“Le assetate” di Bernard Quiriny

Signore e signore. Ragazze e ragazze, ecco a voi l’enorme spettacola di questa lettura. 

Capisco la possibile imbarazza, ma non si tratta di un refuso molesto. Non goccia fetente smarcando il sudore. Non sogna foreste in cui mimetizzarsi; non ne ha bisogno.

È una frase volontaria, anche un po’ impettita. Si gloria soltanto del trampolino di questa emissione, delle scabre intenzioni della sua pelle. Una pelle che sputa sul ruvido, che tutta d’un tratto comincia a gracchiare davanti all’articolo “il”, che si arrossa e si abbrutisce se nel raggio di cento chilometre avvista sentore di maschio. Una vera e propria allergia concettuale.

È tutto qua il senso del libro di Bernard Quiriny. Sono Le assetate (Transeuropa) di questo romanzo a scandire la forza di un’ucronia. È un’allostoria, un fantascenario, un calderone impossibile in cui si ipotizza che in terra fiamminga, in Belgio esattamente, dopo un’accesa rivoluzione a caccia di streghi, si sia insediato uno Stato al femminile. Un regime totalitario, assorbito e governato prima dalla Pastora Ingrid e in seguito da sua figlia Judith, che dopo aver ucciso Oloferne tra le crepe della Bibbia, ha trafitto ogni altra traccia di virilità orbitante. Un Paese strangolato di mistero, pieno di campi deserti come domande mai irrigate di risposte. Mostruosamente inconoscibile perfino per le sue cittadine.

Figurarsi per gli stranieri, che non possono osservarlo, che vivono solo di accessi negati, brandelli sberciati di vecchie leggende passate in varechina. E tutto il resto è ridda di voci, uncinetti di gossip incapaci di stendersi al sole. Finché sei sonori esponenti dell’intellighenzia parigina non riescono a sfondare la barriera, ottenendo dalle autorità il permesso di valicare l’alieno confine, senza riprendere né fotografare. Ovviamente. E senza neanche chiedersi l’ora. Ognuno con i suoi pregiudizi, con le sue forme di mistico entusiasmo, soprattutto quando si tratta di Alvert e Lotte, le due donne in visita nel loro Impero ideale.

Parallelo alle impressioni dei turisti, si dipana il diario di un’abitante belga, con due figlie immolate alla causa del Regno e un bimbo clandestino da nascondere alla legge. Una suddita modello, stando a quello che galleggia a bordo facciata, tanto da essere scelta nel piccolo gruppo che può porgere un dono a Judith nelle celebrazioni del suo anniversario.

Ma appena due dita sotto la scorza, dove il rigore tira un po’ il fiato, parlano i fiumi di dubbi e paure. E si muove il lato nero del regime, quello di tutti gli assolutismi. Locali del peccato e del contatto fugace, dove quasi ogni sera si reca la Pastora, in attesa che qualche donna del gregge si consacri alle sue mani, con un tannico retrogusto di Bunga Bunga o di Berlino anni ’30. Locali dove si può bere, fuori le mura del proibizionismo diurno, perché la sobrietà cala assieme alla luce. E ancora endemiche perfidie, invidie serpeggianti che solo il sesso non più debole sa innaffiare con pazienza.

Stormi di vittime che sono gli uomini: respinti, distrutti, marciti nei fondi di ospedale dov’è meglio non entrare, perché la pietà non infetti le infermiere. Uomini annullati, asserviti, martellati quando sono di pietra e umiliati nella carne in ogni occasione.

Cancellati, come i termini di genere maschile, in una Contea del contrappasso in cui tutte le pene subite dalle donne in millenni spinosi di subordinazione, sono rimborsati con interessi di sangue e brutture infinite, perché almeno secondo l’autore, la crudeltà non sempre porta la barba. Una provincia degli eccessi, di ribaltamenti prospettici grotteschi e surreali, in cui i “maschietti” sono assurti ai nuovi ebrei, ai nuovi negri, ai nuovi diversi. E le donne al comando danno il meglio del peggio, hanno sete di ripicca e si scolano i loro antagonisti, spossessandoli di tutto e arrogandosi i loro stessi terribili vizi.  Quelli della supremazia, di chi processa anche i riflessi dello specchio, temendo di leggerci un contorno sovversivo.

Il pregio evidente di questo libro, ironico e ficcante con moderazione, è quello di aver capovolto provocatoriamente la dialettica sessista, che resta comunque quella servo-padrone di hegeliana fattura, in cui bisogna schiacciare per sopravvivere. Linguaggio pulito, senza decori o virtuosismi che distrarrebbero dalla realtà. Perché l’oggetto prevale sullo stile. Perché ciò che conta è l’impronta veridica del reportage. È dimostrare che costruire un’egemonia sulla discriminazione è sempre eternamente un errore. Ma questo le donne lo sanno fin troppo bene.


(Bernard Quiriny, Le assetate, trad. di Stefania Ricciardi, Transeuropa, 2012, pp. 324, euro 15)

                

“Chiedi alla polvere” di John Fante

Chiedi alla povere è la storia di Arturo Bandini. Un grande scrittore, sissignore, davvero un grande scrittore questo Arturo Bandini. Passa le sue giornate in una stanza dell’albergo Alta Loma, a Los Angeles dove cerca continuamente l’ispirazione giusta e invece incontra Camilla Lopez, la bruna cameriera messicana del Columbia Buffet. Non bella se non fosse per i contorni del viso e il candore dei suoi denti. Ma insolente e cocciuta, dannata donna, capace di far tremare di desiderio persino l’autore del celebre racconto Il cagnolino rise, il magnifico Arturo Bandini in persona, per l’appunto. Tremare soltanto però, perché, per il resto, una mente sublime non può che rimaner di sasso dinnanzi alla sua nudità, alle sue carezze, come «un pezzo di arrosto freddo».

Mica come quel tubercolotico di Sammy il barista! Ah povero diavolo, povero romanziere dei nostri stivali! Ah Camilla! Dannata messicana! Perché non la pianti di amare quel brandello d’uomo e non corri dal grande Arturo Bandini, che ogni tanto prega perché ha peccato mortalmente con Vera Rivken. Maledetto sia quel giorno! Dio gli fu testimone e mandò giù un terremoto che ancora tutti se lo ricordano a Long Beach! Da Dio in persona fu punito Bandini per aver posseduto Vera Rivken, lui, figliol prodigo di madre cattolica, a cui invia qualche soldo ogni tanto, quando il buon critico Hackmuth – che Dio lo preservi in eterno, quel brav’uomo – gli spedisce succulenti assegni per i suoi racconti. Ha del fiuto quel Hackmuth, eccome se ce ne ha! Ha saputo riconoscere subito le doti di uno come Bandini, uno che non si perde in chiacchiere, che ha il dono della scrittura, ma chissà perché, a volte, proprio lo smarrisce questo dono e si danna, impreca, si dispera. Lui, Arturo Bandini, che anche quando sta per annegare nell’oceano, quella strana notte a Santa Monica, insieme a quella matta di una messicana, mentre le onde lo portano giù e poi su e poi di nuovo giù, anche allora il suo cervello registrava, divideva in capitoli l’accaduto, ne faceva prosa da romanzo. Dio che genio della scrittura questo diavolo d’un italo-americano! Anzi no, americano a tutti gli effetti e non come la nostra povera Camilla Lopez, così evidentemente messicana e socialmente discriminabile. Al diavolo lei e il suo Sammy, il tubercolotico!

Dunque Chiedi alla polvere è proprio una bella storia. C’è chi dice sia un capolavoro, c’è chi se lo rileggerebbe giorno e notte. Chi invece ne parla con sobrietà, lo stigmatizza e lo ripone con indifferenza nel filone della letteratura americana, quella dannata letteratura americana che non ha né capo né coda, ma solo nervi tesi e sangue caldo che scorre nelle vene, nel ventre, negli organi più biechi. Ma del resto che importanza ha tutto questo! Al Diavolo tutti quanti!

Chiedi alla polvere è, prima di tutto, la storia di un ventenne, il grande Arturo Bandini, che prima prova a fare lo scrittore, ma non gli riesce molto bene, poi cresce, si scontra con la vita, col passato, col futuro, sesso compreso, e allora sì che migliora, che trova l’ispirazione, che diventa finalmente un grande romanziere. Davvero un bel romanzo questo Chiedi alla polvere di John Fante. Peccato solo per quella dannata messicana. Ah, Camilla Lopez, che Dio ti abbia in gloria per l’eternità!

