“Il libro segreto delle cose sacre” di Torsten Krol

Durante la lettura de Il libro segreto delle cose sacre (ISBN Edizioni, 2012) di Torsten Krol, dopo più o meno trenta pagine ho pensato da vero presuntuoso di aver già capito come la storia sarebbe andata a finire. Non fate il mio stesso errore. Non solo per la trama – che prenderà sentieri inaspettati – ma soprattutto per non sminuire un’opera non semplice.

Krol, autore riservatissimo, mai apparso pubblicamente, confeziona un romanzo dai numerosi volti. L’ambientazione è quella del romanzo post-apocalittico, in una Terra distrutta quasi per intero da un meteorite che prima di colpire il nostro pianeta ha urtato la Luna. Solo pochi gruppi organizzati di persone sono sopravvissute. L’urto del meteorite con la Luna ha anche causato lo spostamento del satellite, ha modificato la sua vicinanza col pianeta e di conseguenza il suo corso, causando ogni sette giorni delle catastrofi naturali dette «lunamoti».

Il libro segreto delle cose sacre è anche un romanzo sociologico e antropologico che espone le trasformazioni delle società umane tornate per molti versi a uno stadio primordiale, a una nuova genesi, imparando dagli errori del passato: si viene così a creare il villaggio guidato dalle Sorelle di Selene, in cui le donne adorano la Luna, Selene appunto, ripudiano le violenze della società androcentrica e creano tutto da capo, basandosi sulla suddivisione dei compiti e sull’amore reciproco; hanno comunque bisogno dell’uomo per la riproduzione e per i lavori più pesanti, la caccia e la produzione di cibo in generale, in una situazione di stallo, tesa, pronta a spezzarsi.

Il libro segreto delle cose sacre è poi, per la maggior parte, un romanzo di formazione della giovane – e insopportabile, vedrete – protagonista e voce narrante Aurora: adolescente, Scriba delle Sorelle di Selene, impegnata a scrivere il nome della dea più e più volte ogni giorno negli ultimi fogli rimasti, vecchi quaderni di contabilità, affinché i lunamoti non avvengano e Selene continui a proteggere la Terra. Aurora viene investita dall’affaccendarsi di eventi nuovi, alcuni già accorsi e altri che presagisce, e sente il bisogno di raccontarli. Li scrive su un quaderno segreto, di cui solo lei è a conoscenza, un suo diario giornaliero, l’unico autentico libro rimasto al mondo. Il libro segreto delle cose sacre è di fatto il diario della Scriba.

Subdola e calcolatrice, Aurora conoscerà l’amore della pescatrice Willa. Saccente e superba, si ritroverà isolata, ma alla fine sarà l’unica a intuire ciò che davvero succede al mondo.

Il lessico è anch’esso apocalittico, composto di detriti: gli oggetti sono descritti esattamente per come appaiono, semplici; relitti del vecchio mondo (un cannocchiale, i libri della contabilità stessi) che stridono con la “nuova” società primordiale.

Un romanzo che sorprende per il suo carico emotivo e simbolico, che sembra andare spedito verso una direzione prima di bloccarsi e prenderne un’altra completamente diversa; una macchina narrativa che ci pone di fronte a un «what if?» sociale coinvolgente, di mutamento, distruzione e rinascita.


(Torsten Krol, Il libro segreto delle cose sacre, trad. di Enrico Monti, ISBN Edizioni, 2012, pp. 384, euro 16,90)

“Oui Oui Si Si Ja Ja Da Da” dei Madness

Certe volte, il nome è una garanzia e basta davvero quello. Anche quando il tempo passa, la voce non è più la stessa e saltare su un palco diventa sempre più duro. Ma quando sei una delle principali formazioni 2 tone ska, l’energia e la voglia non possono mancarti, perché ci sarà sempre qualche skinhead/mod/punk pronto a seguire le tue gesta. È il caso dei Madness, da oltre trent’anni sulla cresta dell’onda.

I ragazzi di Camden stanno insieme dal 1976 e, tra alti e bassi, hanno sfornato successi come “One Step Beyond”, “Our House”, “Baggy Trousers” e “They Call It Madness”, insieme a tanti altri brani che nel decennio degli anni ’80 hanno fatto scatenare i frequentatori dei club inglesi. Dopo un periodo di inattività dovuto ad un normale calo di vendite, nel 1999 tornano in studio e sfornano un nuovo album, celebrando anche il loro ventennale.

Ma il loro anno sembra proprio essere il 2012. Dopo la loro esibizione primaverile al festival di Coachella (California) e la performance per le celebrazioni del sessantesimo anno sul trono  della regina Elisabetta II, nel luglio di quest’anno hanno suonato anche nella cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Londra, in mondovisione.

Il 29 ottobre è uscito Oui Oui Si Si Ja Ja Da Da, decimo album dei Madness. Il disco, che già dal titolo dice molto, è articolato in 14 tracce movimentate e allegre, come da tradizione. La prima è “My Girl 2”, versione rinnovata di “My Girl” del 1979, in chiave pop e più orecchiabile al grande pubblico visto che è stata prontamente ripresa per scopi pubblicitari. Il remix della stessa lascia qualche perplessità.

Canzone chiave, testimone dei tempi che cambiano e della fine di un’epoca è invece “Death of a Rude Boy”, ritornello cupo, quasi funereo.

Il resto dell’album è diviso tra brani ska come “So Alive” e “How Can I Tell You”, mentre “La Luna” possiede sonorità tipiche del mambo. L’irriverenza e la goliardia contraddistinguono come sempre il sound tutto sassofoni, trombe e tastiera della band londinese.

Il nuovo lavoro di Graham “Suggs” McPherson e soci, se si esclude qualche esperimento, non possiede quasi nulla di diverso rispetto ai dischi del passato e questa sembra proprio essere la sua forza. La continuità è il loro marchio di fabbrica: avendo lo stesso stile da diversi decenni, non si sono preoccupati troppo di restare al passo con i tempi. Canzoni come “Circus Freaks” e “Black and Blue” hanno lo stesso sapore della seconda ondata ska di metà anni ’70, la stessa che ha reso celebre The Specials, Bad Manners e The Selecter. Ultima chicca, la copertina del disco è stata disegnata da Peter Blake, l’artista che si è occupato di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band dei Beatles. Da sempre, un passo avanti!

 

 

[RomaFilmFest7] Terza giornata

Ci vuole del coraggio ad abbandonare, anche solo episodicamente, un mondo in cui ci si è affermati con prove convincenti per sperimentare un percorso alternativo con un linguaggio nuovo, con i suoi codici fissi e un universo di riferimento con cui è difficile per ogni esordiente confrontarsi. Si corre il rischio di un passo falso anche quando la storia narrata la si conosce bene, anche quando si trasferisce sullo schermo un proprio romanzo assumendosi il compito della regia.

Parliamo dell’Isola dell’angelo caduto, prima prova da regista per lo scrittore Carlo Lucarelli, tratto dal libro omonimo del 2001 dello stesso scrittore, in concorso nella sezione Prospettive Italia. Nel 1924 un commissario di polizia, interpretato da Giampaolo Morelli, già ispettore Coliandro nella versione televisiva dei romanzi di Lucarelli, viene trasferito con la moglie Hana in un’isola sperduta detta dell’Angelo Caduto dove, si narra, sia precipitato Lucifero dopo la ribellione a Dio. Un trasferimento che è una punizione per una non meglio precisata disobbedienza. Dopo un anno di vita sull’isola il commissario trascorre le sue giornate lente tra gli incontri con il confinato dottor Valenza e la pena per la moglie, caduta in uno stato di profonda depressione per la vita sull’isola, venata di un’inquietudine misteriosa e sferzata incessantemente dai venti. Una serie di omicidi arriva a sconvolgere la routine dei giorni, delitti che coinvolgono la milizia fascista capitanata dal bieco Mazzarino di guardia alla prigione dell’isolotto sperduto. Mentre il vento sconvolge gli abitanti, il commissario si trova a indagare tra crimine e esoterismo alla ricerca di una soluzione a quel mistero che a poco a poco si rivela più grande di quello che appare.

