“Il cavaliere oscuro – Il ritorno” di Christopher Nolan

Nel bel paese per un bel po’ c’è stato un giochino, a tratti ben poco innocuo a dire il vero: ogni cosa o persona, ivi inclusi artisti e opere annesse, dovevano per forza essere o di destra o di sinistra – all’epoca si usava dire fascista o comunista. Oggi sono solo una manciata di personaggi a usare ancora questi termini, così come sono sempre meno quelli che si pongono il problema di cui sopra. Problema poi, diciamo appunto giochino, sterile e irritante. Ogni tanto il giochino si reinnesca e approfitta degli eventi mediaticamente più rilevanti. In America, per l’uscita del capitolo conclusivo della trilogia del Batman di Christopher Nolan, l’attesissimo Il cavaliere oscuro – Il ritorno, hanno avuto la tragedia di Denver con decine di morti. Da parlare e polemizzare sull’influenza negativa del cinema sulla società ne hanno avuto molto, senza giungere per altro a nessuna conclusione, come è ovvio che sia del resto: Cosa mai si dovrebbe concludere? Che la gente spara e ammazza perché vede film e videogioca?

Qui da noi il film arriva con un po’ di ritardo, i morti non sono i nostri e allora via a puntualizzare se questo Batman di Nolan non sia in fondo un po’ fascista, poco importa se proto o vetero o se piuttosto la storia sullo sfondo sia al contrario ammantata di anarchia e tendenze sovversive.

A noi delle polemiche importa il giusto, cioè praticamente niente. Importa del film che, è bene dirlo subito, vale pochino. Sul cinema di Nolan ci sarebbe da discutere molto, in particolare su come egli sia riuscito a convincere una bella fetta di critica e pubblico dell’essere portatore di un cinema al tempo stesso adatto alla richiesta di consumo vorace dei multisala e intimamente altro e culturalmente più alto, quasi Nolan possedesse la ricetta magica smarrita ad Hollywood dai tempi degli horror anni ’80. Troppo sarebbe lo spazio necessario per tentare di dimostrare come tutto ciò non sia affatto vero. Ci viene però in aiuto la mediocrità di questo suo ultimo film.

Il cavaliere oscuro – Il ritorno parte benissimo con una sequenza action di grande originalità e impeccabile tecnica realizzativa, di quelle che J.J. Abrams sogna la notte e Joel Silver non ha più i dollari per realizzare. Scena che fa ben sperare sull’ adrenalinicità di un film che vede contrapposto al nostro eroe il muscoloso ed energico Bane, tra i tanti villain dell’universo DC Comics, uno di quelli con meno cervello e più muscoli. Siamo già lì a sperare in energiche scazzottate con il redivivo Batman ed invece… di pugni all’interno del film ce ne sono, ben inteso, anche se filmati in sequenze di una rozzezza e pochezza rare; quel che importa però raccontare a Nolan è altro, purtroppo. Qualcuno direbbe per fortuna e invece tocca proprio dire purtroppo. Qui sta il principale difetto dell’ultima fatica di Nolan, sebbene ve ne siano anche altri.

Il cinema dei fratelli inglesi è sempre stato un cinema di scrittura, “narrare” ha sempre avuto un ruolo preponderante, l’immagine e la sua azione e distruzione sono sempre state uno strumento, una funzionale spettacolarizzazione per veicolare una riflessione che spesso donava un tono alto a contenuti superficiali se non grossolani. Qui il tutto viene portato alle estreme conseguenze laddove Nolan e fratello si accartocciano su se stessi reiterando concetti espressi nei precedenti episodi e dando al racconto diversi momenti di estrema ridondanza, accompagnati da un continuo spezzarsi del ritmo senza che poi vi siano le dovute ripartenze e accellerazioni ma anzi dilatando all’inverosimile intere sequenze infarcite di dialoghi fuori luogo quando non ridicoli. La noia è spesso dietro l’angolo nell’intera sezione centrale, dedicata alla rinascita e la resurrezione di Batman, momento che dovrebbe essere catartico, sofferto ed epico e che invece è quanto di più patetico visto negli ultimi anni, tutto ciò che paradossalmente non fu la parte iniziale del primo capitolo, quel Batman Begins che invece aveva dei notevoli meriti in tal senso e a conti fatti resta un ottimo film, non il capolavoro di cui si favoleggiò ma un ottimo film e migliore dell’elefantiaco seguito. A peggiorare il tutto ci si mette la frenesia di introdurre e dare il giusto spazio ai molti ma mal caratterizzati personaggi, con la sola eccezione di Cat Woman, rendendo il fluire cervellotico, con una tendenza all’accumulo che ha dell’incredibile. Montato come peggio difficilmente si sarebbe potuto il tutto prosegue un po’ quasi a caso e si lascia vedere più che altro per la curiosità del capire dove si voglia andare a parare con l’anarcoinsurrezionalismo del Bane interpretato da un Tom Hardy purtroppo limitato enormemente nella mimica dalla maschera del suo personaggio.

Qui forse poteva stare il pregio del film, nel coraggio accennato dei Nolan di non fare affatto del cinema politico, da qui l’assurdità di certe riflessioni italiote a cui si accennava in apertura. Già, perché sebbene il tutto ben presto assuma dei contorni da rivoluzione totale e anarchica, contrapposta a una reazione che fa tanto America post 11 settembre, solo un po’ più scema e cialtrona di quella di Bush e compagni, (e diciamocela tutta non se ne può davvero più della reiterazione di questi temi nel cinema americano), in realtà a Nolan interessa il contorno, allo stesso modo di come a Bane interessa solo il mero annientamento totale. L’autore sembra interessarsi al singolo individuo inserito nel contesto critico, la crisi interna all’interno della crisi globale: tra le pieghe di una sceneggiatura pessima ciò si riesce a leggere con chiarezza nonostante tutto ed è esplicato tra le altre cose nel personaggio di Cat Woman, unico realmente ben caratterizzato. Purtroppo, come già stancamente ripetuto, il tutto viene affogato in pessimi e strabordanti dialoghi, lentezze inutili e personaggi resi ridicoli se non bidimensionali. Ci sarebbe anche da citare una serie di aberrazioni tecniche ma davvero è infierire su di un cinema che quasi smette di essere tale nel suo pretendere di essere più di quel che è, collassando su se stesso. Tanto però vi diranno che il film è stato rovinato in fase di montaggio ed è stata tutta colpa della major.                                                                   

(Il cavaliere oscuro – Il ritorno, regia di Christopher Nolan, 2012, azione/drammatico, 165’)

“Lungo la via incantata” di William Blacker

William ha tutto. E sta per avere ancora di più. Come quella sua parte di mondo, carezzata e stravolta, tramortita e poi intortata da una slavina chiamata futuro. Non che non cada ogni giorno sulle nostre teste, ma alla fine del 1989 la tempesta è inevitabile. E invincibile. L’Europa dell’Est passa quello che bene o male si sa, schiaffeggiata da rivolte travestite da guerre e da guerre diluite in rivolte. Confini sbriciolati e poi ridisegnati, mentre la sua Inghilterra assieme al resto d’Occidente fa gentilmente accomodare in casa la tecnologia, che ben presto la farà da padrona, dentro ogni stanza. William però non è contento, non sa che farsene dei computer che iniziano a occhieggiare, della velocità che sbuffa e che si crede lenta, tanto da doppiarsi minuto per minuto. E allora parte, perché come dice Cocteau «la purezza di una rivoluzione può durare al massimo due settimane» e quindi non c’è tempo da aspettare. Quelle terre rintanate nei loro chilometri, imbottite di distanza, tenute accuratamente alla larga dall’altra metà del continente, troppo presto verranno investite dalle schegge di quanto accaduto. Hanno abbattuto dittature, scomposto muri e dogane. E ora stanno aprendo le finestre, sprimacciando i cuscini. Stanno lasciando entrare il vento del nuovo, anche solo per capirne l’odore. Prima che cambino troppo per sentirli diversi, William Blacker s’incammina Lungo la via incantata (Adelphi), titolo del suo primo romanzo.

