“Desh” di Akram Khan

“Desh”, in urdu significa “Patria”. Ma attenzione, non tutti intendiamo la stessa cosa quando ne parliamo. Per molti Italiani è uno dei tanti orpelli cui si sono abituati, insieme al tricolore che sventola inascoltato sulle sedi istituzionali, ai politici che sorridono, mentre pensano alle loro note spese, alla numerazione alle Poste, che tenta di impedirci di scavalcare chi è arrivato prima di noi. Insomma Patria è semplicemente il contenitore formale di questi comportamenti sostanziali. Ma Patria può voler dire anche origine, di se stessi, della propria famiglia, del futuro che si potrà o meno disegnare per i propri figli. Patria può voler dire ricerca di identità, può voler dire traffico che assedia le nostre città, senza permetterci di attraversare, figuriamoci di pensare; ma può voler dire anche stancarsi di questa patria e scappare, può voler dire odiare questa patria per quello che è diventata e non riuscire a muoversi, può voler dire urlare contro il proprio padre che non è di fronte a noi, ma impresso a fuoco nella nostra mente. Questo e molto altro è stato Desh, ultima grande performance di Akram Khan (38 anni, londinese, originario del Bangladesh, uno dei più celebrati coreografi-danzatori della sua generazione), ospite del RomaEuropa Festival 2012. Lo scorso 26, 27 e 28 settembre, i fortunati che si sono trovati di fronte agli 80 minuti di solo-performance di questo piccolo grande uomo, hanno spalancato gli occhi e accettato che la loro mente saltasse sulle spalle di Akram, mentre traballava su una barca di grafite e, di schizzo in schizzo, del mirabile visual designer Tim Yip, ci guidasse in una foresta magica, sopra alberi infiniti, dentro alveari giganteschi, in bocca a un coccodrillo, nel mezzo di una protesta di piazza, oltre una furente lite con la sua famiglia, dentro un incubo di sua figlia; alla ricerca di un senso nella sua vita di un non inglese, non pakistano, non solo ballerino, non solo coreografo, non solo innovatore, non solo uomo, eppure in questo decisamente e erroneamente perfetto. «L’emozione è qualcosa che non si può raccontare» diceva un mio compagno che, dietro questa barriera, si difendeva dai miei attacchi a suon di libri che “doveva assolutamente leggere”, perché in essi si muovevano personaggi su ottovolanti emozionali uguali, anzi migliori di quelli che potevamo provare noi che, in fondo, eravamo solo persone. Beh, il mio amico sbagliava, e non solo in merito ai libri. L’emozione non solo la si può raccontare, ma, incontrando Akram Khan, la si può anche vivere e sono sicuro che se intervistassimo gli spettatori di queste tre serate romane ciascuno avrebbe trovato la sua.
Montaigne diceva: «Bisognerebbe sempre avere gli stivali ai piedi e star pronti ad andare». E anche: «Si conosce ciò da cui si fugge, ma non quello che si cerca.» Akram Khan ha dimostrato che la Patria è un po’ da entrambi i lati e che per fuggire a volte non servono gli stivali e, se si è abbastanza forti, nemmeno i piedi.


Desh
di Akram Khan

Andato in scena presso il Teatro Argentina di Roma, all’interno della rassegna RomaEuropa Festival.


Per approdimenti:
http://www.akramkhancompany.net/html/

“Tutta colpa di Robben” di Nicola Tanno

A Barcellona un uomo attraversa la strada per entrare in un bar. All’improvviso qualcosa lo colpisce con violenza all’occhio destro, scaraventandolo a terra privo di coscienza.

È la notte dell’11 luglio del 2010. Barcellona è una città in festa. Dall’altra parte del mondo, a Johannesburg, la nazionale di calcio spagnola si è appena aggiudicata il suo primo titolo mondiale battendo per 1-0 l’Olanda ai tempi supplementari. Nella capitale catalana la folla ha occupato le piazze in una marea festosa, mettendo da parte, per una notte, le spinte autonomiste della regione e lasciando sfilare per le strade la rojigualda e le bandiere dell’odiato Real Madrid insieme ai vessilli blaugrana.

Una festa nazionale, più forte di tutto. Ma c’è quell’uomo, a terra, colpito da qualcosa che è necessario capire cosa sia. Quell’uomo si chiama Nicola Tanno, classe 1986, di Campobasso, arrivato in Catalogna per seguire un amore e sceso in piazza, quella sera, per filmare i festeggiamenti spagnoli e caricarli sul suo blog. L’oggetto che l’ha colpito è un proiettile di gomma, una bala de goma, arma in uso tra i Mossos d’Esquadra, la polizia autonoma catalana, che quella sera sono scesi in strada per sorvegliare i festeggiamenti e hanno deciso, senza motivo apparente, di aprire il fuoco sulla folla pacifica che sfilava per le ramblas.

Nicola ha riportato le ferite maggiori. Il proiettile gli ha spappolato l’occhio destro, danneggiando l’orbita, bruciando le palpebre. Durante la lunga convalescenza nell’ospedale di Barcellona, raggiunto e circondato dall’affetto dei suoi, Nicola passa dall’iniziale, inevitabile sconforto, che lo porta a trovare in Arjen Robben, ala orange colpevole di due errori in campo che avrebbero potuto cambiare l’esito della finale, l’unico responsabile della sua condizione («Quello gioca a calcio a Johannesburg e per aver calciato male un pallone io ci perdo un occhio»), a una determinazione senza pari che lo porta a lottare per la propria giustizia e per quella di tutte le altre vittime delle balas de goma. Questa è la vicenda autobiografica che Nicola Tanno racconta nel suo libro d’esordio, Tutta colpa di Robben, edito da Edizioni Ensemble.

Sono numerose, in Spagna, le persone colpite ogni anno dai proiettili di gomma sparati dalla polizia. L’ultimo caso, il più grave, risale allo scorso aprile. Al termine della semi-finale di Europa League tra Athletic Bilbao e Shalke 04 la Ertzaintza, la polizia autonoma basca, ha colpito al petto con una cartuccia da 85 grammi Iñigo Cabacas, 28 anni, causandone la morte dopo quattro giorni di coma.