La dimensione storica è quella in cui Lucarelli si è sempre mosso al meglio nella sua produzione letteraria, dalla serie del commissario De Luca, ambientata negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, alle indagini sui misteri d’Italia raccolti nel programma televisivo Blunotte. Nel trasporre sul grande schermo il suo romanzo, però, lo scrittore finisce per strafare con una contaminazione di generi, dal giallo classico al noir gotico, passando per il fumetto e l’horror contemporaneo, soprattutto spagnolo, con venature di surreale che anziché inquietanti finiscono per risultare grottesche. La trama si confonde e si appesantisce, come se, in una confusa ricerca di un registro più idoneo al suo racconto, Lucarelli fosse finito per riversare sullo schermo influenze generiche e confuse senza trovare una propria identità. In conferenza stampa il neo-regista ha coraggiosamente riconosciuto i propri limiti, affermando che il film risulta ai suoi occhi esattamente come lo aveva progettato e dichiarando che se non è piaciuto – nessun applauso alla proiezione per la stampa  è solo a causa dei suoi limiti nell’affrontare il nuovo linguaggio cinematografico.

Massimo rispetto per l’onestà intellettuale e per un film che, nonostante le debolezze già evidenziate, riesce comunque nel suo intento di creare tensione e curiosità fino all'affrettato finale.

Positiva invece la proiezione in concorso ufficiale di 1942, kolossal cinese salutato da più parti come un Via col vento orientale. Costato circa 35 milioni di dollari e impreziosito dalla presenza di due star statunitensi del calibro di Adrien Brody e Tim Robbins, il film parte dal romanzo storiografico Remembering 1942 di  Liu Zhengyun.
 


Nella provincia cinese dell’Henan si è consumata negli anni ’40 una delle più grandi carestie della storia contemporanea, con circa tre milioni di persone decedute tra l’estate del ’42 e la primavera del ’43. Amplificato dalla minaccia dell’invasione giapponese, il catastrofico esodo di circa dieci milioni di persone alla ricerca di cibo venne minimizzato dalle autorità cinesi – che a sei mesi dall’inizio della carestia dichiaravano un numero ufficiale di decessi per fame di poco superiore al migliaio -, incapaci di organizzare un efficace sistema di aiuti per la popolazione in fuga.

Il regista Xiaogang Feng ricostruisce l’avvio della drammatica marcia concentrando la narrazione sulla famiglia e i servitori del ricco proprietario terriero Fan, costretto a lasciare la sua casa dopo un’insurrezione dei contadini affamati, e facendo scorrere in parallelo le vicende politiche più alte che riguardano il generalissimo Chang Kai-shek e i membri del suo governo, sospesi tra autorità e terrificata attesa dell’offensiva nipponica.

La gestazione del film non è stata semplice per stessa ammissione del regista: un’indagine su una pagina ancora oscura della storia cinese come la reale portata di quella carestia non è stata ben vista dalle autorità, ma Xiaogang è riuscito a portare avanti il suo progetto rivelando la normalità della prepotenza politica e militare. Quando viene deciso di stanziare del grano per la provincia di Henan, dopo che il giornalista americano Theodore White (Brody) aveva documentato con la sua fotocamera le reali condizioni di quel fiume umano di fame, subentra l’ottusità dei poteri locali a complicare la distribuzione.

Alternando particolare e universale, i drammi dei singoli alle congetture dei potenti, con scene di cruda violenza – su tutte il bombardamento giapponese su affamati e esercito in marcia  il regista rilascia un atto di accusa contro la cecità del potere con una lucida visione della storia e delle debolezze dell’essere umano.

Dalla Francia sono arrivate invece due commedie di grande presa sul pubblico.

Populaire dell’esordiente Régis Roinsard, presentato fuori concorso, si affida a un cast di volti noti, da Romain Durais alla Bérénice Bejo vista in The Artist, per presentare la storia di Rose, giovane  che nella Francia di fine anni cinquanta non riesce a rassegnarsi a un destino di casalinga e si scopre in possesso di un dono unico: battere a macchina più velocemente di chiunque. Incitata dal suo datore di lavoro, che si cala nei panni di un improbabile allenatore, finirà per gareggiare in tutto il paese in gare di dattilografia.

Delude in parte le attese, invece, Main dans la main, l’altra commedia presentata in concorso. Dopo l’ottimo esordio con La guerra è dichiarata, Valérie Donzelli torna con una commedia eccentrica e delicata che parte leggera per appesantirsi gradualmente con l’evoluzione della storia.
 


Joakim (Jérémie Elkaïm) è un vetraio che vive con la famiglia della sorella postina appassionata di danza. Un giorno mentre è a Parigi per un lavoro all’Opera, incontra Hélène (Valérie Lermericer), direttrice dei corsi di ballo dell’accademia. Un bacio improvviso dettato da un impulso incontrollato genera una conseguenza inattesa: i due non riescono più ad allontanarsi l’uno dall’altra, si muovono come imitandosi, come in un ballo a due, seguendosi sempre di pochi passi. Diversi nei modi e nei mondi, i due si trovano costretti in una relazione che finisce ben presto per sconvolgere gli equilibri delle vite precedenti e i rapporti su cui erano soliti fare affidamento (Joakim con la sorella Véro, Hélène con l’amica Constance).

Dopo una prima parte semplicemente esilarante, con una serie di trovate brillanti (il ballo di Véro con il vicino Jean-Pierre, la cena col ministro) l’opera seconda di Donzelli finisce per perdere il brio e la freschezza che la animavano senza più ritrovarli, in un’evoluzione del racconto che predilige aspetti di indagine interiore sulla necessità dell’altro nella vita che deve essere prodotto della scelta e non del caso, arrivando fino ad una svolta drammatica che risulta semplice e superfluo pretesto.

Pur non riuscendo a mantenere le aspettative del sorprendente avvio, la qualità del film si mantiene elevata grazie all’ottimo cast, perfettamente affiatato e a proprio agio anche nelle situazioni più surreali, e alla fotografia di Sébastien Buchmann che rende la dovuta giustizia alle splendide sale dell’Opera di Palais Garnier.

“L’ultimo comunista” di Matthias Frings

Il muro fa rumore. E non solo quando cade. Troppo facile stordire con il tonfo. Il muro parla sempre. Quando vive e r-esiste, quando si erge con naturalezza, come se fosse un albero, come se la sua altezza dipendesse dalla terra. Questo libro ha un muro in mezzo. O meglio, forse, questo libro è un muro in mezzo.

In mezzo a ciò che accade, che trasuda attraverso le sue vene.

La voce narrante è quella di Matthau Finga e il titolo della sua storia è Lultimo comunista (Voland).

Protagonista è Berlino, città spaccata, anche quando è ancora intera, trafitta da due sensi di marcia, opposti e perenni: chi si muove verso Ovest e chi verso Est. Finché può, finché una porta decide di sbarrarsi. A incarnare queste direzioni sono lo stesso Matthias e il suo amico Ronald Schernikau, ragazzi degli anni ’80.

Ma Ronald e Matthias non sono solo giovani. Ferocemente, presuntuosamente. Sono anche gay, altrettanto ferocemente, altrettanto forsennatamente. In un mondo che ribolle e in cui è difficile restare immobili. Entrambi si sostentano con poco, nella Berlino Ovest corrotta e consumata che strizza l’occhio all’America, che monetizza anche le smorfie e le trasforma in sponsor. Oscillano da un localeall’altro, ingoiano concerti e bollicine a buon mercato, civettano al bancone, ma non solo. Riflettono sui loro diritti, discutono soluzioni possibili, affollano riunioni, intasano dibattiti. Sono gay rivoluzionari o rivoluzionari gay? Prima ancora di rispondere scrivono. Matthias s’imbatte nell’impresaurticante di realizzare un saggio sull’universo omosessuale, sul ballo di cuori controcorrente. Riferisce senza tremori come i maschi s’innamorano di altri maschi, come flirtano in attesa dell’amore, come respira il loro ecosistema, tra calzoni aderenti e capelli frondosi. Il loro è un perimetro arredato in fretta, con le mode carnivore che inghiottono corpi e vestiti, con la frenesia di esserci, di commentare e siglare ogni istante. Vivere è mordere, ma occorre farlo con stile. E raccontarsi vuol dire sorridere mentre qualcuno sta scattando una foto.

Ronald invece ha all’attivo un romanzo di successo e la zavorra di un talento precoce. Sua madre Ellen è una donna di Berlino Est, amante dei suoi ideali e di un uomo sposato, un uomo come tanti che non riesce a scegliere, che trascina dietro di sé debolezze e legami, sperando che qualcosa si stanchi di seguirlo.