Più che un romanzo è un’esperienza di viaggio, un diario che nasce a Berlino, prosegue a Praga coi suoi lampioni spartani e poi scivola verso la Moldavia dei monasteri, fino a valicare la frontiera romena.

Willy mangia poco, guarda molto, si appoggia su giacigli improvvisati, guida curioso, avanza nel freddo e buca la nebbia fino ad avvistare la scritta «Maramures», il posto da sempre fantasticato, l’idillio lontano da scosse inquinate. Forse ha trovato il suo sogno: capanni di legno, cascatelle fermate dal ghiaccio, quella bellezza immobile negli anni, la stessa che stregava Hardy e Tolstoj. È solo ma felice e s’imbatte sorridendo nella freschezza della gente, nei suoi modi ruvidi e sinceri, in forme di ospitalità quasi fantascientifiche. Quella di chi gli offre il suo letto migliore, anche se è fatto di paglia. E allora forse vale di più di una suite.

Sono contadini quelli che incontra, persone a cui non servono televisori e vestiti fiammanti per sentirsi soddisfatti. Arano, coltivano, respirano il ritmo delle loro giornate. Assecondano il senso delle stagioni, perché sono loro a governare. E quando vogliono ballare lo fanno con vigore, con la voglia di restare insieme. William continua a spostarsi, conosce la Transilvania, la Rutenia, le Terre dei Sassoni, comprende e vive quelle latitudini come luoghi di coesistenze più o meno forzate dalla Storia, destini sovrapposti in cui un popolo fra tutti è il più indimenticabile: gli zingari. Loro che non abitano anche quando si stanziano, loro che esistono di «dolce far niente». William si avvicina a Natalia, bella e libera da stordire tanti uomini e anche lui non può restare immune. Facendone le spese.

Non sono ben visti dalle altre comunità, non lo sono mai stati, tanto da venire deportati e da sparire in ventimila. Sono additati, scrutati con sospetto, accusati di furti perché per molti è quello il loro campare. Eppure c’è una forza che lega Willy a quel villaggio. E che lo spinge a tornare, anche quando i suoi amici lo mettono in guardia e poi sbattono la porta.

Il libro quindi diventa un’occasione affascinante per indagare con altri approcci e sensazioni un universo che sentiamo intoccabile e che spesso decidiamo d’ignorare. L’autore lo affronta come testimone, mostrandone lati inattesi, caldi, appassionati. Ci racconta con affetto e intelligenza il cuore di persone semplici, come quello di Mihai, contadino di Breb che lo accoglie come un figlio, il potere affabulante di Natalia, Marishka e di tutte le gitane che danzano quasi fosse il loro ultimo giorno, che vorticano e ridono, «facendo l’amore con l’aria». Senza negare preziosi cenni storici, riferimenti letterari di gran pregio, ci conduce nel polmone del Maramures e delle sue tradizioni. Ci strazia con la vicenda di Ion e Vasil, fratelli che lasciano il paese per vedere la città, per non restare esclusi dal «mondo di fuori». E ne vengono inghiottiti, morendo abbracciati nel fondo del lago. Ma prima di affogare dovevano sposarsi e allora il doppio matrimonio si celebra lo stesso, perché la loro strada non resti incompleta. La cerimonia cuce insieme vita e morte, come a noi sembra impossibile. Come forse invece avviene, perché ogni scelta è un partenza. William s’immerge in quelle atmosfere, affonda nella neve, vive il loro dolore, si diverte e s’innamora. E diventa più protagonista che scrittore, tanto che risulta difficile chiamarlo col suo cognome. Annusiamo con lui la folata di “horinca”, la grappa sorseggiata per resistere all’inverno, indossiamo gli “opinci” per difendere i piedi, ascoltiamo leggende, paure e conflitti e leggiamo l’incanto di un viaggio imprevisto.


(William Blacker, Lungo la via incantata, trad. di Mariagrazia Gini, Adelphi, 2012, pp. 335, euro 23)

“Corpo a corpo” di Gabriela Wiener

«Bevo, fumo, esco la sera, mi ubriaco una volta a settimana e una volta a settimana vivo l’agonia dei postumi, ogni tanto mi drogo, mangio cibo spazzatura, detesto la maggior parte delle verdure, sono madre, non sono battezzata, lavoro in un ufficio, odio la razza umana, sono moglie, guardo serie televisive in streaming fino alle 3 del mattino, non faccio attività fisica, non ho una colf, passo dieci ore al giorno davanti a uno schermo, l’unica parte del mio corpo che si mantiene in forma sono le mie dita che battono sulla tastiera, come adesso». Gabriela Wiener, peruviana, trentasette anni. Professione: «giornalista specializzata nel ficcare il naso ovunque». Segni particolari: metterci la faccia, anzi la pelle, anzi tutto il corpo.
Su che equilibrio si regge la famiglia di un guru e delle sue sei mogli? Quali meccanismi regolano il mondo degli scambisti? Quante infinite vicende raccontano i corpi tatuati? Questi i quesiti ai quali l’autrice vuole rispondere in prima persona, lasciandosi trascinare nelle diverse storie e diventandone spesso protagonista, al fine di offrire poi un punto di vista profondamente intimo e coinvolto su tutte quelle situazioni che ne attirano irresistibilmente l’attenzione. In Corpo a corpo (La Nuova Frontiera, 2012), il suo primo libro pubblicato in italiano, la Wiener ci racconta tredici esperienze che indagano le pratiche e le abitudini sessuali di una società a cavallo tra l’America Latina e la scia di emigrazione che da lì porta in Spagna e in Francia.
Tre le parti che animano il libro: «Altri corpi», storie altrui con le quali l’autrice entra in contatto, lasciandosene in qualche modo inebriare; «Senza corpo», esperienze che non passano dalla pelle, ma la sfiorano, lasciando inevitabilmente un segno; «Con il mio corpo», dove intimità e reportage si incontrano, e chi narra diviene realmente protagonista, in tutto e per tutto, della storia che racconta.
Sessualità e spiritualità si fondono nell’esperienza quasi mistica dell’ayahuasca, che «è come amoreggiare con la follia». Una trasferta buia e umida nel Bois de Boulogne ci mostra la vita dei trans, retta da un assurdo, duplice equilibrio. Il sesso che si fa strumento, come nel caso dell’infinito orgasmo utopico e asettico di un maiale d’allevamento. E ancora, la dimensione parallela di dominatrici e schiavi, il sesso al tempo di internet, la curiosità che suscita l’erotismo femminile, l’esperienza demiurgica e inconsapevole della gravidanza, il discreto ingresso di occhi altrui nell’intimità di coppia. Il tutto raccontato senza malizia o né spregiudicatezza, ma anzi esaltato da una scrittura fresca, pungente e disinvolta, resa altrettanto brillante in traduzione.
Raccogliendo la lezione di Hunter S. Thompson, Gabriela Wiener si inserisce ormai a pieno titolo tra le principali voci del giornalismo narrativo latinoamericano, dando vita a una nuova forma di scrittura “gonza”, intima, a tratti sfacciata, incredibilmente attuale e coinvolgente. Chapeau.