Tanno racconta come la sua disgrazia gli ha dato la forza di iniziare una battaglia per la messa al bando dei proiettili di gomma in Spagna. Grazie al megafono offerto da internet e dai social network, la sua associazione “Stop balas de goma” è riuscita a far sentire la propria voce arrivando a confrontarsi direttamente con le autorità catalane e sensibilizzando l’opinione pubblica iberica sull’uso indiscriminato di quest’arma da parte della polizia.

Non è esente da difetti, Tutta colpa di Robben, principalmente per una narrazione acerba che lo rende più simile a un blog personale che a una compiuta opera di critica e denuncia, ma la forza della storia raccontata va oltre le considerazioni di carattere stilistico e narrativo.

L’ingiustizia patita da Tanno, la sua risolutezza e la sua reazione costruttiva meritano di essere conosciute e diffuse. Il libro ha, inoltre, il merito di offrire uno sguardo dall’interno sull’emergere della crisi spagnola al termine dello zapaterismo, quando la bolla immobiliare era più prossima a esplodere.


(Nicola Tanno, Tutta colpa di Robben, Edizioni Ensemble, 2012,  pp. 162, euro 13,90)


Si ringrazia Giacomo Sauro per la consulenza

 

Il lungo autunno caldissimo delle serie tv

La macchina televisiva americana è pronta. E noi con lei. Tra conferme ed esordi, il nuovo anno di serie tv può cominciare e con esso, la nuova sezione di Flanerí – “LaSerie” –, impegnata e appassionata ad accompagnarvi puntata dopo puntata.

C’è chi ha iniziato la preparazione in anticipo, e si è fatto trovare pronto già a luglio per la premiere: parliamo del canale via cavo TNT, che ha presentato in piena estate Perception, la nuova serie procedurale che vede Eric McCormack (noto al grande pubblico per aver interpretato Will in Will & Grace, ricevendo svariate nomination e due Emmy Awards) nel ruolo di Daniel Pierce, brillante neuropsichiatra contattato dall’agente speciale Kate Moretti per aiutare l’Fbi nei casi più complessi. Ma Kate non conosce il lato oscuro di Daniel: la sua schizofrenia, che spesso sfocia in allucinazioni, fobie e paranoie e in comportamenti eccentrici. In questo caso, cogliere gli spettatori di sorpresa è stata una mossa intelligente, e dopo aver ricevuto buone risposte da pubblico e critica, Perception (che ha chiuso con il decimo episodio andato in onda il 17 settembre) è stato già rinnovato per una seconda stagione con tredici episodi, lanciando nell’Olimpo delle series-star uno tra i personaggi più affascinanti e appassionanti.

Gli altri sono rimasti a guardare? Ovviamente no. E da agosto (e soprattutto settembre) il calendario si fa fittissimo: sarebbe difficile e davvero lungo soffermarsi su tutte le serie meritevoli, come Copper – trasmesso dalla BBC America e ambientato negli Stati Uniti nel 1860, in piena guerra civile, per seguire le vicende di Kevin Corcoran, un investigatore immigrato dall’Irlanda assegnato ai Five Points, un quartiere vicino Manhattan, che oltre a cercare di mantenere l’ordine indaga sulla scomparsa della moglie e sulla morte della figlia – o Vegas – Western drama ambientato nella Las Vegas degli anni ’60 con un cast d’eccezione di cui fanno parte Dennis Quaid e Michael Chiklis, meglio conosciuto come Vic Mackey in The Shield –, e quindi sarà il caso di concentrarsi sui favoriti della stagione 2012-2013.

Parliamo della ABC, che in autunno presenterà due novità: 666 Park Avenue e Last Resort. La prima è un mix di elementi horror e misteriosi basati sulle vicende dell’omonimo libro di Gabriella Pierce: una coppia si trasferisce in un appartamento di Manhattan e scopre solo successivamente che l’abitazione potrebbe essere posseduto da una misteriosa forza oscura. Da segnalare la presenza del grande Terry O’Quinn, il celeberrimo John Locke di Lost. Per la seconda, il registro cambia completamente. Last Resort è forse lo show che ha raccolto su di sé le maggiori attenzioni già prima della messa in onda, prevista per l’autunno. Lo scenario è ben diverso. Ci troviamo in un sottomarino nucleare americano, il cui equipaggio ha l’ordine di bombardare il Pakistan. Quando i marinai chiedeno il perché di una simile azione, rifiutandosi, di fatto, di eseguirla, vengono automaticamente dichiarati nemici della propria nazione e bombardati. Dopo aver realizzato di essere rimasti soli, gli uomini sbarcano sulla fittizia isola di Sainte Marina, proclamandosi nazione sovrana dotata di armi nucleari. Oltre a sopravvivere isolati dal resto del mondo, dovranno anche trovare un modo per dimostrare la loro innocenza e fare ritorno in patria. Le aspettative per questa serie sono altissime, anche oltre i confini americani.

Ancora molto ci sarebbe da dire e dispiace poter solo accennare a serie come Red Widow, Zero Hour, Hannibal, Thief of Thieves, Da Vinci’s Demons, The Following o Defiance, previste per la mid-season e quindi per l’inverno (di cui comunque ci occuperemo a tempo debito).

