebbe bello adattarlo per l’Italia. Sarei molto curioso di vedere come reagirebbe la gente, perché sono sicuro che funzionerebbe, lo spettacolo racconta tante esperienze che Italia e Inghilterra hanno condiviso: l’effetto del libero mercato, la disoccupazione… [sorride, ndr]


(John Graham Davies, Ho battuto Berlusconi!, trad. di Pietro Deandrea e Marco Ponti, 66thand2nd, 2012, pp. 114, euro 10)

“Digital Life 2012 – Human Connections” al MACRO

Fino al 16 Dicembre, la Fondazione Roma Europa porta in scena la terza edizione di Digital Life, in partnership con Telecom Italia, promossa dalla Regione Lazio e realizzata insieme a MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, manifestazione in cui cinema, arte, musica, visual design e danza tentano un colloquio e un’interazione, che si declina in varie sfaccettature, in relazione alle differenti sensibilità degli artisti ospitati.

Entrando nell’ex mattatoio di Roma, lo sguardo viene subito attratto dall’immensa scultura “Big Bambù” di Doug e Mike Starn, che si staglia all’ingresso della Galleria delle vasche ed è formata da lunghissime aste di bambù – tanto che per vederne la fine bisogna alzare totalmente lo sguardo al cielo – intrecciate tra di loro, come a formare un fitto groviglio di rami che, tuttavia, permette ugualmente la percezione degli spazi retrostanti.
 


Proseguendo ci si accorge che è la danza a occupare il posto principale nella rassegna: la si trova nelle installazioni di Jan Fabre e della coreografa Lisbeth Gruwez; nelle lezioni di William Forsythe, in cui velocissimi esercizi di una compagnia vengono inscritti dentro segni geometrici tracciati nello spazio; in “The Rite of Spring” di Katarzyna Kozyra, che si articola su sette pannelli (quattro esterni a formare un cerchio e tre concentrici all’interno), occupando tutta la parte finale del corridoio del Museo, e che rappresenta i movimenti velocizzati di alcune figure nude, ispirati alla Sagra della Primavera, coreografata da Vaslav Nijinsky e musicata da Igor’ Stravinskij; al piano superiore, nei sei schermi su due pareti parallele, a cura di Cristina Rizzo e del fotografo Piero Tauro; nella contemporaneità dei film di Zbig Rybczynski e soprattutto nell’ossessività dei movimenti di “Until the End” dei Masbedo, in cui appare il lato crudele della danza, quello che ha come scopo l’innalzamento dei piedi da terra e che, per ottenere questa sublimazione, richiede dolore, perseveranza ed esercizio.

Nell’ambito dei rapporti umani invece, colpiscono i sogni delle quattro bambine portate in scena da Shilpa Gupta, il quadro fiammingo vivente di Lech Majewski e l’installazione di Ciriaca+Erre, in cui una ragazza piange disperatamente davanti al computer, oggi specchio di molte anime umane, concretizzando le teorie di Marshall McLuhan sulla galassia Gutenberg – oggi galassia Personal Computer – e sul villaggio globale: l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e l’avvento del satellite hanno reso nulle le distanze, facendoci sentire parte di un “piccolo” villaggio.

Ma durante tutta la mostra, niente attira l’interesse del visitatore più dell’opera di Marina Ambramović, sia per quel blu Klein che fa da sfondo al suo video, sia per l’inquadratura così ravvicinata da creare una relazione diretta con gli occhi di chi la guarda. Da quando è finita l’epoca della macchina ed è iniziata quella del corpo performativo, l’artista indaga a fondo i limiti della natura umana e la sua tela è inevitabilmente il suo corpo, al quale cerca, di volta in volta, di far percorrere territori sconosciuti, «perché è questo ciò che conta». In “Insomnia” balla sulle note di un tango, sembra sola, ma in realtà è con la sua ombra, mentre in “The Onion”, come una Madonna postmoderna, compie un atto apparentemente banale, come può essere mangiare una mela, sostituendo però il frutto con una cipolla, il che carica il video di una forte tensione, che culmina con il malessere e il pianto dell’artista, la quale, tuttavia, continua a cibarsene. In sottofondo, come un’eco, si sente il manifesto di questo disagio: la Ambramović è stanca dei continui viaggi, delle infinite attese nelle stazioni o negli aeroporti, delle asettiche camere d’albergo, di doversi vergognare dei suoi difetti fisici e vuole andare lontano, vuole diventare così vecchia che niente abbia più importanza, vuole smettere di volere.
 


