“L’altra faccia del diavolo” di William Brent Bell

 

Difficile capire come si possa buttare al vento l’occasione di fare un film su un tema ricco di spunti come la possessione diabolica, che certo non può lasciare indifferente pubblico e critica. Ma L’altra faccia del diavolo – titolo originale The Devil inside, distribuito in Italia da Universal Pictures – è riuscito nell’impresa di coniugare i difetti del classico dejà vù (vedi L’esorcista) con un’incomprensibile mancanza di idee nello sviluppo dell’esile trama, per non parlare di un finale rischioso che dovrebbe scioccare lo spettatore e invece lo priva del piacere di vedere come andava a svilupparsi una certa situazione di crisi ormai giunta al climax.

Innanzi tutto va detto che l’idea di presentare il film in forma di finto documentario non funziona, perché lo svilisce, fino a renderlo una sorta di involontario “Grande Fratello” che non fa tremare i polsi come ci si aspetterebbe da un horror degno di questo nome.

Pur non brillando, gli attori (i vari Evan Helmuth, Simon Quarterman, Ionut Grama, Bonnie Morgan) se la cavano, ma tirando le somme svolgono il loro onesto compitino senza superare la sufficienza, restano insomma troppo piatti, come si suol dire, perché il talento è quello che è – cioè poco – e i dialoghi non brillano di originalità nel caratterizzarne il loro temperamento.

Giunta a Roma per studiare gli esorcismi e realizzare un documentario in materia, Isabella Rossi (Fernanda Andrade, più bella che brava) incontra due giovani preti che praticano queste particolari attività con l’aiuto di strumenti tecnico-medici.

Su queste premesse la vicenda scorre sulle comode rotaie dell’ampiamente prevedibile o del banale fin dai nomi scelti (si poteva fare di meglio di un comunissimo Maria Rossi, interpretata da Suzan Crawley) fino alla presa di coscienza che quest’opera fa cilecca perché anche quando si propone di spaventare non fa altro che seguire un copione che anche un ragazzino può agevolmente intuire, anche se lo sviluppo della storia si sofferma troppo su alcuni aspetti e poco su altri forse più interessanti (ad esempio la suora che compare nel manifesto è presente in una sola scena: poteva essere un bel jolly).

Tutto ciò premesso, possiamo concludere che il film di William Brent Bell rimane così tutta intenzione e poca realizzazione a cominciare dalle deboli musiche.

La location romana è inoltre sfruttata poco e male: questo priva l’opera della poesia necessaria a stemperare le scene più dure. Ben vengano scantinati polverosi e corridoi bui, ma avremmo voluto vedere anche la città, i quartieri dove la vicenda si svolgeva, per contestualizzarla meglio. Non basta passare in macchina davanti al Colosseo o a Piazza San Pietro per dire: «Siamo a Roma».

Il film, in sostanza, si configura come una locomotiva che procede spedita da una stazione all’altra, senza quelle sane fermate intermedie di ristoro che possono rendere il percorso complessivo meno faticoso e più interessante.

“Colazione da Tiffany” al teatro Eliseo di Roma

Uno chignon alto dai riflessi dorati cinto da un diadema lucente. Due grosse lenti scure, a celare la stanchezza del volto, gli occhi stravolti dai bagordi della notte appena trascorsa. Tubino nero, stretto e lungo a mostrare appena le caviglie sottili, fragili, come fragile è quel corpicino da scricciolo che non ha nulla di conturbante, di peccaminoso, ma che anzi nasconde un’indole delicata e indecifrabile, lontana dalla Holly Golightly che Truman Capote aveva immaginato per la protagonista del suo Breakfast at Tiffany’s. Eppure quel ruolo che nell’immaginario del suo scrittore avrebbe dovuto appartenere a un’altra attrice più vicina alla bellezza sfacciata e solare di Marilyn Monroe, consacrò Audrey Hepburn nell’olimpo delle star hollywoodiane e l’elesse regina indiscussa di stile ed eleganza. Dall’uscita, nel 1961, del film di Blake Edwards, Colazione da Tiffany divenne la personificazione stessa della sua attrice, l’iconografia collettiva con cui raffigurarsi Audrey Hepburn, incarnazione eterna di Holly Golightly e della sua mondana New York anni ’60.

Partire da questo background potrebbe rappresentare un fardello non facile da portare, ma sicuramente anche una sfida affascinante e del tutto imprevedibile nei suoi risvolti. Sfida che Piero Maccarinelli decide di accettare con grande coraggio fin dalla scelta dell’attrice che interpreterà Holly, la statuaria e provocante Francesca Inaudi, e dalla decisione di ambientare la storia negli anni della seconda guerra mondiale, così come voleva il suo autore Truman Capote. Il copione stesso di questo rifacimento teatrale di Colazione da Tiffany è molto più vicino all’originale di quanto non lo fosse la sceneggiatura di George Axelrod.

La storia narra dell’amicizia che nasce tra uno scrittore squattrinato, Paul Varjak, e la sua bella vicina di casa, la spumeggiante e mondana Holly Golightly ( il cui vero nome è Lulamae Barns), che per campare fa la prostituta d’alto bordo (nel film non viene mai esplicitamente dichiarato, ma vi si allude). Questo “lavoro” le permette una vita di eccessi, fatta di party e di frequentazioni mondane, grazie alle quali Holly spera di trovare non tanto l’amore quanto un ricco marito. Holly è una creatura sola, con centinaia di amici e conoscenti, ma fondamentalmente sola. Paul, col tempo, imparerà a conoscerla e a capire che dietro quella sorta di maschera di gioia e leggerezza, si cela in realtà un’eroina tragica che fa di tutto per nascondere agli altri e soprattutto a se stessa il suo passato e il vuoto d’amore racchiuso nella sua fragile anima.