Bisogna però soffermarsi ancora su un paio di novità targate NBC, ossia Revolution e Crossbones. Nel primo caso, la serie racconta le vicende di un mondo sconvolto da un black-out che ha tagliato le gambe alla società colta impreparata. Per sopravvivere il mondo ha dovuto adattarsi ritornando all’agricoltura, aggregandosi in piccoli villaggi e il potere è stato preso dalle milizie e da chi con la forza ha saputo sbaragliare i propri nemici. In questo scenario si collegano i personaggi di Ben Matheson, che sembra avere più informazioni di quanto si possa pensare sul black-out, di suo fratello Miles inseguito dalla milizia, e di Sebastian Monroe, ex amico e compagno di Miles, ora leader della Repubblica di Monroe, temuto e rispettato da tutti. La serie, che ha fatto il suo esordio il 17 settembre, sembra avere le potenzialità per essere più che un fuoco di paglia, ma il rischio di bruciare un’idea simile con scelte sbagliate per quanto riguarda la direzione della trama è dietro l’angolo, e lo sanno bene Alcatraz, The River, Missing e Terra Nova,partite con grandi aspettative e cancellate dopo una sola stagione. Crossobones invece ci porta in uno scenario completamente diverso. Non ci sono informazioni dettagliate ancora sul progetto, ma sappiamo che la serie sarà ambientata durante il periodo d’oro della pirateria, nel diciottesimo secolo, e seguirà le vicende di Barbanera, impegnato a creare una società più civilizzata dell’Impero britannico.

Dopo aver scavato a fondo tra le novità della stagione siamo arrivati però solo a metà del percorso. Dobbiamo ancora addentrarci nei meandri delle grandi produzioni.

Iniziamo dalla FOX, che ha dovuto cancellare ben due delle sue serie più ambiziose della scorsa stagione a causa dei loro flop (ossia Alcatraz e Terra Nova). La serie di investigazione che ha portato in tv la scienza oltre tutti i suoi limiti, ovvero Fringe, è stata confermata per la quinta e ultima stagione.

ABC, altro canale con chiusure eccellenti – The River e Missing – ha rinnovato gli episodi della quinta di Castle, in cui l’irriverente scrittore-detective segue l’agente Kate Beckett per trovare l’ispirazione per i suoi libri gialli.

Chi ha avuto più fortuna è stata sicuramente la CBS, che oltre ad aver presentato le nuove stagioni di comedy-cult come The Big Bang Theory e How I Met Your Mother, ha confermato per il secondo anno Person of Interest, la fortunata serie “crime” con Michael Emerson, il leggendario Benjamin Linus di Lost.

Anche HBO ha rinnovato un paio di serie che hanno saputo appassionare critica e spettatori: Boardwalk Empire e Game of Thrones (in Italia Il Trono Di Spade), due nomi che da un po’ di tempo non necessitano di ulteriori spiegazioni.

A far parlare bene di sé è pure il canale Showtime con il suo punto di forza Dexter, il tecnico della polizia scientifica di Miami che si scopre anche serial killer, giunto ormai alla sua settima stagione, e Homeland, una delle top-series dell’ultimo anno, che affronta un tema simile a quello di Last Resort, con i problemi passati dal sergente Nicholas Brody, prigioniero di guerra liberato dalla minaccia di Al-Qaida, ma sospettato di essere diventato una spia.

Per ultimo è rimasto forse il piatto forte di questi ultimi anni, ossia il palinsesto di AMC. Che siano gli ambiziosi pubblicitari di Mad Men o il professor Walter White, diviso tra il cancro e il mondo dello spaccio, di Breaking Bad (giunto alla quinta stagione, la cui prima metà è andata in onda in estate), o il confederato Cullen Bohannon, protagonista di Hell on Wheels (una delle serie più interessanti, con la sua ambientazione da Far West molto più cupa e matura di quanto si possa pensare, di cui sta per terminare la seconda stagione), o l’oramai celebre gruppo di sopravvissuti in fuga dal mondo infestato dagli zombie di The Walking Dead (giunto al terzo anno), l’emittente ha portato sugli schermi serie per tutti i gusti e per tutto il pubblico, non sbagliando mai un appuntamento e sorprendendo positivamente gli spettatori con sempre nuove serie che col tempo si rivelano appuntamenti imperdibile per la stagione televisiva successiva.

Aspettando una vagonata di series premiere tra l’autunno e l’inverno, è ancora presto per cercare promossi o bocciati o per dare giudizi; l’unica certezza è che gli Stati Uniti ci regaleranno un’altra grande e lunga annata televisiva da seguire attaccati allo schermo. Stay tuned.

66thand2nd, il nuovo indirizzo dell’editoria indipendente

Scegliere è sempre un incrocio. Un crocevia, un’intersezione di percorsi in cui è impossibile stare solo a guardare. Bisogna decidere, fiutare il vento o lasciarsi ispirare. E poi intraprendere una direzione.

Ma l’incrocio è anche il luogo in cui convergono i moti dei corpi, le loro storie, i loro attraversamenti. Quasi un punto-laboratorio, dove ogni vettore porta in quell’incontro un po’ di sé. Per questo il nostro viaggio inizia da qui, da un cartello segnaletico, tra la Sessantaseiesima Strada e la Second Avenue a New York. Cosa si ubica in quell’esatto centro?

Due persone e un sogno. Lì, Tomaso Cenci e Isabella Ferretti si trasferiscono appena sposati, contornati da cinque cinema e da un sottobosco di librerie indipendenti, in cui i frutti da assaggiare sono generi e autori mai sbarcati in Italia. Nasce così, in quel preciso indirizzo, l’idea di traghettare nel proprio paese quei titoli e quelle letture. Ma a distanza è difficile impiantare un’impresa e allora, dopo aver inalato ancora stimoli e fissato gli obiettivi, i due decidono di “rimpatriare” e scoprono che quella confluenza di strade s’intreccia in modo inaspettato e che arriva fino a Roma.

Siamo nel 2008 e quel segnale diventa una casa. Editrice. La nuova residenza dell’editoria indipendente, come si evince chiaramente anche dal loro sito. Una casa come tetto, domicilio, osmosi di porte e finestre, in cui l’aria circola e si rinnova. Una casa come luogo di passaggio, in cui transitano cose e persone, in cui ospitare giorni e risultati. Ma anche come pareti in cui si coltiva una linea. In cui accogliere «coloro che vorranno abitare un nuovo progetto editoriale». In cui si pubblica.

In pochi anni la 66thand2nd è cresciuta, con il contributo essenziale di un’ottima grafica dovuta all’art director Silvana Amato e a due eccellenti illustratori come Alexis Rome e Claude Marzotto.

