“Strafalciopoli. Dove la cronaca si fa comica” di Gianluigi Gasparri

Capita a tutti di incorrere in uno strafalcione, non c’è che dire. Non tutti lo fanno indossando la veste di giornalista e in questo caso lo strafalcione rischia di assurgere a etichetta negativa di un’intera categoria, soprattutto se il fenomeno si ripete tanto spesso. Forse è una simile considerazione che ha mosso il giornalista-scrittore Gianluigi Gasparri a mettere insieme in un unico testo, Strafalciopoli. Dove la cronaca si fa comica (La Lepre Edizioni, 2012), una serie di errori/orrori di colleghi di varia provenienza, che negli anni gli è capitato di osservare (dal punto di vista, lui sì, di affermato cronista). Certo fra i più giovani e inesperti il rischio di scrivere nefandezze è più elevato, ma nel regno di Strafalciopli trionfa la democrazia e la possibilità di accogliere nuovi adepti non viene negata a nessuno. La fucina è rappresentata da quel giornalismo di periferia caratterizzato sovente da una giustificabile frustrazione. A volte è l’ansia di ricercare la notizia a tutti i costi, altre ancora è una sorta di mania di grandezza da scoop che porta alla creazione di vere e proprie chicche (involontarie) di pura comicità. La reazione del lettore è anzitutto quella di una grassa, ricca risata, per poi lasciare spazio all’inevitabile stupore e alla domanda su come sia stato possibile giungere a tali nonsense.

Il livello (assai basso) raggiunto dagli strafalcioni emerge lampante dal testo. Come quando viene riportato da un reporter che un uomo «ha il vizio di spaventare le signore e le signorine mostrando le sue discutibili grazie. Quella di cui è vittima il giovane, è codificata fra le devianze sessuali come la necrofilia». Di terreni fertili per gli autori di strafalcioni se ne trovano in abbondanza, con una crescita continua di frutti che non sembra conoscere crisi. D’altronde, se raccontando le vicende di un Comune inoperoso (a dire del cronista), si può scrivere che l’amministrazione non «spiega il perché della cacalessi di fronte ai bisogni impellenti della popolazione», allora tutto è possibile. È possibile anche leggere «Dionigi l’areofagita» e che i fan di Albertazzi «pendevano dalle sue orecchie».

Il tutto sotto lo sguardo severo di Gasparri, che non si capacita degli errori, tranciando di netto l’operato degli sfortunati giornalisti con una verve satirica potente. I commenti dell’autore agli strafalcioni sono fendenti che non perdonano, pur mantenendo un angolo di visuale ironico sull’intera faccenda. Il libro suscita un innegabile interesse grazie all’aggiunta, di tassello in tassello, di “perle” giornalistiche davvero clamorose. Manca forse un più incisivo riferimento all’inadeguatezza di certe “penne” all’interno della questione del giornalismo odierno, pur non essendo questo lo spazio adatto a una trattazione saggistica approfondita sull’argomento.

Il tessuto del testo è in definitiva dato dalla giustapposizione dei vari strafalcioni, conferendo alla comicità la cifra distintiva del libro. E come potrebbe non essere altrimenti, se uno dei giornalisti protagonisti delle chicche evidenzia che «resta da stabilire se il medico poteva fare qualcosa per allungare la vita al defunto che era affetto da una patologia piuttosto gravissima e inesorabile». Capita a tutti di incorrere in uno strafalcione. A qualcuno più spesso e con maggiore originalità.


(Gianluigi Gasparri, Strafalciopoli. Dove la cronaca si fa comica, La Lepre Edizioni, 2012, pp. 166, euro 16)

“Lazarillo de Tormes”: primo romanzo picaresco

Lazarillo de Tormes, pubblicato da un anonimo autore intorno alla metà del Cinquecento, è il primo romanzo picaresco nella storia della letteratura. Il quotidiano si lascia piacevolmente ridisegnare dall’immaginazione ed ecco che si apre la porta al romanzo moderno. Nel libro vengono narrate le avventure del giovane Lazarillo che passa da un padrone a un altro (un cieco da cui impara trucchi e inganni o un curato avarissimo, uno scudiero povero che non è disposto però a rinunciare alla sua idea di onore o un venditore di bolle pontificie pieno di astuzie e di trovate) fino a ottenere un impiego di banditore a Toledo e uno stabile benessere all’ombra della moglie che entra e esce, di giorno e di notte, dalla vicina casa dell’arciprete, il quale riempie di doni la coppia.

Un racconto diviso in episodi, e in ogni episodio l’incontro con un personaggio, gli aneddoti, tutto viene sapientemente dipinto con abili pennellate. I personaggi che di volta in volta incontra Lazarillo sono ritratti con brevità perfetta: lo scudiero che per mantenere il suo onore e la sua dignità è disposto a vivere da povero e a saltare i pasti ma non a sciupare il suo abito e per far vedere di aver mangiato si siede davanti all’uscio di casa, nei momenti che seguono abitualmente l’ora del pasto, con un filo di paglia in bocca come stuzzicadenti; o il curato spilorcio che quando deve riparare la madia strappa i chiodi infissi nelle pareti della casa o quando deve catturare i topi si fa prestare la trappola e le croste di formaggio dai vicini.

Vittorio Bodini, traduttore della edizione einaudiana, sottolineò che «questa odissea degli infimi strati della società spagnola affascinò i lettori con la cruda allegria del suo racconto e il successo incoraggiò continuazioni e imitazioni dell’opera». E Pier Paolo Pasolini, che si occupò del breve romanzo in un testo poi raccolto in Descrizioni di descrizioni, in poche parole fece una precisa analisi del libro: «Che cosa preme dimostrare a Lazarillo? Qual è la sua tesi? È semplice: bisogna molto lottare per non morire di fame. Tutto lì. Nel suo racconto non c’è altro». E più avanti: «A questa monotonia animale del pasto, corrisponde però un’esperienza della vita che non ha proporzioni con essa: si tratta infatti di una esperienza irreligiosa, e dunque enormemente vasta».