Rolo cresce senza padre, ma la sua intelligenza lo salva, gli permette di accorgersi del dolore intorno, del dolore dentro, di immortalarlo e sentirlo scalciare. Gli permette di diventare uno scrittore. Di ritagliarsi un palco su cui sentirsi amato. Ma dopo i primi fasti, mentre tutti lo riconoscono e lo credono arrivato, la fortuna si ritira per meditare sul futuro.

Cos, nel momento in cui Matthias sforna un libro dopo l’altro, come fosse un mestiere qualunque, Ronald comincia ad arrancare e ogni buona occasione rivela presto le sue piaghe. Il nuovo testo non piace abbastanza, troppo denso, troppo confuso, una vertigine di punti di vista con cui è impossibile identificarsi. E lui aspetta che qualcuno capisca. Che il suo nome torni a sporcare le pagine. Tossisce in una stanza umida e si contende un uomo, come sua madre. Nel frattempo la Storia si dimena, maiuscola come non mai. I gay si ammalano di una sindrome nuova, che li prosciuga  come tronchi svuotati e li rende così magri da romperli col vento. C’è chi la chiama “la peste del piacere”. Più tardi sarà semplicemente AIDS, un contrappasso dilatato a chiunque voglia fare l’amore, per cui ogni organo diventa di vetro. E poi la protesta matura, fino a invocare il cambiamento, fino a voler scardinare ogni mattone. Al di qua e al di là del muro le due metà di Berlino mostrano le loro crepe. La Repubblica Federale s’inginocchia davanti al denaro e la DDR ne ha talmente paura da non saper evolvere. Le vicende di Ronald e Matthias, le loro biografie di personaggi letterari e uomini reali, scandiscono il “dentro” e il “fuori”, che si rovesciano l’uno nell’altro. Il dentro è il luogo a cui si appartiene o dove si è forzati a stare, il fuori quello  che ci attrae, la dimensione dell’altrove, ovunque esso sia. L’integrità ideologica dell’Est sognata da Ronald e da sua madre si contrappone all’Ovest libero e disinibito agognato da migliaia di altri giovani schiacciati dalla Stasi. E il doppio binario dell’infanzia di Ronald e della sua età adulta ci accompagna fino alla fine, ci lascia entrare dentro le giacche dei due protagonisti, delle loro paure, delle loro ambizioni scucite e poi rammendate. Ma il dominatore indiscusso di tutto il romanzo resta comunque Ronald. L’autore per primo è soggiogato dal fascino di una creatura sensibile, dotata e sensuale, leggiadra e malinconica, contraddittoria come gli esseri complessi. “L’ultimo comunista” appunto, l’uomo ancorato all’Amore più grande dei singoli amori, al forziere dei propri valori, tanto più preziosi perché non quantificabili. L’idealista schiantato a bocca aperta contro la realtà e i suoi spigoli più aspri.  Dopo i primi paragrafi più lenti, il romanzo prende velocità e si fa vortice, è una spirale in cui si mescolano volti e nomi dell’arte. Peter Hacks e Nina Hagen, Christa Wolf e Rainer Fassbinder partecipano al flusso di scosse politiche e sociali, al walzer di una continua militanza, in cui scegliere significa aderire ad un partito, mettersi in gioco fino in fondo, senza perdere la leggerezza.

A ventitre anni dalla morte del Muro, questo libro ha il potere di resuscitarlo, lasciando una fessura attraverso cui auscultarne i battiti. Per accorgerci che ogni parete in fondo è un sipario.

 

(Matthias Frings, Lultimo comunista, trad. di Chiara Marmugi, Voland, 2012, pp. 553 , 18 euro)

[RomaFilmFest7] Seconda giornata

Presentato ieri il primo film italiano in concorso, Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi.
Accolto con tiepidi applausi dalla critica nella proiezione stampa della mattina, la seconda opera di fiction di Giovannesi segue una settimana nella vita di Nader, ragazzino sedicenne nato in Italia da genitori egiziani, sospeso tra i valori della famiglia e la libertà, aspirata o realizzata, dell’adolescenza.
Il riferimento a Pasolini è evidente sin dal titolo ma non si esaurisce lì. Con sguardo simile a quello del poeta, Giovannesi pedina la vita di Nader e dei suoi coetanei in un’Ostia mai apparsa così lontana da Roma. Come già in Fratelli d’Italia, apprezzato documentario del 2009, il regista si concentra sulla vita degli italiani di seconda generazione, sulle loro incertezze tra famiglie troppo protettive e l’ambizione semplice di essere solo ragazzi, senza badare al paese di origine. Nader si mette le lenti a contatto azzurre, si veste con la tuta del Brasile e risponde in romano alla madre che lo rimprovera in arabo. Sogna di stare in pace con la sua ragazza Brigitte, ma i genitori non vogliono che abbia una relazione con una cristiana. Il suo migliore amico è Stefano, impulsivo e ingenuo bulletto che trascina l’amico in una serie di bravate oltre il limite della legalità che i due finiscono per pagare a caro prezzo.
In una periferia basata su una solidarietà di tipo tribale – gli italiani si aiutano tra di loro contro il nemico esterno, gli arabi si coalizzano e chiudono perché gli italiani «non sono cattivi, solo non sono come noi» e i romeni reagiscono con violenza sproporzionata ad ogni affronto subito – solo gli adolescenti sembrano muoversi, ed essere considerati, al di fuori di logiche etniche di reciproca ostilità. Il ritratto duro che ne emerge è un’immagine fedele della periferia romana – e italiana – degli anni dieci del 2000. Una realtà sempre più multietnica ma fondata ancora su ignoranza e aggressività primitiva.

Totalmente diversa l’immagine della periferia australiana che offre Mental di P.J. Hogan. Presentato fuori concorso con un ottimo riscontro durante la proiezione per la stampa, tra risate e applausi, il film del regista de Il matrimonio del mio migliore amico, membro della giuria ufficiale, affronta il tema della malattia mentale con leggerezza e ironia, sorprendendo con numeri musicali e umorismo scorretto.
Shirley Moochmore è una casalinga fragile di nervi, incapace di badare alle sue cinque figlie, convinte di soffrire ognuna di una diversa patologia psichica, e stremata da un marito infedele e assente che si rifugia dietro il suo incarico di sindaco della cittadina di Dolphin Heads per sfuggire alle sue responsabilità.
Il sogno di Shirley è quello di una famiglia come i Von Trapp, complesso canoro austriaco le cui canzoni sono alla base di Tutti insieme appassionatamente.
Dopo una crisi particolarmente acuta, Shirley viene ricoverata in manicomio. Il marito, incapace di badare alle figlie, decide di affidarle a un’autostoppista di nome Shaz – un’ottima Toni Colette – che assume come babysitter. Scaraventata nel tranquillo quartiere residenziale come un neutrone libero in un reattore nucleare, Shaz avvia un processo di fissione che rilascia energia e distrugge gli equilibri borghesi che reggono l’ordine della cittadina, rivelando ipocrisie e debolezze. L’arrivo di Shaz, però, non è casuale. Qualcosa l’ha spinta verso la famiglia Moochmore, qualcosa che la tormenta dal passato e si nasconde nella pancia di uno squalo in formaldeide esposto nel parco acquatico dove lavora Coral, la figlia maggiore di Shirley.
Un’autentica sorpresa, il film di Hogan, che colpisce per la sua leggerezza che non concede mai troppo alla volgarità, salvo per la sequenza dei divani bianchi e il finale pecoreccio degno di un filmaccio con Alvaro Vitali, e per il ritratto delicato di una famiglia che si crede terribile ma si rivela migliore di tutte le altre.

In serata è la prima per il pubblico di La scoperta dell’alba ad attirare una gran folla in Sala Petrassi. Opera seconda di Susanna Nicchiarelli (nel 2009 con Cosmonauta vinse il premio Controcampo Italiano a Venezia), il film è tratto dal romanzo omonimo d’esordio di Walter Veltroni.
 