Distribuita da un importante fornitore nazionale (Messaggerie), si compone attualmente di tre collane: Attese, che raccoglie romanzi incentrati sullo sport come motore innescante della vicenda. Lo sport sentito e vissuto, narrato come sfida, come gioco delle parti, in cui spesso si aspetta una gara, un evento, una vittoria agognata o consolatoria. Non sono romanzi per tifosi, ma per chiunque intraveda nella sport o nel personaggio sportivo la miccia appassionata che accenda la sua storia.
Bazar, dedicati ai flussi, alle vie imboccate da chi parte in cerca d’altro o di se stesso. E poi riapproda nella propria terra snocciolando i suoi racconti, i suoi pensieri, perché quello che è tornato è un uomo diverso. Lo può fare ironizzando, immalinconendosi, denunciando ingiustizie, restituendo alle pagine la fatica dell’integrazione. Una collana che riesce a mappare le evoluzioni in corso, le continue mescolanze culturali ed emotive che fanno il tempo e lo spazio in cui viviamo.
Book Club, intimamente collegata ai circoli di lettura anglosassoni, in cui confrontarsi intorno a temi che i libri o i discorsi possano sollevare, mentre ci si guarda negli occhi. Una collana per sottolineare il piacere di condividere argomenti e opinioni su un’opera o su un autore. Totalmente priva di restrizioni tematiche e libera anche nel modo di presentarsi, sperimentando una grafica unica per ogni uscita. Tra i più recenti della collana, Inutili fuochi di Raffaella Ferrè.

Immaginiamo anche noi di incorniciarci sotto questo incrocio verde e blu e di suggerirvi i tre titoli più rappresentativi della 66thand2nd. Questa è la nostra scelta, senza alcun ordine o gerarchia:
Hurricane di James S. Hirsch. La parabola di Rubin Carter, pugile nero dal gancio sbriciolante, accusato (ingiustamente?) nel giugno del ’66 di aver commesso un pluriomicidio, a causa del suo comportamento insolente e della sua pelle ancora più insopportabile per la comunità bianca della sua città. Un caso esemplare di battaglia per i diritti civili;
Pesci poeti e cari ricordi di Sherwood Kiraly. La tenera follia di Rollie Zerbs, incollato davanti al Mississipi ad ascoltare la poesia prodotta dai pesci. Malato di Alzheimer a tal punto da non badare a se stesso e da indurre suo nipote Cooper a prendersene cura. Peccato che anche lui sia affetto da vuoti di memoria. Sinfonia di stravaganze;
La fine di Salvatore Scibona. Nel 1953 cinque immigrati italiani annodano le loro esistenze nel quartiere di Elephant Park, a Cleveland. Drammi e segreti strozzati, destini infelici in cerca di salvezze. Notevole esordio letterario per un giovane italo-americano.

Ora sta a voi avventurarvi tra la 66th e la 2nd Avenue. Le coordinate le avete. Resta solo da scoprire di quale storia diventare inquilini.

 

Per ulteriori informazioni:
http://www.66thand2nd.com/

“Ognuno muore solo” di Hans Fallada

Ognuno muore solo di Hans Fallada, ripubblicato da Sellerio qualche anno fa, è uno dei capolavori del Novecento. «Il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo», secondo Primo Levi. Mi permetto di non essere d’accordo. Non sulla qualità dell’opera, altissima, ma nel classificarlo all’interno della Resistenza. Già è difficile collocare nella Germania nazista una “lotta contro”, ancor di più se spogliamo di questa definizione l’intera lettura.

Quello di Hans Fallada è un lavoro che vuole raccontare la “sopravvivenza” in quegli anni. La vita ridotta a miseria, in una commedia tragica in cui si è stati, tutti, attori protagonisti. Ogni cosa è ridotta al ridicolo, al grottesco. La morte – elemento ridondante delle settecento pagine che compongono questo testo – non è mai eroica ma piccola, terrena, profondamente umana. O, meglio, ferina. La guerra contro tutto e tutti di un popolo impaurito crea un vortice inarrestabile che trova soltanto in alcune figure comunque destinate alla sconfitta (il musicista, Fromm, Eva Kluge) dei piccoli appigli su cui immaginare una via salvifica. Non basta neanche il baldo giovane che alla fine trova la sua “risposta” nell’incipit vita nova all’alba di una nuova epoca; il passato, simbolicamente raffigurato dal misero e vigliacco padre, ritorna sempre anche se “preso a calci”.

La lezione che possiamo imparare da Quangel – l’operaio, infaticabile lavoratore, risparmiatore che inizierà, insieme alla moglie, la sua “personale” battaglia contro il Führer (mulini a vento?) con la stesura di cartoline di “protesta” da lasciare in giro per la città – non è tanto di “tattica” (solo poche arriveranno a destinazione) ma di “classe”. È dal “basso” che deve partire la protesta, non dall’elite intellettuale impaurita di perdere la propria “posizione”, dai “lavoratori”, dalle persone oneste, da chi conosce il sudore e la fatica e il senso del dovere.

Ognuno muore solo è un ritratto “livido” di una pagina della nostra storia, così turpe da apparire persino “ironica”.
Ironica soprattutto se facciamo, o meglio se proviamo a fare, un’operazione complessa come quella di spogliare della Storia un libro sulla Storia.
Proviamo a leggerlo così, senza il retaggio “ombroso” che il nazismo ha inflitto ai nostri cuori. Riduciamo il tutto a una storia di qualcuno, in questo caso Quangel, che voglia lottare contro un sistema che non gli piace più. Prova a fare una cosa e gli riesce malissimo. Spreca il suo tempo, la sua tranquillità e il suo umore per un’operazione che lo conduce soltanto all’arresto.

Prendiamo gli altri personaggi. Uno a uno vanno a rappresentare la vera e propria commedia umana: “piccoli”, alcolizzati, furfantelli, codardi, perdigiorno.
Anche le morti sono “ironiche”, piccole. Da perfetti anti-eroi.

Hans Fallada sa come colpire nel segno, sa come trasformare una “semplice lettura” in una “toccante lettura”. Cancella stereotipi, elimina sicurezza, pianta germi che è impossibile non vedere germogliare.

