“Il silenzio degli alberi” di Eduard Márquez

Un’altra pagina che sa di parete. Ti risucchia il suo intonaco fresco, con le braccia distese e il naso all’insù e per sopravvivere vuoi vederla arredata. Il bianco, si sa, può sconfiggerti. Cerchi tende, cassetti, scaffali pieni di parole, perché quella diventerà la tua stanza. E vuoi abitarla sorridendo. Qualcosa mancherà sempre, avresti potuto scegliere un tavolo più grande, per annotare le notti in cui non hai dormito, fiori così forti da abbattere anche i muri, quadri enormi per strapparti dal gorgo della tua poltrona. Ma insomma, quello spazio ti racconta. E in questo deserto chiarissimo da riempire con cura, ho scelto di piazzare i miei steccati intorno a un libro, per l’immagine e l’effetto che riesce a evocare.

Si tratta de Il silenzio degli alberi (Keller editore) del catalano Eduard Márquez, che sarà in Italia il 16 maggio, ospite della Feltrinelli International di Roma. 
Un romanzo breve, perché il peso dei passi non dipende soltanto dalla lunghezza del cammino. Un romanzo di case, di strade conosciute, di porte socchiuse verso il mattino, dove, anziché il temporale, cade la guerra. Piove tanto, piove veloce, rallenta un istante e ricomincia a tuonare, giusto il tempo di tirare il fiato, per contrarlo di nuovo fino a farlo sparire.

Nella città assediata scorrono in molti. C’è Andreas Hymer, violinista sbarcato per un concerto e per una missione ancora più artistica: recuperare l’amore. C’è Ernest Bolsi, liutaio che dentro quei corpi di legno scopre un’anima e un segreto. Ernest che nonostante le bombe, continua a fare la guida nel Museo della Musica, per accogliere chi abbia ancora voglia di ascoltare la sua voce, i suoi aneddoti. Per chiunque insieme alle leggende voglia ingoiare una boccata di speranza. Una finestra aperta. Perché narrare vuol dire esistere, vivere e far vivere, eternare nelle corde della gola i sussurri degli altri, così simili ai nostri. Perché narrare serve a uccidere il buio. Soprattutto quando scoppia all’improvviso.
C’è Amela, la stessa Amela cercata da Andreas, che galoppava il suo piano per ore e ore, per «scacciare il frastuono e costruire un riparo di quiete». E che dopo una bomba si ritrova addosso solo delle mani inutili, incapaci anche di accarezzare i tasti, di toccare il suo risveglio.
E poi ci sono tutti i visitatori del museo, persone comuni stracciate troppo in fretta, che per una granata hanno perso tutto, tranne un palmo strozzato di briciole, che ricomposte non faranno mai un intero. Individui che decidono di attraversare quel cielo, di rifugiarsi nel solo abbraccio possibile: quello della memoria. Così tutta la storia, quella singola e infinitesima riversata a occhi chiusi nella madre maiuscola, assume il volto di un edificio, malta e mattoni da sovrapporre ogni giorno per darsi una forma, per specchiarsi in qualche linea pulita e poi chiamarla “abitudine”.

Un libro che disegna un condominio spezzato, l’architettura sconvolta di un Paese qualunque, con gente che chiede soltanto di crescere i figli e invecchiare sotto un graffio di sole. Mentre altri stabiliscono che è meglio combattere, frantumare molti perché pochi restino intatti. E più ricchi di prima. Un libro che immortala l’urto del conflitto, il rumore assordato dei palazzi che crollano, come il futuro. E allora gli alberi tacciono, perché nessuno capirebbe il loro grido, perché nessuno sente più le foglie quando grandina anche il cemento. Le esplosioni disgregano ogni cosa, anche i respiri, anche i pensieri e quindi i ricordi s’intrecciano al presente, i sogni alle paure, in una vertigine di incontri che mescolano i tempi.
Perché nel cuore gli appuntamenti fluiscono insieme, non s’infilano nei numeri così facilmente.
E l’autore ci restituisce questa voragine, il cratere sempre acceso e sempre vuoto di chi è stato ferito, dall’alto, dal basso, da ogni punto umanamente designabile. Dalla violenza che ci conferma piccoli, invisibili sotto il vento di un ordigno. E allora forse, l’unica fonte di ossigeno, l’unica bombola in quest’apnea, rimane la bellezza. La forza dell’arte che ci rammenta quanto possiamo essere migliori.
Al di là del sangue, su quello stesso sangue, si può riscrivere un’altra storia, come ha fatto Márquez, come fa chiunque in questi anni di guerra glaciale, dove i civili cadono perché non hanno abbastanza gambe, riesca a tracciare una via, riesca a dire anche solo una volta: «Ascoltatemi, ascoltiamoci, per non morire».


(Eduard Márquez, Il silenzio degli alberi, trad. di Beatrice Parisi, Keller, 2012, pp. 160, euro 13)

“Caterina fu gettata” di Carlo Sperduti

Scommetto che si è divertito Carlo Sperduti a scrivere questo libro, debutto romanzesco, testo spassosissimo a partire dal titolo – Caterina fu gettata – che potremmo definire surreale. Romanzo lo è davvero nonostante la piccola precisazione dell’avvertenza che afferma: «quanto segue non è un romanzo» contraddicendo la quarta di copertina.

La scrittura è scorrevole, leggera, a tratti ironica mai pedante e il sorriso affiora sulle labbra di tanto in tanto, senza esagerare. Gli ingredienti sono semplici: una giovane coppia di fidanzati, un locale dove incontrarsi, una gatta, una buccia di banana. Tutto ha inizio con un equivoco paradossale che dà il via a una serie di avventure. Caterina viene gettata: «un caso sfortunato quanto raro che a un umano toccasse la stessa sorte di un rifiuto». Infatti fin dal titolo la scelta della forma passiva del verbo evidenzia il ruolo di vittima della giovane che si ritrova in balia degli eventi a causa di una tendenza narcolettica che la spinge inevitabilmente ad addormentarsi. Al suo risveglio s’inanellano, uno dietro l’altro, aneddoti e incontri che condurranno a un finale a sorpresa.

Finora la descrizione epidermica che ne abbiamo dato sembrerebbe tratteggiare un romanzetto come tanti altri, in realtà è proprio la profonda consapevolezza letteraria di un addetto ai lavori come Sperduti a fare la differenza. Tanto per cominciare l’avvertenza premessa al romanzo s’inserisce nella tradizione delle querelle romanzesche del XVIII e XIX secolo in cui l’autore forniva ai fruitori una sorta di mise en garde sul contenuto. Infatti il lettore è chiamato in causa a più riprese proprio per ricoprire quel ruolo di primo piano che gli spetta. È d’effetto la frase che conclude la storia riproponendo in modo sintetico la polemica sulla scelta del narratore che si solleva da ogni responsabilità rinunciando volentieri all’onniscienza: «Siamo mica narratori onniscienti noi».