Un raffinato ispanista siciliano morto nel febbraio del 2009, Giacinto Lentini, neLa formazione della monarchia spagnola(un saggio storico attento e di piacevole lettura attraversato da riferimenti alla letteratura spagnola e da riflessioni sul cuore umano), scrisse: «L’amarezza, d’altronde, questo stato d’animo veramente spagnolo, è uno dei motivi sempre presenti in quel periodo». Ecco, il breve romanzoLazarillo de Tormescoinvolge, diverte, suggestiona, ma dietro il divertimento si nasconde l’amarezza. L’amarezza di un popolo e l’amarezza di un’epoca in cui si confondono lusso e povertà, miserie umane e nobili sentimenti, ipocrisia, vizi e inganni. InLazarillo de Tormesvengono descritti i guasti della società spagnola, già all’inizio dello sfacelo, che continua ancora a ostentare festosità e fastosità. Insomma, viene anche raccontato un tempo nel quale possiamo ritrovare riflessi del nostro oggi.

Vito Catalano è nato a Palermo nel 1979 e vive fra la Polonia e la Sicilia; è nipote di Leonardo Sciascia. È autore di due libri: L’orma del lupo (Avagliano 2010) e Il vicerè giustiziere (Salvatore Sciascia editore, 2011)

“Twins” di Ty Segall

Twins di Ty Segall è un lapillo, un bolide. È difficile capire quando esattamente l’americano Segall sia esploso, dato il notevole numero di split album, compilation, collaborazioni e progetti degli ultimi cinque anni; certo è che questa deflagrazione non si è ancora fermata.
Il 2012 ha visto l’uscita di tre lp del musicista di San Francisco, tre progetti differenti e unici. Dal rock’n’roll psichedelico di Hair con i White Fence, al suono sporco e lo-fi di Slaughterhouse, all’ultima fatica, la sintesi policentrica di Twins, uscita per l’etichetta Drag City i primi di ottobre.
Twins è un fiume in piena: a discapito della compattezza e della totale coesione formale le tracce scorrono veloci senza mai richiedere uno skip; è il tratto distintivo di un artista in pieno fervore, con una necessità espressiva immediata, evidente all’ascolto – come se non bastassero le undici uscite discografiche degli ultimi due anni. Tempi veloci, riff nervosi, testi diretti, influenze musicali innumerevoli.
Dalla prima traccia, “Thank God for Sinners”, s’intuisce già il tenore dell’album, ma si resta subito spiazzati di fronte all’aggressività quasi punk di “You’re the Doctor”. Il salto verso “Inside Your Heart”, paranoica musicalmente quanto a livello testuale («It is living inside of me», inizia), è alto e lungo; ma ascoltando bene questi primi tre pezzi si percepisce la presenza di un tema, una ricorrenza sonora tra le tracce che le fa scorrere e dà loro omogeneità. Così la quarta, il singolo “The Hill” sorprende con l’intro femminile e delle vaghe reminiscenze beatlesiane nella voce di Segall. Non mancano i pezzi in cui il tempo rallenta, le pennate si lasciano sfogare, come in “Ghost” o nella psichedelica “Handglams”, fino ad arrivare al folk di “Gold on the Shore” e all’ultima “There is no Tomorrow”, un occhiolino a Syd Barret.
Le tematiche dei testi sono per la maggior parte dirette, niente di clamoroso o innovativo, alle volte palesi dai titoli (“Would You Be My Love”) ma anche grazie al cantato fanno da perfetto contralto alla strabordante forza strumentale.
Quando un genere musicale, il garage rock in casa Segall, è già stato rivisitato e sviscerato più e più volte, la saturazione è sempre in agguato o forse addirittura già avvenuta; in questi casi un punto di vista particolare e particolarmente ispirato aiuta a non perderne il valore. Ty Segall ha questa capacità, l’ha dimostrato e sta continuando a farlo. Se volete una prova, ascoltate Twins.

 

“La ragazza con la gonna in fiamme” di Aimee Bender

«Quando c’è troppo pensiero e troppo poco cuore il mondo si inaridisce e muore».
Ben vuole comunicare con la sua donna solamente guardandola negli occhi, convinto che tutto ciò che è superfluo impoverisca. Troppe parole sfociano in discorsi vuoti. I pensieri proliferano e il cervello cresce mortificando l’istinto, ma Ben è salvo, «torna indietro di un milione di anni al giorno», da umano a scimmia, fino a «prodigio unicellulare».
Nulla di strano.
Un uomo un bel giorno si sveglia con un buco nella pancia, come una ciambella, e nonostante questo gode di ottima salute. Sua moglie partorisce la madre defunta da anni. La famiglia riunita attorno alla tavola a mangiare una porzione di torta al marzapane congelata ai tempi del funerale.
Nulla di strano.
Una sirena dai capelli verdastri e un folletto con gli zoccoli di capra che frequentano il college nascondendo agli altri studenti la loro vera natura sotto gonne lunghe e trampoli. Bambine mutanti; l’uomo che si è fatto impiantare una gobba sulla schiena; un ragazzo orfano che ha il potere di trovare gli oggetti smarriti semplicemente pensandoli e seguendo la spinta che la loro evocazione produce.
Nulla di strano.
Il realismo magico di Aimee Bender è sorprendente al punto tale che sembrerebbe quasi sconveniente stupirsi. Non c’è nulla di strano in quello che racconta: il paradossale diventa possibile laddove quotidianità e fantasia si intrecciano.
La ragazza con la gonna in fiamme, (minimum fax, 2012), precedentemente pubblicato da Einaudi con il titolo Grida il mio nome, appare nella nuova traduzione di Martina Testa e raccoglie le sedici short stories che hanno rappresentato, nel ’98, l’esordio americano della scrittrice.
Aimee Bender conduce il lettore in un mondo dove tutto è possibile e dove la sospensione del giudizio lascia spazio alla piacevolezza di una narrazione scorrevole e ricca di descrizioni dettagliate che non appesantiscono la lettura in alcun modo.
La scrittrice americana è figlia dell’influenza di Carver, Kafka e Calvino. Il suo surrealismo è capace di penetrare e rappresentare processi psicologici profondi, un’abilità forse dovuta all’influenza del padre psichiatra e della madre ballerina, entrambi coinvolti in professioni capaci di dare peso ed espressione all’inconscio.
Ne La ragazza con la gonna in fiamme Aimee Bender affronta tematiche complesse: malattie, metamorfosi, deformità e storie di sesso che palesano le fragilità umane.
«Do alla gente noiosa qualcosa di cui parlare fra un morso alla pannocchia e l’altro».
Queste le parole di una donna che ha bisogno dell’altro per sentirsi speciale, preziosa, per trovare una traccia della sua presenza e la sua ragion d’essere nel mondo.
Questa giovane ricca ereditiera si sente l’oggetto del desiderio delle fantasie maschili per eccellenza ed è pronta a soddisfarle al punto che insegue fino in casa un uomo timido conosciuto in metro. Si lascia scartare come il dono di Natale più ambito e, una volta nuda e pronta a bruciare di passione, viene messa in disparte dallo sconosciuto che invece preferisce rilassarsi bevendo una birra, comodamente seduto sul divano, a guardare un programma televisivo.
L’erotismo è un ingrediente piccante e ricorrente in più storie. Il sesso come espressione di puro piacere oppure come unguento curativo come nel caso della bibliotecaria protagonista del racconto “Si prega di fare silenzio”: «Questa è la scopata che lei spera la spacchi in due e la uccida perché non ce la fa a sopportare la morte del padre: l’ha voluto morto così tante volte che adesso è difficile capire la differenza fra la fantasia e la realtà».
Una storia tira l’altra e, racconto dopo racconto, si giunge a quello che dà il titolo alla raccolta: una ragazza a una festa balla troppo vicina a delle candele al profumo di vaniglia e la sua gonna di chiffon va in fiamme, brucia. Proprio come la passione narrata Aimee Bender, che permea lintero libro.