Dopo la morte della madre, Caterina (Margherita Buy) e sua sorella decidono di sbarazzarsi della casa al mare ormai inutilizzata. Mentre traslocano i ricordi di una vita, Caterina decide di provare a comporre il numero della vecchia casa di famiglia sul telefono a disco ricoperto di polvere. Quando dall’altro capo sente rispondere una bambina non vuole crederci. In qualche modo si è aperto un varco temporale e Caterina si trova ora a parlare con se stessa bambina. È l’occasione per capire che fine abbia fatto il padre, un professore scomparso all’improvviso trent’anni prima, forse rapito dalle Brigate Rosse, forse scappato con una nuova donna.
Prima pellicola in concorso nella sezione «Prospettive Italia», La Scoperta dell’alba è un film che delude e finisce per annoiare. Nel tentativo di creare tensione nell’indagine ultratemporale di Caterina, la Nicchiarelli finisce per mettere in scena una storia sconnessa, lenta, con un ritmo altalenante e una caratterizzazione dei personaggi appena accennata non sorretta dalle interpretazioni migliori di un cast di ottimo livello.
Prima della proiezione, due corti: Esca Viva, della stessa Nicchiarelli, godibile film d’animazione su un pesce scaltro (doppiato da Claudia Pandolfi) che riesce a parole a sfuggire alle logiche della catena alimentare, e Il Turno di notte lo fanno le stelle, regia di Edoardo Ponti, storia di trapianti e alpinismo e dell’intesa che può nascere tra due persone che condividono la dolorosa esperienza di un intervento al cuore. Vuole essere intenso e poetico il corto di Ponti, ma non ci riesce. Risulta gonfio di un lirismo enfatico tipico della scrittura di Erri de Luca, autore di soggetto e sceneggiatura e presente con un cameo nel ruolo del gestore del rifugio. Nella piattezza generale si salvano solo le Dolomiti.

La vera protagonista di questa seconda giornata di manifestazione è stata però la disorganizzazione. Se nelle proiezioni della mattina riservate alla stampa si lamenta un cambio di programma tra i due spettacoli (Alì proiettato prima di Mental anziché il contrario) non debitamente segnalata agli addetti ai lavori, è alla sera, nelle proiezioni per il pubblico che si rivelano i difetti maggiori della macchina organizzativa.
La lunga fila per gli accreditati alla proiezione di Carlo!, documentario di Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni sulla carriera di Carlo Verdone, presentato fuori concorso nella categoria Prospettive Italia, non scorre. Ci si ritrova ad attendere inutilmente finché non viene comunicato che i posti sono esauriti. Quando una decina di autorizzati vengono lasciati entrare esplode una tenue protesta di quanti si sono visti sorpassare senza motivo da persone fuori dalla fila.
 


 

Ma è nell’attiguo Teatro Studio che avviene il fatto più grave. Una signora protesta: era munita di biglietto ma era finita per errore nella fila degli accrediti. Le viene detto che non c’è più nulla da fare, il film è iniziato da troppo tempo, la sala è piena e non è più possibile accedere alla proiezione. La signora chiede il rimborso, lamenta la cattiva delimitazione delle due file ma gli addetti alla sicurezza le comunicano che ormai nulla è più possibile.
La protesta continua, le voci si alzano, la donna pretende ragione. Arrivano degli agenti in borghese che prima accerchiano la signora mettendola spalle al muro, poi la trascinano di peso fuori dall’Auditorium, sotto gli sguardi sbigottiti dei presenti.
Al di fuori della struttura la questione prosegue, si forma un capannello. La donna, circondata da altri agenti, denuncia a gran voce l’arbitraria violenza subita. Alcuni invitano i poliziotti a levarle le mani di dosso, a lasciarla andare, vengono spinti via, trascinati per i capelli con metodi da guerriglia civile. I cellulari filmano tutto, il pubblico osserva incredulo, qualcuno protesta a gran voce.
Finisce con la signora trasportata fuori dal Parco della Musica, lontano dal tappeto rosso e dalle televisioni che potrebbero documentare qualcosa di compromettente.
Un brutto episodio, decisamente sgradevole, che rivela tutte le debolezze di un’organizzazione incapace di gestire un afflusso di pubblico nettamente inferiore alle aspettative e alle precedenti edizioni.

Caos e destino della narrazione. “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino.

A partire dagli anni Sessanta, l’eccezionale predisposizione di Italo Calvino alla sperimentazione e all’apertura verso il postmoderno trova una delle sue migliori realizzazioni ne Il castello dei destini incrociati, opera pubblicata per la prima volta nel 1969 dall’editore Franco Maria Ricci (Parma) come libretto di accompagnamento a una lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo noti con il nome di Tarocchi Visconti-Sforza.

Il lavoro di Calvino sui tarocchi era già iniziato da tempo, quando gli giunse questa insolita richiesta da parte dell’editore: «Mi sono applicato soprattutto a guardare i tarocchi con attenzione, con l’occhio di chi non sa cosa siano, e a trarne suggestioni e associazioni, a interpretarli secondo un’iconologia immaginaria. Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla; accumulai così parecchio materiale; posso dire che gran parte della Taverna dei destini incrociati è stata scritta in questa fase; […] ma non riuscivo a disporre le carte in un ordine che contenesse e comandasse la pluralità dei racconti; cambiavo continuamente le regole del gioco, la struttura generale, le soluzioni narrative. Stavo per arrendermi, quando l’editore Franco Maria Ricci m’invitò a scrivere un testo per il volume sui tarocchi viscontei. […] Provai subito a comporre con i tarocchi viscontei sequenze ispirate all’Orlando Furioso; […] bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s’incrociavano tra loro, e ottenni così una specie di cruciverda fatto di figure anziché di lettere, in cui per di più ogni sequenza si può leggere nei due sensi».

Si tratta di una raccolta di dodici racconti brevi, una definizione quanto mai insufficiente e riduttiva per un’opera metaletteraria importante e di straordinario fascino, in cui l’autore non si limita a raccontare storie, ma apre al lettore la sua fucina creativa, lo accompagna tra i personaggi che attendono silenti di essere chiamati in causa, come attori dietro i pesanti tendaggi delle quarte, e le spie fantastiche pronte a illuminare le scene.

L’opera si articola in due parti, Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati, ciascuna introdotta da un breve paragrafo che costruisce la scena su cui si muovono i personaggi e racconta l’antefatto.

All’inizio di entrambe le sezioni il narratore/protagonista si trova in un luogo al limitare del bosco, spennellato di cavalleria e tinte ariostesche, con un gran numero di avventure vissute e pronte per essere raccontate ai commensali che trova seduti intorno a una tavola riccamente imbandita. Le due situazioni, analoghe, sono riempite da uno stesso inquietante silenzio e al cavaliere senza nome basta provare a dar fiato alla gola per fare una scoperta di gran lunga più spaventosa dei briganti e delle bestie che ha dovuto affrontare: il bosco ha reso tutti muti.

Alla fine della cena sul «desco illuminato da candelieri» (nel castello) e sulla «tavolata» (nella taverna) viene poggiato un mazzo di tarocchi. Nessuno lo consiglia, non ci sono ordini, ma solo la necessità impellente di comunicare che attira verso le carte, suscitando uno stesso e curioso pensiero: tutti, a turno, sceglieranno e disporranno in successione davanti al proprio posto le carte che possono rappresentare la loro storia. Il re di denari, la forza, il penduto, la donna di bastoni, la temperanza: una dopo l’altra le carte vengono poggiate sul legno come i piccoli e dorati tasselli di un grande mosaico fino a formare il misterioso disegno che trova spazio nelle ultime pagine di ciascuna sezione; le miniature dei tarocchi sono presenti anche ai margini delle pagine e pongono immediatamente sotto gli occhi del lettore l’immagine della carta scelta, per aiutarlo a seguire ogni storia, ma anche per stimolarlo a immaginare un diverso sviluppo.
 


 

Le strutture delle storie sono essenziali, prive di dettagli e simili tra loro; una scelta obbligata se pensiamo al numero ristretto di personaggi (solo le figure umane presenti nel mazzo) e il doversi affidare a questo particolare tipo di linguaggio. Alcune situazioni si ripetono più volte, rispondendo alle necessità di comprensione e memorizzazione semplice della trasmissione orale.

Impossibile, per questo motivo, non scorgere un parallelismo tra la costruzione del Castello di Calvino e gli studi portati avanti dal linguista e antropologo Vladimir Propp sulle funzioni narrative delle fiabe russe di magia (Morfologia della fiaba, 1928).