Nel prologo primo si legge una parola chiave «immaginate»: il compito della scrittura è evocare, suggerire lasciar libero sfogo alla fantasia. Se per Tommaso è valido questo suggerimento poiché «non si fornirà alcun particolare sull’aspetto fisico del personaggio», un discorso diverso spetta all’ambientazione.

Il primo capitolo parte con una descrizione dettagliata e minuziosa del quartiere in cui vivono i nostri: «Voltando le spalle al grande Arco e procedendo verso est». La descrizione parte da lontano come una telecamera che avanzi verso l’interno, dal generale al particolare fino ad arrivare «dentro un buco dai contorni irregolari aperto sull’anta destra della porta», oltrepassando l’ingresso si entra in casa. Probabilmente si vuole raccontare quanto più possibile dei suoi abitanti, Caterina e Tommaso, deducendo carattere e inclinazioni dall’ambiente e seguendo il suggerimento balzachiano di riservare alla descrizione una funzione diegetica.

Un’ultima osservazione riguarda la gatta Gnaca e le sue abitudini quotidiane sulle quali sono spese pagine e pagine: questo personaggio insolito è depositario di un’antica saggezza e dispensa consigli. Gnaca sembra dotata di superpoteri: si trasforma, parla, filosofeggia, riuscirà a salvare la sua padroncina in pericolo?


(Carlo Sperduti, Caterina fu gettata, Intermezzi, 2011, pp. 130, euro 10)

Le trenta ore non-stop del Palais de Tokyo di Parigi

Prima della riapertura con la Triennale Intense Proximité (a partire dal 20 aprile), il Palais de Tokyo, a Parigi, ha spalancato momentaneamente le porte per una trenta ore non-stop ricca dei più disparati eventi.

A partire dalle ore 20 di giovedì 12 aprile fino alla notte di venerdì 13, quello che è ora divenuto il più vasto spazio dedicato all’arte contemporanea in Europa è stato infatti teatro di diversi concerti, performance, conferenze e spettacoli: Christian Marclay e Phil Minton, Lucas Abela, Gwenaël Morin e Hajnal Nemeth sono solo alcuni dei numerosissimi artisti ospitati in occasione di questa eclettica e mastodontica manifestazione.

Dopo dieci mesi di lavori, il Palais de Tokyo passa dunque da una superficie di circa 7000 metri quadrati a una di 22000 metri quadrati, grazie alla riunificazione dei preesistenti spazi affidata agli architetti Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal: quattro piani di cemento bruto e metallo totalmente e freneticamente investiti dalle più eterogenee forme dell’espressività dei nostri giorni.
Passeggiando tra gli immensi locali, attraversando i labirintici corridoi, sostando sulle varie terrazze e percorrendo nelle due direzioni le ampissime scalinate, ci si confronta in ogni istante con opere compiute o in procinto di farsi, lavori appositamente ideati per questa struttura e destinati a restarvi per circa un anno. L’intento del nuovo direttore, secondo le sue stesse parole, è invero quello di permettere allo spettatore nuove modalità di fruizione di un’arte che fa dell’immediatezza uno dei suoi punti di forza, consentendogli in certi casi di essere appunto diretto testimone non soltanto di un risultato finale ma del processo stesso di creazione e trasformazione che a quello condurrà.

Arrivo sul posto venerdì verso l’ora di cena e appena varcata la soglia la mia attenzione è subito attirata dalla performance del musicista elettronico, compositore, produttore e fotografo Aki Onda, il quale elabora complesse e stranianti trame sonore mediante l’utilizzo di molteplici walkman a cassette con i quali realizza, manipola e sovrappone “Cassette Memorie”, una sorta di giornale di venti anni di vita del suono.
Decido poi di consumare una birra e, avvicinandomi al ristorante, noto che le enormi vetrate di quest’area, vivacemente colorate, sono completamente coperte di onomatopee in stile manga che, successivamente, scopro esser state ideate da Christian Marclay, il vincitore del Leone d’oro dell’ultima Biennale di Venezia.

Comincio poi una lunga e volutamente casuale peregrinazione e vengo anzitutto colpito dalla scultura monumentale del belga Peter Buggenhout (“The Blind Leading the Blind”), un’opera apocalittica sospesa al di sopra di una scalinata ed emanante un ambiguo senso di potenza e fragilità al contempo, un caotico e multiforme assemblaggio di ingombranti materiali che danno la netta sensazione di potersi improvvisamente staccare dal soffitto al quale sono minacciosamente appesi.

Continuo quindi, un po’ scosso, la camminata finchè la mia vaga inquietudine si trasforma in divertita curiosità davanti all’invenzione di Lucas Abela “Vinyl Arcade”, un circuito per vetture radioguidate composto da più di seimiladischi vinili, con le macchinine equipaggiate di una telecamera che permette di seguirne il percorso in soggettiva da uno schermo e di una “puntina”che “scratchando”in maniera aleatoria la pista produce sonorità in stile noise.

Salgo allora al piano superiore dove è appena cominciata la pièce teatrale di Gwenaël Morin “Introspection”, interpretazione – caratterizzata dalla totale assenza di ornamenti, costumi ed effetti spettacolari – di un suggestivo testo di Peter Handke a opera di un gruppo di attori diformazione e temperamento variabile, atta a rappresentare probabilmente le numerose ed eterogenee sfaccettature di un’unica personalità.

Il mio viaggio multiforme e a suo modo allucinatorio termina infine, dopo aver passato rapidamente in rassegna varie opere ai piani inferiori, col concerto di chiusura delle due giornate affidato a Matthew Herbert e al suo “One Pig”, lavoro elettronico e radicalmente sperimentale narrante la vita di un maiale, dalla nascita passando per l’abbattimento fino alla successiva commercializzazione e degustazione.
Tra sintetizzatori, percussioni sintetiche e campionatori, lo show è di quelli votati a lasciare il segno non soltanto per la stranezza del sound proposto, un sound stridente, inquietante, malsano, industriale, a tratti ipnotico o improvvisamente e malignamente percussivo – fatto di grugniti e rumori vari direttamente provenienti dai luoghi deputati all’allevamento del bestiame, dai mattatoi e dalle fabbriche per la lavorazione e il confezionamento della merce da immettere nel mercato – ma anche per l’originalità dell’impianto scenico: sul palco sono infatti disposti piccole balle di fieno e i vari musicisti indossano camici bianchi da macellai; uno di loro, collocato all’interno di una sorta di recinto dalle corde sonore, cambia di brano in brano la propria veste che reca la scritta dei diversi mesi dell’anno (a indicare una diversa tappa nel processo che porterà alla consumazione del prodotto finale); alle loro spalle, un cuoco disposto davanti ai fornelli cucina intanto l’animale che a fine concerto, quando l’odore di carne avrà ormai invaso l’intera sala, sarà elegantemente servito al pubblico e ingurgitato da quelli, forse non molti, ancora affamati poichè verosimilmente rimasti indenni alla carica critica della toccante esibizione.