(Aimee Bender, La ragazza con la gonna in fiamme, trad. di Martina Testa, minimum fax, 2012, pp. 172, euro 14)

“Oltre le colline” di Cristian Mungiu

Oltre le colline è un film che parla d’amore. Un amore malato però, che si manifesta attraverso dolorosi sintomi dell’anima che nessuno riesce a cogliere e a guarire.
Alina e Voichita sono cresciute insieme in orfanotrofio condividendo ogni cosa, ogni emozione e paura; una volta raggiunta la maggiore età, però, le loro strade si dividono e prendono direzioni opposte: Alina, affidata a una famiglia adottiva, fugge in Germania, paese simbolo di un Occidente corrotto in cui tutto è possibile, anche realizzare i propri sogni di felicità; Voichita invece rimane in Romania e viene accolta da una comunità monastica di fede ortodossa situata poco lontano dalla città, poco oltre le colline.
Il film si apre con l’arrivo in stazione di Alina (Cristina Flutur), tornata al suo paese natale per incontrare l’amica e portarla con sé in Germania, dove già le aspetta un lavoro, con la speranza di poter riallacciare l’intenso legame con lei e di ricominciare una vita insieme. Ma il tempo trascorso e le esperienze vissute hanno plasmato in modo assai diverso le due ragazze e Voichita (Cosmina Stratan), che ha appreso nel monastero l’amore per Dio, non vuole separarsene e si dimostra restia a partire.
Si crea così un violento conflitto tra diversi tipi di amore: da un lato un amore salvifico verso Dio che deve necessariamente essere manifestato con ogni singola azione della propria vita e dall’altro un amore inconfessabile; da una parte l’amore divino, dal quale distaccarsi o solo dubitarne costituisce un grave peccato, dall’altra l’amore terreno che lotta per conquistare il suo posto tra i sentimenti più travolgenti dell’animo umano. Ma se questo è lo scontro di fondo che percorre ogni scena del film, la sua manifestazione è volutamente offuscata e va ricercata nei suoni che accompagnano i dialoghi, nei silenzi e negli sguardi dei protagonisti.
Cristian Mungiu, il regista, già Palma d’Oro a Cannes nel 2007, racconta sapientemente questo conflitto lasciando parlare le immagini e i rumori, non utilizzando toni melodrammatici e fragorosi: lo spettatore viene investito dall’oppressione di un dramma che non esplode mai, che non ha risoluzione se non nel suo animo. Lo scontro avviene infatti all’interno dei personaggi, amplificato dalla cultura che ne permea e guida il pensiero e dall’ambientazione che partecipa alla loro sofferenza, per cui sembra che l’inverno non debba finire mai, né come stagione della narrazione, né come clima interiore di sofferenza. Ogni manifestazione concreta del conflitto, ogni parola pronunciata ad alta voce nel continuo sussurrare della vita monastica, ogni azione che si discosta dall’ordinaria sequenza che ne scandisce il procedere, viene avvertita come sintomo reale di malattia o di possessione da parte del maligno; ma né l’ospedale, né un esorcismo possono guarire quelli che sono i sintomi di un amore malato. E come cieche si dimostrano le strutture sanitarie di un paese ridotto in miseria e le buone intenzioni di comunità religiosa chiusa in se stessa, così cieco diventa quell’amore che finisce per trasformarsi in ossessione.
Sebbene sia ispirato da una storia realmente accaduta, il film si distacca da un intento cronachistico, non cerca colpevoli, non si risolve in alcuna condanna, non indaga probabili cause e nemmeno si sofferma sulle conseguenze, ma tenta di descrivere il lento insorgere di una passione strozzata utilizzando le armi del genere cinematografico – un esempio su tutti l’utilizzo di inquadrature che spesso tagliano il viso dei personaggi e preferiscono osservarne porzioni di corpo, le mani, i movimenti. In questo modo ogni gesto acquista una valenza simbolica che lascia intuire il dramma senza mostrarlo: applicare pezzetti di creta sul camino per arginare le perdite di fumo o toccarsi frequentemente compiendo il segno della croce possono essere letti come la volontà di soffocare un sentimento dalla forza inarrestabile e come il presagio di una finale, drammatica crocifissione.
Oltre le colline non è un film leggero, né per i suoi 155 minuti di durata, né per l’intreccio di temi che diventano il luogo in cui si addensa una tensione funerea, il luogo in cui si fronteggiano i sentimenti senza che possa essere celebrata alcuna vittoria. In ultima istanza, mostra quanto l’amore, se oppresso, possa “sporcare” l’animo umano. L’immagine posta a chiusura dell’opera non fa che renderne metaforicamente testimonianza.