Piero Maccarinelli, in una sontuosa scenografia che ricorda per atmosfera tanti film di Woody Allen (cantore per eccellenza di New York), prende le distanze dal film di Edwards, volendo quasi omaggiare Capote nella scelta della protagonista – una brava e sinuosa Francesca Inaudi che, non curante della sua antesignana, decide di ispirarsi completamente a Marilyn Monroe per la sua Holly rendendola più cinica e prorompente – e nel non nascondere al pubblico certi argomenti spinosi per l’epoca come la bisessualità di Holly e della sua amica modella, il suo essere di fatto una prostituta, e la presunta omosessualità di Paul. Nonostante l’apprezzabile temerarietà nel volersi cimentare con un classico così sedimentato nell’immaginario collettivo, forse il regista avrebbe potuto rendere ancora meno edulcorati i temi “scabrosi” del romanzo di Capote, trasmettendo nuova linfa vitale e una lettura più moderna del testo: il risultato sembra infatti il frutto di una mediazione fra la critica dirompente dell’originale e quella più pop e assolutoria di Edwards. Ed è un vero peccato.

 

Colazione da Tiffany
di Truman Capote
regia Pietro Maccarinelli
adattamento di Samuel Adamson
con Francesca Inaudi e Lorenzo Lavia, Mauro Marino, Flavio Bonacci, Anna Zapparoli, Vincenzo Ferrera, Giulio federico Janni, Cristina Maccà, Ippolita Baldini, Riccardo Floris, Pietro Masotti

In scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 1 aprile 2012.

“Frenocomio 24” di Roberto Dapel

Dopo i mesi di prigionia dovuti alla censura fascio-comunista, perpetrata da giornali catto-nichilisti, la redazione è orgogliosa di riprendere la pubblicazione delle recensioni di Roberto Bioy Fälscher. In questo periodo di complicata e turbolenta attesa ringraziamo quanti hanno fatto sentire la propria voce contro un sistema partitocratico miope ai bisogni di una cultura separata dalla ragion di stato. Noi ci opponiamo con forza all’idea che con la cultura non si mangia, perché un uomo con la pancia piena ma il cervello e l’animo vuoti sarà solo lo spettro dei desideri agognati in gioventù. Non saremo ricchi, non saremo trimalcioni lordi del sangue della terra, ma avremo la forza di spirito di infondere coraggio nella nostra voce. Viva la cultura, viva Fälscher, viva la rivoluzione.


La prima volta che mi sono imbattuto nello scrittore portoricano Roberto Dapel è stato durante un congresso organizzato dall’Università dell’Alberta a cui ero stato invitato dal grande studioso di Letteratura latinoamericana Paolo Degrassi. L’argomento del mio intervento era Finzioni e Infrarealismi nella narrativa ecuadoriana contemporanea. Avevo letto per caso il nome di Dapel tra gli appunti di una collega e, immediatamente, preda di una fulminante epifania, mi era tornato di colpo alla mente un caro amico dell’Università di Lima, omonimo dello scrittore portoricano, scomparso in circostanze tragiche durante l’attentato di Barcellona del 14 luglio 2003.
Confesso la mia totale disconoscenza di questo artista visionario, lo confesso, con l’animo trepidante di gioia per la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere i limiti della conoscenza. In seguito mi sarei imbattuto più e più volte nel suo ormai celebre Frenocomio 24, edito in Italia da Sodali Editore e facente parte della cosiddetta “Trilogía de la locura”.
Il libro in questione, il terzo e ultimo della serie, prende spunto da una teoria trascendentale: a eseguire gli attentati suicidi contro le Torri Gemelle non sarebbe stato un nucleo di terroristi agli ordini di Osama Bin Laden, bensì un gruppo di pazienti di un manicomio di Portland, ipnotizzati da medici dell’FBI per affrontare il suicidio come automi facilmente manipolabili. Alla base della sua ipotesi, Dapel riporta i dati relativi alle miriadi di persone che ogni anno vengono misteriosamente inghiottiti dai bui corridoi dei frenocomi: in realtà si tratterebbe di veri e propri rapimenti con finalità più o meno disumane (un caso simile sarebbe quello della strage del Teatro Dubrovka di Mosca).
Partendo, dunque, da un’ipotesi solo in parte attestata e verificabile con dati reali, l’autore portoricano delinea tutta una serie di episodi in cui, nel corso degli anni, si sarebbe fatto ricorso a malati mentali per compiere gesti eclatanti con lo scopo di legittimare una progressiva diminuzione delle libertà individuali a vantaggio della cosiddetta “oligarchia dell’ombra”: «Pensavi di essere libero? Di vivere una vita diversa da quella dei topi da laboratorio? Pensavi male. Ogni qual volta ti troverai a leggere le etichette dei cibi in scatola, a fare scorte di medicinali contro l’aviaria, a comprare chili e chili di munizioni perché un nuovo vicino di origine mediorientale si è stabilito nel tuo quartiere, allora vorrà dire che ti avranno lobotomizzato il cervello. Questa la chiamiamo libertà? Tutto questo ha avuto inizio secoli fa, quando un gruppo di persone ha deciso di mettersi insieme per governare l’umanità intera nell’ombra, senza lasciare traccia di sé, manipolando gli individui e usando i più deboli come armi di distruzione». Tra narrativa pura e saggistica di denuncia, Dapel non si preoccupa della verosimiglianza più certa, e come i grandi maestri degli ultimi anni punta il dito proprio contro di noi e la nostra capacità di assorbire notizie senza spirito critico, spalando con devozione la neve più sporca cristallizzata e stratificata agli angoli delle strade per mostrarci l’arduo compito che spetta a chi decide di inseguire una ricerca indispensabile. Il suo obiettivo estetico dunque non è il fine ma il percorso di avvicinamento a qualcosa di irraggiungibile. Obbligo morale di ogni intelletto libero. Ed è per questo che ci permettiamo di invocare a gran voce la traduzione in italiano degli altri due volumi, Ojo por ojo e Trasfiguración, che insieme a Frenocomio 24 formano la trilogia. Il nostro tempo ne ha bisogno.