Trenta ore non-stop al Palais de Tokyo, Parigi.
L’evento si è svolto tra giovedì 12 e venerdì 13 aprile 2012.       

Giù alla grotta

Vedo la luna, vedo le stelle
vedo Caino che fa le frittelle
vedo la tavola apparecchiata
vedo Caino che fa la frittata.

(Filastrocca per bambini)


 

«Mamma è stata chiara: non dobbiamo andare giù alla grotta».
«Tu», Jake gli si era fatto incontro, «non puoi andare alla grotta, io sì».
«No, la regola vale anche per te», provò a protestare il fratello.
«Le regole sono per i finocchi, vai a casa e non rompere».
Il piccolo Sam avanzò di un passo e lo colpì nella pancia. Jake rimase impassibile.
«Visto? Sei un finocchio! Non sai nemmeno colpire un uomo! Ecco come si fa!», Jake gli sferrò un calcio nei testicoli. Sam si piegò in due, contorcendosi per il dolore improvviso nelle parti basse.
«Frigna! Frigna finocchietto! Se dici qualcosa alla mamma, quando torno ti do anche il resto!”
«Allora, vieni o no? Sbrigati che poi fa buio!», Zac gli faceva segno con la mano.
«Arrivo, arrivo!», Jake salì sulla bicicletta, discese la piccola collinetta di terra, e si affiancò a Zac. I due pedalavano in direzione della grotta e non riuscirono a sentire le parole di Sam, nessuno a quella distanza le avrebbe sentite, perché erano parole di odio e le parole di odio non si gridano, si sussurrano: «Verrò a prenderti, Jake. Verrò a prenderti e ti ucciderò».


Il piede gli era rimasto incastrato nella fune. Non c’era niente da fare, per quanto uno possa abituarsi ai vecchi metodi, c’era alla fine da ammettere che la tecnologia aveva facilitato la vita anche a lui che era un archeologo. Lavorava di rampino e di corda. Imprecò. Si tenne con la parte sinistra del corpo appoggiato alla parete e strattonò il piede destro. La fune si liberò.
«Fammi scendere», disse.
Una voce gli rispose nell’auricolare: «Ok».
Scivolò sbattendo ripetutamente contro la roccia. Si fermò a un metro da terra. Il corpo appeso all’unico gancio di sicurezza dietro la vita.
L’auricolare gracchiò: «Tutto bene, Nod?»
Gli faceva male la testa, controllò con le dita, aveva una sporgenza.
«A parte un bernoccolo, per il resto sembra tutto bene».
«Dai con quella testa che hai non si noterà nemmeno!»
«Come sei simpatico!»
Continuarono a scherzare mentre Nod sganciava la corda di sicurezza e si ripuliva. Si guardò intorno e fece luce con la torcia. Poi vide due cumuli di rocce in terra, ravvicinati l’uno all’altro.
«Li ho trovati!», disse Nod.


«Non ti fa male, mamma?»
Lei tirò fuori la teglia dal forno, il profumo che avvolgeva ormai quasi tutta la casa diventò più forte. Sam vide la sua torta preferita.
«Cosa, Sam?»
Sam accennò con gli occhi in direzione dei piedi della madre. La caviglia destra era avvolta da una fasciatura.
«No, Sam. È una bella cosa».
«Che cos’è?»
«È un serpente».
«Un serpente? Ti ha morso?»
«Ma che dici, sciocchino? È un tatuaggio!»
«Cos’è un tatuaggio?»
«Una cosa che fai per ricordarti di un periodo della tua vita».
«Posso fare anch’io un tatuaggio, mamma?»
«Quando sarai grande, Sam. Quando sarai grande!», lei posò la teglia sul tavolo, «La torta di mele è quasi pronta! Ora dobbiamo lasciare che si raffreddi!»
«Quando diventerò grande mamma?»
«Te ne accorgerai», la donna prese un coltello e cominciò a fare alcuni segni sulla torta, affondando appena con la lama.
«Non la tagli?»
«No, faccio solo dei segni perché svapori prima, è un vecchio metodo. Un trucco!»
«Mamma, devo dirti una cosa».
«Dimmi Sam!»
Sam guardò a terra, esitante, lasciava ciondolare le gambe dalla sedia, poi alzò gli occhi quando sentì qualcosa di caldo sotto il mento. Sua madre aveva appoggiato al mento la lama del coltello.
«Sai che alla mamma devi dire tutto?»
Sam deglutì.
«Avanti!», lo spronò lei, sorridendo.
«Jake è andato giù alla grotta, con un suo amico».
Il sorriso della donna sparì per lasciare il posto a un’inquieta espressione di rabbia. Digrignò i denti, la mano che teneva il coltello tremava, con l’altra spinse violentemente Sam contro lo schienale della sedia.
«Tu sei come tuo padre Adam! Una spia! Perché non hai impedito a Jake di andare giù alla grotta?»
Sam sbottò a piangere.
«Sei solo una femminuccia! Ho un figlio che è una femminuccia! Vieni in macchina con me! Andiamo a prendere tuo fratello e sistemiamo questa faccenda prima che sia troppo tardi!»
Lei si voltò. Rapidamente afferrò la teglia e la mise in una busta.
«Cammina, omuncolo!», gridò lei, rivolta a Sam che era in lacrime.
Si avviarono alla macchina.


«Jake, ti prego, fermiamoci! Sono tre ore che camminiamo, ho i crampi e ho fame! Continuiamo un altro giorno!»
Jake puntò la torcia verso Zac.
«Nemmeno per idea!»
«Ma fuori si è fatto buio! Tra poco cominceranno anche a cercarci! Se i miei scoprono che siamo qua mi metteranno in punizione per un mese!»
«Zac sei un finocchio come mio fratello?»
«No!»
«E allora proseguiamo!»
Proseguirono, torce in mano, attenti a non scivolare. Il terreno si era fatto più dissestato e scendeva ormai rapidamente. I due si aiutavano aggrappandosi alle rocce, attenti a non scivolare. L’umidità cresceva.
«Deve esserci una fiume qui vicino!», disse Jake.
«Un fiume sotterraneo?»
«O una falda! Spiegherebbe l’umidità, testone!»
Zac annuì.
«Non voglio finire annegato!»
«Se continui a lamentarti, ti strozzo prima io!», gli rispose Jake, «Guarda, una luce!»
Tra le fenditure della roccia, poco più avanti, un raggio di luce passava appena, squarciando l’oscurità della grotta.
«Da dove viene?»
«Avviciniamoci!»
Si portarono più avanti finché non furono vicini alla fonte. Ora che avevano il raggio quasi in faccia, la luce era diventata più luminosa e intensa.
«Che cos’è fa vedere!», disse Zac.
Jake si era affacciato appoggiando tutta la testa contro la roccia spiando con un solo occhio puntato dentro la sottile fenditura.
«Oh, mio Dio!»
«Cosa c’è Jake!»
«È il Paradiso! Questo è il Paradiso!», gli rispose Jake, sorridendo meravigliato.