Al termine dell’analisi di un ampio corpus di 400 fiabe tradizionali, Propp aveva rintracciato sette personaggi caratteristici (eroe, protagonista, antagonista, falso eroe, mandante, aiutante, donatore, persona ricercata), trentuno funzioni narrative (il divieto, il salvataggio, il tranello etc.) e uno schema generale (equilibrio iniziale, rottura dell’equilibrio iniziale, peripezie dell’eroe, ristabilimento dell’equilibrio) che potevano essere ricondotti a tutte le opere prese in esame, affermandosi come pioniere assoluto del formalismo applicato alla struttura narrativa. Il concetto di “funzione narrativa” sarà poi ripreso da Cesare Segre, che supererà il limite proppiano della circoscrizione geografica dei testi estendendo la ricerca al Decameron e a Lisabetta da Messina, novella narrata nella IV giornata «sotto il reggimento di Filostrato».

Nel 1973 Calvino, durante il suo soggiorno parigino, era entrato a far parte dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), un organismo di ricerca sperimentale fondato da matematici appassionati di letteratura e letterati appassionati di numeri, che aveva l’obiettivo di applicare strutture numeriche e formule matematiche alla creazione di opere letterarie. Un piccolo nucleo di pensatori, inserito in un contesto più ampio di riflessione in cui l’idea che l’opera letteraria potesse essere una combinazione, il risultato di un’operazione affidata al lettore, si era già diffusa ampiamente con il nome di Letteratura combinatoria interessando intellettuali e scrittori del calibro di Borges, Roussel, Queneau e Perec. Il testo non si definisce in una forma fissa nel momento in cui passa dallo scrittore al lettore, ma si apre continuamente a nuove possibilità poiché è fatto di elementi, di tessere che possono essere smontate e rimontate alimentando un processo creativo che non finisce.

Nel caso specifico de Il castello dei destini incrociati, la struttura matematica che viene applicata alla costruzione dell’intreccio è il «quadrato magico» che vediamo nell’illustrazione e che ricalca la forma del tavolo a cui sono seduti i commensali. Le carte numerate sono quelle con cui ciascun ospite inizia il proprio racconto e sono seguite da altre sedici carte disposte su due colonne; il bordo rosso e il bordo blu segnano le prime due storie: “Storia dell’ingrato punito” e “Storia dell'alchimista che vendette l'anima”, che, come mostra il disegno, si intersecano in un punto utilizzando quattro carte uguali.

A partire da questi due assi iniziali, tutte le altre carte sono accostate vicine e si intrecciano in numerosissime combinazioni, ma comunque limitate dalla rigida struttura della griglia. La carta, considerata in quanto tassello numerico, ha un numero di collocazioni limitato. Il numero di interpretazioni che si possono dare alle carte accostate, invece, è infinito.
 


Poggiato sul suo tavolo di lavoro, l’autore ha sempre un catalogo millenario di vite immaginate e pronte per essere scelte e giudicate degne di prendere posto sulla pagina; ha segnalibri di rimandi letterari, ha “orecchie” agli angoli dei fogli zeppe di colpi di scena, ha tinte con cui sfumare i sentimenti. Nel Castello dei destini incrociati Calvino ci dà la possibilità di sederci con lui a questo tavolo, ci fa compagni della scelta, della messa in sequenza, della costruzione fantastica fatta di funzioni e finzioni.

Mentre lui, che veste i panni dell’autore-testimone, come lo chiamerebbe Friedman, davanti a un numero così grande di possibilità narrative diventa paradossalmente impotente poiché osserva attraverso il filtro visivo del personaggio in cui si incarna l’intreccio da lui stesso creato senza poter prevenire gli eventi o pregiudicare eventuali sviluppi, almeno fin quando non arriva il suo turno. Le carte da lui disposte in successione originano una storia che è la storia di tutti gli autori contemporanei, che cercano materia sempre nuova da plasmare, ma devono necessariamente fare i conti con un passato già scritto, «un sottosuolo che appartiene alla specie, o almeno alla civiltà, o almeno a certe categorie di reddito». Esordisce con la carta che crede lo rappresenti più di tutte le altre, il re di bastoni, poiché il bastone che tiene in mano con sicurezza rappresenta simbolicamente il calamo, la matita o la penna usata dallo scrittore che, srotolando i fili d’inchiostro sulla pagina, ci conduce fino alla fine del libro.
 

 


«Un personaggio che se nessun altro lo reclama potrei ben essere io: tanto più che regge un arnese puntato con la punta in giù, come io sto facendo in questo momento, e difatti questo arnese a guardarlo bene somiglia a uno stilo o calamo o matita ben temperata o penna a sfera e se appare di grandezza sproporzionata darà per significare l’importanza che il detto arnese scrittorio ha nell’esistenza del detto personaggio sedentario. Per quel che so, è proprio il filo nero che esce da quella punta di scettro da poche lire la strada che m’ha portato fin qui».




“La ninfa incostante” di Guillermo Cabrera Infante

Cosa accade quando la scrittura prende vita propria, e non si limita a veicolare un contenuto, ma anzi lo scavalca e lo modella a suo piacimento? Quando sono assonanze e rime a fare da traino a trama e personaggi? La ninfa incostante (Edizioni SUR, 2012) ne è un esempio perfetto, ed è l’autore stesso a indicarcelo già dalla copertina, dove scopriamo che il titolo, volutamente o no, fa rima con il suo nome: Guillermo Cabrera Infante.
Un romanzo che è in fin dei conti un soliloquio, quasi un primo piano sulle percezioni e il punto di vista di un solo personaggio, un critico cinematografico – facilmente riconducibile a un alter ego dell’autore – che si invaghisce di una ragazza molto più giovane di lui, acerba, spontanea, di un’ingenuità che a tratti rasenta l’ignoranza: Estela Morris. Lui fugge da una famiglia e una vita monotona, lei da una madre opprimente e da una casa che non sente sua.
Sullo sfondo, come sempre L’Avana, calda, esotica, iperbolica, quasi un ulteriore personaggio che anima le opere del cubano dai tempi di Tre tristi tigri, e che non smetterà mai di figurare nei suoi scritti, nonostante il lungo e forzato esilio.
Romanzo postumo, La ninfa incostante non è che la storia di un incontro, dello strano incrocio di due vite completamente diverse, quasi opposte, per età, sesso, interessi, sentimenti. E che però diventa ben presto sogno erotico e ossessione: «Lei si era impegnata a contaminare ogni cosa. Era diventata una vera a propria infezione. Si era completamente impossessata di quell’estate, proprio come un batterio si impossessa della vita». Inebriato dalla bellezza di Estelita, dalla sua inesperienza, il protagonista si lascia coinvolgere in una relazione fatta di sesso, parole mal pronunciate, motel e dialoghi esilaranti. A segnare il ritmo della narrazione sono proprio le assurde conversazioni tra i due, punteggiate di riferimenti che puntualmente Estela non capisce, né tenta mai di approfondire.
Un incontro, un’estate, una storia che si sarebbe potuta narrare in poco più di qualche pagina, e che si trasforma, nelle sapienti mani dell’autore, in una grande opera metaletteraria, in cui i codici di scrittura, letteraria, musicale ma anche e soprattutto cinematografica, si intersecano e creano una trama tutta retta sul gioco, sull’umorismo. Come sottolinea Mario Vargas Llosa nel breve saggio che introduce il romanzo, per Cabrera Infante «l’umorismo non è, come per tutti i comuni mortali, un divertissement dello spirito, un semplice intrattenimento che rilassa l’animo, ma un modo compulsivo di sfidare il mondo così com’è e di mandare all’aria le certezze e la razionalità su cui si sostiene, facendo luce sulle infinite possibilità di delirio, sorpresa e assurdità che nasconde, e che, in mano a un abile giocoliere del linguaggio come lui, si possono scambiare per abbaglianti fuochi d’artificio intellettuali o per delicata poesia».
È dunque il linguaggio a essere il vero protagonista del romanzo, un linguaggio diretto e ammiccante, arricchito da citazioni colte, latinismi e anglicismi, ma sempre fortemente ironico, brillante, leggero. Aprendosi a vari livelli di lettura possibili, La ninfa incostante è un omaggio alla scrittura in sé e per sé. E non è forse questa una delle caratteristiche che segnano il lieve confine tra narrativa e letteratura?