“Il correttore” di Ricardo Menéndez Salmón

Tragedia, dolore, impotenza dell’essere umano e amore: gli ingredienti ci sono tutti, e tutti ben mescolati tra loro. Il risultato è buono, un libro piacevole e scorrevole ma mai superficiale e mai banale. Viene raccontata una giornata di Vladimir, una giornata particolare, intensa, distrutta emotivamente da una catastrofe, con una scrittura limpida, chiara, ma sicuramente accattivante e piena di riferimenti alla tradizione letteraria.

Siamo nella stanza di Vladimir, invasa dall’aria frizzantina di marzo e dal profumo del mare. Vladimir, ex scrittore e ora correttore di bozze molto bravo, dunque molto richiesto, è concentratissimo, alle prese con una nuova edizione dei Demoni di Dostoevskij. Dostoevskij è il suo autore preferito e adora la Russia: il padre l’ha chiamato così in omaggio alla rivoluzione d’ottobre.
Arriva, del tutto imprevista, la telefonata del suo editore che lo informa dell’attentato alla stazione Atocha di Madrid dell’11 marzo 2004. Da qui in poi tragedia pubblica e vita privata si intrecciano indissolubilmente in uno snocciolarsi di sensazioni che spaziano dalla rabbia iniziale alla consapevolezza dell’essere umano del non poter far nulla di fronte a tali drammatiche situazioni. Questo è il pensiero pieno d’angoscia di Vladimir (e dell’autore dunque), che vede una Spagna che si scopre fragile, che sta cambiando, in cui l’ottimismo degli anni ’80 inizia a mostrare le prime crepe.
Ci si rifugia nell’amore: Vladimir passa la giornata come in trance, cercando di riprendere il lavoro interrotto al mattino, non riuscendo però a ritrovare la concentrazione, godendo almeno della serenità del suo matrimonio, sua unica certezza, con la bella Zoe, restauratrice di opere d’arte. Per Salmón proprio quel gesto d’amore a redimere un uomo, qualsiasi uomo oltre a Vladimir, «da tutta la poesia del mondo, da tutte le grandi, belle, inutili parole che ci circondano».


Sullo schermo della televisione scorrono le immagini dei morti e dei feriti, di gente letteralmente sconvolta, insieme ai volti dei politici bugiardi con le loro false accuse: l’autore mostra esplicitamente la subdola manipolazione politica che operò il potere su questo attentato, anteponendo interessi di partito alla verità storica. Per questo anche il romanzo offre una duplice lettura: quella di una cronaca intima, personale e quella pubblica, politica. Ed effettivamente non ce n’è una dominante, le due letture si alternano sullo stesso piano.
Questa manipolazione del linguaggio della tragedia da parte dei politici lo induce a riflettere su quegli eventi a partire dai parallelismi con il romanzo che sta correggendo, testo che nella nostra cultura ha inaugurato una riflessione sul Male portato da altri uomini che sfidano Dio.
Risuonano nelle sue orecchie le parole di Aleksej Kirillov: «La paura è la maledizione dell’uomo».
E di tutti i periodi storici, questo nostro tempo è davvero dominato dalla paura: «…il nostro tempo ha fatto della paura il suo stendardo. Naviganti della galassia del sospetto, aridi, sfiduciati, pieni di rancore verso il prossimo, vaghiamo noi….»
La storia non è come un romanzo, non puoi cancellare gli errori. La verità della vita è molto complessa, anche Vladimir si trascina dietro un suo segreto verso Zoe e verso tutto il resto del mondo (un figlio lontano), e nel romanzo si intrecciano i dubbi sulla sua bugia con la menzogna del potere. Vladimir è nervoso, non capisce il senso di ciò che succede e il romanzo ne registra i pensieri e le variazioni con grande precisione intellettuale.
Mentre esplodono uno dopo l’altro i treni, fuori dalla finestra Vladimir vede il vicino innaffiare le piante. Un’assurda allegoria della tranquillità. Possibile continuare la vita di tutti i giorni? Possibile non essere travolti? Possibile, se la nostra vita, tutta intera, è una farsa.
«La nostra vita, tutta intera, dall’alba fino all’ora del lupo, è una grande menzogna, un’ombra, una farsa. Fëdor Dostoevskij lo sapeva. Albert Camus lo sapeva. John Maxwell Coetzee, che ha scritto sulla genesi dei Demoni, un racconto bellissimo, Il maestro di Pietroburgo, lo sa anche lui. Per abitare questa menzogna, per riconciliarci con quell’ombra e quella farsa, per conciliare tutto quel che sappiamo con tutto quel che possiamo sopportare di sapere, è per questo che esistono cose come la letteratura».


(Ricardo Menéndez Salmón, Il correttore, trad. di Claudia Tarolo, Marcos y Marcos, 2011, pp. 160, euro 14,50)

“Morire di memoria” di Emiliano Monge

Prendete un ricordo, un groviglio di ricordi. Provate a dargli una forma e una durata, un valore temporale. La risposta che vi darete avrà le stesse caratteristiche di questo romanzo: un labirinto impalpabile all’interno del quale il tempo non scorre, ma si dilata.

Morire di memoria è proprio questo: un labirinto le cui pareti sono delimitate dai ricordi del protagonista, che si susseguono senza apparentemente seguire un ordine né una logica, si interrompono a vicenda, si fondono, si intrecciano fino a formare un puzzle disomogeneo, del quale intuiamo il disegno solo alla fine e del quale, forse, ci mancherà sempre un tassello. Impalpabile, come solo una narrazione può essere, soprattutto se atipica come questa, priva di avvenimenti e reali personaggi, ma piuttosto costruita sull’assenza, su quel vuoto che popola la memoria quando al ricordo si contrappone la tenebra dell’oblio: «Perché ricordo tanta vita e non le ore scorse, perché la mia mente si riempie di lacune, mi chiedo con le palpebre abbassate, mentre vedo il rosso dell’incendio che imprigionato nei corpi non si spegne».