Un libro scritto più di sessanta anni fa ma che non può non essere considerato “moderno”, in tutte le accezioni del vocabolo che conosciamo. È “moderno” e sono moderni lo stile, lo scoprire le carte con continui rimandi indietro e avanti, la forza immaginifica; è “moderno” e sono moderni il richiamo alla scena teatrale, al cinema, all’impasto letterario; è “moderno” e sono moderni l’espressionismo, il colore, l’alternarsi tra “chiasso” e “stasi”.

Siamo onesti, dobbiamo ringraziare gli americani che lo hanno riscoperto perché a volte bisogna essere richiamati all’ordine per apprezzare le cose migliori che abbiamo intorno.


(Hans Fallada, Ognuno muore solo, Sellerio)

“Requiem del Dodo” di Arianna Gasbarro

Arianna Gasbarro è una trentaduenne romana molto consapevole della situazione della sua generazione ma capace di intraprendere scelte che hanno il solo scopo di migliorare la sua autostima e la sua dignità ma non certo il proprio conto in banca, aspetto banale e materiale ma per nulla trascurabile, ahimè, per tirare a campare.

Alla frustrazione, rabbia e disperazione diffusi ha deciso però, a un certo punto, di dire basta e ha preso una decisione veramente coraggiosa di questi tempi. Ha rinunciato a un lavoro che le offriva sì stabilità di occupazione e reddito e che però consisteva nel ripetere ogni ora, giorno, settimana, per anni e anni, la stessa mansione sotto il controllo di un capo, e ha optato per un lavoro che, pur senza dispensare certezze, le permettesse di esercitare la propria intelligenza, autonomia, immaginazione, libertà di muoversi e inventare, ossia scrivere storie. Lo racconta nel primo romanzo, in parte autobiografico, Alice in gabbia (Miraggi Edizioni, 2010).

Se il secondo romanzo rappresenta soventemente un banco di prova per uno scrittore emergente, con Requiem del Dodo Arianna Gasbarro è alla sua prova del nove.

Mattia è alla ricerca dell’ispirazione per scrivere la sceneggiatura del suo primo film che dovrà essere, nella sua aspirazione, il primo di una lunga serie di successi. Nel frattempo si deve accontentare di girare a Londra un documentario naturalistico per bambini al Natural History Museum, tra polvere e animali preistorici. Qui sul set incontra una sua ex compagna di scuola. Mia è una ragazza particolare, dai grandi occhi castani e dal caschetto nero arruffato. Oltre a fare comparse in filmati culturali vestita da dodo, un uccello ormai estinto, fa la “tomba-sitter”, ovvero si occupa di portare fiori ai cari di chi non trova nemmeno il tempo di onorare i propri morti. Mia ama i cimiteri della capitale inglese, li considera speciali.

Un pomeriggio anche Mattia verrà trascinato a «fare quattro salti fra le lapidi» sotto la livida luce londinese. Questo incontro ravvicinato con la morte lo porterà a scontrarsi interiormente con il dolore ancora non elaborato per la perdita del suo migliore amico, alla ricerca di una spiegazione da dare all’insensatezza del gesto inconsulto di un pazzo. Oscar ora è carne in putrefazione, cibo per vermi: «Non siamo altro che carne e sangue in corsa verso l’oblio».

Dimenticarlo però sarebbe come tradirlo. Grazie a Mia e alle sue bizzarre teorie sui flussi energetici, Mattia arriverà a una conclusione che gli farà rendere più accettabile la morte e con essa la vita: «Se il corpo è una fucina che consuma e produce energia, la morte allora è dispersione e discioglimento di elettroni. La decomposizione è un lento lunghissimo orgasmo con la terra, un rilascio di tensione continua delle membra che si sciolgono nelle zolle».

Le radici di questa trascendente fatalità rimangono nascoste come anche la vera identità di Mia. L’accettazione della morte deve arrendersi al fatto che non è possibile comprenderla totalmente. Meglio allora immaginarla come un tripudio di molecole che vanno a fondersi e a dare energia ad altri esseri.

Requiem del Dodo sembra più una sceneggiatura che un romanzo, scritta in uno stile piano, scorrevole, ma non superficiale come un’acqua piena di sali che penetra in noi, che siamo fatti di polvere e che polvere torneremo, arricchendoci.

 

(Arianna Gasbarro, Requiem del Dodo, Miraggi Edizioni, 2012, pp. 112, euro 12)

“Coral Glynn” di Peter Cameron

Coral Glynn (Adelphi, 2012) è l’ultima fatica dello scrittore statunitense Peter Cameron che, con questo libro, può essere non solo incluso tra gli autori più interessanti del panorama letterario, ma anche considerato un importante erede della cosiddetta “comedy of manners” inglese.

Il “malinteso”, o cattiva comprensione o misunderstanding che dir si voglia, è certo il protagonista di questa storia, almeno in tutta la sua prima parte: si mal-intendono infatti (o forse non si intendono per nulla) i due personaggi principali, tra insicurezze, dubbi e passi indietro, e fraintende il lettore che, avidamente, cerca di capire e carpire elementi che possano “s-chiarire”, nell’intento di seguire una storia di cui non ha i retroscena.

Cameron costruisce ad arte un testo originale nel quale il senso rimane per buona parte affidato ai semplici accadimenti, a ciò che i protagonisti compiono, alle loro mere azioni. Manca quasi completamente nella prima parte una introspezione dei personaggi, cosicché si è spinti a chiedersi in continuazione il perché di gesti e comportamenti. Tutto ciò fa sì che sia impossibile distogliere l’attenzione dalla vicenda fino a quando questa non trova il suo scioglimento finale.

Il lettore risulta qui più che mai uno spettatore, il testimone ignaro di fatti che accadono e basta, di azioni che vede compiere senza capirne le motivazioni profonde. Questo tratto rende il libro da una parte opprimente, compresso com’è nella sequela di eventi inspiegati, e inquietante – anche per un certo contesto e per certi avvenimenti macabri –, dall’altra, invece, estremamente coinvolgente: chi legge vuole assolutamente sapere come andrà a finire.