(Gabriela Wiener, Corpo a corpo, trad. di Francesca Bianchi, La Nuova Frontiera 2012, pp. 254, euro 13)

“Come of Age” dei Vaccines

Più di un anno fa ci avevano lasciato con una domanda. Una domanda che era anche il titolo del loro celebratissimo disco d’esordio: What did you expect from The Vaccines? Divenuti adulti – Come of Age, per l’appunto – ecco la possibilità di avere una risposta ancora più chiara. Le alte aspettative da sempre riservate verso un secondo lavoro discografico sono state in questo caso fortunatamente compensate, e i Vaccines presentano un album capace di scuotere fan e critica dal rilassamento estivo.

Meno diretto, istantaneo e scatenato rispetto al predecessore, Come of Age ha però dalla sua una costruzione melodica più elaborata e delle scelte stilistiche maggiormente marcate e originali. Il suond della band ora è più tipicamente The Vaccines’ style e meno contaminato da chi all’inizio del nuovo millennio ha dato nuova linfa al rock: The Strokes, Interpol, Editors, Artic Monkeys e Bloc Party su tutti.

«Non c’è nessuna speranza / Ed è difficile diventare adulti» canta nel ritornello di “No Hope” Justin Young. Il primo pezzo è il ponte perfetto tra passato e presente, con la forza inalterata delle chitarre, della base ritmica e dei ritornelli fulminanti. “I Always Knew”, cambia subito le carte in tavola, soprattutto per i cori del ritornello: azzardo riuscito. Poi una delle tracce figlie dell’esordio per carica e impatto: “Teenage Icon”, già entrata tra gli inni della band e tra le preferite dei fan. Le chiatarre di “All in Vein” e la più cupa e isterica “Ghost Town” tengono ancora l’atmosfera carica. Con “Aftershave Ocean” e “Weirdo” il battito si rilassa entrando nel “già sentito”. Solo con la scarica di “Bad Mood” l’aria si riscalda e “Change of Heart part 2” e la successiva “I Wish I Was a Girl” mettono nella scaletta altri due pezzi gradevoli ma non proprio indimenticabili. C’è però il gran finale con la ballatona “Lonely World”, la prova più evidente del passo avanti compiuto dal gruppo in questo disco.

Insomma, The Vaccines non deludono; Come of Age è un disco compiuto e sensato, meno incoscente e furioso, più composto e di mestiere, capace in alcuni momenti di donare delle perle non indifferenti. Guardando al futuro della band inglese c’è poco da dire; bisogna aspettare la terza fatica, e li sarà o flop o capolavoro. Senza mezze misure.

“Dio la benedica, dottor Kevorkian” di Kurt Vonnegut

Prendete una porta per l’aldilà, un uomo ancora vivo che ci arriva per intercessione di una guida e una serie di personaggi morti in un passato più o meno prossimo a cui porre delle domande.
Evitate le terzine, le fiamme e le fiere e immaginate una cella piastrellata in un carcere di Huntsville, nel Texas. Il viaggio inizia da qui. E dura solo settantatré pagine. 
Il coraggioso uomo in questione è Kurt Vonnegut, che troviamo eccezionalmente nella veste di reporter dell’altro mondo e speaker radiofonico per la Radio Nazionale Pubblica WNYC di Manhattan. Dalla lettiga della camera destinata alle esecuzioni capitali e con l’apparecchio generalmente usato per immortalare le ultime parole dei condannati, Vonnegut registra la cronaca di ventuno viaggetti pre-morte: passeggiatine nel tunnel celeste e fino alle porte del Paradiso. Andata e ritorno. Per fare delle interviste. A chi? A chi capita, ovvio. 
Guai a disturbare o a fare troppe richieste a San Pietro. È un tipo irascibile, si sa, e gli tocca già sopportare Sir Isaac Newton, che dal 1727 è inchiodato lì sulla porta e lo assilla per tentare di capire come funziona il tunnel celeste. Di cosa è fatto? Di stoffa, di metallo, di legno o che altro?
Ma per caso, in Paradiso, si incontra un sacco di gente. Anche perchè, ricordiamolo, l’Inferno non esiste.
L’avreste mai detto che Adolf Hitler coccolasse giorno dopo giorno la speranza di vedere un monumento eretto alla sua memoria con su scritto «Scusatemi»?
E che qualcuno si fosse rivolto a Shakespeare congratulandosi per tutti gli Oscar vinti dal film Shakespeare in Love?
Che Louis Armstrong avrebbe messo su una brass band per accogliere in Paradiso i più meritevoli con “When the Saints Come Marching in”, invece, ce lo immaginavamo un pò tutti.
La siringa e la mano che permettono tutto questo appartengono nientepopodimeno che a Jack Kevorkian, il Dottor Morte, che predispone alla perfezione tutte le iniezioni non proprio letali e permette al signor Vonnegut di arrivare in Paradiso e poi, in via del tutto eccezionale, di tornare indietro.
Un brutto giorno, proprio mentre il reporter sta per iniziare il racconto della sua ultima intervista al pluripremiato Isaac Asimov, il Dottor Morte viene ammanettato e portato via.
Ciao ciao Dottor Morte. Ciao ciao viaggetti. E ciao ciao WNYC.

Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libro da rileggere. La prima passata è velocissima, superdivertita e caricata dal carattere fantastico e totalmente irreale del soggetto, ma soprattutto dalla concisione, dalla chiarezza e dalla semplicità della scrittura di Vonnegut.
L’autore è vicino vicino, come ci dice Francesco Piccolo nei suoi «32 piccoli paragrafi su Kurt Vonnegut»: «La prima pagina del primo libro che hai letto di Vonnegut è indimenticabile per questo, perchè hai pensato: ma questo è un mio amico».
Servono una seconda e forse anche una terza lettura per arrivare al substrato, all’umorismo nero gettato a pioggia sugli Stati Uniti, occultato da una copertina colorata e invitante e al messaggio di pace e di fratellanza del nostro corrispondente nell’aldilà. Vonnegut è un umanista, come egli stesso dichiara nella sua breve introduzione al libro: «Gli umanisti, non avendo ricevuto informazioni attendibili su nessuna specie di Dio, si accontentano di servire meglio che possono l’unica astrazione con cui abbiano una certa familiarità: le loro comunità». Ed è per questo motivo che oltre a Hitler, Shakespeare e altri vip da strabuzzamento di occhi, l’autore inserisce numerosi altri piccoli personaggi: manifestanti indipendentisti, antischiavisti, avvocati e uomini comuni che si sono fatti, in vita, portatori di verità libertarie e di grande umanità. 
Ultima, ma non meno importante, la verità di Jack Kevorkian, con i suoi 129 suicidi assistiti sul groppone e quell’unica eutanasia che gli è realmente costata una condanna di venticinque anni per omicidio di secondo grado da scontare nel carcere di Lakeland, nel Michigan. 
Il titolo del libro è modellato su un altro libro di Vonnegut del 1965, Dio la benedica, Mr. Rosewater o Perle ai Porci. Non so perchè, ma rimedierò presto.
Intanto, a voi, buon viaggio.
«Ciao Ciao e adios. O, come mi disse san Pietro strizzandomi l’occhio, sornione, quando gli spiegai che quello era il mio ultimo viaggio di andata e ritorno in Paradiso: “Ci vediamo, bello”».