(Guillermo Cabrera Infante, La ninfa incostante, trad. di Gordiano Lupi, SUR, 2012, pp. 267, euro 15)

“Aspettando il mare” di Bakhtiar Khudoijnazarov apre il Festival del Cinema

Un peschereccio in partenza verso il mare calmo, una donna spaventata da un presagio che corre verso il capitano e lo implora di portarla con sé, lasciando a terra una bambina. Poi la nave in rotta verso una tempesta di sabbia e il capitano che si risveglia a riva, spazzato lontano dal vento.
Inizia così Waiting for the Sea (proiezioni il 9/11 alle 20:30 in sala Cinema Lotto e il 10/11 alle 15:00, stessa sala) di Bakhtiar Khudoijnazarov, film fuori concorso a cui è toccato il compito di inaugurare la settima edizione della Festa Internazionale del Cinema di Roma.
È fortemente evocativo, un kolossal atipico che attinge riferimenti dagli spunti più disparati, dal cinema western alla pittura romantica.
Il capitano Marat, protagonista della storia, incarna l’ostinazione dell’uomo contro ogni difficoltà. La tempesta furibonda che ha spazzato via la sua vita, portandosi via nave, equipaggio e amore, non ha risparmiato nulla, neanche il mare. Via, svanito, prosciugato. Là dove c’era l’acqua ora c’è la sabbia, un deserto arido costellato di relitti di natanti naufragati esposti al sole come ossa di animali enormi. La comunità di pescatori è sopravvissuta e ha trovato un nuovo modo di organizzarsi. Guarda costantemente al passato, ha eretto musei dove un tempo c’era il porto e si strugge nel ricordo della pesca e di quell’acqua in abbondanza che tanto servirebbe a tutti per lavare via la polvere che ricopre ogni cosa. Tutti odiano Marat. Lo ritengono responsabile della morte della ciurma, colpevole dell’imperdonabile errore di aver voluto sfidare il mare nonostante i presagi negativi che serpeggiavano nei discorsi degli anziani e nel timore dei pescatori.
Quando Marat fa ritorno al paese dopo cinque anni passati lontano in un esilio non si sa quanto volontario nessuno è pronto ad accoglierlo, se non il vecchio amico Balthasar. Nonostante le ostilità, Marat è dovuto tornare per trovare la pace. A quel nuovo paesaggio deserto, sia emotivo che panoramico, il capitano non riesce a rassegnarsi. È convinto che il mare non possa uccidere, che le persone volate via con le onde siano ancora da qualche parte, che basterà rimettere la nave in mare per trovarle e salvarle. Così decide di trascinare, letteralmente, la sua nave in un viaggio alla ricerca del mare, lasciandola navigare per il deserto sospinta da un argano e dalla sua folle determinazione.
Khudoijnazarov ha dichiarato che Waiting for the sea, che giunge a quasi sei anni di distanza dal precedente, e acclamatissimo, Luna Papa, si ispira al drammatico prosciugamento dell’Aral, lago salato al confine tra Uzbekistan e Kazakistan, un tempo quarto lago più grande al mondo e ora ridotto a misero specchio d’acqua a causa del violento sfruttamento sovietico, che ha portato a una drastica riduzione del bacino idrico.
Collocando la vicenda in una regione russa non precisata, Khudoijnazarov accantona ogni intento ambientalista e mantiene della vicenda dell’Aral solo la carica immaginifica delle distese di sabbia e sale su cui si stagliano rottami arrugginiti di navi. Concentrando la narrazione sulla realizzazione di un’impresa impossibile, il regista ha messo in scena un film spettacolare sul piano delle immagini (il rituale apotropaico iniziale, con le donne del villaggio che gettano petali in mare per chiedere clemenza per gli uomini che si stanno per imbarcare, e la tempesta che investe Marat sono sequenze di forte impatto visivo), ma che perde molto sul piano dello sviluppo narrativo. Accade molto poco nei 120 minuti del film. Nessun sussulto, nessun colpo di scena, niente è capace di smuovere il capitano dal suo folle volo, né l’ostilità dei paesani, né l’invincibile amore di Tamara, la sorella della defunta amata. Gli ostacoli posti lungo il suo cammino non durano lo spazio di un minuto, vengono superati senza fatica, senza che nulla cambi, e quando infine il mare arriva si rimane in attesa di qualcos’altro che sia.
Al di là del merito artistico, la scelta di Waiting for the sea come pellicola inaugurale stupisce sul piano mediatico. Il fascino che un film russo, per quanto di un regista apprezzato, può esercitare sul grande pubblico è molto relativo. L’accoglienza riservata al cast alla sfilata inaugurale sul tappeto rosso è stata tiepida e leggermente distaccata, con l’esigua folla presente ai lati della passerella animata più da generica curiosità, più per la madrina Claudia Pandolfi, oltretutto, che da reale interesse o entusiasmo verso gli attori – tutti bravi – tutt’altro che volti noti del grande schermo.
Una partenza in chiave minore rispetto alle precedenti edizioni, quindi, che ha lasciato poco spazio alla mondanità e allo sfarzo puntando piuttosto su una proposta originale e di qualità. Saranno i prossimi giorni a dire se la scelta del neo-direttore artistico Marco Müller si sarà rivelata vincente.

“Venuto al mondo” di Sergio Castellitto

Venuto al mondo, il libro. Scritto da Margaret Mazzantini diventa uno dei successi letterari italiani del 2009, una storia che appassiona uomini e soprattutto donne, con il racconto di un dramma materno e di coppia. Una storia che come una matriosca racchiude al suo interno tante piccole micro-trame che ruotano intorno alla storia di Gemma e di Sarajevo, le due protagoniste legate da un sottile legame di reciprocità.
Venuto al mondo, il film. Diretto da Sergio Castellitto e sceneggiato insieme a quella stessa scrittrice che è sia l’autrice del romanzo che la sua compagna nella vita. La coppia artistica torna con una nuova pellicola e sceglie di riprendere gli ingredienti che avevano decretato il loro primo grande successo, Non ti muovere. Ecco allora che nel ruolo della protagonista torna un’intensa Penélope Cruz, con le sue forme materne e la sua anima latina, con lei arriva anche il trauma materno e la patina di tristezza che questo porta con sé. Questa volta si aggiunge Sarajevo e la sua guerra a complicare il tutto e a colorare la storia con il suo grigiore e la sua cruda violenza. Un film che sulla carta ha tutti i numeri per diventare il grande successo che il mercato cinematografico italiano stava aspettando, un contenitore di aspettative troppo elevato che, come spesso accade, genera insoddisfazione.
Gemma, studentessa italiana, arriva a Sarajevo per scrivere un’ordinaria tesi di laurea, ma ben presto si trova a vivere l’intensità di un legame che la porterà a cambiare e a rivedere ogni aspetto della sua vita con una luce totalmente nuova. L’incontro con il vitale fotografo americano Diego (non più italiano come nel libro, probabilmente per esigenze di recitazione) stravolge completamente la sua persona e accresce in lei il desiderio smisurato di maternità. I due fin da subito incanalano i loro percorsi sullo stesso binario, parlano di futuro e fanno progetti, diventando ben presto un essere altro. Come in tutte le belle favole d’amore che si rispettino arriva il nemico a scombinare i piani e a mettere alla prova il legame tra i due, che qui è rappresentato dalla sterilità di Gemma. Il ritorno a Sarajevo per ritrovare la forza di portare avanti la loro sfida con la vita, gli orrori della guerra e la paura di perdersi, cambieranno inesorabilmente le sorti di questa coppia e del loro amore.
Per chi ha letto il libro, per chi ha pianto per e con Gemma, il film apparirà forse freddo e non fedele all’intensità che il romanzo portava con sé. C’è da dire che la trasposizione sullo schermo di un romanzo tanto denso di emotività e ricco di sottotrame narrative e personaggi non è una sfida da poco, anzi. Purtroppo la narrazione filmica ha tempi molto più lunghi, e un film che già dura più di due ore non poteva fare di più. Detto ciò ci si chiede come mai il regista si sia lasciato prendere la mano dagli abusi stilistici e narrativi con il rischio di creare un film che a volte spiazza e a tratti diventa difficile da seguire. Sono parecchie le pecche narrative, le inquadrature inutili inserite con una mera finalità estetica, per non parlare dei continui salti temporali che rischiano di confondere lo spettatore non lettore. Viene da chiedersi anche perché scegliere una colonna sonora che crea ancora più confusione e non accompagna lo spettatore come il suo ruolo le imporrebbe. Infine, perché affidare il ruolo del vero protagonista del film, il figlio venuto al mondo, a un attore che ha ben poco dell’attore ma che condivide un vero legame sanguigno con il regista rischiando di rovinare i momenti di maggiore carica emotiva.
Tanti perché, è vero, ma una certezza: la storia di Venuto al mondo è una delle più belle e intense che il cinema italiano ci ha regalato in questo arido 2012 (che speriamo in questi ultimi due mesi ci faccia ricredere), una trama che non ha paura di toccare la violenza con mano e far vivere ai suoi personaggi la sofferenza, quella vera. Una trama che nel suo scorrere sullo schermo cattura l’attenzione dello spettatore che resta spiazzato davanti agli sviluppi narrativi ed empatizza facilmente con il dramma di Gemma e con la lenta morte interiore di Diego.
Venuto al mondo non è solo un film d’amore, neanche solo un film di guerra, è molto di più. È un dramma di vita, e la vita si sa racchiude un po’ di tutto. Il film, come il libro, genera una fitta rete di riflessioni e tematiche che si intersecano l’una con l’altra, ma tra cui una sola domina: l’accanirsi a possedere a qualsiasi costo qualcosa che il destino non ha programmato di includere nel proprio percorso. Un percorso che i cattolici ricondurrebbero a Dio e un’immagine che i non credenti affiderebbero a Madre Natura, ma una riflessione per tutti sull’importanza del vivere bene le fortune che la vita ci regala, senza inseguirne altre che forse non ci spettano. Perché forse quei desideri una volta venuti al mondo, sono destinati a morire.