«Sono quasi sicuro che si tratti di loro!», disse Nod nell’auricolare, «L’esame dello spettrografo mi ha appena confermato che c’è del materiale organico poco sotto il terriccio! Sono sepolti qui!»
«Dio, Nod! Questo è un momento storico, lo sai? L’anello di congiunzione che ci mancava!»
«Sì, Abram. Ora cerca di stare calmo e fammi lavorare!»
«Vuoi metterti a scavare adesso?»
«No, voglio guardarmi attorno, c’è una strada davanti a me, vedo dove porta e poi risalgo in superficie».
«Okay, Nod!»


«Laggiù c’è un inferno, credimi!», esclamò il poliziotto mordendo una ciambella, rivolto al suo collega.
«Chi è stato a fare quel casino?»
«Eve Macallister!»
«Sembrava una buona madre!»
«Vatti a fidare delle donne!»
«Menomale che il piccolo Zac si è salvato».
«Ha fatto in tempo a fuggire! Altrimenti quella era capace di ammazzare pure lui! Ha raccontato che si è presentata con una torta di mele! E li ha uccisi entrambi, a coltellate! Poi si è ammazzata!»
Scossero entrambi la testa, il posto intorno a loro pullulava di volanti con i lampeggianti accesi e colleghi in divisa in un continuo andirivieni.
«Qui ci facciamo notte! Andiamo a prenderci una ciambella!»
«Sono d’accordo, andiamo!»


«Stupido auricolare!», Nod imprecò.
La comunicazione si era interrotta. Probabilmente era sceso molto in profondità. Poco male! L’aria diventa più umida, ci sarà una fonte d’acqua! Il tempo di scoprire qualcosa e poi torno su!, pensò fra sé e sé, mentre scendeva ancora.
Raggiunto uno spiazzale notò un raggio di luce e si accostò alla parete per guardare.
«Oh mio Dio!», esclamò meravigliato.
Poi sentì una voce mormorare una cantilena:

«Vedo la luna, vedo le stelle
vedo Caino che fa le frittelle
vedo la tavola apparecchiata
vedo Caino che fa la frittata
Vedo un uomo, un uomo solo
Vedo che sogna, sogna un volo
Un volo diretto per il Paradiso
Ma c’è l’Inferno sopra il suo viso».

Si voltò. La torcia illuminò una donna nuda che stava tagliando una torta.
«Questa era la preferita di Sam, sa? La torta di mele! Ne vuole un po’? È buonissima! La assaggi!»
La donna gli porgeva un pezzo di torta in una mano.
«Non è possibile… è un’allucinazione», pensò Nod.
«No, Nod. Non è un’allucinazione. Ciò che ha visto è vero: l’Eden esiste davvero. Ma io non posso permettere che lei torni in superficie, capisce?»
«Lei è … lei è Eve Macallister!»
La donna aggrottò la fronte.
«Ah, sì era quello il mio nome, da mortale».
«Lei dovrebbe essere morta settant’anni fa!»
Eve inclinò la testa, sorridente.
«Povero cucciolo! Vuole un pezzo di torta di mele»
«Lei è… viva?»
«Fa differenza? Egli mi ha incaricato di essere a guardia dal varco! Nessuno torna vivo dall’Eden, Nod».
«Egli chi?», chiese Nod.
Eve sibilò.
Eve avanzò, torta nella mano destra, coltello nella sinistra. Nod era paralizzato dal terrore.
Eve era a un passo. Portò la torta sotto il naso di Nod, che inspirò il profumo.
«Bravo bambino!»
Eve affondò la lama nel cuore di Nod, che si lasciò cadere. L’ultima cosa che videro i suoi occhi fu un serpente che sibilava attorcigliandosi intorno alla caviglie della donna.

Mariano Macale fa parte degli autori del blog di scrittura Vongole & Merluzzi.

“Uccidere il padre” di Amélie Nothomb

Il cappello nero a cilindro è inconfondibile. Questa volta nella sua ventesima fatica, Amélie Nothomb, travestita da se stessa, compare in scena all’inizio del suo ultimo romanzo, Uccidere il padre (Voland), a un raduno di maghi a Parigi il 6 ottobre 2010. Qui incontra due uomini americani, uno sui trent’anni che ammalia la platea di un bar con i suoi giochi illusionistici, e uno sui cinquanta che se ne sta voltato di spalle seduto al bancone totalmente indifferente allo spettacolo. Palese è il riferimento del titolo al complesso di Edipo, uno degli archetipi della civiltà occidentale: uccidere l’autorità rappresentata dal padre per liberarsi dalle soffocanti e opprimenti aspettative che i genitori ripongono nei figli per essere padroni delle proprie scelte e finalmente diventare adulti. Questa allusione è confermata dalla vicenda di questo romanzo di formazione sui generis. Il protagonista, infatti, Joe Whip, aspirante mago dallo straordinario talento, giacerà con la madre (non quella biologica però) e finirà, sia pur simbolicamente, per uccidere il padre (putativo).
È dal secondo capitolo che prende avvio il racconto a rebour con una digressione al 1994. Joe ha quattordici anni, un padre che neanche la madre sa chi sia e una madre, Cassandra, dalla vita sentimentale disordinata che cambia’ continuamente partner di cui non ricorda neppure il nome. Il suo più grande desiderio è far durare una relazione più di due settimane. Ironia della sorte vuole che l’ultimo della serie abbia un nome che Cassandra non può dimenticare, Joe. A questo punto in casa c’è un Joe di troppo. Uno dei due deve andare via. A essere allontanato, contrariamente a qualsiasi legge sui minori, è il più piccolo. Così Joe va a vivere in un albergo, mantenendosi con la paga che gli passa la madre snaturata e con le mance che guadagna esibendosi come mago nei locali. La magia infatti è la sua grande passione, che il ragazzo coltivava sin da piccolo sottoponendosi nella solitudine della sua cameretta a esercitazioni estenuanti. Joe ha mani formidabili e di questo si accorge un avventore di un bar che una notte lo osserva allenarsi prima che il locale si riempi. È da quest’uomo che Joe viene a conoscenza che lì a Reno, nel Nevada, vive uno dei più grandi maghi, Norman Terence. Joe decide che Norman sarà il suo maestro. Senza incontrare alcuna difficoltà viene accolto dall’illusionista, addirittura in casa sua, dove abita con la compagna di venticinque anni Christina, una fire dancer dall’infanzia difficile vissuta in una comunità hippy tra funghi allucinogeni (una costante presenza nei libri della Nothomb) e LSD.
Ecco che il quadretto familiare è ricomposto: Norman, dapprima amato come un padre viene da Joe odiato a tal punto da chiedergli di imparare a barare (pensa l’onesto Norman «Mi adora come un moccioso di quindici anni adora suo padre. Quindi mi vuole uccidere») e Christina diventa oggetto del suo desiderio sessuale.
È da questo punto che la storia si complica fino al culmine rappresentato dalla partecipazione di Joe al Burning Man, festa dei virtuosi del fuoco e della danza.
La scrittrice belga, con un abile gioco di prestigio, rovescia il mito edipico facendo sì che sia il padre adottivo a ricercare la legittimazione del suo ruolo genitoriale. La Nothomb analizza così il rapporto conflittuale genitori-figli dalla sua personale e originale prospettiva secondo la quale essere rifiutato o scelto si profila come atto imposto o subito.
Bisogna arrivare fino alla fine del libro per scoprire i reali moventi affettivi che fanno agire i protagonisti della storia, personaggi tagliati con l’accetta dalle frasi brevi, lapidarie e ironiche caratteristiche dello stile nothombiano.
E come sempre i finali dell’autrice belga sono spiazzanti, provocatori e rischiosi perché chi gioca con le parole può scottarsi e scottare proprio come i fire dancer mettono a repentaglio, oltre la propria, la vita degli spettatori. Ma, del resto, scopo della letterature, proprio come della magia, «è indurre l’altro a dubitare della realtà».