(Oltre le colline, regia di Cristian Mungiu, drammatico, 155’)

“Mi fa male una donna in tutto il corpo” di Matteo Maria Orlando

È un piccolo canzoniere d’amore quello offertoci da Matteo Maria Orlando, intitolato Mi fa male una donna in tutto il corpo e pubblicato da La Vita Felice editore.
In versi raffinati e straordinariamente musicali, il poeta, con maestria e abilità, nonostante la giovane età, racconta il suo bisogno d’amore, descrive le bellezze della sua donna, lamenta la sua assenza, il «disteso martirio / della vibrante attesa» o il dolore dell’allontanamento sancito da versi come «partire / in fondo cos’è / se non morire?»
Già le parole di Jorge Luis Borges, citate in apertura e nel titolo della silloge, introducono in un’atmosfera incantata, in un universo vibrante di emozioni: nella contemplazione di una figura reale si esprime e si espande l’affetto del poeta.
La donna, sintesi razionale e sensibile della perfezione, è descritta come un’apparizione miracolosa, assurge a simbolo di verità e di fede, anche se di tanto in tanto, con elegante soavità, se ne loda la corporeità. Grazie a lei, scrive Orlando, «l’infante s’è fatto uomo, e l’uomo / poeta».
In molti testi, sempre sorretti da solide reminiscenze culturali e letterarie, è possibile rinvenire stilemi di diversa provenienza, apporti di paesaggio del sud (il poeta è salentino), per non parlare degli echi stilnovistici in versi come: «S’avanza / tra fango e nebulosa / col ritmo incalzante dell’onda» o «il cosmo si flette / al suo passaggio».
Nonostante il monologo serrato, evidente in alcuni versi, l’autore resta sempre “in relazione” con l’oggetto d’amore. Da emozione intima e individuale l’amore diviene sentimento universale e trascendente, tanto che anche la storia e la realtà circostante sono assimilate ai tratti fisici della donna, «la storia ha gli occhi, / come i tuoi, / atroci». È forza che travolge e deterge, «violento il tuo fluire, è avanzata di falange» così come «milizie» sono le sue labbra, diviene viatico di conoscenza, sentimento del mondo quando scrive «leggo / sul tuo palmo / l’esatta geografia / dell’universo».
Di qui il passo è breve, facile desiderarla sposa, madre dei propri figli, cibo stesso, «Sei il pane che s’accalda / nelle mani della madre», dove gli elementi pane, calore, mani, madre diventano allusivi di benessere, di un calore familiare che riscalda e che sostiene fino a considerarla l’ultimo approdo, «l’isola che l’esule / rimpiange / nell’ultimo sospiro» che ricorda certi temi e atmosfere foscoliani. Ed è così che nello stesso verso coesistono elegia e dramma, contemplazione appassionata di ciò che è nobile e bello e contenimento del proprio dolore segreto.
Come scriveva Borges: «È l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce, / la speranza e la memoria».

(Matteo Maria Orlando, Mi fa male una donna in tutto il corpo, La vita Felice, pp. 64, euro 10)

“John Gabriel Borkman”, regia di Pietro Maccarinelli

Fa freddo sulla scena. Meglio coprirsi bene, anche per assistere. Perché così, immobilizzati mentre tutto il resto accade, si rischia di rabbrividire. Sul palco luci azzurre, poche sedie e una poltrona, che spostandosi o negandosi agli occhi diventano due piani diversi, quelli di casa Borkman. È lì che risiede l’azione, lì che si snoda la vicenda di John Gabriel Borkman, dramma composto da Ibsen nel 1896 e portato in scena al Teatro Eliseo dal 16 0ttobre al 4 novembre, per la regia di Pietro Maccarinelli. Il protagonista, così pesante da intitolare l’opera, è un ex direttore di banca, arguto, rapace, un perfetto rampantista anni ’80 piovuto un secolo prima. John Gabriel (Massimo Popolizio) credeva in se stesso, nel potere che lo aveva scelto per affinità elettiva, con una sola carezza. Nel potere che lui stesso era in grado di creare, come una pianta da innaffiare finché il cielo non sentisse prurito. Si riteneva un demiurgo, capace di costruire il destino proprio e la fortuna altrui. Qualcosa, però, lo ha tradito. Investimenti miopi, tempi sbagliati o forse lui stesso, la sua smodata fiducia nel possibile. Borkman sprofonda, nell’ignominia del disonore, nel dissesto che prosciuga per prima la sua faccia e poi le sue ricchezze. Inabissandolo in carcere e poi nascondendolo al mondo dentro una stanza che ormai non gli appartiene.
La sua nuova vita si consuma al gelo, con un lampadario che non lo illumina abbastanza, che non vuole guardarlo più del necessario. Al piano di sotto scorrono le donne a contendersi il proscenio.
E non solo quello. Le sorelle Rentheim, gemelle e opposte, l’una moglie (Manuela Mandracchia) e l’altra cognata ed ex compagna di Borkman (Lucrezia Lante della Rovere) si ritrovano dopo otto anni, perché il presente scalpita e chiede udienza oltre la porta. In quella distanza, di giorni e di affetti, il piccolo Erhart (Alex Cendron), figlio dei due coniugi, è diventato adulto. Almeno secondo i suoi vestiti. In realtà balbetta, come il suo cuore, diviso tra l’amore per la zia che lo ha allevato nei momenti scuri e la soggezione nei confronti di sua madre, che dopo tanta lontananza ha deciso di riconquistarlo, come un bottino usurpato. È ammaliato dalla sua età, dalla giovinezza che lo chiama con forza, perché goccerà via se non saprà afferrarla. Ma soprattutto Erhart è il loro conflitto incarnato, quello che una non è mai stata, ovvero madre biologica, e quello che l’altra non diverrà mai, ovvero madre effettiva.
Ognuno vive la sua solitudine, la struggente incomprensione dell’altro. A Borkman resta solo un amico, Foldal (Mauro Avogadro), autore di un testo mai pubblicato e di una figlia che preferisce fuggire altrove, a suonare il pianoforte, a respirare altra musica.
Borkam però non si arrende, capisce di aver atteso troppo, di essere appassito oltre ogni data e comincia a pensare che forse una rivincita è ancora realizzabile, che il fiato di quelle ricchezze bisbiglia ancora sotto il terreno, come un metallo da estrarre, come un altro finale per il suo copione. Ma il freddo, appunto, è tanto. Tanto da tagliare, tanto da tagliarsi, da tramutarsi in fretta in un bosco ossuto, dove sopravvivere alla notte è davvero una sfida.
Popolizio offre una prova straordinaria, una voce che attraversa le battute, le cesella e poi le impugna come un fendente. È il padrone del pubblico, anche quando non appare. Anzi, la sua assenza ingombra di più, diventa ansia di vederlo affacciarsi, è il fantasma dei suoi errori e dei rimpianti collettivi. Lo slancio vitalistico punito fino all’estremo, il contrappasso antropomorfo della sua arroganza. Il self-made man ridotto a ectoplasma, a trapestio di passi che disturbano il soffitto. Dramma asciutto e compatto, musiche intense, essenziali, che salgono fino a ferire.
Testi inchiodanti, atemporali, che calano da un’epoca x e continuano a parlarci. Della fragilità che ci abita, c’infetta, ci racconta di non essere mortale. E di cui ogni giorno cerchiamo di scordarci.