Il percorso espositivo prosegue, poi, nell’Ex GIL di Luigi Moretti, che accoglie il visitatore, all’esterno, con un forte neon verde e che si spoglia della sua rigidità architettonica per ospitare la sezione più fresca, innovativa e interattiva di Digital Life.

Con “Naturalis Historia” degli Apparati Effimeri, assistiamo a una vera e propria nascita tridimensionale della natura: attraverso video, audio e luci, si vedono germogliare le foglie, si sente il vento tra le fronde degli alberi e ci si dimentica, per qualche minuto, di essere dove si è. Poi la flora lascia il posto alla fauna, in “Orienta: è qui ora, che decido di fermarmi” dei Quiet Ensemble, in cui la riflessione sui tracciati della vita è affidata a delle lumache, che giacciono immobili alla fine dei loro percorsi.

Infine, nell’opera degli Overlab Project, spostando un cubo, si può decidere che espressione dare ai volti dei personaggi proiettati sulla parete di fronte alla postazione di controllo, e nell’ultima installazione, quella di Francesca Montinaro, con un analogo meccanismo, si ha la possibilità di gestire l’audience, disposta a tribuna, a proprio piacimento.

E se, citando Antonioni, «sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima», in questa intensa e irrequieta esposizione, figlia del complicato periodo storico in cui vive, il visitatore ha l’arduo compito di tentare di sollevare il pesante velo di Maya, che gli impedisce di cogliere la vera realtà contemporanea. Perché la vita digitale è anche condivisione, omologazione, arresa delle masse di fronte a un ipotetico dittatore – in questo caso l’osservatore – che può arrivare a gestire l’emotività del suo pubblico virtuale, può metterlo in pausa, può comandargli di ridere, di rifiutare, di dissentire, di ascoltare, di mettere in dubbio e di applaudire; ma, nel frattempo, nel fare questo, egli stesso sarà sempre osservato.

 

Digital Life 2012 – Human connections
Macro Testaccio, Piazza Orazio Giustiniani, 4, Roma.
Ex GIL Trastevere, Largo Ascianghi, 5, Roma.
Opificio Telecom Italia, Via dei Magazzini Generali, 20°, Roma.
15 Novembre 2012 – 16 Dicembre 2012

Ulteriori informazioni:
http://romaeuropa.net/
http://www.museomacro.org/it/digital-life-human-connections

 

“Achille nella terra di nessuno” di Sergej Roić

Achille nella terra di nessuno, edito da Zandonai, è un libro snello e accattivante che fa buona mostra di sé all’interno della collana I piccoli fuochi dedicata alle narrative contemporanee in prevalenza provenienti dai paesi dell’Europa orientale e, in particolare e soprattutto, dalla ex Jugoslavia.

La prima di copertina rappresenta in maniera sintetica ma efficacie il contenuto di questo piccolo volume: il “Planet Soccer Field” di Jeff Mertens si accompagna a una citazione estratta dal testo: «L’anima del mondo è l’essenza del gioco. Il gioco è il più bel gioco del mondo». Si intuisce quindi immediatamente che si parla di calcio, di spiritualità e di terra, mentre è solo pian piano che si scopre che sotto il livello narrativo traspare un vero e proprio esperimento di filosofia platonica, ovvero la generazione di un mito attraverso immagini, intese sia come essenziali componenti della struttura, lontana dalla logica per capitoli, di questo testo, sia come allegorie che semplificano la comunicazione dei concetti e invitano alla riflessione.