(Amélie Nothomb, Uccidere il padre, trad. di Monica Capuani, Voland, 2011, pp. 91, euro 9)
 

“Grimmless” di Ricci/Forte

La fiaba è morta tutte le domeniche pomeriggio, ed è stata seppellita dal silenzio. È morta nel momento in cui il tumulto della vita sembrava rallentare, mentre in realtà si stava solo congelando per sempre. È una noia violentemente infruttuosa, intrisa di dimenticanza, che uccide la fiaba. Allo stesso tempo i rumori, ma anche le musiche, di ogni giorno, coprono le voci affannate nella lotta per il premio finale. Nel con-tendere il primato i corpi si tendono, alla ricerca di un ideale segnato da una stella colorata, oltre la quale c’è solo il silenzio. Così come la cima è la vittoria, ma anche lo scacco dello scalatore, il traguardo è la salvezza, ma anche la comprensione della vacuità del fine. La tensione dei partecipanti alla gara è dunque tensione verso il nulla, mantenuto in gioco solo dalla sua apparente perfezione. Solo il silenzio del nulla tiene in piedi la perfezione dell’immutabile mutismo. Bisogna quindi tacere delle membra stanche della lotta, così come tacere si deve delle vite parallele che tentavano di riscattare la propria realtà interrotta, perchè giudicate perverse. Nelle case di barbie in cui si svolgono tali vite aliene ci può essere tuttavia una luce, che si spande e segue molteplici direzioni, senza alcuna possibilità di controllo. La necessità è perciò che intervenga un’istanza che possa ricondurre i fasci di luce impudenti alla via già tracciata: si affacciano al mondo per questo i mezzi di comunicazione. La narrazione giornalistica, nel riportare fatti bruti, abbrutisce le esistenze dei presunti colpevoli, in un circolo autoreferenziale ed autarchico, indipendente dai tragici vissuti dei partecipanti. Ogni movimento dell’individuo è inscritto in una casella di testo di un aggiornamento di stato, ogni anelito alla comunicazione e alla relazione è ridotto a una richiesta di amicizia su un social network. È qui che tutti i sensi della simbolica realtà collassano in un unico segno, quello tracciato dai telegiornali e dai social network. La parola, segno tra i segni, in questo mondo non può che frantumarsi. La parola, vestita ed adornata come una ballerina di tutti i vissuti che porta con sé, è tranciata di netto sul palco da una motosega. Allo stesso tempo i discorsi si spezzano: ogni unità è persa. La voce individuale diventa un messaggio di cui molti hanno un frammento ma nessuno ha il senso. L’unità della narrazione si sfilaccia come una corda troppo tesa: i tempi si accavallano, i luoghi si sovrappongono, mentre la certezza del presente si smarrisce in un labirintico bosco atemporale.

Stefano Ricci e Gianni Forte hanno scelto di rappresentare questo mondo attraverso il teatro. Ma se la narrazione in questa realtà è distrutta dal potere mediatico, nessuna voce può davvero parlare del mondo fuori dal coro finchè rimane voce. La rappresentazione in Grimmless non può quindi che essere simbolica e trarre dalla multiforme potenza comunicativa del simbolo l’opportunità di comunicare con altri ciò che il silenzio della perfezione, ossessivamente ricercata, ha celato. Attraverso il simbolismo del grido l’individuo può smarcarsi dalle catene della comunicazione significativa e uscire dal perfetto silenzio in cui ha covato la disumanità della perfezione. È questo tuttavia un silenzio colmo di dolore, è il silenzio di una Biancaneve trascinata per i capelli su un tappeto di fastidiose mele. Solo in questo modo il lutto della fiaba può consumarsi e far sì che i corpi fino a quel momento tesi si in-tendano e si ritrovino nella sofferenza. La tragedia di questa presa di coscienza è tuttavia tale da svelare la nullità di ogni obiettivo, così come l’inutilità di ogni strumento e di ogni costume, linguistico o teatrale che sia. I corpi non possono far altro che accasciarsi dinnanzi ad un impassibile principe azzurro, troppo distante nella sua perfezione per non essere a pieno titolo carnefice dell’esecuzione. Stefano Ricci e Gianni Forte riescono a comprendere una realtà non più narrabile e a plasmare la dimensione teatrale su quella esterna. I sorprendenti attori sono un calco delle voci della vita che precede e fonda lo spazio-tempo teatrale. Ogni immagine di ogni scena è un sapiente equilibrio di colori, che costantemente rimandano ad altro, all’altro inenarrabile, che pure si dibatte in ogni abitante del nostro tempo, attore o spettatore che sia.
 