(Kurt Vonnegut, Dio la benedica, dottor Kevorkian, trad. di Vincenzo Mantovani, minimum fax, 2012, pp. 73, euro 7)

“L’età dei miracoli” di Karen Thompson Walker

Sembra lo stesso. Identico al nome che batte anche quando non lo soffiamo. Un gemito azzurro scavato nel gas. Dal momento in cui abbiamo memoria. Lo guardiamo senza gli occhi, perché non ne ha bisogno per esistere di più. Eppure sotto, in mezzo, tra le fessure di spuma di quello che chiamiamo “cielo”, niente è davvero scontato. Per nessuno. Tanto meno per una ragazzina di undici anni. 

È lei la voce pulsante e poi narrante del libro d’esordio di Karen Thompson Walker L’età dei miracoli (Mondadori, 2012), in uscita il 28 agosto. Piantata nel petto della California, tra costole bianche di tetti tranquilli, c’è Julia, adolescente fin troppo qualunque. Non ha un viso che spicca, non tracima di brufoli o di pelle sblusata, ma non vanta nemmeno il manuale aggiornato della teenager di successo. È una tra le tante, che aspetta il bus per andare a scuola e poi confondersi ancora. Amalgamare il suo respiro con la massa bollente di quello dei compagni, mantecare gli umori perché non si distinguano e sperare ogni giorno di fare poco rumore. Sperare nell’angolo che la incornicia, pregare nel buio dei suoi pensieri di non essere notata, accorciare anche i passi per non entrare nel mirino di qualcuno che non le perdona di non avere ancora il seno.

Anche a questo servono le amiche, quando ci si sente così fragili, quando la lingua non impasta la risposta che vorresti, quando il mattino cade impietoso sulle gambe che non depili. Perché qualcuno in casa sentenzia che è presto. Peccato non debba essere quel qualcuno a trascinarle in giro mentre frusciano i commenti. Ma almeno Julia può contare su Hanna. E per rinfrancarsi le sembra abbastanza. Sono questi i suoi giorni, vacillanti di “vorrei”, di feste senza inviti, di posti vuoti accanto al suo.

Giorni sdruccioli, gommosi, insostenibili, che, un sabato improvviso, faticano a finire. Camminano sempre più piano. E non solo per lei. Rallentamento terrestre. Questa la notizia, uno spiffero inatteso, sgusciato dalla bocca di un telegiornale. Pochi minuti, quanto meno all’inizio, gocce che trasudano dalla superficie per colare assieme nello stesso imbuto. Quello dell’orologio.

Un’orogenesi del tempo, che accumula frattaglie, manciate di attimi sempre più spesse, fino a formare castelli, grotte impietose, sassi che non riparano, ma espongono solo ad altre paure. Le famose indiscutibili ventiquattro ore diventano opinabili. Diventano un corpo sempre più grasso, che non gira intorno al sole con lo stesso ritmo, che lo fa sbuffando. Che scova altre scuse per impigrirsi ancora. E mentre il pianeta sbadiglia, l’intera carovana di passeggeri a bordo reagisce a suo modo. Configurando le solite immutabili due categorie: apocalittici e integrati. Dentro e fuori. Ottimisti e catastrofisti. Chi urla allo scandalo, coprendo di barattoli tutta la sua angoscia, facendo scorte di bottiglie come fossero coraggio.

E chi segue la natura, chi si adegua alla lentezza, agli impulsi circadiani, assecondando cascate di luce quasi insopportabili e notti diluite, lunghe tante lune. L’universo si spettina, tutto il precario equilibrio su cui passeggia da funambolo il nostro ecosistema comincia a rotolare, gli uccelli si schiantano, i palloni resistono ai calci, le piante boccheggiano e poi stramazzano, da ultimi eroi di una stagione impossibile. E Julia, comunque, continua a vivere.

Nel matrimonio cigolante dei suoi, con la madre che si ammala della nuova sindrome diffusa e il padre che si difende come può, incappottato al meglio dentro i suoi silenzi o forse dentro un’altra scelta. Julia cresce, nonostante tutto, grazie a tutto, intasca amarezze, disillusioni. Vede Hanna allontanarsi e quando ritorna la sente ancora più distante. Senza comprenderne il motivo, forse solo perché si è stancata di lei. E poi s’innamora. Di un ragazzo solitario, che inforca il suo skateboard perché il mondo da fermo lo spaventa di più. S’innamora tremolando Julia, col timore di non essere all’altezza, accontentandosi di starsene in disparte, di sorseggiare la sua nuca dal banco dietro al suo.

Intanto la Terra si annoia e perde sempre più lancette durante la sua strada. Fino a non contarle più. Ogni frammento, anche il più ovvio, smette di esserlo. Ogni frase invoca il suo punto interrogativo. Tra poco albeggerà? La corrente funziona? Domani andrà meglio?

La sola certezza è la voce di Julia, il suo diario continuo, che registra influssi e cambiamenti, il moto terrestre che si rovescia in quello sociale, la rotazione e rivoluzione dei comportamenti umani sul ciglio di un palazzo che si sgretola, che quasi non ricorda cosa vuol dire essere intero. L’ossessione di sopravvivere s’innesta nel suo esatto contrario, restare solidi è difficile quando tutto il resto sembra liquefarsi, nel perimetro di un’undicenne come in quello di qualsiasi uomo.

E l’autrice ritaglia un perfetto punto di vista, quello debole e sottile di una ragazzina “accesa”, che osserva e penetra le cose, con una semplicità che inchioda le parole. Nell’anno in cui tanti i calendari gridano alla fine, questo libro trova la sua culla migliore. Senza scomodare esplosioni o effetti speciali, ha una lingua pulita e profonda, l’affilata intelligenza di soffermarsi su altri suoni, sugli spartiti delle storie personali, sui colpi e contraccolpi della tragedia presunta o annunciata. Sulla vita che, forse, sa avere la meglio sulle sue cicatrici.