Ahil Dujmović è un giovane calciatore, “bello e buono” (come dicevano i greci), che nasce in Jugoslavia negli ultimi sfolgoranti anni che hanno preceduto il prefisso ex. Le prime immagini ci raccontano eventi che hanno concorso alla nascita del nostro eroe-protagonista: un padre con le ali ai piedi e una madre filosofa recano in dono al figlio i propri talenti oltre alla memoria di un fratello mai nato e all’amicizia di un maieuta di nome Mikula. Come gli eroi greci, forte dei suoi diciassette anni, Ahil sostiene le magnifiche sorti della nazionale jugoslava tirando (e segnando) ai quarti di finale di Italia ’90 il primo dei rigori contro l’Argentina di Maradona. Con abilità sorprendente Roić riesce a condensare in due pagine una potente passione per il calcio e, contemporaneamente, a ricreare un’atmosfera omerica in cui Ahil ricorda Achille che sorregge sulle sue spalle il destino degli Achei.

Nulla può, però, l’eroe contro le Moire e Atropo, nel 1991, recide il filo che teneva insieme la terra degli slavi del Sud, così il calciatore, nostalgico della sua nazionale/nazionalità, pur continuando a calciare la palla, si iscrive alla facoltà di filosofia, ossimoro che acquista senso solo se lo si legge codificato nel linguaggio della Grecia classica. Gli anni dell’università di Ahil sono concitati quasi quanto la vita della Jugoslavia che si sta disgregando. Si innamora appassionatamente di alcune donne con le quali e per le quali viaggia attraverso l’Europa, diventa un eroe in prestito, fedele solo al colore blu che, come le madeleine di Proust, gli consente di recuperare la memoria delle sue radici, e, alla fine, si rende colpevole di un atto vergognoso che lo condanna all’oblio, dal momento in cui la sua eroica condizione di esemplarità si perde.

Incastonati nella narrazione troviamo due doni di Roić al lettore. Da un lato un glossario puntuale che fornisce definizioni brevi e concise dei concetti di riferimento di ciascuno dei sei quadri in cui è suddivisa la vicenda, permettendo anche al lettore più arrugginito di muoversi agevolmente tra le pagine. Dall’altro un racconto intitolato “Mille anni dopo” che viene offerto in due parti, la prima in onore alla madre di Ahil, coautrice dello stesso per finzione letteraria, la seconda a conclusione della vicenda, come ideale punto di approdo di una riflessione che ricalca l’ideale politico platonico, ma che si aggiorna e acquisisce, proprio nel guardare a un possibile futuro, un’aria sinistra.

Achille nella terra di nessuno è un libro colto che nella sua brevità lascia al lettore una sensazione di compiutezza e soddisfazione, un libro che comunica una passione intellettuale per la vita forte tanto quanto la sofferenza e la nostalgia lasciate dall’ultima grande guerra europea, un libro fatto per lettori che non temono la sfida di tornare a confrontarsi con la filosofia e rispolverare conoscenze acquisite e troppo facilmente dimenticate, sicuri di essere guidati dalla mano di un autore che è capace di riconoscere i tratti dell’eredità della Grecia in un presente grigio.


(Sergej Roić, Achille nella terra di nessuno, Zandonai, 2012, pp. 168, euro 12)

“Il mio regalo sei tu” di Sarah Spinazzola

Diciotto anni sono un soffio. Appena il tempo di disobbedire e imparare a camminare. Per accorgersi che accanto non c’è più nessuno a erogare monosillabi. Che non c’è neanche un “no” a cui voltare le spalle.

Poi ci sono storie ancora più difficili. Ce lo dimostra la protagonista del primo romanzo di Sarah Spinazzola Il mio regalo sei tu. Lidia poco prima del 2000 ha raggiunto la soglia, lo ha fatto in fretta, forse più di altri coetanei. Perché il suo stagno era angusto, un’adolescenza stretta, inospitale, da cui è preferibile uscire alla svelta. E la maggiore età è piombata all’improvviso. Maggiore poi rispetto a cosa? Verso ciò che è stato o verso ciò che seguirà?