Grimmless
di Ricci/Forte
regia di Stefano Ricci
con Anna Gualdo, Valentina Beotti, Andrea Pizzalis, Giuseppe Sartori, Anna Terio

Andato in scena il 17 aprile 2012 presso il Teatro Augusteo di Salerno

“Diaz – Non pulire questo sangue” di Daniele Vicari

Se non esistessero sentenze della magistratura a certificare gli orrori e gli eccessi epocali del G8 di Genova sarebbe difficile credere possibili gli abusi di potere commessi nel 2001 dalle forze dell’ordine, prima nei locali della scuola Diaz e poi nella caserma di Bolzaneto.
Negli anni successivi sono finiti in tribunale oltre 300 poliziotti. Solo 29 sono stati effettivamente processati. 27 sono stati poi condannati (in appello) per illeciti come lesioni, falso in atto pubblico e calunnia, ma gran parte dei reati sono finiti in prescrizione.
Le violenze sui 93 arrestati, trasferiti nel carcere di Bolzaneto, hanno portato a 44 condanne per abuso di ufficio, abuso di autorità contro detenuti e violenza privata. Ma va aggiunto che quando, durante i titoli di coda di Diaz, appare la precisazione che alcuni reati non sono stati puniti solo perché nel codice penale italiano non esiste la fattispecie di “torture”, un brivido corre lungo la schiena dello spettatore, già turbato da una seconda parte di film all’insegna di una violenza gratuita che getta non poco fango su pur nobili divise e su ordini di superiori che a volte interpretano le norme giuridiche in modo discutibile, per assecondare insane logiche distorte, deviate, che sono poi la vera rovina delle istituzioni di questo traballante Paese o di quel che resta di esso, dopo troppi anni di partitocrazia burocratica fondata su finanziamenti pubblici e rimborsi elettorali che gridano vendetta.
Il film presenta molti volti che raccontano storie diverse, dato che a Genova erano giunti ragazzi da tutta Europa. Ragazzi convinti di poter costruire un mondo migliore. E scusate se è poco.
C’è Luca: un giornalista della Gazzetta di Bologna, testata storicamente di centro destra. È uno che vuole toccare con mano i fatti di cronaca, vedere coi suoi occhi quello che sta succedendo.
C’è Alma, un’anarchica arrivata dalla Germania e insieme a Marco, avvocato del Social Forum, cerca di aiutare i familiari dei “dispersi” nella folla.
C’è Nick, francese, un uomo d’affari. Si trova respinto da tutti gli alberghi, ma è in città solo per partecipare a un seminario di un esperto di economia.
C’è anche il simpatico Anselmo, sindacalista e un pacifista ormai anziano, che sceglie di rimanere in città e non tornare a casa con il bus dei suoi compagni. Forse per tornare a sentirsi giovane… sarà tra i primi a essere manganellato nella scuola.
Ma i singoli personaggi non sono così importanti. Nella sostanza ci troviamo di fronte al tipico genere di “docu-film” oggi di moda, cioè un’opera cinematografica con forti propositi di denuncia sociale, che ha il difetto, a volte, di sembrare l’appendice di un qualsiasi telegiornale, perdendo così per strada quella magia e quella poesia nelle quali si sogna di perdersi e ristorarsi nel momento stesso dell’acquisto di un biglietto del cinema.
Va subito detto che a volte il pur bravo Vicari ha il torto di voler strafare, attraverso una particolare tecnica di montaggio che vorrebbe mettere a fuoco i momenti cruciali visti da punti di osservazione psicologica differenti, se non opposti. Invece finisce per creare una bizzarra sovraesposizione delle medesime sequenze, che confondono e appaiono comunque non necessarie, se non fastidiose.
Il film inoltre, che poggia il suo baricentro sull’irruzione violenta nella scuola (non era meglio farne l’incipit in medias res?) e vive il suo climax nelle micidiali sevizie commesse su ragazzi inermi, picchiati, portati in caserma, dove sono stati denudati, umiliati e offesi (perché?), non appare costruito in modo equilibrato.
Se nella seconda parte c’è fin troppa azione e violenza, nella prima la regia si sofferma troppo sulle vicende minimali di personaggi senza il necessario carisma, mentre trascura il vero “punto di non ritorno” di quel tristemente noto G8 genovese e cioè la morte del giovane Carlo Giuliani.
Inoltre non approfondisce il profilo psicologico criminale di chi davvero fece la storia di quella guerriglia urbana seguita dai media del mondo intero e cioè i cosiddetti “black block”.
Ci dicono che si tratta di cani sciolti che sono soliti infiltrarsi nelle manifestazioni col solo fine di provocare disordini e scontri capaci di gettare nel caos intere città. Terroristi, insomma, che forse hanno l’unico scopo di vivere il classico quarto d’ora di celebrità con qualsiasi mezzo, per alimentare un ego ipertrofico ed evidentemente malato e di riflesso riscattare i fallimenti delle loro esistenze, un po’ come accade(va) per molti gruppi ultrà in ambito calcistico.
Ma i dubbi restano, perché molti credono invece che dietro i black block vi sia una strategia della tensione ben precisa.
Un’ultima dolente annotazione: i registi italiani ci sembrano pieni di passione, indubitabilmente impegnati, ma con tutta la buona volontà non riusciamo a intravedere i bagliori di quel talento cristallino che pure dovrebbe caratterizzare un artista di alto profilo. E questa è una considerazione di ordine generale.
Ricordiamo, nel cast, la presenza di Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Elio Germano, Davide Iacopini, Ralph Amoussou, Fabrizio Rongione, Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Antonio Gerardi, Paolo Calabresi, Francesco Acquaroli, Alessandro Roja, Eva Cambiale, Rolando Ravello, Monica Birladeanu, Emilie De Preissac, Ignazio Oliva, Camilla Semino.
Tutti superano la prova, ma la sensazione è che potessero dare qualcosa di più.

“Franco Quinto – Commedia di una banca” di Friedrich Dürrenmatt

«Rapinare una banca è roba da dilettanti.
I veri professionisti una banca la fondano».

Si parla di banche, in questo nostro tempo strano, si parla di spread, di titoli e di borse in rialzo o in ribasso. Dürrenmatt ne parlava già cinquanta anni fa, in questa profetica quanto attualissima «commedia di una banca», messa in scena il 19 marzo 1959 a Zurigo per la prima volta e che esce ora in libreria con Marcos y Marcos.
La commedia si presenta al lettore come un testo divertente e farsesco ma a tratti anche drammatico e allarmante, in quanto i personaggi protagonisti sono talmente bassi e corrotti che riescono a spiazzare il lettore, che pure se lo aspetta. Veniamo a conoscenza, col proseguire delle scene, di una crisi grave e profonda che riguarda una dinastia di banchieri che va avanti da ben cinque generazioni, l’ultimo dei quali, Franco Quinto (il quinto appunto), è costretto a trovare un modo per uscire dalla rovina che si trovano a fronteggiare: la loro banca è un passo dal fallimento.