 

(John Fante, Chiedi alla polvere, trad. di Maria Giulia Castagnone, Einaudi)

“Le vostre speranze non saranno deluse”: a tu per tu con i Masoko

Spesso musica e speranza vanno di pari passo. Soprattutto quando arriva la stagione estiva e si spera sempre di accompagnare le calde giornate con delle splendide canzoni. E proprio qui entra in scena l’ultimo lavoro dei Masoko.

Le vostre speranze non saranno deluse, uscito il 15 giungo, si candida prepotentemente a essere uno dei dischi più interessanti della stagione. E non solo. Il percorso discografico dell’indie band romana, trova qui conferma e consolidamento, offrendo agli ascoltatori una track-list in cui ogni traccia combatte per bellezza con l’altra.

Attivi dalla fine degli anni ’90, il gruppo – a tre anni dal precedente Masokismo – mostra con lampante lucidità e acume il personale scorcio musicale sull’attuale scenario. Infatti i testi, affilatamente ironici e scaltri, mostrano un’antologia di svariati piccoli crolli, sia umani che sociali. Già dall’intro iniziale “Il futuro non è”, la questione si fa subito chiara: «Ti arrabbierai scoprendo che / Il futuro non é come lo volevi te».

Pregio dei Masoko è cantare lo smarrimento di tanti coetanei e persone al momento impegnate a fari i conti con un realtà piena di battaglie, accompagnando il tutto con un lavoro melodico veramente pregevole e calibrato. Dopo la prima traccia, seguono i battiti elettro pop di “Buco nella testa” ma è con “Prima del crollo” ed “In alto” – tra i brani top dell’album – che, grazie alla voce di Davide De Leonardis, la situazione si fa più lenta e intensa. Alla bressoniana “Il diavolo”, succedono due tra i momenti più freschi – ma non per questo futili – dell’album ovvero “Birra e sigarette” e “Oggetti”, dove i versi «I nostri oggetti che ogni giorno stanno insieme Non sanno fare niente ma lo fanno bene» e «Gli uomini sono inutili Le cose invece…» sono assolutamente da appuntare.

Come da segnalare è la spietata apocalisse atomica di “Mi vuoi ammazzare”, tra crisi e crolli di monumenti. A chiudere in bellezza ci pensa un’altra perla slow come “Tirati un po’ su” e il degno finale di “Tutto eri ieri”.

In conclusione il disco brilla per due aspetti: il primo è la qualità intrinseca di ogni singola canzone, dove i Masoko riescono a rendere ancora più compiuto ed efficace l’ormai tipico sound, miscelando perfettamente pop elettronico sintetizzato e new wave; secondo, perché queste splendide tracce sono uno spaccato prezioso e vero della realtà che stiamo vivendo in questo periodo. E non è da poco unire questi due aspetti. Insomma, almeno le nostre di speranze, non sono state deluse. Buona estate con i Masoko.

 

Le vostre speranze non saranno deluse è il titolo dell’album; quali sono – secondo voi – le speranze attuali di un ascoltatore di musica?

Essere trattato con rispetto e onestà, non essere preso in giro e magari innamorarsi di canzoni che lo accompagneranno nel corso di tutta la vita.
 

Il disco ha una copertina molto “glaciale”, ma è uscito a giugno e le atmosfere musicali sono molto calde e d’impatto; è un contrasto voluto?

Sì, siamo molto legati e suggestionati dagli opposti, dalle contrapposizioni, dal fatto che tutto può essere tutto ma anche nulla. Un’immagine invernale guardata nella stagione estiva ti evoca ricordi e sensazioni che hai vissuto all’interno di un altro clima, uno sdoppiamento temporale un po’ malinconico che ci affascina tantissimo. La nevicata della copertina è quella che si è realmente verificata a Roma durante lo scorso inverno.
 

Descrivete ai nostri lettori Le vostre speranze non saranno deluse con solo tre semplici parole.

Vivere è cambiare.
 

La genesi del disco – anche a causa di vostri impegni paralleli – è stata lunga; pensate che ciò abbia contribuito in maniera positiva alle tracce?

I nostri progetti paralleli e la ricerca personale che ognuno di noi ha perseguito nel proprio piccolo hanno portato sicuramente nuova linfa vitale alla nostra musica.
 

In molte canzoni, penso soprattutto a “Buco nella testa”, “Prima del crollo”, “Mi vuoi ammazzare”, si fa riferimento in maniera molto esplicita a un interlocutore, spesso femminile. È un Tu metaforico, universale, o reale?

È esattamente tutte e tre le definizioni che utilizzi. Attingiamo sempre dal reale ma pretendiamo che ciò di cui parliamo assuma sempre un valore universale. In altre parole scrivendo canzoni per noi scriviamo anche canzoni per tutti gli altri. È il nostro codice etico.
 

Ho letto che canzoni come “Il diavolo” e “Oggetti” sono nate da visioni cinematografiche; quale regista scegliereste per rappresentare al meglio le atmosfere dell’album?

Robert Bresson.
 

Il disco si apre e si chiude circolarmente con due riferimenti temporali espliciti: “Il futuro non è” e “Tutto eri ieri”. Come vivete però da musicisti questo presente?

Osservazione fine, sei il primo ad averla fatta. Rispondiamo alla domanda con una frase di Miles Davis: «Per me la musica e la vita sono una questione di stile».
 

Avete avuto per questo album dei lavori di altri band che avete preso come modello o che vi hanno influenzato particolarmente?

Da sempre i Police rappresentano per noi un grande insegnamento pop. In studio pensavamo spesso all’ultimo disco dei Phoneix con le sue influenze quasi battistiane. In quel periodo abbiamo anche riscoperto la grandezza del primo Vasco. Poi è saltato fuori Shuggie Otis con la sua mistura psichedelica soul. E i dischi techno comprati a Berlino. Le melodie di Robert Wyatt. Insomma le influenze sono disparate ma quello che ci interessava maggiormente era focalizzare la nostra identità stilistica senza somigliare a nessuno in particolare.
 

Dell’attuale scena romana, con chi vi piacerebbe collaborare?

Con i Velvet e lo abbiamo fatto. Sono ottimi musicisti, bravissimi “addetti ai lavori” (parliamo del lavoro all’interno di uno studio di registrazione) e persone con le quali non è difficile trovarsi a proprio agio. Ci hanno aiutato a perseguire i risultati che ci eravamo prefissati durante la lavorazione di questo album, ci siamo riusciti. Hanno concretizzato i nostri sogni e gliene saremo sempre grati.

 

Adesso vi butterete con la vostra celebre vitalità nei live, o avete già dell’altro materiale pronto da incidere?

Abbiamo sempre materiale da incidere: il problema è come e dove, non quando. Ora vogliamo suonare. Nel nuovo live set abbiamo compreso un nuovo elemento: Frankie Bellani ai synth e campionatori. Siamo davvero entusiasti della presa live di questo album. Venite ai nostri concerti: le vostre speranze non saranno deluse.

 

(Masoko, Le vostre speranze non saranno deluse, Modern Life/Audioglobe, 2012)

“Eravamo bambini abbastanza”: a tu per tu con Carola Susani

Incontrare Carola Susani è come trovarsi catapultati a tre passi da un Babbo Natale con tanto di borsetta rossa e pashmina in tinta, che dispensa libri al posto di giocattoli e bastoncini di zucchero. La saluto e mi siedo su uno di quei grossi scalini di travertino che spiano piazza della Repubblica a Roma, scommettendo sulla nazionalità del turista che li sceglierà per riposare le sue esauste membra. Questa volta però non gli sono capitati due turisti, ma un paio di viaggiatori, fra le parole, s’intende. Mi accomodo vicino a Carola in una giornata di giugno non ancora rovente, mentre si trascina una pesante borsa ricolma di volumi che lei, davanti alla mia curiosità, subito mi offre, chiedendomi di approfittarne se in mezzo a quel piccolo agglomerato di idee impresse su carta ci fosse qualcosa di mio interesse. Non c’è che dire il Babbo Natale che ho sempre sognato. Chi ti offre un libro, ti sta offrendo un viaggio e una sfida. E io sono affezionato a entrambi. Mentre scorro i volumi, vedo una copertina che mi ricorda proprio l’ultimo libro di Carola Susani Eravamo bambini abbastanza (minimum fax, 2012). Si tratta di un viaggio molto particolare, un viaggio nelle viscere del lettore alla ricerca delle sue paure. E proprio dalla paura, protagonista onnipresente del romanzo, mi piacerebbe partire per il dialogo con Carola.
 