Le premesse non sono complesse: Coral Glynn è una ragazza rimasta sola al mondo, che per vivere esercita la professione di infermiera a domicilio. Si imbatte nel maggiore Hunts, reduce di guerra, giovane cupo ma dalle buone intenzioni, la cui madre sta per morire di cancro. Senza una precisa motivazione, almeno all’apparenza, il giovane, in lutto per la morte della madre, di lì a qualche giorno chiederà la mano di Coral, la quale accetterà. Da questo momento in poi accadono una serie di fatti, “strani” perché casuali, così come casuali sono, in effetti, la maggior parte dei casi della vita reale.

È nell’ultima parte che si assiste al vero cambiamento: dalle incertezze e dai dubbi si passa alla consapevolezza delle azioni, alle decisioni vere e proprie. Ed è solo a questo punto, allora, che il lettore vede delinearsi precise le fisionomie dei protagonisti, generate dalle loro scelte via via sempre più consapevoli.

Non soltanto una storia di malintesi perciò, ma anche un iter di maturazione di tutti i personaggi che, solo dopo scelte forzate, dovute e forse sbagliate, raggiungono, probabilmente, un loro stato di felicità. Ma appunto, probabilmente.

Coral Glynn è dunque un romanzo avvincente, scritto da Cameron con consapevolezza e maestria, capace, al tempo stesso, di destabilizzare e coinvolgere il lettore, dall’inizio alla fine.

 

(Peter Cameron, Coral Glynn, trad. di Giuseppina Oneto, Adelphi, 2012, pp. 212, euro 18)

“Sinapsi” di Matteo Galiazzo

Che fine ha fatto Matteo Galiazzo? Proprio lui, Matteo Galiazzo il “cannibale”. Il suo ultimo libro, Il mondo è posteggiato in discesa (Einaudi, 2002), risale a dieci anni fa. Da allora, fatta eccezione, rara, per pochi racconti pubblicati qua e là su riviste, Galiazzo è scomparso. O meglio, era scomparso. Perché qualche mese fa è tornato in libreria grazie a una giovane casa editrice milanese, che ha deciso di raccogliere – riesumare, in realtà, sarebbe la parola corretta – ventidue racconti dell’ex-scrittore «sinora rilegati su piccole riviste indipendenti o scovati direttamente nei cassetti dell’autore», con tanto di commento finale nell’ottima intervista di Matteo B. Bianchi (“Un pensionato che guarda i cantieri”) in appendice. Nasce così Sinapsi – Opere postume di autore ancora in vita, pubblicato lo scorso maggio da Indiana, all’interno della collana I lucci.

«Mi chiamo Tony. Sono di Casella. Vi dico subito che alla fine del racconto muio, così poi non ci rimanete male. Ho le allucinazioni. Ho la lingua asfaltata. Sto a pezzi». Non c’è da stupirsi, leggendo questa raccolta, che Galiazzo sia stato considerato una «delle voci più pure e riconoscibili» dell’ondata “cannibale”. Ci sono tutti, infatti, gli ingredienti di quel pulp all’italiana così ben carotato da Einaudi Stile Libero nell’antologia Gioventù cannibale: alienazione, spasimi dissacranti e macabre epifanie. Ma anche amore psicotico, incomunicabilità, morte. Il tutto narrato con uno stile diretto, ben marcato anche se capace, continuamente, di reinventarsi, camaleontico, storia dopo storia.

Infatti, come sostiene Tiziano Scarpa nella prefazione: «Nei suoi racconti, Matteo Galiazzo diventa tutto e tutti. E ci riesce perfettamente. È la felicità e lo sgomento che si prova leggendo le sue storie […] Sull’orlo dell’abisso, è così facile cadere: e cadere significa diventare qualcun altro, precipitare nell’altrui, nell’alterità, nell’altruismo, nell’alterazione. Tutto questo succede di continuo, nelle storie di Matteo Galiazzo».

Nascono così racconti memorabili come “Il ferro è una cosa viva”, illuminante tanto per l’episodio raccontato quanto per la tecnica narrativa, “Sedici gradazioni di nero”, che non ha nulla a che fare, ovviamente, con i discutibili romanzi di E.L. James o, ancora, “Apocalisse di Solentiname”, «una sorta di cover letteraria di Cortázar». Per non parlare dei racconti d’amore, o quasi, come “Deodorante” e “Amore”, così vivi e pulsanti da lasciare secco il lettore al solo immedesimarsi nei personaggi.

Sorprende, infine, la bravura di Galiazzo nel descrivere aspetti della realtà che, anche oggi come allora, caratterizzano questo nostro essere italiani sempre in crisi, capaci di vivere la vita a metà tra il comico e il tragico, costantemente: «Capii il significato economico della parola recessione quando, un giorno, entrando nell’ufficio di mio padre, lo vidi impugnare una rivoltella e puntarsela alla tempia con fare tipicamente iperrealista. Questa immagine a effetto era rafforzata da un adeguato supporto sonoro fornito dal pianto dell’altro socio, al telefono con il direttore della banca che aveva appena ritirato loro il fido».

Un libro da recuperare a tutti i costi questo Sinapsi, per rivivere direttamente una stagione della narrativa italiana, quella cannibale, mai del tutto tramontata.
 

(Matteo Galiazzo, Sinapsi – Opere postume di autore ancora in vita, Indiana, 2012, pp. 304, euro 16,50)

“Tempest” di Bob Dylan

Nel bel mezzo della tempesta. A settantuno anni. Un gorgo cupo di morte e disperazione, musica e parole con pochi e preziosi spiragli di luce e amore. Versi e accordi calati nel vortice, un cataclisma epico chiamato per l’appunto Tempest, ovvero l’ultimo disco di Bob Dylan.