L’assenza filtra infatti da ogni poro del romanzo, l’interminabile monologo interiore di un uomo che, una mattina, si sveglia all’improvviso sopraffatto da una domanda: «Non me l’ero mai chiesto. E così presto, è proprio bello chiedermelo così presto. Il fuoco è un lampo che poi non si spegne. Se mi fossi potuto vedere la fuori avrei visto le fiamme nei miei occhi. Cos’ho sognato che mi sono svegliato chiedendomi chi sono». A posteriori, rileggendo l’incipit, è possibile cogliervi la cifra dell’intera storia, di una trama che però si svela poco a poco, dilatando sia il tempo della narrazione che quello della lettura.

Il romanzo si snoda su una doppia tensione: l’impulso a ricordare, fortissimo nella mente del protagonista, si scontra con il presentimento del pericolo che ogni oggetto della memoria rappresenta; parallelamente, il leitmotiv del fuoco riappare in ogni episodio rievocato, come motivo di attrazione e, allo stesso tempo, di pericolo e sconfitta. Al corpo a corpo del protagonista con i suoi ricordi – e l’irresistibile tentazione di colmare i vuoti inventandone di nuovi –, con il caldo e con le ore di veglia, corrisponde un corpo a corpo del lettore con il testo, che attrae e respinge come le fiamme dalle quali è animato. Pochi sono i dettagli che riusciamo a intuire, quasi stessimo spiando scene di intimità da uno spioncino; la morte del fratello, la fine di una relazione, un senso di colpa sfumato, latente, l’ossessione di ricostruire (o reinventare?) ogni istante di vita vissuta. «Perché sento che oggi devo fare l’inventario della mia vita», è solo una delle innumerevoli domande che il protagonista si pone.

Qual è il tempo di un ricordo? A che velocità scorrono i pensieri che ci affollano la mente? Queste sono i quesiti ai quali sembra voler rispondere Emiliano Monge raccontando, in circa duecento pagine, tre ore della vita di un uomo. Tre ore tormentate, ripetitive, scandite da un sole infausto e da rumori minuscoli che paiono assordanti. Tre ore che non si consumano, non passano. In questo dichiarato intento di rompere le barriere temporali, il tempo della narrazione non sembra defluire ma solo dilatarsi indistintamente, espandersi in ogni direzione, a macchia d’olio, andando a coprire i dettagli che il narratore decide, di volta in volta, di incorporare alla storia.

«Questa è l’ora in cui le ore non corrono, in questo momento abito l’istante che ricordo, la memoria ha solo il presente», ecco l’unico punto fermo in un’infinità di riflessioni incerte: il tempo della memoria è il presente, non vi è un passato da rievocare, né un futuro da anelare.

Con un’attenzione maniacale per il linguaggio, rispettata appieno nella traduzione italiana, Monge riporta in Messico quegli echi di avanguardia che si erano assaporati negli scritti di Juan Rulfo. Morire di memoria è una sorta di Finnegans wake contemporaneo che, senza ricalcare l’estremismo di Joyce, riflette una rara pluralità di voci e aspettative. L’io si confonde con il noi, passato e presente coesistono in un flusso di coscienza dal ritmo incalzante, che a tratti sfiora la poesia.


(Emiliano Monge, Morire di memoria, trad. it. di Chiara Muzzi, La Nuova Frontiera, 2011, pp. 182, euro 16)

“Taddrarite” di Luana Rondinelli

Teatro Argot mi hanno detto, Trastevere. Chi l’avrebbe pensato di entrare nella corte di un palazzo, a due passi da San Cosimato, gli occhi a San Francesco a Ripa, la testa in attesa di capire cosa si sta andando a vedere.
C’è odore di zagare questa sera al teatro. Uno spazio piccolo, chiuso. I piedi non entrano perché le panche sono troppo strette tra loro, ci si appoggia gli uni con gli altri per cercare anche minimamente di allargarsi. Siamo abituati alla comodità, oggi. Abbiamo perso il gusto dei palchi artigianali o forse abbiamo perso il gusto del teatro, quello vero. Dell’odore di sudore, della voce che ti entra nelle orecchie, dell’alito di chi ti sta accanto, troppo stretto. Ma è teatro questa sera, teatro vero, a tutti gli effetti. Scena sobria ma aurea, perfetta. C’è il buio e una bara al centro, sembra vera, con tanto di croce dorata, bella in vista.

Poi si accendono le luci. Meglio: diminuisce il buio e spuntano tre donne. Tre ragazze, anzi. Tre ragazze che si fanno donne per raccontare e raccontarci. Cosa? La loro storia. Che poi mica è loro: fa lo stesso.
Si capisce dalla voce che sì, è a Trastevere il locale, ma non il cuore. Guardiamo in basso: Napoli, Calabria. Eccola, si vede, oltre lo stretto: la Sicilia. Il cuore è lì e anche la mente. La loro adesso, la nostra dopo. L’atmosfera funziona, e non solo quella.
Tre donne siciliane, quindi, e un funerale. Solo questo? No, una notte inquieta. Una notte di segreti e cose dette, non dette, rimangiate, infine urlate. Una notte di storie che poi è una e vergognosa. Una storia che racconta di violenze, di paure, di lacrime. E di silenzi, purtroppo.
S’invoca un rosario che non arriva, non completerà mai il suo giro. Ad arrivare sono le confessioni (loro) e i sorrisi amari (nostri): un’esplosione di emozioni a cui assistiamo intontiti. E non è la sedia scomoda.
Scopriamo che le donne sono sorelle e insieme stanno a “piangere” il defunto marito della terza, la più piccola. Ma di lacrime non escono (se non in pubblico, ma quella è maschera e tutto il resto), esce tutt’altro.