(Karen Thompson Walker, L’età dei miracoli, trad. di Silvia Stramenga, Mondadori, 2012, pp. 250, euro 18,50)

“Il bambino che collezionava parole” di Juan Pablo Villalobos

Cosa accade quando un autore decide di adottare il punto di vista di un bambino? Gli esempi sono tanti – da Günter Grass a Safran Foer, passando ad esempio per il fortunato caso di Mark Haddon – con esiti molteplici, ancor più sfaccettati. Tuttavia, sono tutti accomunati dalla difficoltà di ricostruire una vicenda da un punto di vista altro, a tratti opposto a quello reale e a suo modo straniante, lontano tanto dall’autore quanto, solitamente, da noi lettori. Come suggerisce il titolo del suo romanzo d’esordio (Il bambino che collezionava parole, Einaudi, 2012), per Juan Pablo Villalobos la chiave è proprio il linguaggio, le parole: cinque aggettivi, per la precisione. 
Tochtli è un bambino, vive in un palazzo, ha una bellissima collezione di cappelli, uno zoo personale in giardino e terribili crampi allo stomaco. Conosce tredici o quattordici persone, o forse una ventina, ma non ricorda, non ne è sicuro, perché alcuni di loro sono cadaveri. Non sappiamo quanti anni abbia, né molto del suo aspetto, se non che ha la testa rasata, perché i capelli sono morti, «sono come un cadavere che ti porti in testa». Ciò che per certo sappiamo di lui, filtrando le brevi frasi di questo monologo interiore in miniatura, è che: «Alcune persone dicono che sono avanti. Lo dicono soprattutto perché pensano che io sia piccolo per sapere parole difficili. Alcune delle parole difficili che so sono: sordido, nefasto, lindo, patetico e fulminante». Questi quindi, i pennelli con i quali Tochtli assegna una tonalità a tutto ciò che gli accade, dando vita a un piacevole racconto, sempre abilmente in equilibrio tra l’ironia e la melancolia più cupa: «Credo che in questo momento la mia vita sia un po’ sordida. O patetica».
Il mondo di Tochtli è costruito su una sorta di etnologia della violenza – sa, per esempio, che «ai francesi piace molto tagliare la testa ai re», o che «per essere re in Africa devi ammazzare molta gente» – all’interno della quale le  persone si classificano in semplici binomi, dettati dall’appartenenza o meno alla vita, ai narcos, alla giustizia: vivi-cadaveri, non muti-muti, finocchi-veri uomini. Si tratta, appunto, di una sfera tutta al maschile: le uniche figure femminili che si aggirano per il palazzo sono le effimere “novanta-sessanta-ti schianta” che frequentano il padre. L’assenza della figura materna non è che un elemento in più di quel mondo adulto che Tochtli non capisce, non ama, e finisce sempre per somatizzare: «Quando non sopporto il mal di pancia, come oggi, Cinteotl mi prepara un infuso di camomilla. A volte ho dolori così forti che mi metto persino a piangere. In genere sono come dei crampi, ma i peggiori sembrano un vuoto che cresce e cresce come se volesse farmi scoppiare la pancia. Quando ho questi dolori piango sempre, ma non sono un finocchio. Stare male è diverso da essere un finocchio. Se stai male puoi piangere, me l’ha detto Yolcaut». Per riempire questo vuoto, reso ancor più doloroso dalle bugie del padre, tra i principali narcotrafficanti dell’America Centrale, Tochtli si inventa le passioni più disparate e strambe: quella per i cappelli, per il Giappone – e soprattutto per i muti giapponesi –, o quella per gli ippopotami nani della Liberia. Yolcaut non fa che accontentarlo, conciliando, a modo suo, i suoi doveri di padre con i ritmi dettati dal mondo della droga.
Scegliendo questa particolare focalizazzione, l’autore affronta una tematica tutta messicana, che se fino a qualche anno fa era prerogativa di giornalismo e saggistica, è ora sentita al punto di aver dato vita a un intero filone letterario, quello della narco-letteratura, che vanta Élmer Mendoza tra i suoi maggiori rappresentanti. Villalobos guarda al suo paese d’origine prendendo le distanze, tanto nella realtà – vive e lavora a Barcellona – quanto nella finzione. Il Messico non è per questo meno vivo e presente nella narrazione: l’autore crea un microcosmo dai tratti machisti, i cui personaggi hanno nomi preispanici, che sanno di tradizioni antiche, in cui gli omertosi sono ingenuamente visti come semplici muti, e in cui padre e figlio giocano a “vivo, cadavere o prognosi riservata”.
Con una prosa scorrevole, abile nel mantenere l’equilibrio tra un’ironia sempre latente e la tragicità di cui sono impregnati i fatti narrati, Villalobos racconta uno spaccato della società messicana con una delicatezza rara, non priva di tratti quasi surreali, favorita dalla prospettiva infantile. Un romanzo breve, fresco, che riesce con efficacia a svincolarsi dai classici canoni del thriller, e che forse, nelle parole di Tochtli, non vuole dirci altro che questo: «a volte il Messico è un paese nefasto, ma altre volte è anche un paese magnifico».

(Juan Pablo Villalobos, Il bambino che collezionava parole, trad. di Thais Siciliano, Einaudi, 2012, pp. 78, euro 10)

“La spia” di Justo Navarro

La spia, dello spagnolo Justo Navarro, è un romanzo in cui si intrecciano in modo insolitamente originale storia, giallo e fantasia.
Italia, secondo conflitto mondiale: il noto poeta americano Ezra Loomis Pound inneggia a Mussolini e al fascismo dalle frequenze di Radio Roma, sostiene e raccomanda la politica hitleriana, incita il governo degli Stati Uniti d’America a non entrare in guerra contro i nazifascisti: «È per la salvezza del popolo americano […]», tuona Pound dai suoi microfoni.
Nonostante la palese e da sempre dichiarata simpatia per i due regimi totalitari, Pound non convince, con la sua condotta, né tedeschi e italiani, né tantomeno gli americani. Troppo fervore nasconderebbe, secondo i vertici del MinCulPop  (Ministero della Cultura Popolare fascista), un’attività segreta di spionaggio; i discorsi del poeta, a detta di molti  insensati e fantasiosi, circa la nuova situazione politica ed economica, altro non sarebbero che messaggi cifrati destinati al governo statunitense, l’unico in grado di saperli interpretare. Dal canto loro gli anglo-americani accusano Pound di alto tradimento allo Stato e inviano in Italia agenti segreti per indagare su di lui e sui presunti servigi resi al regime.

Stretto tra due fuochi, Pound si difende nel tentativo di spiegare la sua difficilmente credibile posizione di neutralità: «Pound negò di essere fascista o nazista. Era un anticomunista, disse […]».
Chi è dunque veramente Ezra Pound? Un agente doppiogiochista o un semplice fanatico delle sue bizzarre convinzioni su come andrebbe gestito il mondo?
«Gli fecero la foto regolamentare, carceraria, in tuta da soldato. Ci misero una data: 26 maggio 1945. Quel giorno Pound guardò la macchina fotografica con occhi fieri, sintomo di una irritazione distruttiva ma sterile, labbra strette e una lunga, obliqua e profonda I di Ira e Indignazione sulla fronte».
Dietro questo interrogativo, che aleggia perenne tra le pagine del romanzo, Navarro reinventa il volto di uno dei più famosi poeti del secolo scorso e restituisce alla memoria una delle pagine più funeste della storia che, se pur romanzata, non può fare a meno di svelare il luttuoso sentimento derivante dalla totale perdita di razionalità umana.  