La “Mietitrice”, è lei la protagonista delle canzoni, anzi, meglio dei racconti. Questa è la prima cosa basilare da dire: Mr. Zimmerman è tornato a essere il “grande narratore”. Il gusto per la narrazione, del cantare indimenticabili parabole umane, che ha caratterizzato i capolavori della sua produzione, è risorto prepotente. La voce s’è fatta ancora più roca, graffiata e resa sporca dall’età e dal mito, ed è tornata a esprimere momenti di poesia unica in brani di dieci, quindici minuti.

Prendiamo come summa “Tin Angel”, l’angelo di latta: è la vicenda di un triangolo amoroso sordido, malavitoso e violento, destinato a sfociare in epilogo fatto di coltelli e pallottole, baci e promesse d’autore infrante. Il lungo brano scandito magistralmente dai dialoghi dei protagonisti anticipa la “Desolation Row” del terzo millennio e molto probabilmente una delle canzoni più immense composte dal cantautore americano. Parliamo di “Tempest”, il pezzo che dà il nome all’album. Il racconto della tragica fine del Titanic è la possibilità di elencare una serie di istantanee vivide e profonde: c’è Leo (Di Caprio) che si tiene stretto il suo album di disegni, c’è chi, per avere finalmente la pace nel cuore, cede il suo posto sulla scialuppa di salvataggio a un bambino storpio, c’è il barista che serve ancora da bere nonostante abbia l’acqua alle ginocchia, c’è la vedetta, c’è il capitano. C’è la “Mietitrice” e la sua vittoria.

L’ultima canzone dell’album “Roll On John”, è una sentita e struggente dedica a John Lennon, la cui vita viene cristallizzata nella melodia fino al tragico sparo.

Eppure Tempest, all’inizio, dava tutt’altra impressione, come sembrava suggerire il ritmo e la melodia allegra di “Duquesne Whistle”: imperdibile la visione del video tratto dal brano. Nella seguente “Soon After Midnight” la voce si modula in una dolce e romantica ballata sull’onda di “When the Deal Goes down”, perla immensa contenuta in Modern Times. Musicalmente la band del “Menestrello” è molto più coinvolgente rispetto ai lavori precedenti: grazie all’innesto del rock al folk e all’acustico, si riesce a tenere ben saldo l’orecchio dall’ascoltatore sia sulle parole che sul suono, come nei notevoli sette minuti di “Narrow Way”.

Dopo un ripetuto e accurato (e fortunatamente anche accorato) ascolto, si può dire che questo è molto probabilmente il disco definitivo di Bob Dylan. L’Highway 61 Revisited della vecchiaia, della fase finale, un lavoro che negli anni verrà preso a modello. Con ciò non ci auguriamo ovviamente che questo sia il lavoro ultimo del maestro, ma qualora fosse, un capitolo conclusivo del genere se l’è potuto permettere solo lui. Roll On, Bob.

 

“Nessun requiem per mia madre” di Claudiléia Lemes Dias

Spesso le copertine deviano. Quelle dei libri, ovvio. Sono ideate al solo scopo di attirare la mano, sono il canto di Circe che invita a entrare a palazzo, per farsi arraffare in cambio di qualche moneta. E trasformano i passanti in meri acquirenti. Il solito viso di ragazza impantanato tra le foglie, che osserva fuori dal suo nascondiglio e intriga a tal punto che viene da chiedersi cosa sia più interessante, se il posto da cui guarda o quello verso cui spinge gli occhi con urgenza.

In questo caso la scelta è diversa. La prima impressione è lucida, ammiccante, ai limiti del patinato. Anche qui campeggia una donna, che però non si sente chiamare “ragazza” da troppe stagioni per rammentare quale fosse l’ultima. Affogata nel suo rosa rarefatto, nel pastello del foulard, in una tinta che non intenerisce affatto, né la posa né la smorfia. Una presenza/assenza, quasi bizantina, nel mosaico del possibile. Una signora evidentemente agiata, a suo agio nel distacco dalle cose, rivolta altrove, verso isole più pure, più nobili, più meritevoli anche del povero lettore. È lei il nucleo propulsivo del libro di Claudiléia Lemes Dias Nessun requiem per mia madre (Fazi Editore, 2012).

La storia è impugnata da una gran burattinaia di corte, la stessa che immaginiamo dominare il sipario del romanzo. Genuflessa De Benedictis, madre, matrona e carceriera dell’intera vicenda. 

Tutto parte dalla fine, dalla sua morte in tarda invenerabile età, momento estremo in cui il suo terzo e ultimo figlio Franco sembra iniziare a tirare le somme. Non c’è granché da piangere al suo funerale. Se non il dolore per non aver potuto, per non aver saputo costruire un rapporto diverso. Il dolore di cui pochi possono fasciarsi. Perché Genuflessa è vissuta per decidere, gestire, pilotare. Manovrare con innato dispotismo, dittatoriale e inamovibile. Soffocata e soffocante. Ma per conoscerla davvero abbiamo bisogno della sua voce, del suo bosco narrante, che non esita a sbarcare. Si è sposata con un uomo buono, troppo umile e sensibile per poterlo stimare. Un bidello gentile che nel palato del suo cuore diventa amorfo e fastidioso. Una zavorra da inghiottire e neutralizzare. Lei che era destinata a grandi cose, con la sua classe congenita, il suo piglio sovrano. Lei che voleva immolarsi a Dio e si è congiunta a un marito al solo obiettivo di procreare perfezione.

Purtroppo non è stata accontentata. Ha partorito tre bambini e allevato tre sudditi. Stefano, asservito al punto da non saper fare, da non sapersi muovere, da essere un neonato di oltre cinquant’anni, tanto stupido da non poterlo dire, appollaiato sul divano ad annuire, a sentirsi respirare, sempre col dovuto consenso. Aldo, mellifluo e incatenato; appena un po’ più furbo da ritagliarsi qualche spazio, senza mai intaccare fiducia o aspettative della propria genitrice. E poi Franco, il più piccolo e intelligente. Quindi il più infelice. Di troppi suoi pensieri per potersi assoggettare. Fino alla prova finale, la sfida ciclopica. Franco s’innamora, ma senza etichette né curricula approvati. S’innamora di una ragazza brasiliana, negra, straniera, imbandita di tutti gli stereotipi inseribili. E l’accordo si sfalda, Genuflessa esplode, tempestando di perfidia e dispetti quella coppia convinta. E credendosi sempre investita di una missione divina. Ricondurlo all’ovile, all’altare dei suoi desideri. È Genuflessa a ripercorrersi, a tracciare le ragioni del suo torto, con la naturalezza di chi non può capirlo, di chi prima a sua volta ha subito il male come se fosse prescritto e che non può non risputarlo, mascherato da amore profondo.