Bravissima la “vedova” Maria alias Claudia Gusmano che interpreta alla perfezione il ruolo affidatogli da Luana Rondinelli (sorella in scena che capisce il contrasto tra chi si è/chi si vuole-deve far vedere, regista fuori, impeccabile nella trasposizione). E brava anche Adriana Parrinello nella ricerca di una razionalità difficile da trovare.
Vite asfissiate dal silenzio (e dalle botte soprattutto) che si ritrovano alla fine, abbattuto il male o parte di esso, in una foto di famiglia (antica) e in un pensiero alle figlie che diverranno grandi.
La storia sì, fa brutti scherzi ma stavolta no, non è possibile. Le figlie non devono provare quello che hanno provato le madri: in nome di un amore che fa desiderare di morire per sfinimento.


Taddrarite
regia di Luana Rondinelli
con Claudia Gusmano, Adriana Parrinello e Luana Rondinelli

Andato in scena lunedì 19 marzo 2012, presso il Teatro Argot di Roma.

Per ulteriori informazioni:
http://taddrarite.altervista.org/

I had a dream

L’altra notte non ho dormito. Eppure ho sognato, così come non mi accadeva da tanto. Forse non serve che il corpo si spenga, basta solo che sfumi il volume, che deponga gli spasmi sotto le unghie. E poi il resto si amplifica.

Ho sognato che andavo a teatro. O meglio, sono a teatro, perché il tempo non c’è, eccetto un eterno stravaccato presente. Il teatro sembra un salotto rovesciato di fretta dentro un cantiere, un laboratorio pieno di ampolle. E ogni ampolla cova una battuta, come un parto involontario. Ogni ampolla è una battuta, una scheggia, uno scatto vertebrale, una cellula anarchica senza tessuti.

A noi spettatori non rimane che mescolarle, travasare una frase nell’altra: Shakespeare dentro Sofocle, Brecht in mezzo a Scarpetta, Goldoni in braccio a Genet, Alfieri in groppa a Beckett. Fino a scomporle ancora di più, a frantumare quei vetri in mille fonemi, a scordarsi nomi, titoli e trame, perché, come suggerisce un latrato di fondo, il teatro se ne frega di sé. E noi dobbiamo fare lo stesso.

Era una voce (m-)isterica, di cielo e di pancia, non si sapeva da dove provenisse. Credevamo fosse il regista, credevamo ci stesse sfidando perché comunque non avevamo neanche pagato il biglietto, eravamo soltanto occhi e orecchie infiltrati. D’un tratto ci appare Lisistrata, mascherata da Pinocchio, a sua volta addobbato da omelette, con una parrucca di riccioli vecchi e un teschio in mano. Ci dice che il regista non c’è, che non può esistere, che non esistiamo neanche noi, che lo asseriamo solo per sentirci vivi, per sentirci più sicuri, al caldo fritto delle nostre affermazioni.

E allora noi chiediamo che razza di spettacolo sia. E quello stesso timbro, che nel frattempo si è sparpagliato ovunque, come un prisma gutturale, ci risponde senza risposta, ci mima dal basso più oscuro che è il solo spettacolo possibile, quello senza razza, senza costo, senza pubblico.
Cerchiamo le sedie, perché siamo storditi, abbiamo bisogno di posizionarci per capire chi siamo, convinti che se conquistiamo uno spazio otterremo anche un ruolo. E sapremo come definirci e anche come considerarci. Sapremo qual è il nostro significato. Ma i significati sono sassi che piovono sul significante, racconta una canzone che stiamo ascoltando.

E poi le poltrone sono di carta, non possiamo appoggiarci, altrimenti si sfalderanno. Così, alcuni decidono di restare in piedi, altri fingono invece di sedersi, acconciano schiena e ginocchia come se stessero comodi. E si straziano in silenzio, contenti di aver salvato la faccia. Perché le altre parti sono già condannate. Non ricordo molto altro. Solo che girovagavo sul palco, dato che nessuno mi avrebbe cacciato, o perché forse l’avrebbero fatto qualunque postazione avessi scelto. Perché il teatro scotta, t’ingoia e ti vomita come il boccone più amaro. Il teatro è indigesto, è cattivo e furente mentre ti abbraccia, è un ciocco di legno che si lamenta. Gioca a farti sentire importante, quando invece sei meno di niente, un grumo di polvere intorno a un respiro.

Prima di svegliarmi, dieci anni fa, senza essermi mai addormentata, uno dell’audience accovacciato sul nulla, su quell’origami travestito da platea, bisbiglia che sa come si chiama quel pezzo, che ha origliato le tende mentre parlavano e che pare s’intitoli: Tutti figli di Carmelo. Allora, quella voce invisibile che non ci ha mai abbandonato, che ci ignora da sempre e ci conosce fin troppo, ulula dal ventre: «Carmelo chi? Bene Bene, andate pure. Oppure restate, tanto chi se ne accorge?»

“Varen’ka Olesova” di Maksim Gor’kij


Vi siete mai innamorati? O meglio, vi è mai capitato di perdere letteralmente la testa per una ragazza? Tanto da ritrovarvi a pensare a lei in ogni momento della giornata, dall’alba al tramonto? Ebbene questo è esattamente ciò che accade al protagonista di Varen’ka Olesova, romanzo del russo Maksim Gor’kij: Ippolit Polkanov, convocato dalla sorella alla morte del cognato per questioni burocratiche, s’imbatte in un’adorabile creatura indomita che comincia a ossessionarlo con la sua straordinaria presenza. Costei è, appunto, Varen’ka Olesova.


Fin dalla prima apparizione la giovane si manifesta in tutto il suo splendore: Polkanov la ribattezza in cuor suo «splendida femmina». Varen’ka ha in sé ogni attrattiva, la sua persona emana uno charme che seduce i sensi: si pensi al profumo di violette che lei stessa rivela di cogliere ogni mattina per strofinarsi le braccia, alle sue «labbra carnose», ai suoi «due grandi occhi scuri ridenti» e persino all’abito «da scioccherella» che evidenzia le sue forme.