(Venuto al mondo, regia di Sergio Castellitto, 2012, drammatico, 127’)

“I dispiaceri del vero poliziotto” di Roberto Bolaño

L’ultimo romanzo di Roberto Bolaño, I dispiaceri del vero poliziotto, è un libro postumo. Roberto Bolaño è scomparso prematuramente nel 2003, una tale perdita lascia sempre un gran vuoto poiché sono tanti gli interrogativi, le curiosità, le domande che avremmo voluto fare allo scrittore per poter immergerci in modo totale nel suo mondo.

Devo confessare che non avevo letto ancora nulla di questo fecondo scrittore e mi sono avvicinata ai suoi personaggi con timore reverenziale. Credo che non sia neppure questa l’opera con la quale cimentarsi per prima se si vuole conoscere l’universo Bolaño, ma ammetto che sono stata conquistata dalla narrazione prolifica che richiama alla mente lo scorrere inarrestabile di un fiume in piena. I lettori che lo seguono da tempo non avranno difficoltà a riconoscere un universo letterario in cui si muovono personaggi eccentrici e originali che lottano con coraggio per affermare il diritto alla vita. Alcuni di essi, presenti in altre opere, tornano a incantarci con le loro strabilianti avventure, si pensi ad Amalfitano e a sua figlia Rosa oppure al commissario di polizia Don Pedro Negrete.

Amalfitano è «un uomo ancora bello, dai capelli folti», un cinquantenne professore di letteratura, vedovo con una figlia bellissima. Proprio all’inizio della storia, perde la cattedra all’università di Barcellona a causa di una liaison omosessuale con il giovane adolescente Padilla. 

Amalfitano, intellettuale colto e raffinato, assiste impotente all’improvviso e inevitabile offuscarsi della propria reputazione. La sua frequentazione con Padilla grava come un’onta sul buon nome dell’Università. Egli si deve far carico della «montagna della mia colpa» come lui la chiama, e vedere compromessa per sempre un’avviata e brillante carriera: «io che ho fatto tante cose e ho creduto in tante cose ora mi vogliono far credere che sono solo un vecchio schifoso e che nessuno mi darà più un lavoro, e nessuno si interesserà più a me». Da quel momento inizia il viaggio di padre e figlia verso un posto lontano dove non arrivi l’eco di quel legame compromettente, «di quella macchia difficile da cancellare».

Amalfitano è un uomo vero, dal passato drammatico, e ha sempre dovuto lottare per difendere la propria dignità e i propri affetti, un uomo solo contro tutti: «Siamo due zingari senza clan, detestati, usati, sfruttati, senza veri amici, io un pagliaccio e mia figlia una povera bambina indifesa». Padre e figlia continuano il viaggio di un’esistenza raminga in giro per i continenti: «Io che ho visto mia figlia sorridere in Argentina, gattonare in Colombia e fare i primi passi in Costa Rica… io che sono andato a visitare l’Italia, la patria dei miei nonni».

Nella vita di Amalfitano c’è un grave lutto, la perdita dell’amatissima moglie Edith Lieberman, donna di grande fascino, che lascia un vuoto incolmabile: «Il fantasma di Edith Lieberman che ci lasciavamo alle spalle». Le spalle simboleggiano lo sforzo della fatica, dell’angoscia esistenziale, e racchiudono la volontà pervicace che inesorabilmente lo spinge ad andare avanti senza voltarsi indietro, «con ciò che restava della mia biblioteca sulle spalle». Le spalle sono la protezione, lo scudo, l’ultimo baluardo prima di arrivare all’uomo: «Ho fatto il bagno con mia figlia in spalla sulle spiagge più belle del mondo». Esse custodiscono, proteggono e sostengono al tempo stesso la preziosità di attimi irripetibili e l’intimità familiare come una roccaforte: «A modo loro padre e figlia sembravano vivere in un altro mondo, un mondo stregato, provvisorio e felice».

Il titolo dell’opera, suggerendo l’esistenza di un’indagine di polizia vera e propria, offre una chiave di lettura poliziesca e infatti nella seconda parte del romanzo compare un commissario, Don Pedro Negrete, che assumerà l’incarico di sorvegliare le mosse di Amalfitano. L’ambientazione da noir si riflette nelle scene in esterno, quasi sempre notturne, Amalfitano di notte s’incontra col suo amante: «quella sera… passeggiava nel viale più alberato e al tempo stesso più buio di Santa Teresa»; va a trovare i suoi amici professori in orario di cena, e anche per riflettere è «seduto all’imbrunire nella sua casa messicana». Un pomeriggio all’incontro con il preside Horacio Guerra nel famoso giardino botanico di Santa Teresa, sembra che la natura del parco sia pronta a inghiottire l’uomo e il suo peccato, «nel dedalo di viottoli scuri, ad Amalfitano parve il labirinto di un parco inglese ma barocco e folle… a tratti fra i rami comparivano pezzi di cielo e nuvole piccole e rapide». 

Il senso di colpa che giace silenzioso nel fondo dell’anima, aleggia in ogni luogo quasi ricordando la vergogna originale dei progenitori nel giardino dell’Eden, quando, scoprendo di essere nudi, non ebbero più il coraggio di mostrarsi al loro Creatore.

(Roberto Bolaño, I dispiaceri del vero poliziotto, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2012, pp. 304, euro 19)