Da cinque generazioni la corruzione e l’illegalità sono state il fondamento del loro lavoro: lo Stato non li ostacola, la concorrenza non è in grado di contrastarli e dunque truffe, scandali e segreti vergognosi sono l’humus di questo mondo dell’alta finanza, del quale Dürrenmatt evidenzia il marcio attraverso il carattere dei personaggi protagonisti, in particolar modo Franco e sua moglie Ottilia, che sono freddi calcolatori disposti davvero a tutto, anche a uccidere in nome del profitto.
I protagonisti, senz’altro visti come maschere negative, divertono, però, il lettore a partire dallo scambio di persona, ingrediente immancabile nelle commedie, da Plauto in poi.
Si innescano equivoci che scaturiscono in comicità, come suscitano ilarità battute del tipo: «Mi chiamano Franco il Filantropo», frase tipica che il signor Quinto usa per presentarsi e che suona evidentemente falsa anche a chi non conosce la vicenda.

Lo scrittore svizzero fa del problema della giustizia, tema rintracciabile anche in altre sue opere, il centro di questo testo quasi sconosciuto in Italia e di conseguenza poco rappresentato. Dürrenmatt vede ciò che gli sta intorno, non gli piace e denuncia. E così facendo, illumina.


(Friedrich Dürrenmatt, Franco Quinto – Commedia di una banca, trad. di Aloisio Rendi, Marcos y Marcos, 2012, pp. 158, euro 12)

“Roma 1849. Gli stranieri nei giorni della Repubblica” di Brunella Diddi e Stella Sofri

Il libro racconta la storia di quegli uomini e donne il cui ricordo, oggi, sembra sopravvivere solo lievemente nella toponomastica di villa Sciarra con i suoi viali – Adolfo Leducq, Giuseppe Wern, Margaret Fuller – ma che invece hanno consacrato con il loro sacrificio quell’idea «di democrazia, di giustizia e libertà» che è stata la Repubblica Romana, proclamata nel febbraio del 1849, e finita nell’estate dello stesso anno con l’ingresso dell’esercito francese, a restaurare il potere papale, in una Roma così silenziosa da far sembrare la loro marcia in città un mesto corteo funebre.

Leggiamo quindi lettere e testimonianze di quanti, polacchi, bulgari, belgi, inglesi, spagnoli e tedeschi, hanno difeso Roma sul Gianicolo.
E subito il pensiero corre al Novecento, per ritrovare nelle Brigate internazionali, costituitesi durante la Guerra civile spagnola, la medesima partecipazione a una lotta estrema sulle cui sorti pesarono, nel caso di Roma, «l’immaturità dei tempi»; nel caso della Spagna, il momento storico in cui si svolse la vicenda, preludio del secondo conflitto mondiale.
In questa rassegna, forse i combattenti giunti dalla Polonia meritano una menzione d’onore per la loro numerosa partecipazione sotto la guida del colonnello Fijalkowski. E il ricordo della solidarietà polacca, unito alla comune sorte di popolo oppresso dall’Austria, viene sancito anche nell’ultima strofa dell’inno di Mameli.
Villa Sciarra, il Gianicolo, i luoghi sono importanti in un libro che racconta una battaglia, non è forse un caso che le due autrici vivano poco più in là, nella zona di Monteverde, a due passi dal quartier generale francese di villa Santucci.
Una moltitudine di piccoli eroi – dunque – piccoli Garibaldi; ma anche una schiera di eroine che dalle autrici non vengono certo dimenticate e che, come la giornalista del New York Tribune Margaret Fuller, stesero la cronaca di quei giorni quando non sostennero il combattimento in prima linea contro l’invasore.


(Brunella Diddi – Stella Sofri, Roma 1849. Gli stranieri nei giorni della Repubblica, Sellerio, 2011, 224 pp, € 16.00)

“Canzoni per un figlio” dei Marlene Kuntz

Circa due anni dopo l’uscita di Ricoveri virtuali e sexy solitudini, ecco il nuovo disco dei Marlene Kuntz: Canzoni per un figlio, una raccolta di quattordici brani, di cui solo due inediti. Per il resto, dieci, appartenenti a vecchi album, sono stati totalmente rivisitati dal punto di vista vocale e strumentale, mentre due sono stati semplicemente riproposti nella loro versione originale.
L’intento pedagogico si evince sia dal titolo stesso della raccolta, sia dall’epistola contenuta nel libretto, che recita: «Figlio mio, sento il desiderio di farti conoscere alcune canzoni che potrebbero piacerti […]. Se solo saprai dedicargli l’attenzione di cui sei capace, potrai scoprire i loro valori, le loro immagini, i loro indici e i loro spunti per i tuoi ragionamenti: è al tuo futuro e alla tua crescita che potranno in qualche modo contribuire! […] Senza fretta. Leggile e rileggile, e magari custodiscile in qualche tuo posto speciale: ti potranno sempre tornare utili! […]».

“Canzone per un figlio”, presentata all’ultimo Festival di Sanremo, apre la raccolta: è una ballata lenta e molto riflessiva. Il brano successivo è il ritorno di quello che fu un grande successo dell’album Senza Peso (2003): “A fior di pelle”. Scomparsi i ritmi scanditi dalla batteria di Luca Bergia, la canzone è accompagnata da intensi archi capaci di mettere ulteriormente in evidenza le parole che compongono il testo. Lenta, ma molto riflessiva, “Trasudamerica” (Catartica, 1994), la cui musicalità nella nuova versione è rafforzata dai fiati di Roy Paci. “Canzone ecologica”, tratta da Uno (2007), nel nuovo arrangiamento ostenta la voce di un carezzevole pianoforte.
L’intento educativo è preponderante anche in “Pensa”, secondo brano inedito della raccolta; ecco di seguito alcune frasi-chiave che lo testimoniano: «La gentilezza è carismatica, allieta chi la riceve e chi la dà […]. Sogna… e non temere che la cosa sia impossibile: esser belli dentro di per sé ti appagherà. Ci vuole poco… Non farti fregare: confida in me. Ti voglio aiutare a crescere». La nuova versione di “Stato d’animo” (Uno, 2007) non si discosta eccessivamente dall’originale, mentre “Serrande alzate”, una splendida canzone contenuta in Che cosa vedi (2000) che Cristiano Godano aveva scritto per il figlio Enrico, presenta un arrangiamento davvero stimolante. Da un testo riflessivo è caratterizzato “Io e me”, brano tratto da Ricoveri virtuali e sexy solitudini (2010), che ben si sposa con il nuovo adattamento musicale.
Nona canzone è “Bellezza” (Bianco sporco, 2005), di cui esiste anche una versione cantata da Cristiano Godano e dal figlio in occasione dello Zecchino d’oro dell’underground (una chicca da non perdere!). “Lieve” (Catartica, 1994), brano arrangiato diverse volte nel corso degli ultimi anni (si pensi ad esempio allo Slow Tour) indossa in questa occasione una veste che non delude affatto.
Seguono “Canzone in prigione”, tratta in originale dall’album Tutta colpa di Giuda (2009), l’arrangiamento di “Ti giro intorno” (Il vile, 1996) e “Un piacere speciale”, anche questa canzone riproposta nella versione-madre di Ricoveri virtuali e sexy solitudini (2010). Il disco termina con una punta di diamante: “Grazie” (Che cosa vedi, 2000), che potremmo considerare la Spannung della raccolta; bellissima e commovente sia dal punto di vista testuale, che musicale (anche se l’originale non ha paragoni!), scritta da Cristiano Godano poco dopo la nascita del figlio.