Varen’ka incarna un’allegria contagiosa e l’amore per i piaceri sensibili: il tepore del sole sulla pelle, la freschezza cristallina dell’acqua di sorgente. Tutte queste esperienze quotidiane trasmettono in chi la incontra un amore per i piccoli gesti quotidiani, la capacità di incantarsi davanti alla bellezza disarmante della natura.


Ma il lettore è messo in guardia fin da subito circa le stranezze di una ragazza “originale”, tanto che Polkanov può rassicurarsi tra sé con queste parole: «Le sue stramberie mi rendono del tutto immune dalla possibilità che m’invaghisca di lei». Infatti da un punto di vista intellettuale appare un po’ selvatica e le sue idee alquanto strambe sono contrarie al buon senso: per esempio non nasconde che sia giusto ricorrere alle maniere forti se un mužik non obbedisce, oppure si vanta delle proprie letture di romanzi d’avventura scritti per épater les bourgeois con improbabili colpi di scena.


Il testo è costellato di rimandi al matrimonio, il «niveo candore della veste» suggerisce la purezza del tradizionale abito da sposa. Gli altri personaggi sembrano suggerire al protagonista che è tempo di prender moglie e mettere la testa a posto. Varen’ka è rappresentata come una probabile sposa di Polkanov e in ogni sua apparizione la metafora matrimoniale si impone fino a irretire il povero Ippolit: «Dinanzi a lui stava una ragazza di media statura… con qualcosa di bianco ed etereo gettato sulla testa, simile a un velo da sposa». L’intensità di ogni apparizione è talmente forte che l’uomo stesso descriverà il loro primo incontro come un «assalto all’arma bianca». Nonostante sia la prima a desiderare una sistemazione per lui, tuttavia la sorella Elizaveta lo incalza con questo ammonimento: «Qui ha conquistato tutti… ma dal punto di vista spirituale, è una specie di scherzo della natura».


L’opera è un inno al creato attraverso descrizioni della natura che incantano nella loro semplicità esaltando gli incontri pseudo-romantici di Ippolit e Varen’ka nel bosco e le gite in barca sul fiume: «Alcune intrepide cince sfrecciarono rasente a loro e, appollaiatesi sui rametti d’un arbusto, s’impegnarono in un concitato cinguettio, quasi che scambiassero le loro impressioni su questi due esseri sperduti nella solitudine del bosco».


Il piacere della lettura è esaltato dalla traduzione di Daniele Morante le cui descrizioni si esprimono in uno stile così soave da far dimenticare in itinere la lingua di partenza.


 
(Maksim Gor’kij, Varen’ka Olesova, trad. di Daniele Morante, Voland, 2011, pp. 176, euro 10)

“Magnifica presenza” di Ferzan Ozpetek

Quando ho saputo la trama di Magnifica presenza ho pensato a The Sixth Sense, ai Sei personaggi in cerca di autore e a un ingiustamente dimenticato Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli sceneggiato da Flaiano e Scola, il tutto messo insieme: un ibrido che mi convinceva poco.
Ma Ozpetek è Ozpetek e dunque sicuramente avrebbe dato un senso nuovo a strutture narrative sempre buone da raccontare.

Perché che ci siano case, luoghi e quartieri della capitale abitati da presenze non usualmente nei corpi, è una cosa che tutti i romani sanno e non se ne stupiscono più di tanto. Un mio amico dottissimo e laico professore di storia e filosofia in pensione, fa ora la guida al museo di via Tasso. Tempo fa lo incontro e gli dico: «Come ti trovi a passare tutte le giornate lì con quelle presenze?» E senza un minimo stupore mi risponde: «No, io ci sto poche ore e non mi danno noia, ma ieri parlavo con gli inquilini che abitano sopra il museo e in effetti per loro non è una convivenza facile».
I luoghi dove sono morte persone in modo violento e ingiusto trattengono le loro anime che non sanno andare oltre quel dolore? Consapevolezze antiche oggi raccontate in abbondanza da telefilm post-newage: basta farsi un giro panoramico su Rai4 (diamo a Freccero quello che è di Freccero e senza censure perché la sua rete ci mostra il lato oscuro del nostro immaginario, dei nostri incubi peggiori, il problema semmai non è cosa trasmette, ma come guardare in modo critico ciò che trasmette…).