[BioSong] “Sunday Bloody Sunday” degli U2

Come un fendente subito a segno. In medias res direbbero quelli bravi. Parliamo della percussione di Larry Mullen Jr, è lei a mettere subito in chiaro le cose in “Sunday Bloody Sunday”. Ti ritrovi in un attimo dentro la storia, dove il contesto è un vera e propria battaglia: esattamente quella, rigorosamente impari, ingaggiata fra i paracadutisti britannici e i manifestanti irlandesi nella tanto maledetta – quanto famigerata – “domenica di sangue” del 30 gennaio 1972 a Derry. Un evento epocale per gli irlandesi, sotto vari profili, e Bono non si tira certo indietro nel metterci il muso a ritroso.
Qualche accordo e The Edge definisce del tutto un intro di rara incisività. D’altronde lo stesso cantante ammetterà che l’espressività di “Sunday Bloody Sunday” è data dalla potenza dei suoi accordi più che dalla forza dalle parole. Esercizio di modestia inconsueta per una rockstar? O è semplicemente vero che a dominare sono le oramai leggendarie sonorità? Sta di fatto che quello che poi diviene il primo tassello diWar, l’album della consacrazione del gruppo irlandese, entrato di diritto nell’immaginario collettivo del rock. Eppure non può essere solo la strumentalità, per quanto davvero convincente, a conferire alla composizione un ruolo tanto importante, addirittura decisivo a posteriori, per Bono e compagni. La forza è quella della rabbia giovanile, termine che in realtà non si addice poi tanto a Mr. Vox, già così predisposto a incanalarla verso energie non autodistruttive.
D’altronde quando la voce degli U2 afferma che questa non è una canzone di ribellione, conferma la lucidità con cui muove l’analisi verso un’ampiezza che non si ferma al caso contingente, verso un piano in cui il dolore si fa universale. Sono la brutalità della guerra e dell’odio nella propria connotazione quasi antropologica a essere messe in discussione.
Il caso da cui parte tutto è però ben chiaro: quella domenica del 1972 ti sconvolge per forza, e allora: «non posso credere a queste notizie, non riesco a chiudere gli occhi». E subito la citazione biblica sferzante e che diviene il vero simbolo musicale dell’intero pezzo: «How long must we sing this song?» Per quanto tempo dobbiamo cantare questa canzone? (concetto portante del disco, pensando alla chiusura con “40”). «Per quanto tempo» non è solo un richiamo al caso irlandese, evidentemente pregnante nella vicenda dei quattro ragazzi di Dublino, ma un’allusione all’orrore senza tempo della guerra. Le «bottiglie rotte sotto i piedi dei bambini e i corpi sparsi attraverso la strada della morte» non devono essere un alibi per entrare nel circolo vizioso del morto chiama morto: «non darò retta alla voce della battaglia». In questo verso si scorge tanto chiaramente, ancor più nella prospettiva di un trentennio dalla scrittura del testo, la straordinaria fermezza nel seguire una via alla pace staccata dalle armi. E nello specifico una via alla musica in cui sia ben presente la ricerca del senso, non cedendo mai il passo a produzioni effimere. Lo strenuo invito, il testamento ante littteram è già in “Sunday Bloody Sunday”, e con un filo sottile e d’acciaio giunge fino ad “Acthung Baby” e a un mondo senza Muro: «perché stanotte possiamo essere uno solo» (in tal senso “One” appare quasi un compimento).
La guerra non fa vincitori, lo sa bene Bono, di sicuro sono in molti a perdere, «ma dimmi chi ha vinto». Se non tutti perdono, tutti hanno ferite impossibili da rimarginare, perché la trincea è quella «scavata nel cuore e madri bambini, fratelli, sorelle sono lacerati».
Il pensiero non dimentica chi è dentro la storia, dentro la battaglia, stando attenti al pericolo, già avvertito nei primi anni ’80, della confusione fra tv e realtà; intanto «noi mangiamo e beviamo mentre loro domani moriranno».
Il dolore può portare alla disperazione, ma la resa non è contemplata: la risposta alla domanda su quanto ancora dovremo cantare questa canzone non è poi così ardua da scorgere. L’esempio è massimo, perché «Gesù vinse», nell’ambito di una neanche tanto velata provocazione che spinge a riflettere sull’unità intrinseca di protestanti e cattolici. Il paradosso risiede poi nel risultato pratico, con una canzone che dal 1983 viene cantata senza soluzione di continuità, e lo sarà ancora per molto. Tutto ciò perché “Sunday Bloody Sunday” è divenuta anzitutto manifesto, sganciandosi immediatamente da una repentina quanto mera reazione emotiva. Accordi e parole sono più che mai attuali, vivi. Allora come oggi è guardando oltre che «possiamo essere uno solo».

(U2, “Sunday Bloody Sunday”, War, 1983, 4’38’’)

 

 

Festival Internazionale del Film di Roma: si parte

Anche quest’anno, per il settimo consecutivo, Roma Capitale ospiterà dal 9 al 17 Novembre la nuova edizione del Festival internazionale del Film di Roma, con l’adesione del Presidente della Repubblica e prodotta dalla Fondazione Cinema per Roma.

La brillante novità che acquista l’evento quest’anno è la direzione artistica di Marco Müller, il critico e produttore cinematografico italiano che fino al 2011 ha diretto la Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Il moderno complesso, progettato da Renzo Piano nel 1995, dell’Auditorium del Parco della Musica, aprirà le sue ampie sale per le proiezioni e diventerà il red carpet per la realizzazione di questo spettacolare evento. Ma non solo: Müller ha organizzato una «mappatura» vera e propria della città, scegliendo quali luoghi del cinema rendere visibili e come; saranno disponibili, oltre all’Auditorium Parco della Musica, l’Auditorium MaXXi, il cinema Multisala Barberini e il Villaggio Casa Alice.

La selezione ufficiale prevede quattro categorie: la prima,Concorso internazionale offre tredici film (più due proiezioni a sorpresa) in anteprima mondiale, con Pappi Corsicato, Paolo Franchi e Claudio Giovannesi a rappresentare l’Italia.

In Fuori Concorso sono presentate proiezioni di gala del 2012, in prima mondiale e internazionale. Primo film in programma è il kolossal Aspettando il mare, del regista russo Bakhtyar Khudojnazarov, a cui spetta il compito di inaugurare la kermesse.

Una linea di programma dedicata alle nuove correnti del cinema, senza distinzione di genere e durata, e ad opere che esprimano le ridefinizione del cinema all’interno della contemporaneità è invece CinemaXXI.

Le prime mondiali tutte “all’italiana” sono, invece, offerte dalla categoria Prospettive Italia, volta alla ricerca di un punto sulle nuove tendenze cinematografiche della pellicola nostrana. Tra i registi più noti Alessandro Gassman con Razza Bastarda, Susanna Nicchiarelli con La scoperta dell’alba, tratto dal romanzo omonimo di Walter Veltroni, e Carlo Lucarelli, giallista e volto noto del piccolo schermo, all’esordio assoluto alla regia cinematografica con L’isola dell’angelo caduto, tratto da un suo romanzo.

Interessante in questa sezione è Carlo!, un mediometraggio di 75 minuti realizzato da Gianfranco Giagni e Fabio Ferzetti in omaggio a Carlo Verdone e alla sua arte inquadrata dalla prospettiva totalmente inedita della vita personale, con ricordi e contributi di attori, amici e parenti attraverso le strade e la vita di Roma, offrendo un faccia a faccia con l’attore-regista che rende questo panorama, a volte distante, più vicino di quanto non sia mai stato.

In programma sono anche RETROspettiva Cinema Espanso (1962-1984), rassegna di  corti, medi e lungometraggi in un rapporto che lega arti visive e cinema negli anni Sessanta e Settanta, quando anche nel cinema italiano nascevano nuove idee, più libere, senza regole e imposizioni: dai montaggi pop di Tinto Brass e Kim Arcalli agli assemblaggi di Fiorella Mariani, dalle “esperienze non teatrali”di Marcello Grottesi al Poema a fumetti di Dino Buzzati, fino a Chiedo asilo di Marco Ferreri con Roberto Benigni. Una sezione autonoma e parallela che confluisce nel Festival dal 2006 è Alice nella città un progetto che promuove nelle scuole la creatività e l’iniziativa in ambito cinematografico: esordi alla regia e attività di recitazione in collaborazione con i ragazzi dell’Istituto Comprensivo Via Guicciardini – Plesso Bonghi di Roma.

Tanti altri eventi fanno da corollario a questa nuova edizione. Con Jet Set- Quando l’aeroporto sembrava via venetoil Teatro Studio dell’Auditorium mette in scena un cortometraggio di 27 minuti in cui artisti, divi internazionali e italiani atterravano sulle piste degli aeroporti romani, accompagnati da scoop, cinismo e una “Dolcevita” conforme agli anni ’50-’70. Cinema, Roma, Memoria: incunanboli dalle Teche RAI è l’omaggio del Festival Internazionale del Film di Roma al repertorio artistico, culturale e visivo per la memoria del cinema a Roma e in Italia, attinto dalla “mamma” Rai. Nell’anno del venticinquesimo anniversario del capolavoro di Stanley Kubrick Full Metal Jacket, Roma rende omaggio al celeberrimo regista offrendo una mostra fotografica grazie al contributo di Solares Fondazione delle Arti, in collaborazione con Matthew Modine, l’attore statunitense che interpretò il soldato Joker.Full Metal Jacket Diary Reduxseleziona circa cento foto scattate durante la registrazione del film, disponibili nel Teatro Studio dell’Auditorium in tre date a ingresso libero. Roma è così pronta a ospitare lunghi vestiti suntuosi e sorrisi smaglianti, a vedersi protagonista di una Hollywood internazionale, a fotografare attori e attrici del mondo, per una rassegna che ogni anno fa brillare gli occhi di cultura e ospita tutti nella dolce culla del cinema.

Flanerí seguirà l’evento e vi terrà aggiornati quotidianamente con resoconti e notizie direttamente dal Festival.


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http://www.romacinemafest.it