Lidia è cresciuta senza un padre, con una macchia grande quanto il suono del suo nome. È cresciuta nella sua casa spellata, tra mura malconce, con le porte per anni senza maniglie, gli asciugamani lontani dal bagno e un letto fraterno in cui spegnere i pensieri. Con una madre che si è sdoppiata tra mille sudori, che ha fatto il possibile per nutrirle il cuore e non avvelenarlo di accuse moleste, di domande spezzate. E poi, nel bel mezzo di una vita placida, abituata così tanto a se stessa, a sentirsi timida e piccola, quella faccia sconosciuta eppure così simile compare su uno schermo. Suo padre Gian è il conduttore del Tg, parla fluido e sicuro per milioni di persone e a lei non ha mai chiesto: «Come stai?» E allora Lidia ha voglia di ripescarlo da quel silenzio cementato. Decide di  cercarlo e lui sembra aver saputo proprio in quell’esatto momento di avere una figlia. Sembra cambiato, si è innamorato davvero. Si è aperto agli affetti, anche a quelli lasciati ammuffire. Sembra finalmente aver posto anche per lei nel bagaglio delle cose da fare, dei luoghi in cui andare. Lidia scalcia per salire a bordo. Non vuole più seppellire il cuscino di lacrime, non vuole più pensare di non avere diritto all’amore, guardare un bambina che corre verso il papà con un foglio in mano e struggersi per la risposta: «Il mio regalo sei tu». Come se fosse un film a cui si può solo assistere inerme. Pagando il biglietto a debita distanza. Gian è pronto per accoglierla, salvo poi stroncare bruscamente le chiamate non appena qualcosa lo infastidisce un po’. Lidia vorrebbe partire con lui, vorrebbe una vacanza con suo padre, la prima da quando ha memoria e invece, sotto le spire dei suoi consigli, si ritrova in un villaggio turistico a “fare esperienza”. A scrivergli lettere in cui lo guida a casa sua, in cui suppone che entri mentre lei non c’è, in cui lo immagina schivare lampadine fulminate, pareti sbrecciate. Lettere che colmino uno spazio, le crepe lunari di tutti i giorni persi. E in quelle indicazioni apparentemente futili c’è tutta l’impotenza di una figlia orfana, anche con un padre in vita. L’appello sbracciato a una normalità che forse non le spetta.

Non come agogna il suo futuro così giovane. Perché la realtà somiglia solo a se stessa, esiste per fuorviare, per smarcare le premesse. Lidia comprende presto che non tutte le sorprese sono carezze gratuite e inaspettate. Suo padre, ovvero l’uomo che le ha prestato i cromosomi, è più figlio di sua figlia. Più fragile, egoista, deragliato di chi ne avrebbe facoltà. E lei si ritrova risucchiata in un vortice nero e surreale. Una vertigine in cui non le piace ballare. Che dovrà interrompere come un incantesimo.

L’autrice, classe 1983, ci porta attraverso le crepe di questa favola al contrario, con la voce sottile di una bambina ferita, cavalcando una scrittura ingenua, fresca e innocente. Ogni immagine, anche la più dolente, ha il tratto delicato e semplice di un disegno infantile, di colori spontanei che inchiodano i fatti. Parole elementari, ma non sciocche, similitudini frequenti e non scontate. Un uso dei diminutivi ridondante, a tratti fastidioso, volutamente puerile, forse troppo, anche per una diciottenne con una falla emotiva così ampia.

Il risultato finale è quello di un bicchiere d’acqua, che scorre limpido e leggero, ma dentro cui viaggiano invisibili particelle d’ombra e piombo, sogni marciti, fantasie deluse, promesse fatte galleggiare troppo a lungo. Residui che finiscono in gola, lasciando alla bocca ancora sete e metallo.

 

(Sarah Spinazzola, Il mio regalo sei tu, Marcos y Marcos, 2012, pp. 288, euro 16)

“Shifty Adventures in Nookie Wood” di John Cale

Ogni suicidio, scriveva Balzac, è un poema di malinconia. Poema di cui John Cale potrebbe essere il protagonista perfetto. Il suicidio musicale è infatti il metodo artistico principale con il quale questo gallese nebbioso e annebbiato da droghe e rumori stravolge continuamente quanto appena creato. Ovviamente il metodo non garantisce l’esito, che a volte è sublime, come in Fear (Island, 1974) o in Music for a New Society (Island, 1982), e a volte lascia invece decisamente a desiderare. L’ascolto di Cale è comunque ogni volta un salto nel buio, che fa scaturire un sentimento tanto controverso quanto raro: l’attesa dello stupore.