John Gabriel Borkman
di Henrik Ibsen
regia di Pietro Maccarinelli
con Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Lucrezia Lante della Rovere

In scena al Teatro Eliseo di Roma, dal 16 ottobre al 4 novembre 2012.

“Homeland” di G. Raff, H. Gordon e A. Gansa

Alcuni drammi storici si cicatrizzano solo parlandone. Rendendoli pubblici, mostrandoli senza filtri. Gli Stati Uniti per chiudere il terribile squarcio delle Torri Gemelle e le successive operazioni militari, hanno usato tutti i mezzi narrativi a loro disposizione per mostrare al mondo e a loro stessi il proprio dolore. Ma anche la voglia di andare avanti. Strumento privilegiato e più autorevole di questa cura è stato per molto tempo il cinema: dal corale 119 ai numerosi thriller e film drammatici basati sulla lotta al terrorismo e sulle campagne in Medio Oriente, tra cui spiccano lo sconcertante Redacted del maestro De Palma, e il più recente e premiato The Hurt Locker della Bigelow.

Ora la tv sale in cattedra, e dopo aver proposto le tematiche in salsa action (arrivando a livelli superbi con il cult 24), ci propone il lato drammatico della lotta ad Al-Qaida con Homeland – Caccia alla spia, la serie per eccellenza del 2012, capace di sbancare sia a livello di ascolto che a livello di critica e premi.

E basta davvero poco per capire il motivo di un tale successo. Già dalla puntata pilota il tenore qualitativo della produzione si mostra notevole, cinematografico per impostazione e investimento dei mezzi. Vediamo nelle prime scene l’agente della CIA Carrie Mathison scoprire da una sua fonte segreta che il terrorista Abu Nazir ha appena convertito un agente dell’esercito americano ai fine della sua battaglia. Stacco. Dopo un anno, l’agente scopre che in una recente missione, sono stati ritrovati, dopo otto anni di prigionia, due marines americani. Uno morto, l’altro vivo. Il superstite, il sergente Brody, è pronto a tornare a casa, celebrato come eroe di guerra. C’è solo un problema, un dubbio: Carrie è convinta che la spia di Abu Nazir sia proprio lui. Ne è convinta così tanto da farlo sorvegliare di nascosto, arruolando sue vecchie conoscenze per mettere la casa sotto controllo audio e video. Il suo mentore, inizialmente, è giustamente scettico, ma appena arrivati alla fine della prima puntata, scopriamo che i sospetti sono motivati.

Tratta dall’israeliana Hatufim e prodotto di punta della rete Showtime, la serie è il classico esempio di prodotto televisivo tranquillamente capace di competere e battere qualsiasi lavoro cinematografico.

A livello di sceneggiatura, Homeland è la quintessenza della serie-drama per eccellenza: sviluppo della profondità dei personaggi, regia impeccabile, uso del flashback magistrale e soprattutto dei colpi di scena finali che legano completamente lo spettatore a ogni episodio.

Menzione a parte per il cast, fresco di Emmy, in cui Claire Danes raggiunge la maturità del suo percorso recitativo. Grazie a lei l’agente Mathison è fragile, tesa, paranoica e ossessionata dalla vita privata turbolenta e troppo spesso assuefatta ai medicinali. Ma al contempo è determinata e spietata nel perseguire la sua missione e scoprire i misteri dietro il ritorno a casa di Nicholas Brody, interpretato altrettanto magnificamente da Damian Lewis, già visto e apprezzato nella stupenda Band of Brothers e nella sfortunata Life, partita con il botto e poi troncata a metà della seconda stagione. A chiudere il quadro, Mandy Patinkin, il Gideon di Criminal Minds, qui nel ruolo del supervisore e mentore di Carrie.

Giunto ormai a una seconda stagione che già sta incollando l’America davanti allo schermo, Homeland si appresta a essere annoverata tra gli annali delle serie e a fare la storia del piccolo schermo, sia per gli effettivi meriti, sia per il seguito che sta creando. Bentornato a casa, agente Brody.