E dunque Ozpetek mette le mani su questo tema così già saccheggiato, in cui è così facile sprofondare in banali stereotipi pseudo metafisici di buon mercato. Lo fa tra l’altro tornando sui suoi passi, perché già ne La finestra di fronte aveva sovrapposto presente e passato, la Roma di oggi con quella dell’occupazione nazista, della deportazione degli ebrei il 16 ottobre del 1943, episodio storico che il cinema italiano non ha ancora narrato con sufficiente attenzione. E se lì c’era uno struggente Massimo Girotti, qui c’è la magnifica cinica presenza di Anna Proclemer, che ricordando i tempi di guerra pronuncia una battuta detta qualche mese fa da una delle ragazze dell’Olgettina: «La bellezza è un valore che si vende». I piani temporali si intrecciano, l’Italia corrotta ha sempre le stesse motivazioni, le stesse squallide parole. L’Italia “buona” si deve nascondere dai cattivi. Se ne La finestra di fronte a scappare dai nazisti erano gli ebrei, qui a cercare rifugio nello sgabuzzino di una vecchia casa è una compagnia di attori che collabora con la resistenza. E anche in questo film il protagonista è un omosessuale melanconicamente solo, fa il pasticcere, per ripiego però, perché in realtà vorrebbe essere attore, e sarebbe persino bravo se riuscisse a credere in se stesso. E c’è anche il legame con la Turchia, la terra di origine del regista. Ozpetek è in questo ultimo film più ozpetekiano che mai: non solo dice il già detto, ma ridice se stesso, la sua poetica. Ma allora cosa c’è di nuovo da vedere in questo film? C’è il riconoscersi in un sentire, portare alla luce emozioni che teniamo nascoste, c’è un parlare delle presenze dei trapassati con ironia e con dolcezza. E così quando il bravissimo Elio Germano che interpreta il ruolo del protagonista Pietro Ponte (pontifex in quanto comunica con i morti), si siede a tavola a giocare con le figurine della storia d’Italia insieme alla compagnia degli attori fantasmi, a noi ci sembra del tutto normale. Come sempre, la sera quando pensiamo ai nostri morti e ci pare di averli lì. Nessun oltre metafisico attende gli attori morti quando scoprono di essere morti, ma un breve viaggio sul tram 8, per tornare al teatro Argentina, luogo quanto mai misterico di Roma, perché si dice che lì sotto ci siano i resti della Curia dove fu ucciso Giulio Cesare. Il teatro come luogo della scena madre da cui tutto parte e tutto torna: la finzione è più vera della realtà? È una domanda che spesso sentiamo nel film, Ozpetek la lascia in sospeso e implicitamente rimanda ad altri, Pirandello in primis, che hanno affrontato la questione meglio di lui. È un film che gioca con le evocazioni, allude a più livelli di lettura. Di nuovo c’è che Ozpetek ha cambiato quartiere romano: dopo aver perlustrato ogni angolo di Ostiense nei precedenti film, ora è salito a Monteverde tra i villini liberty e le vecchie case popolari con giardinetto, dove abitò a lungo Pasolini. E in un gioco di rimandi e associazioni in cui paradossalmente ogni cosa ha una sua precisa assurda coerenza, Ozpetek ci mostra un inedito e plausibilissimo Monteverde almodovariano, con bariste vestite come Carmen Maura sull’orlo di una crisi di nervi, e notturni antri magici gestiti da trans. Ma quello è anche il luogo dove a Porta San Pancrazio combatterono i garibaldini per la conquista di Roma, per l’Italia unita. Poco più in là c’e il Gianicolo con i busti degli eroi del Risorgimento. Non è allora nemmeno un caso che sia propria una figurina di Garibaldi il regalo che le magnifiche presenze lasciano a Pietro, dopo aver abbandonato la casa.

Tutto fermo

Capitano, questi periodi. In cui sembra che tutto resti fermo. Intendiamoci: continui a muoverti, fai il tuo, non s’eclissa certo l’affanno del daffare ma… è tutto fermo lo stesso. Come quando ci si prepara a una battaglia: la rassegna delle truppe, l’ispezione al vettovagliamento, la cernita delle munizioni, le ultime consegne… E poi? Poi l’attesa: tutto fermo prima del cozzo.

Ci sarà, lo senti nell’aria. «E che cozzo», ti ripeti, «dovrà pur accadere qualcosa!» E aspetti. Sarà la Primavera, foriera di mollezze; sarà che questi giorni sforbicianti (tagli, tagli, sempre tagli e solo tagli…), questi giorni parecchio Emo hanno il sapore del vacuo che più vacuo no non c’è, ma l’aria è tesa, inutile negarlo, si sente. S’annusa. L’aria è ferma e tesa.

Torna, forse, e prepotente, un desiderio morale (cit.). A che scopo? Ci chiediamo. Verso dove? Interroghiamo. Cui prodest? (è latino: ripassiamo!) Quindici anni di torpore sono duri da scrollare. E il cambiamento ventilato non arriva. S’erode il noto, questo sì. Poco alla volta step by step in inglese e piano piano l’Italia come era non c’è più. Di nuovo, però, nulla. Di nuovo nulla, è il mio timore. Ma è del nuovo che ti nutri. È il nuovo che t’esalta e ti motiva. Eppure è tutto fermo. Dentro e fuori. Tu e gli altri. La famiglia il fidanzato la collega e il baretto. Tutto fermo. sessanta milioni di persone in stand-by.

Presente quando ti saturi delle tue stesse abitudini? Quando i pensieri sono usurati al pari del conforto che non ti danno più? Ecco, di colpo ha smesso di girare la macchinina dell’auto-menzogna: il tracciato che le hai imposto l’ha calcato troppo, ormai. È sprofondata, ha trovato l’acqua e con essa… il fango. Immaginati se può ancora girare: al massimo se si muove schizza e sporca. È un po’ come una pista per le biglie disegnata un tantinello troppo a ridosso della battigia: un lieve affiorar di mare col mutar dell’ora… e non si gioca più.

Ecco, a me pare di non essere il solo, in attesa di una smossa. Ma signori attenzione: o qui si cambia gioco, tracciato macchinina e biglie, o verrà a noia a tutti, stare al mare. Ad aspettare che? L’onda di tsunami? La noia non è bene. La noia è foriera di pessime azioni.

Cozzo sì, ma non a cazzo.

“Knockout – Resa dei Conti” di Steven Soderbergh

Non so perché ma avevo confuso Soderbergh con Iñárritu, quindi memore di 21 Grammi che mi aveva fatto gelare il sangue nelle vene quanto il ritrovare l’uva passa nelle braciole di maiale, mi sono seduto in sala attendendo l’inizio della sindrome da saturazione genitale.

Interno di un bar statunitense in penombra, uno di quelli dove ti servono hamburger e patate con annesso tazzone di caffè nero fumante, poggiando tutto sui tavolini accanto alle finestre.
Una donna sorridente è seduta a uno di essi, una macchina parcheggia di fronte al locale, lei guarda fuori e se ne accorge esclamando una variante di un «Oh merda» abbastanza sentito. In cinque minuti si consumeranno due incredibili e inaspettate violenze che faranno da incipit al film. 
Entra un tizio, va a sedersi di fronte a lei e comincia a parlare; si dicono cose che non si capiscono tanto, mediante il classico canovaccio del «Ora tu vieni con me!», «Nonnò, gne gne gne…», «Invece sì, vieni con me!», «Invece no, gne gne gne…», finché lui non le molla un cazzottone in pieno viso, così, a sorpresa, come quei pagliacci a molla che vedi scattare solo nei film dell’orrore prima che lo sfigato di turno vada all’altro mondo. Da qui in poi parte una stupenda sequenza di mazzate alla cieca dove ho pensato che lei avesse una controfigura e invece no: fuori dal set è una campionessa di arti marziali che sa fare anche la ruota.
La seconda incredibile e inaspettata violenza è il doppiaggio dell’uomo di poc’anzi che siede al tavolo: mentre lui cominciava a parlare io cominciavo a rimpiangere il suono dei millemila “PLOP!” targati Richard Ginori che volente o nolente ho ascoltato nel corso degli anni.