Sotto il testo di ciascuna canzone sono posti, inoltre, dei commenti che potrebbero essere paragonati alla morale delle favole e rappresentano una guida alla comprensione del testo tanto per “il figlio”, quanto per l’ascoltatore. Inoltre, dal punto di vista musicale c’è una forte commistione tra le nuove sperimentazioni già in atto da anni all’interno del gruppo e il noise al quale i Marlene Kuntz sono molto legati sin dagli albori della loro carriera musicale.

Numerose collaborazioni famose, infine, costellano l’album: il veterano Gianni Maroccolo, nonché produttore artistico del disco stesso, il già citato Roy Paci, Vincenzo Presta, Gianluca Ria, Davide Rossi, Alessandra Celletti e infine i due compagni assidui: Davide Arneodo e Luca Saporiti.

Eterogenei saranno gli apprezzamenti degli affezionati, ma sicuramente questa nuova proposta sarà in grado di attirare nuovi ascoltatori.

(Marlene Kuntz, Canzoni per un figlio, Sony, 2012)

“La compagnia del corpo” di Giorgio Falco

C’è il corpo di Alice: cento chilogrammi o poco oltre di disagio e di noia. Poi c’è il corpo di Lucy: dieci chilogrammi, taglia piccola, pelo corto bianco e nero. Lucy è il cane della mamma di Alice. Vivono tutte e tre in via Prati Nuovi a Cortesforza, dopo che il padre, commerciante di merendine, ha deciso di abbandonare la famiglia scappandosene chissà dove. E poi c’è Diego, il ragazzo di Alice, e la sua compagnia di coetanei ventenni persi dietro a rituali di gruppo e mode passeggere. Alice e il suo corpo, i suoi problemi, la sua inadeguatezza che si trasformerà in crudeltà inutile verso il povero cane massacrato e filmato, un pomeriggio di una domenica di provincia.

La compagnia del corpo (:duepunti edizioni), di Giorgio Falco prende spunto da una storia vera occorsa qualche anno fa dalle parti di Pordenone: una giovani coppia aveva ucciso a bastonate il cane della mamma di uno dei due registrando con il telefonino l’orribile atto, per vantarsene poi con gli amici.

L’autore sviluppa la storia penetrando la psiche della protagonista femminile, Alice, il suo disagio giovanile, il suo essere e sentirsi grassa, inadeguata e abbandonata. Tutto questo malessere si sconta con la noia più nera che diventa assenza di stimoli e di vivacità. Ed è da apatie di tal genere che nasce il nuovo “museo degli orrori”: la crudeltà diventa passatempo, intrattenimento, occupazione momentanea. Poco importa che si parli di vittime umane o canine: non vi è certezza che chi uccide un quadrupede a bastonate sia, poi, in grado di frenare la sua violenza davanti a un uomo. Il delitto di Novi Ligure o le Bestie di Satana ne sono una riprova.

Giorgio Falco, in poco meno di cento pagine, riesce a darci uno spaccato dell’animo umano, torbido e molesto, che viene fuori pagina dopo pagina, parola dopo parola, lentamente, con maestria: Alice da vittima diventa carnefice, senza motivo, lasciando il lettore attonito, quasi spaesato.

La compagnia del corpo è un piccolo segnale, un lampeggiante nell’oscurità: da attento osservatore della monotonia quotidiana quale è, Falco ci dà uno spunto da cui iniziare a riflettere, per capire. E sembra quasi voler dire al lettore: «Chi ha orecchie per intendere, intenda».


(Giorgio Falco, La compagnia del corpo, :duepunti edizioni, 2011, pp. 93, euro 6)

“Chi ha paura muore ogni giorno” di Giuseppe Ayala

Non si può (e non si deve) considerare Chi ha paura muore ogni giorno come uno spettacolo teatrale. Si commetterebbe un errore madornale dato che Giuseppe Ayala utilizza il teatro, inteso come luogo fisico, come mezzo per raccontarsi. Scelta, forse, studiata a tavolino, ma sicuramente importante perché restituisce al nostro paese una storia che non andrebbe mai dimenticata. Giuseppe Ayala dimostra di essere un affabulatore e un ottimo narratore, ricordando, talvolta, Ulderico Pesce nei momenti più sentiti e commossi.

Chi ha paura muore ogni giorno è una testimonianza importante, coinvolgente e precisa, intima, che racconta la storia di due uomini, Falcone e Borsellino, morti per un ideale. La vicenda è famosissima, ha fatto il giro del mondo, ma il punto di vista di Ayala, testimone diretto, non è affatto scontato. Sul fondo del palco, c’è un grande albero di magnolia, che ricorda l’albero di Falcone, e poi tavoli, sedie e uno schermo per i link audiovisivi che, di tanto in tanto, vanno a corroborare il racconto.

Non è un incontro che può essere raccontato in una recensione, va vissuto. Diviso idealmente in due parti, Chi ha paura muore ogni giorno deve essere inteso come un momento per ritrovarsi attraverso una pagina triste della storia del nostro Paese e un invito ad andare avanti, a non perdere mai la bussola, guardandosi sempre attorno.

Ayala ha definito intelligentemente (e con molta umiltà) questo lavoro come una trasposizione a teatro del suo libro rifiutando di considerarlo come “spettacolo”. Una dichiarazione importante per capire realmente la genesi del suo lavoro e andare a teatro con il desiderio di ascoltare una storia che, nonostante la tragedia che porta in grembo sin dall’inizio, è un racconto di vita, appassionato e che tocca tutti noi indistintamente.


Chi ha paura muore ogni giorno
di e con Giuseppe Ayala
con la partecipazione di Francesca Ceci

Andato in scena il 14 e 15 aprile 2012 presso il Teatro Bellini di Napoli.