Libreria Nuovo Sacher: uno spazio ragionato per l’editoria

L’ultima settimana del mese “DietroLeQuarte” va in giro: dopo il primo speciale dedicato a un editore, siamo andati a trovare i libri nel loro habitat naturale. Quale consiglio migliore da darvi se non l’indirizzo di una libreria di qualità dove trovare il meglio dell’editoria indipendente romana? Siamo approdati alla Libreria del cinema Nuovo Sacher, da  poco riaperta con una gestione sperimentale.                                              

Un tavolone circondato da varie mensole e scaffali, nulla più, apparentemente. I libri ordinati, gli uni sugli altri, a formare piccole isole, brevi percorsi di lettura, quasi una mappa in miniatura del panorama editoriale indipendente. Un espositore per gli audiolibri, cartellini colorati a indicare offerte e consigli, locandine di film vecchi e nuovi ad animare le pareti. Non più di un angolo, forse, ma un angolo prezioso, incastonato tra la storica sala cinematografica e un bar accogliente: il luogo ideale per unire, insomma, la passione per il cinema con quella per i libri e, perché no, per i dolci.
 


In questa cornice, che per scelta ospita solo una ristretta selezione di titoli, troviamo infatti dodici realtà diverse unite un solo progetto. 66thand2nd, Emons audiolibri, e/o, Fandango, Lantana, La Nuova Frontiera, minimum fax, nottetempo, Nutrimenti, Orecchio Acerbo, Quodlibet, Voland: dodici editori, dodici marchi e dodici linee editoriali differenti, accomunate dalla volontà di coesistere in uno spazio articolato e di qualità, e soprattutto di trovare una valida alternativa ai sistemi di distribuzione tradizionali.

Non un paio di titoli invisibili tra i colossi delle grandi catene, dunque, ma uno spazio ragionato, che permette a ogni lettore di identificare un progetto e approfondirlo.
 


Dai miti della letteratura americana contemporanea, come Barth e Wallace, a classici latinoamericani del calibro di Benedetti e Ribeyro. Da  Tolstoj a Mo Yan, dalla saggistica ai libri illustrati, dagli audiolibri ai dvd. Tantissime quarte dietro cui sbirciare. 

Perché abbiamo scelto di parlarvi di questo piccolo mondo, vi chiederete. Be’, le ragioni sono molte: perché volevamo aiutarvi a scoprire un luogo in cui i lettori possono davvero entrare in contatto con le realtà editoriali; non solo perché, come ormai si sente dire sempre più spesso, le piccole librerie indipendenti stanno diventando più uniche che rare, ma perché abbiamo trovato tra questi scaffali una selezione di titoli che raramente altrove riescono a rappresentare una casa editrice così a fondo. 

La Libreria Nuovo Sacher ci è sembrato un esempio pratico – circoscritto ma perfetto – di ciò che Flanerí tenta di fare a livello teorico con “DietroLeQuarte”: un approfondimento, una piccola mappatura dell’editoria indipendente, che preveda sì una selezione, ma anche uno spazio e un tempo adeguati, per dare la giusta importanza e il giusto rilievo a chi quel libro l’ha pensato, desiderato e costruito nei minimi dettagli, perché non sia solo il singolo titolo a restare impresso, ma l’intero progetto che vi sta alle spalle.


Da oggi in poi, ogni mese, andremo in cerca di altri luoghi come questo, piccole realtà controcorrente che non aspettano altro che essere scoperte. 


Per ulteriori informazioni:
Libreria Nuovo Sacher
Largo Ascianghi, 1 – Roma
Orario: tutti i giorni dalle 15 alle 22.

“Io sono il Libanese” di Giancarlo De Cataldo

Chi non ha letto il libro, visto il film, seguito la serie tratta da Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo alzi la mano! Beh, qualcuno ci sarà, ma anche i membri di questa sparuta minoranza non potranno fingere di non aver mai sentito parlare del Freddo, di Dandi, di Bufalo e del Libanese.

Il giudice scrittore tarantino torna ad animare i suoi personaggi più celebri e non in pochi avranno acquistato questo snello libretto targato Einaudi Stile libero per tuffarsi tra le pagine di Io sono il Libanese, prequel del fortunato romanzo del 2002, ispirato alle gesta terribili della Banda della Magliana.

Nell’ottobre del 1976 la Banda è ancora tutta da fare. Pietro Proietti, 25 anni, in arte il Libanese è un piccolo delinquente con un progetto di cui facciamo la conoscenza in carcere mentre, tale e quale a uno dei gatti di Largo Argentina, inamovibile osserva lo svolgersi di una rissa. L’intervento interessato, all’ultimo momento, a favore di tal Ciro, nipote di Pasquale O’Miracolo, frutterà al nostro l’amicizia del noto camorrista, che gli offrirà poi la possibilità di entrare in un grosso affare di droga. Le centotrenta pagine del romanzo sono una corsa a perdifiato verso i trecento milioni necessari per entrare in società con i calabresi, i siciliani e i camorristi del Professore, e da investire nel viaggio di una nave carica di eroina. Una storia di malavita, quindi, ma non solo. De Cataldo approfitta dell’espediente del prequel per porre al protagonista delle domande su se stesso. Nonostante il futuro si riveli in profetici sogni a occhi aperti, e compaiano, più o meno sullo sfondo, tutti i personaggi che faranno la storia della Banda della Magliana, il romanzo nasconde sotto la scorza una storia d’amore, grazie alla quale è concessa a Libano un’alternativa. L’alternativa ha nome Giada.

I due si conoscono quasi per caso. Lei avvicina il Libanese con scopi scientifici e con l’arroganza naif che i buoni samaritani monteverdini hanno verso i meno abbienti, si convince di poter addomesticare la rabbia che fa del protagonista una belva animata da revanscismo e fame e finisce per immolarsi alla delusione annunciata. Negli anni di piombo e del femminismo militante, Giada parla alle orecchie del Libanese, attraverso le quali ascoltiamo, per la maggior parte del tempo, come da un registratore rotto. L’unica vera posizione ideologica è quella pizza e fichi del marcio tutto da un lato e dell’oro tutto dall’altra mentre il comunismo viene ridotto a fumosi comizi dove si suda e si imbruttisce e il fascismo viene rappresentato da quattro carabattole da nascondere alla fidanzata in visita. Importante e indifferente, tutto e niente, ispirata e illusa, pari e subordinata, Giada è la dea della piccola borghesia annoiata che si china a sfiorare l’uomo, ma che rimane profondamente disgustata dal puzzo della strada. Alla fine di tutto sarà forse per questo rifiuto che verrà punita, in un trionfo di determinismo sociale, e tradita per trenta denari che costeranno al Libanese anche l’occasione di un futuro noiosamente onesto.