Gli ingredienti di questa appetitosa ricetta, fluida e appassionante comprendono anche un’infornata di star del calibro di un presidente di qualcosa Michael Douglas, un caliente baffetto Antonio Banderas, un pokerface Ewan McGregor e un certo Michael Fassbender, reduce dal (ses)sofferto Shame, nessuno dei quali protagonista e tutti che si muovono all’unisono per far ballare il migliore dei parkour alla funambolica Gina Carano.
Di q.b. ci sono alcune rilevanti battute messe in bocca a lei da uno sceneggiatore che non è proprio il primo venuto ma ha sguazzato in passato tra Dark City e All’Inseguimento della Pietra Verde. Mentre scappa a bordo di una macchina nuova con un simpatico ostaggio al fianco esclama: «Ops, altri a effe o!», «Cosa sono gli a effe o?», «Agenti delle forze dell’ordine!» Ora questa battuta potrebbe sembrare a prima vista innocua ma a ben guardare ho avuto l’impressione che sia stata piazzata lì per rendere la protagonista molto figa, molto sicura di sé, molto “uomochenondevechiederemai”, ma appositamente ridicola, che mi fa tanto pensare al cowboy che entra nel saloon e subentra il gelo e tutti lo guardano e non vola una mosca, poi lui si avvicina al bancone, chiede “un latte” e perde 100 punti di dignità in una botta sola.

La guarnizione sulla portata di celluloide viene fornita da una colonna sonora puntuale e omogenea al contesto e una sensazione che non ti vengano mai offerti tutti i dettagli per capire quello che sta succedendo, così cominci a chiedere a chi vede il film con te, nel buio della sala: «Ma questo è quello di cui parlava quello?», «Ma non si trovava in un altro posto un minuto fa?», «Ma quanti cazzo di flashback ci stanno in questo film?», e così via, cosicché passo dopo passo la trama si dipana come un tappeto di rugiada in un deserto di rose del deserto.

Decisamente Knockout – Resa dei Conti è un film da 8 pieno, con 4 pallini su 5 al ritmo, 2 all’impegno morale, e 5 su 5 alla catalizzazione dell’attenzione nonostante sia pieno di combattimenti e ci sia giusto giusto un quarto di scena di sesso.

“La ballata dei precari” di Silvia Lombardo

Trent’anni. Lavoro precario con rinnovo periodico (quando ti va bene) e un contratto con scadenza talmente ravvicinata che neanche fosse un litro di latte della centrale. Stipendio (cosa è?) che se ne conoscesse l’ammontare il clochard che dorme sotto il ponte vicino a casa, gli fareste così pena che vi farebbe lui l’elemosina. Futuro (futuro?!) nebuloso. La pensione? È più certo che Berlusconi si faccia prete che i giovani di oggi possano percepirla.
È il ritratto di quella sfigata di Fed… no, è quel “bamboccione” di Giorgio che vive ancora con i suoi… anzi no, è quella zitella di Vero… no! Non ci posso credere!

La ballata dei precari di Silvia Lombardo (in origine un blog e poi un film indipendente) parla di me. Guida di sopravvivenza per trentenni recita il sottotitolo, più che altro «una mappa dei pericoli da evitare», uno spaccato crudelmente divertente e caustico, amaro e beffardo di una generazione, quella dei cosiddetti “precari” nati fra gli anni Settanta e Ottanta. È un’impietosa fotografia della società italiana attuale che pensa a come perpetuare i privilegi della casta piuttosto che al benessere dei cittadini del domani.

La ballata dei precari non vuole essere «un piangersi addosso o un’apologia». È la pura e dura realtà. Se i nostri nonni canticchiavano con Gilberto Mazzi nel 1939 «se potessi avere mille lire al mese», oggi il traguardo dei mille euro al mese può essere tagliato solo da una ristretta elite di privilegiati. Anni di studi, corsi, specializzazioni e master, fatti in attesa della tanto sospirata prima occupazione dopo la laurea, possono portare, al massimo, a essere presi come stagisti, gratis senza neppure il rimborso spese (tanto ti teletrasporti e la benzina non la paghi…), in qualche azienda a fare fotocopie e portare il caffè. Finito il proprio “apprendistato” si lascia il testimone a un altro poveraccio “masterizzato” e pluridecorato, anche lui con la speranza di, dopo questo periodo di pratica (?!), venire assunto.

Vogliamo parlare degli unici lavori, peraltro inutili, che oggi ci sono? Indovinate quale è il mio lavoro? Da circa un mese ho scavallato i trent’anni, sono laureata e ho fatto due master… e lavoro come addetta operatrice call center inbound.
Se poi si vuole andare via di casa perché non si sopportano più i genitori, meglio trovare un posticino tra un rumeno e un afgano alla stazione Termini con tanto di cartone come coperta di Linus, visti i prezzi proibitivi degli affitti in una città come Roma. 
In queste condizioni come si fa ad avere il coraggio di mettere al mondo una creatura e costruirsi una famiglia? Tutte le certezze cadono. Il sogno di una vita normale? Utopia.

Ciò che rimane in bocca alla fine della lettura del libro della Lombardo è un gusto agro che fa “stremolire” come la goccia di limone che la mamma ti dava per far passare il singhiozzo da bambini. E ti fa domandare: allora, chi ce lo avrebbe mai detto?


(Silvia Lombardo, La ballata dei precari, Miraggi Edizioni, 2011, pp. 128, euro 12)