La paura di perdere chi si ama da un momento all’altro, sottratto, rapito, rubato. La paura di non ritrovarlo più. La paura che questa perdita non sia vissuta con altrettanto dolore dallo “scomparso” e per finire, e qui forse la più dolorosa, la paura che la persona in questione possa stare meglio con chi di questo rapimento è il responsabile che con noi che non abbiamo fatto altro che amarlo e guidarlo. Con Eravamo bambini abbastanza rimesti nel pentolone emozionale del lettore senza sosta, tanto che a volte è necessario interrompere la lettura del romanzo per non esserne inghiottiti. Erano queste le sensazioni che volevi scatenare nel lettore?

La paura di perdere da un momento all’altro un bambino o una bambina, che si ama con infinita apprensione e tenerezza. Certo, sono partita anche da qui, dalla paura delle madri e dei padri. Dal terrore dell’ignoto. Quello terribile prodotto da un rapimento, ma anche quello più consueto, l’ignoto che è la vita di quelli che amiamo quando noi non ci siamo. La scoperta dolorosa ma confortante che possono fare a meno di noi. Ecco, questo libro è anche consolazione e conforto. L’autonomia dei bambini, la loro capacità di “fare il pane con la farina che trovano” (“il pane lo fai con la farina che hai”, è una specie di proverbio popolare siciliano per nulla antico, credo novecentesco) mi conforta e mi alleggerisce dall’angoscia nel momento in cui mi turba. È la libertà – assoluta – che abita ciascuno di noi. Ogni lettore ricorderà certi risvegli, frequenti soprattutto nell’infanzia, i risvegli in cui non si ricorda chi è, in cui non ricorda la propria casa, il nome e il volto dei propri genitori. Credo che veniamo da lì, da un esistere che non ha ancora un contenuto, ma solo una coscienza, in cui nessun legame è ancora dato, e questo ci restituisce la libertà di giocarci a modo nostro la presente incarnazione sulla terra.
 

Come hai scelto il tema del libro? Da dove è nata l’ispirazione e la storia di Manuel (il protagonista dodicenne del romanzo)?

Come capita spesso, è un libro, una questione, un tema che ti scelgono. Per primo, è stato il Raptor, si appostava agli angoli delle vie, dentro i mercati, nella sua consueta posa di animale secco e cercava di dirmi qualcosa. Poi è stata una vecchietta. Era una vecchietta che aveva costruito sul terrazzo condominale di una casa occupata un rifugio, un eden per i bambini tristi. Tristi di ogni tristezza, per la distrazione dei genitori o la miseria. Li portava via alle famiglie e li restituiva all’infanzia. La vecchietta, che, come il Raptor, è quasi una creazione della mia mente, ha avuto il suo momento di gloria su Repubblica-cronaca di Roma, un raccontino. Ma sono rimasti i bambini che ancora mi chiedevano attenzione. Bambini con la loro questione, ognuno la sua, ma tutti con la necessità di decostruire il mondo, per provare a trovare il proprio posto. L’infanzia è l’età filosofica. Dalla cronaca ho mutuato la paura che attraversa una società intera, ma ho voluto farla specchiare con la paura dell’orco, del babau, dell’uomo nero, che attraversa la cultura contadina, così risalente, tanto capace di perdurare che è sufficiente scavare appena la superficie del nostro tempo – come la crisi economica e le risposte politiche alla crisi economica vanno facendo – per ritrovarcela di fronte, con le sue strutture narrative, le sue forme di elaborazione dell’angoscia. C’è quindi una ragione meditata nell’uso del fiabesco. Manuel è un ragazzino normalissimo nell’età delle domande, un passo prima dell’ingresso nell’adolescenza, ha dodici anni: sono gli anni della coscienza piena del mondo e dei rapporti di potere, gli anni in cui nulla è più attraente della conoscenza.
 

Il libro appare come un’abile combinazione di racconti e punti di vista, in cui l’immaginifico si fonde e si sovrappone al reale, rendendo indispensabili tutte le meravigliose diversità dei sette compagni di viaggio di Manuel, che comunque subiscono il fascino dell’uomo che li ha strappati alla loro vita “normale”. Come sei riuscita a disegnare questo ambiguo rapporto?

Fino all’ultimo, non mi sentivo all’altezza dell’intuizione di questo libro. Fino all’ultimo non sapevo se sarei riuscita a dare agli otto ragazzini vita e aria per esprimersi. Ho azzardato, mi sono data la libertà di tentare. Per me, reale e immaginifico non sono alternativi, sono compresenti, ed è soltanto attraverso l’immaginazione che si può arrischiare una conoscenza. Penso il mondo come un posto pieno di porte e finestre, che ci attraversano. Voglio dire: a otto anni ho interpretato Babbo Natale a una festa e sono stata pienamente Babbo Natale. Non l’ho interpretato, l’ho incarnato. Lui è stato qui. Babbo Natale allude a qualcosa di cui non possiamo fare a meno. Il fascino del Raptor io credo che nasca lì. Il Raptor non è buono, non è cattivo. È molto più cattivo che buono. È tutte e due le cose insieme. Ma è soprattutto assetato, arso dal bisogno. È un cercatore. Cerca l’acqua. Per i bambini un cercatore, uno che si muove tirato da qualcosa di più forte di lui, che è una mancanza, è potente, perché ogni bambino è pure un cercatore. Questo suo vuoto interno, questa sete, io credo, gli dà il fascino e l’autorità di cui gode. I bambini, allontana dosi e avvicinandosi a lui e tra di loro, sperimentano il proprio rapporto con il potere. Cioè vivono la loro formazione.
 

Alex, compagno di viaggio di Manuel, spesso suo antagonista, è uno dei comprimari più interessanti, probabilmente perché a lui spetta il compito di memoria del gruppo. È lui che quasi ogni sera inizia a raccontare una storia che riguarda uno dei suoi compagni, in una sorta di Decameron per bambini, in cui alle malizie degli adulti si sostituisce l’immaginazione dei “quasi adulti”, che pur avendo provato sulla loro pelle e sui loro desideri molto più di quanto un lettore potrà provare in una vita, resistono, incredibilmente continuano ad aver bisogno delle storie di Alex, piene di invenzioni, sì, eppure più vere per loro della ineccepibile realtà. Da dove viene Alex e cosa sarebbe stato il romanzo senza di lui?

Alex è un tardo figlio del Novecento. Che testimonia l’impotente potere di cui ci siamo fatti carico noi che ci ostiniamo a raccontare le storie, a scrivere, a fare arte. Noi che ci ostiniamo a restituire un senso sapendo e dichiarando che la realtà scivola, si nasconde, non si fa cogliere. Ma chi racconta, Alex, sdrucciolevole, intimamente non aderente alla comunità, sempre dentro, sempre fuori, con le sue storie riesca a fare qualcosa di diverso: fonda ogni giorno la comunità, mescolando come non può non fare, cose che sa e cose che inventa, restituendo a ciascuno e a tutti il suo mito individuale, e accordando il coro. In Alex ritraggo tutta la mia passione per l’arte, tutta la mia fiducia che va sempre insieme alla coscienza di un eterno inevitabile fallimento di fronte alla realtà. Bene, con Alex accetto di farmene carico con disinvoltura.
 

«Raccontare cose estreme come se fossero normali, ti inizierà all’arte della narrativa.» Condividi l’affermazione di Francis Scott Fitzgerald? Leggendo Eravamo bambini abbastanza sembrerebbe proprio di sì. Quanto è importante l’immaginifico e il fantastico nei tuoi romanzi e in questo in particolare?

Sono perfettamente d’accordo con Fitzgerald. Ma dico di più: per chi le vive, per chi ne fa esperienza, le cose estreme molto spesso sono normali. E l’unico modo per mettersi dal punto di vista di chi le vive è coglierle nella loro normalità. L’alternativa, l’estremo raccontato con l’estremo, con l’insistenza, con il compiacimento, non fa che trasformare gli esseri umani in mostri incomprensibili, sia che siano vittime, sia che siano carnefici. Quanto al fantastico: non so concepire il mondo se non aperto, come ti dicevo, pieno di porte e finestre, attraverso le quali, dalle più risibili alle più autorevoli, da Babbo Natale a Dio, si rivela la nostra non autosufficienza, l’impotenza di un’idea totalitaria dell’immanenza. Si rivela la sete degli esseri umani di una libertà che non si esaurisce nella propria. Penso al fantastico insomma in chiave religiosa. In Eravamo bambini abbastanza non c’è proprio il fantastico, ma una continua allusione al fantastico. D’altra parte, è un libro sulla sete, sull’arsura.
 