A fare da scenografia Roma, che quando compare in un romanzo è sempre, in un modo o nell’altro, protagonista. Dalla penna di De Cataldo emerge una città che, né immacolata né dannata, abbandona i suoi figli per strada a imparare l’arte della sopravvivenza e, di sera, incanta chi la osserva dall’alto del Gianicolo ispirando grandi sogni. Roma che sembra essere terra di conquista, che ispira alzate di ingegno e che permette a tutti di sentirsi sovrani “de’ noantri” fino al momento in cui il Re di turno non le viene a noia e lo ricaccia nella polvere.

Conferma del talento narrativo di De Cataldo, Io sono il Libanese è un libro che si divora in un sol boccone e che fa il possibile per uscire dall’ombra del suo ingombrante predecessore. L’autore produce un’opera che riesce a integrare, senza intaccarlo, Romanzo Criminale. Eppure, ciò che avrà fatto la gioia dei lettori per cui “Misery non deve morire” è anche quanto compromette la maggior parte delle illusioni che la storia vuole suscitare. Il destino che sarà del Libanese è noto: Pietro è destinato a realizzare il suo sogno, altrove lo riconosceremo nell’Ottavo re di Roma, e a morire, e la conclusione della vicenda riesce a strappare purtroppo solo un sospiro di malinconica rassegnazione piuttosto che di reale partecipazione.

 

(Giancarlo De Cataldo, Io sono il Libanese, Einaudi, 2012, pp. 136, euro 13)

The Pills: a tu per tu con Luca Vecchi

«Ciao Ma’, esco!» «E dove vai?» «Devo incontrare i The Pills!» «E chi so’?» Non ho avuto tempo per rispondere a mia madre, visto il ritardo e il pensiero di dover percorrere la Tuscolana di pomeriggio. A dire la verità ne ho incontrato solo uno dei The Pills, Luca Vecchi, quello alto con gli occhiali, tra i rumori degli aerei in atterraggio verso Ciampino e l’insistenza di un venditore ambulante di calzini di spugna.
Luca: Sì, purtroppo eravamo già amici. In realtà siamo più di tre, siamo quattro, cinque, tipo i Monty Python, però gli altri due preferiscono dedicarsi ad ambiti professionali più sicuri, mentre noi stiamo cercando di renderlo un lavoro autoriale autentico.
Giulia: I tre sarebbero…
L: Io, Luigi e Matteo saremmo il nucleo creativo, poi ci sono Mattia e Dario, Federica, Serena, Melissa… A seconda di chi si presta di più per lo sketch in questione. In totale abbiamo 562 anni come i Puffi, in media 26, 27 anni.

Insomma sparavamo un sacco di cazzate e un giorno mi hanno regalato questo blocchetto che si chiama «How High Am I?», cioè «Quanto sto fatto!», dove annotavo le cazzate che uscivano fuori, quelle più realizzabili. Quelle più divertenti ho cercato di metterle in pratica: il compromesso era trovare un ottimo connubio tra fattibilità e divertimento nella fruizione. Ho scritto un sacco di cose che sono rimaste nel cassetto. Mi piacciono film come L’alba dei morti dementi, kolossal in chiave comica. Quando ho preso coscienza di non poter realizzare una sparatoria, anche per ridere, mi sono rifugiato nella scrittura. Ho pubblicato un libro di racconti assurdi che nessuno ha letto e poi ho deciso di mettere in pratica delle gag, delle pillole da mettere sul web. Mi è partita l’idea e ho cercato appoggio, si sono uniti i miei amici e siamo cresciuti sia dal punto di vista della ponderazione, che della pianificazione e della realizzazione.

G: Comunque avete facce che funzionano…
L: Sì, fino a adesso ha funzionato! Luigi vorrei vederlo in Squadra Speciale Kobra 11, mentre Dario è il Jim Carrey di Roma sud, mi piacerebbe utilizzarlo più spesso se solo si prestasse…
G: Recitate parti o è improvvisazione?
L: Ultimamente ci stiamo focalizzando un po’ di più sul rispettare le battute scritte, specie da quando siamo in un contesto televisivo, dove non puoi improvvisare molto. A livello tecnico giro ancora con la macchinetta con l’ottica base che compri da Media World. Abbiamo scelto il bianco e nero perché illuminare un interno in maniera efficace è un problema. Nei telefilm, nelle sitcom gli appartamenti dove si gira non hanno una planimetria regolare, sono girati in stanze che non sono quadrate, rettangolari, le pareti si spostano. Girare in uno spazio angusto è più un problema.

Da subito ci siamo piazzatisu YouTube, senza pensarci, non c’era l’obbiettivo di fare molte visualizzazioni, anche perché nemmeno adesso ne abbiamo tante. Uno come Willwoosh ne ha miliardi. Freaks! è tecnicamente impeccabile, a mio parere.
G: Ormai gli youtubers vanno di moda!
L: È una sorta di gavetta anche questa.

Ci hanno censurato pure su YouTube, abbiamo il parental control, devi fare l’iscrizione per vederci, questo forse inibisce la componente virale. Nessuno si può prendere la libertà come gli americani che fanno South Park e si beccano le querele e non gliene frega un cazzo a nessuno, la censura non esiste. Il passaggio su media canonici, come la televisione, un po’ nuoce, ti obbliga a ridimensionarti, a rientrare in una certa tipologia di canoni. Noi spingiamo per una comicità irriverente però non siamo nessuno, non possiamo dire tutto quello che vogliamo, o per lo meno ancora. La scorrettezza fa parte un po’ della nostra poetica e quindi la censura va a minare quello che siamo, la nostra creatività. Però assicuriamo che la seconda stagione sarà la cosa più scorretta, più blasfema e più bastarda che possa mai essere stata escogitata da mente italiana.
G: Mi hanno insegnato che per scrivere bene bisogna scrivere di quello che sai. I vostri sketch parlano di situazioni vissute da tutti come l’amore ai tempi dell’Erasmus e altre cose del genere…
L: Prendiamo ispirazione dalle cose che ci succedono, citiamo posti di Roma che fanno appello a un background comune che condividiamo.
G: Mi hai messo talmente in soggezione che ho nascosto la mia Smart!
L: Vabbè almeno non c’hai le Hogan!