Sono passati sette anni dal non eccezionale Black Acetate (Emi, 2005) e ben nove dall’invece splendido Hobosapiens (Emi, 2003), con cui il vecchio uccisore di polli aveva aperto il nuovo millennio. Ricordi di anni Ottanta sbocciano ora in questo Shifty Adventures in Nookie Wood (Double Six, 2012), nel quale Cale si moltiplica e come un poliedrico one-man-band compone, arrangia e suona tutti gli strumenti necessari. Come si diceva in apertura, il cambio di rotta rispetto al passato è vertiginoso, da montagne russe senza imbracatura. L’approccio è cupo, melodicamente ma soprattutto stilisticamente. Gli anni Ottanta vengono recuperati in tutta la loro maestosità tenebrosa, permeando di vestiti di pelle e grigiore britannico tutte le dodici tracce presenti nel lotto, tutte accumunate da un medesimo vizio, che per alcuni sarà pregio, di fondo: l’arrangiamento elettronico è onnipresente e pervasivo, con un’elettronica quadrata, regolare, prevedibile e pesante. Decisamente troppo pesante. Soprattutto in quei pezzi che vorrebbero essere ballate, storicamente il vero piatto forte del repertorio caleiano, e che finiscono invece per essere scure marcette, monoliti musicali che si piazzano al centro dello spazio sonoro, stratificati su quarti elettronici e spesse tessiture di tastiere – “Mary” e “Vampire Café” risultano chiari in questo senso. La voce di Cale si dimostra sempre un punto a favore del nostro: un tono caldo disegna melodie semplici e accattivanti, che perdono però ogni credibilità quando, come ad esempio in “Mothra” e “December Rains”, l’uso del vocoder distorce la tenorile complessità del cantato, portandolo verso un non-futuro che suona, se non ridicolo, quanto meno fuori luogo. Insegne luminose su locali vuoti.

Non mancano, certo, ottimi passaggi. Cale rimane pur sempre uno degli ultimi musicisti organici e il suo lavoro lo sa fare decisamente bene. La partenza è di ottima fattura con “I Wanna Talk to U”, che con tiro sostenuto lancia un ritornello pop che convince subito al primo ascolto, anche se non risulta mai chiaro cosa esattamente l’ex Velvet Underground vuole dirci. Ma i passaggi migliori del disco si registrano quando il nostro sceglie di tornare sull’usato sicuro, come nella riscoperta dell’antica vena romantica in “Living With You”, dove una melodia degna delle sue storiche ballate si adagia su una chitarra acustica che, finalmente, prende quasi il sopravvento su una leggera, ma comunque presente, batteria elettronica. D’altri tempi la conclusiva “Sandman (Flying Dutchman)”, dove Cale pecca forse di presunzione autocitandosi in un maestoso pastorale d’autunno che ricorda molto da vicino la splendida “Buffalo Ballet” del 1974, mentre è di morriconiana memoria la chitarra che si inserisce su una statica “Midnight Feast”.

Per concludere, questa rivisitazione degli anni Ottanta è forse l’apice senile di una carriera vissuta quasi interamente ai margini, dove grandi capolavori si alternano a sonore cadute di stile. Questo Shifty Adventures in Nookie Wood non si colloca in nessuna di queste due categorie, ondeggiando a metà strada in un finto sperimentalismo senza lode né infamia. Il limite principale è la linearità verso cui si incanalano in un modo o nell’altro tutti i brani presentati, sfociando in una prevedibilità che risulta tollerabile soltanto laddove il lampo di genio coglie nel segno. Succede, purtroppo, troppo poco spesso. Sembra che Cale, solitamente fuori dagli schemi, abbia voluto cavalcare questa volta un modaiolo ritorno a stereotipati linguaggi elettro-pop e dark-wave, rimanendo però intrappolato in un populismo senza popolarità che non porta né grandi canzoni, né concerti in stadi pieni.