E ora una domanda alla Carola Susani lettrice. Ti sbilanci e ci dici quale libro hai amato nell’ultimo anno e quale invece non sei proprio riuscita a finire?

Ho amato Stranieri alla terra di Filippo Tuena edito da Nutrimenti. Con i libri brutti è più difficile, o non li comincio o li dimentico.
 

Passiamo ora alle manie scrittorie. Ne hai? Bevi succo di cicuta prima di metterti a lavorare con tre sorsi lunghi e uno breve o disegni circoli viola intorno alla tua scrivania? Di cosa non puoi proprio fare a meno quando scrivi?

Ormai, quasi niente. Nessun rito, nessuna mania. Mi sono fatta concreta e terrestre. Non posso fare a meno di solitudine e silenzio. Mi piace la fine della notte e l’alba. Ma è fare di necessità virtù.
 

Ora che il libro è uscito e si è attivato il tumulto promozionale, sei pronta alla battaglia? Sei stata soddisfatta dell’accoglienza da parte dei lettori e della critica? C’è stato un commento che proprio non ti aspettavi sul romanzo?

Sono molto contenta. Anche stupita dell’accoglienza. Si è scatenata una grande euforia attorno al libro. È una passione che meritano gli otto più il Raptor e rispetto alla quale è bene che io mi faccia da parte. Parlo fin troppo, forse non è più il mio momento per parlare. I lettori e le lettrici a volte ho l’impressione che capiscano questo libro meglio di me.

Una cosa sorprendente l’ha detta Piero Sorrentino presentando il libro a Napoli: ha detto che finalmente sapeva che fine aveva fatto Kate, la bimba rapita di Bambini nel tempo. Non ci avevo pensato, ma era vero. Il mio libro, in qualche modo, è anche una risposta, un controcanto, di quel libro.
 

Ti ringrazio per la tua disponibilità e ovviamente per i libri che spesso porti in dono. Ora in molti cercheranno una donna con la borsa e la sciarpa rossa, sperando in un volume in regalo. Lo so, concedere interviste è sempre un errore. A presto.


(Carola Susani, Eravamo bambini abbastanza, minimum fax, 2012, pp. 211, euro 13,50)

“El viento en un violín” di Claudio Tolcachir

Due ragazze si amano e, trattenendo il respiro, fuggono dalla sensazione di un letto troppo stretto per entrambe. In quei pochi secondi di apnea qualche volto si affaccia nelle loro menti, un futuro si delinea, dei sorrisi si dipingono. Nello stesso tempo un incerto psicoanalista malauguratamente scende nell’arena dello scontro con il suo paziente e ne rimane irrimediabilmente schiacciato. Il paziente è un giovane di bella presenza, presenza in cui si mescola quella della madre, onnipresente, eppure atavicamente distante. Storie che si intrecciano in una commedia della vita che riprende i temi della contemporaneità, proponendoli con un gusto almodovariano che non disdegna momenti di ilarità. Nello schema evolutivo del classico ragazzo di ricca famiglia, disimpegnato e svogliato, non poteva non rientrare l’assunzione di improvvise responsabilità. All’arrivo di queste ultime il ragazzo rivela tutta la sua somiglianza alla madre, nel suo passare dal disinteresse totale per la vita al controllo spasmodico di ogni casualità. Analogamente si dipanano i classici conflitti relativi alla sessualità nella famiglia che vede nascere un amore omosessuale, con la finale accettazione da parte della madre di sentimenti ormai irrinunciabili per la figlia. Oltre tutto questo e, forse, prima di tutto ciò, c’è l’assenza dell’uomo, elemento costantemente presente sullo sfondo, sebbene mai adeguatamente sviluppato. Tutto si regge dunque sull’assenza di un padre per un ragazzo sfaccendato, di un padre per una ragazza che affronta la propria sessualità e i propri sentimenti, di un marito per una donna ricca e violentemente direttiva, di un saggio compagno per una domestica che sta invecchiando affrontando una modernità incalzante. Nemmeno lo psicoanalista riesce a dare un punto di riferimento ai personaggi, pur sfiorandoli tutti nel corso della narrazione. Quest’ultimo è semplicemente travolto dalla sua stessa assenza. In una vicenda che vorrebbe esaltare l’amore e la sua costante predominanza sugli accadimenti della vita, che vorrebbe analizzare uno scontro tra generazioni ben noto al pubblico, si preferisce narrare presenze sostanzialmente mancanti piuttosto che simbolizzare l’assenza onnipresente. È proprio questo il limite di profondità di una messa in scena spesso gustosa e ben interpretata, che ha il merito di far interagire sul palco luoghi e culture diversi con estrema semplicità. La casa delle ragazze lesbiche e dell’umile domestica nel quartiere malfamato è anche soggiorno della ricca dimora della donna in carriera e del suo amato figlio annoiato, mentre più defilato è lo studio dello psicoanalista, su cui più precocemente calerà il sipario. Le luci si accendono sulle scene vive e si spengono su quelle in attesa di rivivere, mentre gli attori si arrestano, trattengono il respiro come i loro personaggi, per poi espirare in una recitazione concitata, in cui il riso s’innesta su una tensione sempre palpabile.

 

El viento en un violín
drammaturgia e regia di Claudio Tolcachir
 

Andato in scena presso il Teatro Mercadante di Napoli il 15 giugno, nell’ambito del Napoli Teatro Festival. 

“Sopravvissuti” di Richard K. Morgan

Sicuramente la veste grafica aiuta a cogliere il genere di riferimento se anche un profano come mio fratello appena l’ha visto mentre lo leggevo ha indovinato (in parte) la sua appartenenza ai “libri-tipo-Il Signore degli Anelli” (cito testuale dalle my brother’s words). Ma Sopravvissuti (Gargoyle, 2012), primo episodio della saga A Land Fit for Heroes, è molto di più del fantasy tradizionale.

L’autore è Richard K. Morgan, ex insegnante d’inglese, già noto al grande pubblico con i precedenti lavori di Sci-Fi, come il romanzo cyberpunk Bay City (Nord 2006), e di fantascienza quali Angeli spezzati (Nord,2005), Il ritorno delle furie (Nord, 2008) e Business (Nord, 2006).

Ora la Gargoyle, casa editrice romana specializzata originariamente solo nell’horror, ha ampliato i suoi orizzonti accogliendo nella collana «Gargoylextra» anche altri generi come il giallo, il thriller, la Sci-fi e appunto il fantasy. Scelta coraggiosa quella della Gargoyle con Sopravvissuti (titolo originale The Steel Remainds) che piega il genere ai suoi fini disattendendo ogni cliché.

Provocante, violento, crudo, dissoluto. Il mondo del romanzo è in totale disfacimento. Un mondo di un futuro prossimo che somiglia però a un ritorno a un passato medievaleggiante, in cui si aggirano tra insediamenti antropici di varia turpitudine non solo uomini guerrieri, mercanti avidi, sciamani integralisti, prostitute e schiavi, ma anche creature non umane come il quasi estinto popolo nero dei Kiriath (che possono ricordare gli elfi di Tolkien), i lucertoloni del Popolo delle Squame, i millenari Timonieri e infine i temibili e feroci dwenda.

È un mondo corrotto, assetato di potere e intollerante che vive in una pace precaria duramente conquistata. Questa pax tra Impero di Yeltheth e Lega del Nord sembra sul punto di rompersi all’inizio della storia.

Lo scrittore inglese non rinuncia a caricare la molla della suspense, seguendo separatamente per quasi tutta la durata del romanzo le vicende e il flusso di pensieri, attraverso intensi monologhi interiori, dei tre personaggi principali: Ringil Eskiath, abile e spietato guerriero di nascita nobile, distintosi nella cruenta battaglia di Gallows Gap, ma allontanato dalla famiglia per via della sua omosessualità, per i genitori sinonimo di depravazione; lady Archeth Indananinandarl, ultima discendente dei Kiriath, di sangue misto, consigliera del lussurioso imperatore Jihral Khimran II, che tuttavia disprezza; Egar detto Rovina del Drago, capoclan Majak dei nomadi della steppa, diventato inviso allo sciamano e ai suoi fratelli per via delle sue vedute e costumi modernizzati dal contatto con civiltà più avanzate.