(Justo Navarro, La spia, trad. di Francesca Lazzarato, Voland, 2012, pp. 176, euro 14)

[Amarcord] “Cane di paglia” di Sam Peckinpah

Ogni grande regista – e  Peckinpah è  uno di questi – ha la sua dannazione, il suo stile unico, e una croce tematica che lo accompagna per tutta la filmografia. E solo i grandissimi registi riescono a portare all’estremo i propri argomenti. Peckinpah ci riesce con Cane di paglia, del 1971, da lui stesso sceneggiato insieme a David Goldam, basandosi sul romanzo The Siege of Trencher’s Farm di Gordon Williams.
I bambini che due anni prima torturavano uno scorpione, gettandolo in pasto alle formiche nella sequenza iniziale del Mucchio selvaggio, adesso sono più carini e fanno giochi più tranquilli; girano in cerchio, scherzano con un cagnolino bianco, corrono spensierati e si nascondo sorridendo. Forse sono così felici perché il desolato e polveroso scenario western dell’opera precedente si è trasformato in un verde paese della Cornovaglia. Eppure non si può star tranquilli, perché la complessità del genio di Peckinpah esplode anche nel più anonimo dei paesetti e la violenza più pura e spietata finisce per bruciare anche la paglia di cui è fatto il mite Dustin Hoffman.
È lui il docile, passivo e remissivo cane di paglia del film, il cui titolo cita un passaggio del cinese Libro del Tao e della Virtù di Tao Te Ching, del 570 a.C.
È lui David Summer, il matematico con una fresca borsa di studio, appena trasferitosi nella campagna inglese dove è cresciuta la moglie (Amy, figura dolce, angelica, delicata, ma insoddisfatta per la fragilità e la poca tempra del marito), con il nobile intento di dedicarsi a pieno ai suoi studi matematici.
Siamo appena all’inizio eppure già qualcosa stride, non torna. Sarà che Summer, dietro gli occhiali e l’abbigliamento pacato, non sembra avere molto a che fare con il ruvido e grezzo stile di vita della gente del posto. Infatti finisce subito sotto le grinfie degli abitanti: quando si siede al bancone del bar è la vittima prescelta, per non parlare di alcuni vecchi amici della moglie, che stanno facendo dei lavori nella loro casa, e ben presto si trasformano nei primi vessatori del povero studioso. La bomba a orologeria piazzata dal regista sta facendo sentire il proprio ticchettio in modo sempre più fragoroso. C’è da aspettarsi qualcosa di brutto.
Soprattutto perché Amy inizia a passare seminuda davanti la finestra di casa, lasciando pochissimo spazio all’immaginazione dei già affamati operai, tra le cui fila si cela qualche ex non ancora appagato. Potrebbe accadere il peggio ma David, da buon cane di paglia, non si accorge di nulla, o forse lascia passare di proposito, perché il suo impegno è dedicato in ogni minima parte alla grossa lavagna piena di numeri e simboli che troneggia nello studio. E intanto il ticchettio si fa sempre piç presente e l’atmosfera inizia a farsi insopportabile, soprattutto quando Summer  si trova il gatto nero appeso per il collo nell’armadio. Il messaggio è chiaro: «tu potrai pure essere il padrone di casa, potrai anche avere una borsa di studio, ma qui comandiamo noi e noi facciamo ciò che vogliamo. Tu sei il cane di paglia». Sembra di sentire un’anteprima d’esplosione, che è proprio Amy (sempre più insoddisfatta) a innescare: il giorno dopo c’è una riunione tra operai e padroni di casa ed Amy serve alcolici agli operai – perché loro sì che sono uomini – mentre al marito porta un bicchiere di latte, rendendo ancora più palese lo sdegno nei suoi confronti. Alla fine si arriva a un invito: i manovali invitano il matematico a una battuta di caccia, la sua occasione per tirare fuori gli attributi. Ecco allora una delle scene più complesse e terribili del regista californiano; non c’è il caos delle infinite scene di scontri a fuoco, non ci sono duelli, colpi o spari, e il rosso acceso del sangue ancora non si vede. Ma si capisce subito che l’invito è una trappola: mentre David è a caccia, due operai violentano sua moglie. Si tratta senza dubbio di una delle scene più crude della filmografia di Peckinpah: il montaggio è tagliente come una lama e inframezza lo spaesato e goffo protagonista impegnato nei tentativi di fare fuoco al lento e spietato svolgersi dell’abuso, così realistico da essere stato vittima della censura. Quando i due operai avranno finito, il matematico riuscirà ad abbattere un volatile. Si dirigerà verso casa ma, anche a causa dell’omertà della moglie, non intuirà nulla.
Alla fine, però, la bomba esplode: il regista sembra voler riadattare per l’occasione la carneficina messa in scena solo due anni prima, al confine, nel memorabile Mucchio selvaggio. Il cane di paglia, stufo di subire, prende fuoco e inizia a bruciare tutto ciò che ha intorno. Henry, il ragazzo del paese con qualche deviazione già pericolosamente degenerata in passato, la sera dello spettacolo uccide una ragazza con cui si era appartato. Scappa per la paura e a momenti non si fa uccidere dalla vettura di David, che lo porta a casa sua per farlo riprendere. Ecco la vera esplosione. Una deflagrazione contemporanea di tutti gli elementi che avevano fatto rumore e creato ansia e angoscia fino a quel momento: Amy non vuole tenere Henry in casa, nel frattempo i paesani ubriachi e armati hanno deciso di assaltare casa di David per sottrargli il ragazzo e linciarlo. Ma il matematico non è più l’individuo del titolo del film, e pezzo per pezzo si prepara a resistere; lo hanno umiliato, preso in giro, gli hanno stuprato la moglie, ma non entreranno mai in casa sua. Questo è ciò che urla, armato di fucile, dietro le barricate. L’ingegno e la violenza più turpe si fondono nello sconcertante finale in cui gli assaltatori, in un modo o nell’altro, vengono uccisi. Ed è il dialogo finale tra Henry e David a rendere il film un capolavoro assoluto, un film in cui la profondità dei temi e l’abisso dei personaggi si fondono davanti agli epici movimenti di macchina.
Tornando in automobile verso il paese, il sopravvissuto al linciaggio confessa all’ex cane di paglia di non conoscere la via. La via con la V maiuscola. David allora sorride, nonostante sia grondante di  sangue e abbia gli occhiali scheggiati, e a sua volta ammette di non conoscerla nemmeno lui.