Il libro è governato da un monologo imponente, ideale per un adattamento teatrale, dal timbro vibrante di Genuflessa, dal tango affilato delle sue ombre, da scambi pungenti e mai scontati. Dal ritratto di un abisso. Quello di un genitore in cui poi inciampano i figli. Fino all’ultimo battito. Perché un corpo può seppellirsi, ma il nero che ha soffiato intorno ai suoi margini prosegue oltre l’addio. Oltre l’incenso e i fiori freschi. Oltre una messa che non può bastare, che non sconta i peccati alla cassa. Un graffio che urla sotto metri di requiem.
 

(Claudiléia Lemes Dias, Nessun requiem per mia madre, Fazi Editore, 2012, pp. 160, euro 15)

“Underwater Sunshine” dei Counting Crows

«Ogni giorno viene creata tanta buona musica, ma molte persone non hanno la possibilità di sentirne la maggior parte», (Adam Duritz, frontman dei Counting Crows).

Dopo Saturday Nights and Sundays Mornings del 2008, forse la loro migliore opera dai tempi del celebrato debutto di August and Everything After del 1993, torna sulla scena discografica la band californiana dei Counting Crows (da quella live non se ne è mai andata, continuando in questi anni a esibirsi in ogni parte degli Stati Uniti). Lo fa scegliendo di pubblicare un album di cover come primo lavoro per un’etichetta indipendente (Duritz e soci hanno infatti abbandonato la Geffen, già casa discografica di Nirvana e Guns N’Roses ).

Le canzoni scelte appartengono a vecchie e nuove band, spaziano dai primi anni ’60 fino al 2012: alcune già pubblicate per delle major, altre per indies, altre ancora semplicemente sono state suonate, in passato, solo perché potessero ascoltarle degli amici. Si tratta di una scelta ben precisa afferma Duritz: «Qualcosa che avremmo sempre voluto fare senza mai averne il tempo. Non c’è stata strategia nello scegliere le cover. È musica che amiamo. Ho chiesto agli altri di portare delle canzoni. Le abbiamo provate e alcune sono venute male, altre subito bene». Come benissimo erano venute del resto anche “Big Yellow Taxi” di Joni Mitchell e “Friend of the Devil” dei Grateful Dead pubblicate entrambe nella raccolta Films about Ghosts del 2004. Pur essendo uno stimatissimo autore di testi, Duritz si diverte spesso infatti a rendere omaggio alla musica degli artisti che più ama. E sebbene la grandezza della band risieda soprattutto nella profondità e tristezza dei suoi testi («Ho passato venti anni a mettermi a nudo, mettendo in piazza la mia vita e mettendo sempre le mie budella nel piatto») e nelle musiche di volta in volta struggenti, spensierate, arrabbiate create dai suoi compagni di viaggio Vickrey, Immergluck, Ghillingham e Bryson, il gruppo, anche quando si cimenta in brani altrui, ha la capacità di farli propri, di impossessarsene rendendoli in tutto e per tutto “very Counting Crows”.

E questo non poteva non accadere anche in Underwater Sunshine (or What We Did on Our Summer Vacation) se non altro perché alcune canzoni (“Mercy”, “Four White Stallions” e “Jumping Jesus”) in realtà, sono delle “auto-cover” in quanto fanno parte del repertorio di band (Tender Mercies e Sordid Humor) nelle quali hanno militato o militano tuttora alcuni dei membri del gruppo. In generale, comunque, nel disco ci sono brani e artisti poco noti (Romany Rye, Coby Brown, Firport Convention, Dawes, per citarne alcuni) e anche laddove ci si trovi dinanzi a grandi nomi (Bob Dylan, Byrds e Gram Parsons) sono state scelte canzoni semisconosciute, come spiega Duritz in un’intervista: «Poiché la tendenza nel far cover è sempre quella di rendere omaggio a gemme poco conosciute». Operazione assolutamente riuscita. Si tratta infatti di un bel disco, allegro, ben suonato, di quelli che se ti trovi in auto ti viene voglia di iniziare un lungo viaggio fin quando non echeggiano le ultime note. E questo grazie al feeling che si respira fra i ragazzi, appiccicati (per usare le stesse parole del cantante), in un piccolo studio suonando live insieme, per poco più di una settimana, la musica che più amano. In tutto e per tutto un tipico e grande album dei Counting Crows.

FlanerìMag#03

“Flanerí Mag”: numero zero.tre

Anche in questo numero, consultabile in versione ePub e pdf, sono presenti sei autori: Gianni Tetti, Lorenzo Chiodi, Mauro Maraschi, Claudio Panzavolta, Luigi Ippoliti e Andrea Viviani. Per cinque racconti e un incipit di romanzo ancora inedito. Il tutto, custodito, come sempre, tra le illustrazioni di copertina e quarta create da Alessandra De Cristofaro.

Come leggere Flanerí Mag #0.3? Semplice, come di consueto: basta scaricarlo in formato ePub o in pdf cliccando sui link di questa pagina; oppure lo potete “sfogliare” online su Issuu.

Ancora una volta, buona lettura a tutti.

 

Flanerí Mag #0.3: Sommario

  • Il racconto e l’arte della semina di Roberto Bioy Fälscher
  • I nostri ragazzi sono bravi ragazzi di Gianni Tetti
  • Il libraio di Lorenzo Chiodi
  • Inadeguatezza di Mauro Maraschi
  • Mec di Claudio Panzavolta
  • Il giorno prima del suicidio di Luigi Ippoliti
  • Sden di Andrea Viviani

 

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