Morgan foggia come da una fornace che mescola sesso, violenza e coraggio personaggi a tinte forti. Sono tutti e tre eroi epici emarginati, ripudiati dalla loro comunità di appartenenza, dalla complessa psicologia, tanto determinati e infallibili in battaglia quanto fragili e insicuri nell’intimità della lotta con il proprio io interiore (fanno uso di droga infatti). Ringil in particolare porta la stigmate della diversità, dell’alterità della propria omosessualità vissuta nella carne, in un modo infamante anche in quel mondo (le spinte scene di sesso stanno lì a provocare e a sottolineare questa differenza).

La ricerca della cugina Sherin, scomparsa e ridotta in schiavitù, è la missione affidatagli dalla madre (che in questo modo riconosce comunque il valore del figlio), ma a ben vedere è quasi un pretesto che ha la funzione di sottoporre l’eroe a una serie di prove di forte matrice identitaria, oltre a quelle concrete necessarie per sconfiggere i veloci e feroci dwenda. Costruire mondi paralleli e immaginari, rappresentandoli in una forma più vera del puro realismo permette di riflettere su temi universali quanto attuali come la corruzione, l’omosessualità, la tossicodipendenza, il commercio degli schiavi, la discriminazione e l’intolleranza religiosa. Questo del resto si chiede a un fantasy che non sia tradizionale.

Sopravvissuti è un romanzo disturbante in cui i vampiri innamorati hanno lasciato la scena a gladiatori grondanti sangue, ma che non sono meno problematici delle persone comuni che faticano ad accettarsi per quello che sono o hanno paura della diversità.


(Richard K. Morgan, Sopravvisuti, trad. di Maria Antonietta Struzziero, Gargoyle, 2012, pp. 491, euro 18)

“The Suit” di Peter Brook

Esisteva un solo teatro nero durante l’apartheid a Johannesburg. Esiste un solo ristorante di proprietà di un uomo di colore a Città del Capo. Nel 2012. “Apartheid”. “Separazione”. Ma il Sud Africa si è mai separato dall’apartheid? il Sud Africa si è mai separato dalla separazione? Il regista Peter Brook mette in scena la separazione mancata, la separazione inseparabile, nel Sud Africa. Una coppia apparentemente felice e poi il tradimento. Un marito che non può assistere a ciò che si consuma nel suo letto. Un armadio come una prigione dalla quale vedere e non vedere ogni frammento di passione adulterina. La fuga dell’amante. E un vestito lasciato a far mostra di sé su una sedia. Quel marito non potrà più separarsi da quella scena. L’amante non si sarà mai separato dalla donna. Il vestito non si separerà mai da quella casa. La presenza costante, inquietante, esigente, del vestito sarà il marchio dell’adulterio da mettere in mostra, persino da alimentare ogni sera. Non ci si può separare da ciò che ha separato. Sullo sfondo proprio quell’apartheid che ha separato gli uomini. La violenza quasi sbiadisce nella maestosità della calda voce africana di Nonhlanhla Kheswa, dolcemente colpevole protagonista femminile. Si stenta a condannare l’innocenza di una voce che canta la sua purezza e la necessità di separarsi dal rancore. C’è sempre possibilità di scegliere la grazia del perdono. C’è sempre possibilità di concedersi la sola scelta necessaria alla vittima divenuta carnefice. Giorno dopo giorno il vestito calza sempre più a pennello sulla vita della fedifraga, poi ne stringe il corpo, ne strozza il respiro. La marea della violenza dell’epoca dell’apartheid sale al pari della violenza del marito tradito. Eppure riemerge sempre, a ogni scena, un pezzo di quel sorriso, di quella dolcezza, che il popolo africano continua a somministrare ai suoi persecutori ad ogni nuovo sopruso subito. «Bisogna poter raccontare questa storia tragica senza che alla fine lo spettatore abbia l’impressione di qualcosa di negativo», sostiene Peter Brook in un’intervista a cura di J.P. Thibaudat. Obiettivo perfettamente raggiunto. The Suit insegna a soffrire con il colpevole proprio mentre si comprende la necessità di separarsi da ciò che divide, dalla violenza, qualsiasi forma essa assuma, anche se apparentemente storicamente giustificata. Lo straordinario tragico finale riesce così ad avere il gusto di una catartica pacificazione interiore dello spettatore. Attori duttili, sempre pronti a variare il tono della recitazione, riescono a farsi strada persino nella difficile interazione con un pubblico straniero, a portarlo letteralmente sul palco. Luci calde e soffuse riescono a ritrarre le sagome di amanti anche se a far da letto troviamo solo due scarne sedie colorate. Una poderosa mimica, movimenti puntualmente ricchi di tenera tensione, consentono agli attori di Peter Brook di narrare una vicenda che perde i contorni del tragico e assume quelli dell’umano, in tutte le sue espressioni. Con un sorriso ormai colmo di appassionata comprensione ci si può alla fine consapevolmente separare da ciò che inseparabilmente, monoliticamente, rimane nell’uomo: la violenza e le discriminazioni dell’apartheid esattamente come la vendetta e il truce martirio dei colpevoli di una passione amorosa andata oltre i ruoli socialmente prestabiliti.
 

The Suit
di
Peter Brook

Andato in scena presso il Teatro Mercadante di Napoli il 23 giugno 2012.

“Romanticidio”: a tu per tu con Carolina Cutolo

Un libro che si lascia divorare, che ti conquista con la sua freschezza da serata estiva senza pensieri e poi, come la brezza dell’estate, ti porta alla mente pensieri più profondi. Intervistiamo Carolina Cutolo, giovane e brillante autrice di Romanticidio.


Buongiorno Carolina e grazie per l’intervista. Partiamo dall’inizio: il titolo. Un titolo secco e diretto, che esprime il nodo di tutta la storia e che dunque è il punto di partenza, ma, soprattutto, il punto di arrivo. Perché occorre compiere questo Romanticidio?

Perché le favolette romantiche che ci raccontiamo distorcono la visione della realtà. Non ci sarebbe nessun problema se riuscissimo a separare le due dimensioni, il problema nasce quando incontriamo qualcuno che ci attrae e cominciamo senza accorgercene a farci film mentali romantici su questa persona, perdendo di vista il presente, e proiettando sulla realtà le nostre fantasie, per farla assomigliare ai nostri sogni invece di vederla per quello che è. Quindi il romanticidio non è contro l’amore, ma contro le costruzioni mentali sull’amore, contro la tendenza nefasta a vedere le cose migliori di quello che sono, a raccontarcele in modo romanzato, perdendo di vista l’autenticità della persona che abbiamo di fronte e del momento che stiamo vivendo. A morte dunque questo tipo di romanticismo malato. A morte i surrogati.


Come hai costruito la figura di Marzia? C’è qualcosa di autobiografico in questa ragazzina così ribelle e insieme così sensibile?

Il personaggio di Marzia si è sviluppato un po’ per volta, più andavo avanti a scrivere e più prendeva forma, poi quando ho finito la prima stesura del romanzo, che avevo in mente più chiaramente come volevo che fosse, ho ricominciato dall’inizio limando le parti superflue, ed eccola qua. Certo che in Marzia c’è qualcosa di me, da una parte l’intolleranza verso ipocrisie e pantomime di ruolo (intolleranza che però ho caricato molto in lei per rendere il personaggio più incisivo) dall’altra il sentimento, l’emozione che cerchi di combattere ma che rispunta invincibile e indomita, con conseguenze spesso anche molto buffe. Diciamo che Marzia rappresenta il mio barcamenarmi ogni giorno tra la necessità di ragionare e agire con cognizione di causa, e il desiderio di lasciarmi andare invece alla potenza delle emozioni più istintive e autentiche.
 

Il tuo modo di scrivere è piacevolissimo, coinvolgente e ironico. Un mix vincente. Quanto ha inciso tutto ciò sul successo del libro? 

Non credo che si possa già parlare di “successo”, il romanzo è uscito solo da un mese. Certo le prime reazioni sono molto entusiaste e io naturalmente ne sono lieta. Ho cercato di scrivere una storia divertente e ben costruita, in cui tutto converge verso un finale in cui tutti i nodi vengono sciolti. Scrivo pensando molto al lettore, quindi se il lettore finisce il libro soddisfatto e divertito, ecco, ho raggiunto il mio scopo, e sono felice.
 

Veniamo alla tua idea originalissima dei cocktail personalità: come ti è venuta in mente? E, soprattutto, tu che cocktail sei?