Non si può parlare di questo film senza accennare all’immensa interpretazione di Dustin Hoffman. Uno dei massimi – forse il più grande – esponente del metodo dell’Actor’s studio sconvolge come mai aveva fatto il proprio registro interpretativo, il suo stile. Per recitare David Summer, l’attore americano si basa sulla sottrazione e non sull’aggiunta di mosse, tic, particolarità e scatti di nervi, come aveva fatto in precedenza (basti pensare a Un uomo da marciapiede, in cui per rendere più realistica la sua interpretazione dello storpio Rizzo, s’era messo delle schegge di vetro nella scarpa). All’assenza di personalità del protagonista s’accompagna l’assenza di caratterizzazioni, di tratti salienti, rendendo ancora più impressionante la metamorfosi dello studioso quando si avvicina alla battaglia finale; dall’insipida passività alla fredda e spietata perfezione omicida. Il merito della grandezza del film va senza ombra di dubbio alla sua recitazione, da annoverare tra le migliori di sempre.
Il discorso vale anche per il regista, qui di fronte alla sua opera più controversa e spietata. In Cane di paglia Peckinpah dà sfogo a tutta la sfiducia che prova verso il genere umano, largamente dimostrata nei suoi western sporchi e folli, nei quali il sogno americano si sbriciola insieme all’integrità dell’essere umano, ridotto e regredito al livello animale. Sui binari del pessimismo e della violenza si muove quest’opera, altrettanto duplice e non lineare sotto altri aspetti molto interessanti. Peckinpah sembra urlare le sue convinzioni: il mito dell’evoluzione è un falso, le leggi che regolano la società sono fasulle; è la violenza che regala tutto e lo stupro è l’unica forma di rapporto. E nessuno – nemmeno un cane di paglia – può evitare ciò. È fondamentale notare come solo nell’atto più folle e omicida l’uomo riveli la propria natura: non esistono i cani di paglia, ognuno di noi, se attaccato e privato delle sue cose, si scopre una lucida mente del male. Solo la violenza è ordine, al contrario del reale caos che opprime l’umanità, pregevolmente simboleggiato nel film dalla parete-lavagna piena di numeri e operazioni senza un fine e un risultato. Come interpretare poi l’altrettanto complessa figura di Amy, prima seduttrice e poi vittima degli aguzzini? Che prima aizza i nemici contro il marito e poi preme il grilletto con lui? Di risposte ce ne sono poche, lo ammette lo stesso Peckinpah quando parla per bocca dei due sopravvissuti nella scena finale: la Via (quella dell’umanità) è sconosciuta, buia e fosca come la strada che percorrono i due in macchina, quasi oppressi dall’oscurità.
Eppure: «C’è dell’ironia in tutto, bisogna solo essere tanto imbecilli da saperla individuare». Parola di David Summer. Parola del cane di paglia.

(Cane di paglia, regia di Sam Peckinpah, 1971, drammatico, 118’)

“Che ne dici di baciarci?” di Rayk Wieland

Il signor W. non completa il suo cognome. Non riesce a chiamarsi per intero. Resta una sigla, una di quelle scritte in rosso, appuntate su fogli che scottano, quelle che possono celare selve e frattaglie, vasellami di peccati, discariche di vizi non differenziati. Quella sola iniziale è un pericolo assoluto, è capace di abbreviare qualsiasi sciagura. Perciò va monitorata, con urgenza e continuità. Soprattutto quando bisogna mantenere l’ordine, dopo averlo innescato a fatica. Il potere non va solo ottenuto, per quello a volte basta un colpo di fortuna. L’arduo è mantenerlo, come un’eccellenza, un matrimonio che non si screpola a distanza di anni e di pelle più fresca.

Siamo nel cuore affannato della DDR, quello spicchio di Germania all’ombra della Russia, un perimetro severo e molto geloso del suo rigore. Un perimetro che ha tanta paura sotto i cappotti, perché sa che le rinunce prima o poi busseranno tutte insieme, che la gente potrebbe infilare troppi sogni nelle tasche e potrebbe stancarsi di non scoprirli mai.

Questo è il contesto in cui si svolge la storia di Che ne dici di baciarci?, primo romanzo di Rayk Wieland, pubblicato dalla piccola e pregiata Keller. Il nostro protagonista è un uomo qualunque, un ex ventenne conficcato nel petto di Berlino est, che nel 2009 viene contattato da un’associazione in difesa degli autori perseguitati dalla Stasi e invitato a intervenire in un convegno. Viene dunque a sapere di essere stato un poeta. Non solo, un poeta strettamente sorvegliato, come i treni di Bohumil Hrabal.

Per tutta la durata di quella favola ideologica, polverosa e malinconica, cordigliere di burocrati e funzionari hanno intercettato le sue lettere, i versi innocenti indirizzati alla sua amata Liane, che aveva la colpa di essere bella e soprattutto di essere lontana, di abitare nella Monaco disinvolta e occidentale. Sono rime sdentate, senza unghie né intenzioni, se non quelle di cucire quei chilometri e di portarla accanto a lui. Non voleva compiere attentati, l’unico equilibrio da destabilizzare era il battito della sua donna. Eppure, annotare che «non c’è niente di reale nel sistema, mentre il reale si dovrebbe esigere» appare a chi lo spia una minaccia da arginare. W. vuole raggiungere Liane e quando s’incontrano il tempo cola via, svuota i bicchieri di troppi orologi e allora la soluzione è aggiungere un secondo a tutti i minuti. Nasce così il Gruppo 61, volto a manomettere il conteggio delle lancette per rubarsi qualche bacio e interpretato invece dai “controllori” come una cerchia eversiva ad alto tasso destrutturante, ricordando la data in cui il muro fu eretto e in cui la sfiducia cominciò a strisciare.

Tutto il libro ricostruisce salti di vent’anni, la giovinezza di un ragazzo abituato a poco, che frequenta bische clandestine perché basta nascondersi, puntare i giusti circuiti e il reato diventa ammissibile, quasi normale. S’imbatte in ceffi della malavita, che mentre delinquono lo osservano, raccolgono dati e lo raccontano ad altri, perché la delazione diventa un mestiere. E se non c’è niente da riferire, se tutto scorre senza sospetti, può sembrare che non si scruti abbastanza, che non si operi con attenzione. Quindi il dettaglio va cercato, scovato nell’ovvio, inventato se serve. E ogni relazione si trasforma ben presto nel festival del surreale, dove ogni virgola lievita come farina e ogni frase è foriera di rischi. Ancor di più quando chi la compone studia filosofia e quindi ha la sfortuna e il difetto di voler pensare. Perché è il pensiero il primo piccone per ogni frontiera, anche quando vuole solo innamorarsi. Perché è il primo a combattere il limite. O come in questo caso, a prendersene gioco.

Ben diverso dalle tinte sobrie di Uwe Tellkamp, dai documenti di Anna Funder, dalle righe di pioggia di Christa Wolf e dalle atmosfere cupe e strazianti del film di Von Donnesmark Le vite degli altri, Wieland insinua un sorriso nelle terre estreme del grigiore, realizza una parodia panoramica sottile e deliziosa, un ritratto brillante e divertito dei paradossi del regime. Dei mostri fabbricati dal timore di cambiare. Che ancora oggi per esistere non hanno bisogno di mattoni.


(Rayk Wieland, Che ne dici di baciarci?, trad. di Franco Filice, Keller Editore, 2012, pp. 240, euro 14,50)

“Il mio anno preferito” di Nick Hornby

«Ancora non so dire se il calcio sia un gioco molto più semplice di quanto io pensi, o molto più complicato. Quello che so, è che ancora non l’ho capito bene».