G: Fabio Volo l’avete mai incontrato?
L: No in realtà non ci siamo ancora riusciti! Noi avremmo voluto girare l’ultima puntata con Fabio Volo, ma non c’ha mai risposto!
G: Dai, io qualche libro suo ce l’ho!
L: Ahia!! Ti confesso del disagio…
G: La Banda di Roma Sud?
L: Davvero un cazzo di film, ultimamente lo stavo riguardando… due palle! No? S’accolla un po’! La collaborazione con gli attori della serie di Romanzo Criminale è nata grazie a conoscenze varie e si sono offerti per fare un piccolo cammeo. Anche Dodò, che però è stato più difficile reperire, è passato dall’altra parte, c’ha una villa all’Olgiata, fa il produttore. In Italia non c’è molto questa cosa che l’attore serio del cinema si prenda in giro e si presti a collaborare a cose comiche e irriverenti.

G: La chiamata di Deejay?
L: Avevano uno spazio da riempire su Deejay e ci hanno chiamato. In realtà il format era un po’ diverso, doveva essere una cosa di fiction, si è definito in un lasso di tempo che praticamente è arrivato fino a ieri, anzi si sta ancora definendo. Si definisce in itinere!
G: Ma il tuo accappatoio?
L: È rimasto a Milano! Volevo fare una citazione sia da Lebowski che da Santa Maradona, l’uomo accappatoio che vive dentro casa per sfuggire alle responsabilità.
[Late Night with The Pills, tutte le sere su Deejay Tv alle 23:30, ndr]
Intanto si è fatto tardi e Luca deve scappare, grazie del caffè. Vediamo se adesso ci sono riuscita a spiegare a mia madre chi sono i The Pills. Se non ce l’ho fatta andate sul loro canale di YouTube!




 

“Proust e Vermeer” di Lorenzo Renzi

La mostra Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese, attualmente in corso alle Scuderie del Quirinale, e già segnalata da Flanerí, sembra riproporre, con splendidi risultati poetici, il tema del rapporto fra realtà e invenzione; esso è, quasi manualisticamente, squadernato avanti alla nostra attenzione, intanto nei vertici assoluti di almeno sei degli otto dipinti del maestro eponimo: in quelli, soprattutto, in cui una figura femminile, sola entro uno spazio domestico stagliato, si direbbe, nel silenzio, viene visitata da strepitose emanazioni di luce diurna che, per quanto accenda nitidezze di diamante nei vetri attraverso cui passa, non arriva, per il fenomeno di una misteriosa legge fisica di cui solo la mente (o forse, pascalianamente?, il cuore) dell’artista conosce il segreto, a dissipare la parvenza brumosa dell’umana carne alle braccia, alle mani, al volto.

Ma con chiarezza forse perfino più commovente, ciò risulta nel modo in cui nelle opere degli epigoni irrompe, a farsi epica di un borghese hic et nunc, la vita quotidiana: le stanze da letto da rigovernare, i cortili, gli interni che fanno da teatro al femminile spaccarsi le reni su un pavimento da tirare a lucido, o ancora, delle donne, il gesto di silenzioso orgoglio con cui, infreddolite entro la giacca da camera bordata di pelliccia, si sigilla una lettera (ci sarà un invito d’amore? Saranno solo pettegolezzi fra donne? In ogni caso: un affermare se stesse, alla faccia del mondo) e la si consegna alla servente per il riservato recapito.

E che dire, della sfacciata, lenticolare precisione con cui un Pieter de Hooch, nel “Ritratto di famiglia in un cortile di Delft”, da Vienna, scandisce i tratti del viso del patriarca seduto, nelle sue vesti tutte in rigoroso nero, a guardare negli occhi l’osservatore, quasi gettandogli in faccia il modo in cui, ancora a proprio agio in un mondo dove il suo Signore gli ha consentito di far buoni affari, e mantenere moglie, la sorella anziana, i due poco fattivi figli maschi, la quadrata figlia e il genero con la sua eleganza da damerino di provincia, non mostra il minimo desiderio di staccarsene?

Ma ancor meglio, direi, di quando è Vermeer a imporle le sue meditative leggi, la “verità” dell’invenzione trionfa quando è poi lui stesso, Vermeer, a farsi oggetto dell’alchemica deformazione operata, sull’opera sua, da un altro creatore: come ci ricorda proprio in questi giorni Lorenzo Renzi con l’edizione rivista del suo Proust e Vermeer. Apologia dell’Imprecisone (Il Mulino, 2012).

La “Veduta di Delft”,nella cui contemplazione, a metà di La prisonniére, lo scrittore Bergotte viene colto dal colpo apoplettico che lo ucciderà – con la stupenda metafora dei suoi libri, spalancati come ali di cherubini a vegliarne la salma, che anche Visconti recuperò per lo pseudo-D’Annuzio del suo Filippo Arborio nell’Innocente,e che qui Renzi sottopone a un’ironica quanto divertita verifica d’impraticabilità – non contiene affatto, come appunto Renzi stesso ci accompagna per mano a verificare, il «piccolo lembo di muro giallo» che riempie di stupore Bergotte. Ma eccolo, allora, il trionfo sublime dell’invenzione: proprio come la luce squisitamente selettiva del maestro di Delft, la parola dello scrittore vince la sua scommessa ogni volta che ci rende “vera” la sua più splendida menzogna, il suo meraviglioso “non-essere” come nella realtà che ci stanca i sensi ogni giorno.

 

(Lorenzo Renzi, Proust e Vermeer. Apologia dell’Imprecisone, Il Mulino, 2012, pp. 128, euro 10)