L’idea mi è venuta in mente solo alla seconda stesura. Avevo fatto della protagonista una barman, quindi ho pensato di presentare i personaggi principali della storia associandoli a un cocktail ben preciso, e motivando la scelta: mi è sembrato subito un espediente narrativo insolito ed efficace per raccontarli. Sono contenta del risultato, mi sembra divertente e funzionale a tutta la storia. Se devo scegliere un cocktail per me è lo stesso di Marzia, la protagonista, e cioè il Bloody Mary: succo di pomodoro condito misto a vodka.
 

Progetti per il futuro?

 

Ricominciare a cantare e scrivere canzoni non mi dispiacerebbe, e poi, chissà, magari un altro romanzo, ci sto prendendo gusto.
 

Carolina, ti va di consigliare un libro di un autore contemporaneo ai nostri lettori?

Ultimamente ho letto e adorato Satanisti perbene, di Susanna Raule, un giallo gotico ma molto ironico, divertentissimo, in cui l’ispettore è un ex infiltrato in una setta satanica che è rimasto un po’ troppo condizionato dall’esperienza, con risultati decisamente esilaranti.
 

Ancora grazie mille a Carolina Cutolo per la sua disponibilità. Ti auguro buona fortuna, per tutto. 

Grazie e buona fortuna a voi!

Leggi la recensione di Romanticidio.

“Gli sterminati campi della normalità” di Nick Burd

Dade non si vede. Non si vede bene, non si vede abbastanza. Lo specchio è buio, sempre appannato. Starnutisce la sua immagine come una forma di allergia. Sputa briciole di petto, capelli a singhiozzo, camicie sbiadite che sublimano sulle sue spalle. E che gli altri invece intercettano benissimo.
Perché se lui fa fatica a conoscersi o a identificarsi, la gente ci riesce benissimo. È un “frocio” è questo è chiaro a tutti, è la superficie più riflettente del reame.
Ed è altrettanto chiaro che sia lui il protagonista assoluto del primo romanzo di Nick Burd Gli sterminati campi della normalità (Playground). Sguazziamo a Cedarville, una tranquilla cittadina dell’Iowa dove è bello comprare tappeti per officiare funerali alla polvere. E poi lasciarla soffocare piano, sotto i piedi e la ciniglia.

Dade respira ogni giorno il festival della buona creanza, la ridente provincia che ride soltanto per rinfrescare l’intonaco. Si scontra col naufragio dei suoi genitori, una famiglia alla deriva in cui le zattere si sfiorano illudendosi di aver toccato terra. Il padre s’iscrive a un corso di poesia per trovare se stesso. E nella strenua ricerca della propria identità deve accontentarsi di aver urtato un’altra donna e di reputarla più interessante di sua moglie. La madre ha ceduto all’idea di trasferirsi, ha ceduto la sua campagna nel Midwest, i silenzi delle foglie che inghiottivano il suo cuore. Si è rassegnata alla piscina, alle villette appiattite dalla stessa vernice, alla vita omologata. E poi ha saltato il fosso. Ha assunto farmaci per sentirsi meno triste e poi felice e poi soltanto per rimanere a galla. E in tutto questo marasma dipinto d’abitudine, Dade comunque è chiamato a vivere. Deve farlo lo stesso. Per il suo corpo, per il suo orologio che ha ancora tanti giri di lancette, per tutto quello che scalpita al di là del portone. Il suo ultimo anno di liceo, l’università che occhieggia sulla soglia, con tutti i mondi da assaggiare dentro un bicchiere o in qualche abbraccio da cortile.

Intanto c’è Pablo, il suo compagno di scuola attraente e popolare. Il «sexicano», che vorrebbe corteggiare l’opinione migliore, giocare a football e piacere al suo pubblico. Ma non sa farlo per sempre. Non gli basta sfoggiare la sua ragazza ammirata, graziosa come una menzogna. Perché spesso ha bisogno del suo “amichetto” più fragile e schernito. Ha bisogno di schiacciarlo contro un cuscino e di sentirsi maschio, anche con lui. Salvo poi salutarlo a stento davanti al suo gruppo e rinnegare quegli attimi, come se a catturarli fosse stata un’altra persona, come se si fossero sciolti dentro un’altra stanza, mentre lui era in cucina a strizzare una birra.

Dade non fa che inalare ipocrisia. Come etere, più ottenebrante dell’erba fumata di continuo. Nei genitori che non si accorgono di lui e di ciò che vuole. E che si raccontano la stessa favola monca. Nel suo amante che respinge l’idea di appartenere a una schiera additata. Nel vicinato che sotterra tragedie tra le tovaglie di qualche banchetto e che preferisce sempre quelle degli altri, per sentirsi al sicuro. Nell’America benpensante, ovattata e pulita, lavata con tante preghiere, che anela sempre qualche nemico, qualche diverso più debole su cui puntare il mirino. Per declamare a se stessa il copione del paese vincente, del cittadino migliore, meravigliosamente “normale”, totalmente rispondente ai canoni della pubblicità.  O almeno a quella da prima serata. In questo Nick Burd non fallisce la missione. È la quotidianità quella che gli interessa fotografare. E azzecca tutti i click. In modo deciso e calibrato. Prendendo perfettamente le misure del disagio.

È un atto d’accusa il suo? È uno scatto, la docu-vita di un ragazzo qualunque che affronta più spine. Che s’imbatte nell’apparente perfidia di altri insicuri. Non occorre scagliare troppe condanne. Quelle emergono da sole, siamo noi stessi a infliggerle alla nostra strada. Con le scelte deviate, quelle rassegnate, quelle che accettano il corso delle cose. E poi lo sentono franare addosso al proprio sangue. Dade non viene accuratamente descritto. C’è qualcosa in lui che resta indefinito, come la sua propriocezione. Qualcosa che lo rende più sfuocato, a una certa distanza. Lo stesso qualcosa che, scrutato attentamente, tendendogli la mano, lo rende chiunque. Nostro figlio, il nostro amico, una parte di noi.


(Nick Burd, Gli sterminati campi della normalità, trad. di Andrea Misuri, Playground, 2011, pp. 250, euro 13)

“Fa Che Sia Tutto Diverso” degli Astenia

Sono sbocciati in primavera come i fiori, dopo aver cercato per sette anni circa la giusta dimensione e anche una line-up definitiva, e nell’aprile del 2012 hanno visto pubblicato il loro EP d’esordio, Fa Che Tutto Sia Diverso. Loro sono gli Astenia, band romana che, dopo lunga gavetta tra demo e festival vari, nel 2010 ha iniziato a collaborare strettamente con l’etichetta discografica indipendente Cosecomuni, nota anche per essere lo studio di registrazione dei Velvet.

Proprio con la co-produzione artistica di questi ultimi i quattro esordienti romani hanno dato luce alla loro prima fatica, composta di quattro brani, quasi per dare più un assaggio del proprio stile e delle proprie idee che un vero e proprio disco da spolpare.

I singoli “Nel tuo disordine”, “Les Ulis”, “Un giorno nuovo” e “(Nel modo) più naturale possibile” , pur diversi tra loro nelle sonorità e nei testi, sono legati da un filo comune che è l’invito a non arrendersi mai nonostante le avversità, cercando di rinnovarsi perché c’è sempre la possibilità di ripartire. Lo stesso titolo dell’album sembra farsi richiamo di questa tematica cosi evidente in tutte le tracce.

Le differenze si scorgono prendendo in esame i singoli brani, passando dall’agrodolce “Nel tuo disordine”, dove si avvertono le debolezze e le crepe di una relazione nata da poco ma che rischia di spegnersi lentamente come una candela, a “(Nel modo) più naturale possibile”, un vero e proprio monologo interiore volto a descrivere una vita nella quale non si riesce a viaggiare nella giusta direzione e le giornate proiettano le insoddisfazione quotidiane di ogni persona.

Sul piano musicale Fa Che Tutto Sia Diverso è un lavoro sicuramente vicino al pop, ma nel quale il ritmo non scorre monotono, accompagnato da chitarre, batteria e da un’imponente sezione orchestrale che contribuiscono a dare energia a tutti i brani.

Grazie alla loro perseveranza e al loro continuo impegno gli Astenia sono riusciti a essere scelti come gruppi di apertura per i concerti di diversi gruppi o artisti di grande successo come Il Teatro degli orrori, i Vanilla Sky, Max Gazzè e anche i Velvet, dei veri e propri attestati di stima giunti dalla stessa scena musicale nella quale cercano di inserirsi.

Volendo cercare il pelo nell’uovo quattro brani sembrano forse pochi per poter dare un giudizio definitivo su una band emergente al suo primo lavoro in studio. Nonostante questo sicuramente l’“antipasto” fornito dagli Astenia (disponibile su iTunes e in diversi store online in Digital Delivery) è stato sicuramente un buon inizio, ma necessita di una portata principale con cui placare la “fame” e poter finalmente un’idea più precisa delle potenzialità e delle idee della band.