Se oggi ci sono Sky, i tornelli, i divieti, la tessera del tifoso e lo stadio-centro commerciale, un motivo ci sarà. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, in cui gli stadi erano sempre pieni, la gente amava cecamente le proprie “bandiere”, la propria squadra e viveva tutta la settimana aspettando la domenica, il match-day. I miti della working class erano ragazzoni robusti e scattanti che indossavano maglie di lana colorate, senza sponsor e con una numerazione che andava dall’uno all’undici: gente che simulava poco e che metteva tanta grinta e passione in quello che faceva, anche quando i campi di gioco erano resi impraticabili dal fango, soprattutto in Inghilterra. Il rituale era sempre lo stesso: colazione abbondante, predica del prete, pranzo e via, una sciarpa di lana avvolgeva il tuo collo e la mano di tuo padre ti accompagnava per i vicoli della città. Il biglietto si prendeva al botteghino il giorno stesso, nonostante le scazzottate fossero presenti anche in quel periodo e i giovani non se la passassero proprio bene.

Nick Hornby, già autore di Fever Pitch, High Fidelity e About a Boy, pubblica nel 2001 My Favourite Year: A Collection of Football Writing (in italiano Il mio anno preferito, edito da Guanda). Il libro è in realtà una raccolta di dodici racconti scritti da altri autori/tifosi – che diventano tredici con quello dello scrittore inglese – in cui ognuno descrive la stagione calcistica più bella e più emozionante che abbia mai vissuto. La realtà e le squadre sono ovviamente d’oltremanica e si passa da grandi nomi come Chelsea, Sunderland e Leeds a piccole realtà di seconda o terza divisione, semi sconosciute per chi mastica poco questo mondo. L’importanza del libro non sta tanto nel sapere come ha ottenuto la promozione il Bristol City, nel descrivere l’emozione e lo scetticismo intorno al miracolo Raith Rovers nella premier league scozzese o le delusioni del St. Albans City. L’obiettivo dell’autore si concentra sul tentare di fare capire cosa c’è di così coinvolgente ed esaltante in un campo di calcio dove ventidue persone corrono dietro a un pallone, per andare oltre il gioco e spiegare cosa spinge le persone (magari di diversa estrazione sociale, religione, credo politico, ecc.) a ritrovarsi unite sotto un unico colore, come in un ritorno al medioevo.

Già Pasolini aveva fatto un tentativo simile quando sosteneva che: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».

Qualcosa di sacro (ma anche di profano…) in effetti c’è e ci sarà sempre, in un ambiente dove chi si fa il segno della croce ha comunque riti scaramantici da non rimandare mai. Ma la sacralità e l’essenza di questo sport sono soprattutto nella partita vista sotto la pioggia, accanto ai tuoi amici, la trasferta in treno, l’orgoglio (effimero?) di poter dire questa è la mia città, il panino allo stadio, il feticismo del biglietto, l’abbraccio al gol, le grida di gioia e le urla di disperazione vera. Tutto ciò, unito ad altri dettagli importanti della vita di un tifoso/credente, è narrato alla perfezione nel libro di Nick Hornby, il quale, nel suo racconto, non parla della sua nota passione per l’Arsenal, ma dell’assurda storia del Cambridge United nella stagione 1983/1984. Il calcio è molto più di un gioco, è il sogno di ogni bambino.

Dunque, non perdetevi questo libro fatto “pallonaro”, guardate al più presto il film Fever Pitch – Febbre a 90°, e poi provate a ridire che il calcio è solo un gioco se ci riuscite. Intender non lo può chi non lo prova.


(Nick Hornby, Il mio anno preferito, Guanda)

“Il mio Nirvana” dei Kamchatka!

Ancora una volta ci tuffiamo nel prosperoso panorama della musica romana. Questa volta è il turno dei Kamchatka!, band formata nel 2007 da Alessandro Lepre Gnerre, Andrea “Capel” Bucci e Manuel Tevar Sanguigni. Il primo lavoro dei tre ragazzi, Scorribanding – Attacco il Giappone con 3, risale al 2008, un anno dopo la  nascita del progetto.  Appare subito chiaro sia dal titolo del gruppo, sia da quello del primo EP (composto da 3 canzoni e distribuito gratuitamente alla fine dei primi concerti) il richiamo al celeberrimo gioco da tavolo Risiko!, ideato oltre sessanta anni fa.

Nel 2011 i Kamchatka! presentano al pubblico romano il primo vero disco, Il mio Nirvana. I titolo è un omaggio alla band di Kurt Cobain, da cui il gruppo capitolino ha preso un po’ di quel genere grunge che non è difficile ritrovare tra le nove tracce che compongono l’album.

La prima canzone, che ha lo stesso titolo del disco, oltre a essere subito un’ottima presentazione dello stile e dell’energia dei Kamchatka! nasconde (neanche troppo velatamente) continue citazioni a diversi gruppi musicali, come ad esempio Alice in Chains o Pearl Jam.

Nelle successive “L’ultimo incanto” e “Piup” si cambia registro e l’accento viene posto sulle storie d’amore e i rapporti di coppia. Soprattutto in “Piup” anche il ritmo cambia in parte direzione, dando l’impressione di avvicinarsi più a una ballata che allo stile rock di cui è intriso tutto l’album.

L’energia esplode di nuovo prepotente in “Addio miei falsi dei”, che apre la strada per “Alla continua  ricerca di un equilibrio”, la quinta traccia – della durata di circa otto minuti – che sembra quasi dividere in due l’intero album.

Il mio Nirvana prosegue fino alla fine alternandosi tra ritmo energico e testi mai banali passando per “Weiss”, dove ritorna un’atmosfera più romantica, accompagnata anche dal suono della chitarra acustica che fa la sua comparsa a metà traccia.

In chiusura troviamo “Un’altra vittima”, con la quale i Kamchatka! sparano la loro ultima cartuccia con il botto. Un botto (in pieno stile grunge, per chiudere in bellezza) che dura poco più di cinque minuti, per poi sfociare dopo qualche minuto di silenzio nella ghost track del disco, “Lettera dal Nirvana”, lo struggente flusso di coscienza di un giovane alla ricerca di risposte spesso troppo difficili da trovare. L’ultima frase, quella che davvero mette il punto a Il mio Nirvana, è un appello quanto mai attuale: «Se c’è qualcosa che ho imparato da questa vita… beh, che dire, è ribellatevi, ribellatevi alle ingiustizie».

I Kamchatka! ci lasciano così, e viene da chiedersi se sia veramente il caso di aggiungere altro e rischiare di rovinare ogni cosa. Rimane solo il pollice alzato per un esordio sicuramente positivo, a cui si aggiungono i complimenti per la scelta (mai banale) di cantare testi completamente in italiano, senza scendere a compromessi con l’inglese ormai inflazionato.

L’ultimo consiglio che posso dare agli appassionati di musica romana (e non solo a loro) è di approfittare degli eventi che offre la capitale per ascoltare i Kamchatka! dal vivo. Un consiglio spassionato.


Leggi l’intervista ai Kamchatka!


I Kamchatka! su internet:
http://www.myspace.com/kamchatkaita

http://kamchatka.bandcamp.com/album/il-mio-nirvana
http://www.youtube.com/user/mrscorribanding