E adesso, diamo voce ai diretti interessati.
 

Fa Che Tutto Sia Diverso è il vostro disco d’esordio uscito nel 2012. La band però è un progetto nato ben sette anni fa. Quando e come avete capito di aver trovato la quadratura del cerchio che cercavate?

Quando abbiamo iniziato a collaborare con la nostra produzione attuale avevamo le idee piuttosto confuse, dovevamo capire dove stavamo andando. Con il passare dei mesi, e con le varie sessioni in studio, abbiamo capito qual’era il vestito adatto alla nostra musica. Èavvenuto tutto in modo naturale e quindi non sapremmo dirti esattamente quando ci siamo resi conto di aver trovato quello che stavamo cercando ma è successo ed è questa la cosa importante!


Ho ascoltato l’EP con piacere e sono contento di vedere sempre più gruppi calcare la scena musicale romana, ma come vi ponete nei confronti di altri artisti emergenti della capitale (almeno di quelli con cui avete avuto rapporti)? Per vostra esperienza c’è più solidarietà o aria di sfida per farsi strada?

I rapporti con i vari gruppi della scena musicale romana sono sempre stati molto cordiali e ultimamente notiamo anche una certa solidarietà tra i vari gruppi che la compongono. Certo, ognuno cerca di trovare il proprio spazio, ma in ogni caso si è sempre sulla stessa barca e quindi per quanto possibile ci si aiuta a vicenda.


Il vostro primo lavoro ha l’aria di essere un esperimento riuscito, ma forse “scorre via” fin troppo veloce con sole quattro tracce. Come mai la scelta di non esordire con un lavoro “completo” (se cosi si può dire) ?

Avevamo bisogno di un riscontro immediato rispetto alla nuova direzione che abbiamo intrapreso, eravamo curiosi di sapere come il pubblico avrebbe accolto le nostre canzoni e la scelta di pubblicare un EP ci è sembrata quella più funzionale al nostro scopo. Fa Che Sia Tutto Diverso rappresenta un’anticipazione di un lavoro più ampio che stiamo portando avanti con la nostra produzione e che vedrà la luce presto. Contiamo, infatti, di pubblicare altro materiale entro la fine del 2012.
 

Grazie all’etichetta Cosecomuni avete potuto lavorare fianco a fianco con una band di successo come i Velvet. Lavorare con loro che emozioni vi ha dato? E avete sentito (anche in minima parte) una certa pressione nel “dovere” fare un buon lavoro anche per non deludere le aspettative che gli stessi Velvet hanno riposto in voi?

I primi tempi un po’ di “timore reverenziale” nei confronti dei Velvet c’era ma è una cosa che è svanita in pochissimo tempo. Non abbiamo subìto particolari pressioni durante la lavorazione dei brani, diciamo che loro ci hanno sempre indirizzato senza mai pretendere troppo e senza forzarci nelle scelte. Si comportano con noi come fossero dei fratelli maggiori e questa è una gran bella cosa che ci mette a nostro agio e soprattutto ci permette di lavorare al meglio.
 

Non mi piace chiedere quali siano gli artisti o i gruppi che vi hanno influenzato. Sono però curioso di sapere i vostri gusti: quali sono gli artisti/gruppi preferiti di Gianluca, Edoardo, Fabio e Riccardo?

Abbiamo dei gusti piuttosto eterogenei con dei punti di contatto piuttosto forti. Gianluca ama i Radiohead, Edoardo i Doors, Fabio i Beatles e Riccardo i Foo Fighters. Il bello sta poi nel far convivere queste diverse “anime” all’interno del gruppo. Crediamo che queste differenze possano rappresentare una risorsa in più nella stesura delle canzoni, il risultato naturalmente lo lasciamo giudicare a chi ci ascolterà!

Foto di Matteo Casilli

“Storie di ordinaria follia” di Charles Bukowski

«Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: “Oh è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga è una cosa tremenda”. Poi la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, senza culo, né bocca, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avranno fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa»

Sono quarantadue i racconti compongono Storie di ordinaria follia. Alcuni inventati. Alcuni autobiografici. Altri fortemente autobiografici. Impossibile elencare elementi ricorrenti: Henry Chinaski è uno scrittore di vita come pochi altri. Charles Bukowski parla di sesso, di amore, di alcool, di lavoro, di vizi, di persone, di cavalli, di morte, di vittorie, di sconfitte, di scommesse. E l’americano nato in Germania sa di essere uno scrittore. Sa di saper scrivere. Ecco allora giudizi sulla poesia contemporanea («è una poesia fiacca, così monotona, così noiosa, che la noia e l’opacità sono scambiate per significati reconditi: il senso è nascosto così bene, così bene che non c’è. non c’è nessun significato. ma se tu non ce lo trovi, manchi di sensibilità»). Pareri su giganti del passato come Hemingway («Il vecchio Ernie ha scritto alcune cose piuttosto brutte negli ultimi tempi – qualche rotella gli s’andava allentando – ma, anche allora, faceva far agli altri la figura di scolaretti che alzano la mano per chiedere il permesso di fare una lisciatina letteraria»). E su Charles Bukowski, scrittore e poeta in compagnia di altri centocinquanta ubriachi in una cella comune («Ero Charles Bukowski, io, uno che aveva un posto negli Archivi Letterari dell’Università di California. C’era chi mi reputava un genio. M’allunga su un tavolaccio»). Quella cantata è l’America distante dal sogno americano. L’America degli ultimi, di quelli che non saranno mai dei self made man. Gli altri, quelli che hanno scelto, o sono stati costretti a scegliere, la parte sbagliata quando hanno diviso il mondo a metà. E quando non è così la scure di Charles Bukowski picchia. Facendo male. Come nel racconto “Occhi come il cielo” quando colpisce il protagonista di «un fumetto serio» del Los Angeles Times. Il giovane barbuto e ribelle. La sua sexy ragazza. In mezzo il padre di lei: un imprenditore retrogrado che offre un lavoro al ragazzo. Altrimenti addio storia d’amore. L’hippie fugge e ritorna, giusto il tempo di capire che i suoi ideali non valgono una bella donna. «Ah, l’amore, l’amore! ah, la fica, la fica!». Poche parole per abbattere sia lo sterile pensiero pseudo-ribelle sia la banalità dell’ arte e della vita normale.

Charles Bukowski col suo stile tanto sgraziato quanto gradevole finisce per prendere le sembianze di un cercatore d’oro in un fiume melmoso. Instancabile tra fango, delusioni e lordura. Tanto instancabile che alla fine qualche grammo di prezioso metallo riesce sempre a trovarlo.

Come in “Una serena scopareccia”. Adesso è la storia di due tra i soggetti che Chinasky, quando non parla in prima persona, predilige. Bill e Tony, anonimi e alcolisti che, ubriachi marci, rubano dall’obitorio il cadavere di una donna. Hanno con lei rapporti sessuali necrofili. E alla fine decidono di disfarsi del corpo, affidandolo alle onde del Pacifico. Ed ecco l’oro, la poesia, nel più perverso e fangoso fiume della vita: «Poi la vedeva galleggiare con quei lunghi, lunghissimi capelli… Pareva proprio una sirena. Forse era una sirena. Alla fine Tony la trascinò oltre i flutti schiumosi. Regnava la calma. Fra il tramonto della luna e il levare del sole. Restò qualche momento a fare il morto accanto a lei. Una quiete assoluta. Come fuori dal tempo…».
Parole di un maestro del ’900.


(Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, trad. di Pier Francesco Paolini, Feltrinelli) 

Il mistero dei resti di Leopardi: a tu per tu con Loretta Marcon

«Gli uomini preferirono le tenebre alla luce». Il versetto evangelico posto in epigrafe a “La Ginestra” sembra esplicare fin troppo bene anche il capitolo conclusivo della vita di Giacomo Leopardi. «Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor»: Giacomo sapeva che gli uomini odiano la verità e chi osa pronunciarla. Mai avrebbe però potuto immaginare che tenebre e inganni si sarebbero accaniti su di lui, persino da morto. Un’ombra infida e ambigua proveniente in special modo dall’amico dei soggiorni napoletani, Antonio Ranieri. Tenebre finora mai illuminate a giorno, che dopo un’esistenza tanto sofferta non gli hanno concesso neanche una degna sepoltura. Sì è vero, i manuali scolastici ci hanno sempre raccontato che le spoglie mortali di Giacomo erano state sepolte a Napoli, prima nella chiesa di San Vitale poi al parco Vergiliano di Fuorigrotta. È bene invece azzerare le nostre memorie per addentrarci in trame melmose e torbidi retroscena. Loretta Marcon, scrittrice, filosofa, studiosa di Leopardi da molti anni, da investigatrice dotata di sensibilità e fiuto, è andata sulle tracce di un’altra verità, una scomoda verità, sepolta in biblioteche e archivi dimenticati, fatta riaffiorare dopo sei anni di ricerche. Nel monumento funebre di Fuorigrotta non ci sono i resti di Giacomo. Esito di questa lunga, rigorosa e appassionata ricerca è il volume Un giallo a Napoli, la seconda morte di Giacomo Leopardi (Guida Editore, 2012) che sarà presentato proprio a Recanati, a palazzo Leopardi, lunedì 25 giugno alle ore 18 (il libro sarà disponibile al pubblico già da agosto presso l’editore Guida di Napoli). Troppe cose non sono chiare nella vicenda della morte e sepoltura del grande recanatese. In realtà nel 1900, quando fu fatta la ricognizione dei resti mortali, ci si accorse che i pochi frammenti di ossa non potevano affatto essere quelli di Leopardi. Il femore era molto più lungo, mancava il teschio e non sono proprio dettagli di poco conto. Nonostante questo quadro si volle “seppellire il problema”, si preferì far finta di nulla, come spesso capita nelle vicende nazionali; sorte indegna che capita alle grandi personalità di una patria ingrata. Anzi, nel 1939 i presunti resti del poeta furono trasportati con solenni cerimonie al Parco Vergiliano di Napoli dove tuttora stanno. A Loretta Marcon abbiamo chiesto qualche chiarimento e anticipazione.


Professoressa Marcon, dopo aver a lungo indagato sui riferimenti biblici nella produzione leopardiana, stavolta lei ha spostato l’attenzione su una questione assai più contingente: quella delle spoglie mortali di Giacomo. Quale urgenza in particolare ha ispirato il suo ultimo libro, un giallo in piena regola fin dal titolo?

Ero all’inizio del mio percorso leopardiano (1992) e mi interessavano particolarmente quei temi che riguardavano la spiritualità di Giacomo Leopardi. Mentre studiavo un testo nella biblioteca del Centro Studi leopardiani di Recanati, mi sono imbattuta nel racconto di queste vicende. Dato il mio orientamento, temi come la sua conversione (la metterei tra virgolette perché per me non si tratta di una con-versione ma della conclusione di un particolare cammino e del passaggio dalle certezze di fede ai dubbi e alle domande finanche a certe affermazioni blasfeme) la sepoltura misteriosa risultavano per me particolarmente interessanti. Ho iniziato così a raccogliere poco per volta tutto il materiale che trovavo anche grazie ad altre ricerche. Più di sei anni fa mi sono dedicata al lavoro vero e proprio di indagine storica, visitando archivi e biblioteche e ho capito che era giunto il momento di iniziare questo nuovo libro.
 

Esistono da qualche parte le spoglie mortali di Giacomo e se sì dove sono?

Le spoglie mortali di Leopardi esistono senz’altro. Purtroppo possiamo ragionare oggi solo per ipotesi perché non solo i fatti, nella loro verità, sono stati accuratamente nascosti da Antonio Ranieri che ha fornito diverse versioni, ma anche perché certi importanti archivi sono andati distrutti. Perciò molto difficilmente si potrà provare scientificamente dove siano i resti del poeta italiano più amato. Potrebbero essere altrove. L’ipotesi più accreditata è che il suo corpo sia finito in una delle fosse comuni dei morti per colera, come prevedeva la legge.
 

Perché la verità è rimasta “sepolta” fino a oggi e le dicerie, come le leggende, hanno avuto il sopravvento?

La verità è tuttora sepolta, come dicevo prima, anche se considerando certi indizi e particolari documenti si può ipotizzare qualcosa di plausibile e di più “completo” rispetto alle consuete tesi. Queste, fino a oggi, si limitano ad affermare che la sepoltura sarebbe avvenuta nel cimitero dei colerosi e non in una chiesa come voleva far credere Ranieri. A Napoli molte tradizioni e leggende si accavallano anche oggi, persino tra la gente comune, e si sentono raccontare le cose più disparate.


Come, quando, e soprattutto dove è morto Giacomo?

Giacomo Leopardi è morto a Napoli, nella casa di Vico Pero, Quartiere Stella. Qui sorge una lapide a ricordo della sua permanenza. Morì il 14 giugno 1837 e secondo il certificato medico spirò a causa di una «idropericardia» e non per colera come ipotizzano molti.
 

Chi era davvero Ranieri e che interessi aveva a occultare la verità?

Dire chi fosse Antonio Ranieri sarebbe ora troppo lungo. La sua personalità era assai complessa e i suoi interessi multiformi. Anche per capire il perché del suo occultare la verità bisognerebbe fare un lungo discorso per cui mi permetto di rimandare al libro.
 

Cosa seppero o vollero sapere realmente i familiari dell’intera vicenda? Presero parte alle procedure funebri o lasciarono ad altri il compito?

I familiari conobbero la notizia della scomparsa di Giacomo attraverso le lettere che Ranieri fece loro inviare da altri per rendere meno atroce la notizia. Il colera infuriava violento in quel periodo ed era impossibile anche solo il pensare di compiere un viaggio a Napoli.
 

Ci sono altri segreti che gli archivi ancora custodiscono a proposito della vita e delle sorti di Giacomo?

In questa vicenda vi sono ancora molti misteri e purtroppo temo che tali rimarranno a meno che un colpo di fortuna faccia ritrovare qualche altro documento magari oggi in mano a privati.
 

Come Tolstoj (proprio a palazzo Leopardi, Recanti, quest’estate è stata allestita una mostra su Tolstoj e Leopardi), anche Giacomo “in fuga” ebbe una morte distante dalla famiglia e dalla casa. Di lui però, al contrario di Tolstoj, si è trasmessa l’immagine di un materialista ateo. Lei che lo studia da tanti anni che sentire ha in proposito?

Come dicevo all’inizio di questo dialogo, non ho mai pensato che Leopardi fosse materialista e ateo come la critica ufficiale, specialmente quella dal 1947 a oggi, si ostina ad affermare. Troppe pagine leopardiane ci dicono il contrario. È stato detto da Giovanni Casoli che Leopardi «sfugge alle reti dei cacciatori, capace di irretirli ancora prima che sia abbozzato il gesto della cattura». Dopo tanti anni vissuti insieme al Nostro penso che sia necessario esplorare approfonditamente tutto Leopardi (non solo la poesia o contrapposta al pensiero) con una grande umiltà intellettuale e credo altresì indispensabile sospendere il giudizio, almeno finché non si riesca a spiegare esaurientemente anche ciò che fuoriesce da quello che appare essere una specie di ingabbiamento pregiudiziale.
 

Cosa insegna la parabola conclusiva della vita di Giacomo?

Gli insegnamenti leopardiani sono di un’attualità sconvolgente e forse per questo qualsiasi esperienza vissuta oggi ricalca quelle vissute in altro tempo, quelle di cui il poeta-filosofo ci parla. Lavorando sul rapporto con Giobbe e con l’Ecclesiaste mi sono accorta, una volta di più, di quanto si avvicini ai sapienziali biblici quando parla e canta il dolore dell’uomo. Anche Leopardi è da meditare… un po’ come faceva il grande papa che fu Paolo VI.
 

Ha in programma altri studi leopardiani?

Le confesso che ora ho bisogno di riposo perché questo lavoro è stato davvero tanto impegnativo ma ho già qualche altra idea e se Giacomo vorrà cercherò di portarla a compimento.

Nota sull’autrice
Loretta Marcon è laureata in filosofia e in pedagogia e ha conseguito il Magistero in Scienze religiose. Nel 1992 inizia a interessarsi di temi leopardiani e in particolare della spiritualità del poeta-filosofo di Recanati. Ha collaborato con il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Padova in occasione del bicentenario leopardiano (1998); attualmente collabora con la Facoltà di Scienze della formazione e fa parte del Consiglio editoriale della rivista on-line Appunti leopardiani. Il suo primo saggio La crisi della ragione moderna in Giacomo Leopardi (1996) ha ottenuto il premio Giacomo Leopardi al concorso indetto dal Centro Nazionale di Studi leopardiani di Recanati.