In memoria di Carmelo Bene

Da quali Golia fui concepito
così grande,
e così inutile?

(Vladimir Majakovskij – All’amato se stesso)

 

Genio e follia: questo spesso si dice di grandi artisti che hanno lasciato un’impronta non solo con la loro arte ma anche con la loro personalità complessa e dirompente, talmente solida da diventare arte essa stessa. Il binomio ben descrive Carmelo Bene che ricordiamo a dieci anni dalla sua scomparsa.

Genio. Carmelo Bene lo è stato a tutto tondo: teatrante futurista, nel senso destrutturante del termine, cineasta fuori dagli schemi, innovatore di linguaggi e tecniche, artificiere di testi classici, sabotatore del sistema teatro, sovversivo tout court senza cadere nel manierismo rivoluzionario.

Folle. Carmelo Bene lo è stato come i trickster, gli spiriti guastatori del costituito, o i fool shakespeariani che dipingono, con corpo e voce, un vero più vero del vero.

Eccentrico, al limite e al termine di ogni centro, Carmelo Bene lo è stato per la radicalità con cui ha costruito la sua persona dentro e fuori dal palco, tanto da sovrapporle in una coincidenza perfetta senza mai egoriferirsi: il rifiuto categorico delle istanze borghesi, il suo ateismo, la sua formazione teatrale antiaccademica, lo sprezzo per le convenzioni e per le “autorità” costituite in ogni loro declinazione.
Non stupisce, quindi, che il suo teatro sia rimasto unico, incollato al suo corpo e alla sua straordinaria voce diventata strumento sublime e amplificato, inesauribile campo di ricerca, palcoscenico del suo pensiero. Osceno e pornografico, disturbante, iperbolico, a volte misogino, estremo nella sua opera ha perseguito l’annullamento di ogni convenzione e aspettativa tipica dell’arte: non un genere ma un de-genere, non un pensare ma un de-pensare, non un registro – comico e tragico – ma una commistione di registri opposti che si annullano come l’antimateria annulla la materia, l’arte che tende al vuoto, al deflagrare di essere e non essere di majakovskiana memoria.

Scandaloso. Carmelo Bene lo è stato nel trovare cortocircuiti e inciampi negli intoccabili classici: l’Amleto che, nelle sue varie versioni, diventa di “meno”, una suite, una homelette e si riduce a una allitterazione; il Faust, l’Otello che si mischiano a De Sade; il sorriso di Pinocchio che diventa ghigno atavico. Frantumi e schegge di personaggi che vengono ri-montati e svuotati per diventare fantocci che nulla sarebbero senza l’attore artefice, demiurgo che dentro soffia vita e non-vita.

Il pubblico, al contrario della critica, lo ha sempre amato e seguito, con numeri da teatro nazionalpopolare anche se, spesso, bersaglio delle sue feroci invettive. E al pubblico oggi manca Carmelo Bene, la sua follia, il suo genio, la sua eccentricità, il suo scandalo in questo panorama teatrale appiattito e, in molti casi, sterile.

Al pubblico non rimane che attendere un altro parto di Golia.
 

 

“Doppio ritratto” di Massimo Cacciari

Non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparenza di leggerezza con cui viene incontro, sui pletorici banchi delle librerie, questo libretto di Massimo Cacciari, Doppio ritratto, San Francesco in Dante e in Giotto: la densità dello sguardo critico, la complessità dei rimandi culturali, e più strettamente filosofici, sono per lo meno proporzionali al rispetto che mostra di avere per le languenti risorse cartacee del pianeta. C’è, naturalmente, la puntigliosa dissezione (o, come forse lui preferirebbe dire, dis-sezione…?) del lessico, di quello filosofico e religioso in particolare, a cui Cacciari ha da tempo abituato i suoi lettori; ma, superato questo, forse un tantino fastidioso, vezzo di accanimento filologico sul linguaggio, ci si imbatte in realtà in una interpretazione molto persuasiva e avvincente, non solo della poesia di Dante e della pittura di Giotto, ma soprattutto, direi, della figura di Francesco d’Assisi, del significato, intanto, storico e umano. della sua rivoluzione ideologica, ma poi ancora meglio, di quello di concetti come la figura Christi, o il valore particolarissimo della paupertas non più e non solo come l’avrebbe vista un cinico, un cirenaico nell’Antichità – spoliazione del superfluo, volontaria e quasi “abbaiante” rinuncia ad ogni “di più” – ma come veicolo d’identificazione alla nudità di Cristo, e, perfino, come necessario complemento della laetitia, quella francescana, e quasi re-infantilizzata, gioia di frui Deo, di godere di Dio attraverso l’opera delle Sue mani, nel creato.

Proprio questa francescana capacità e quasi necessità di letizia sarebbe, secondo Cacciari, la cosa che meno Dante condivide, nella sua “biografia” del santo così aristocraticamente espunta di ogni indulgenza al miracoloso – che non sia, ovviamente, il tremendo “dialogo” con Dio nella propria carne, col suggello delle stimmate – e al “fioretto”. Per Dante, ciò che contava, nell’esperienza di Francesco, sarebbe la “durezza” con cui si pone di fronte all’autorità papale (e che, non a caso, Giotto invece ammorbidisce in un’ossequiosa genuflessione, nel rappresentare la stessa scena), a sua volta quasi svillaneggiata dall’essere stata mero strumento («…redimita / fu per Onorio…») dell’intervento dello «Spiro» nelle vicende umane.

Di Giotto invece, con coltissimo taglio storiografico – e quasi letteraria tristezza, di fronte all’inverarsi del “tradimento” del messaggio di Francesco ad opera degli alla lunga trionfanti Conventuali: tradimento che così tanto (altra felicissima intuizione di Cacciari!) lo accosta al suo Modello – viene individuata la lettura di Francesco come santo delle soddisfatte gerarchie e classi sociali vincenti, al volgere del ’300.

Non la prevedibile coincidenza, dunque, vede Cacciari fra i due «fabbri del parlar nostro», nell’accostarsi alla stessa figura, quanto piuttosto una dolorosa divaricazione, una proiezione, sul destino del «fi’ di Pietro Bernardone», del proprio, così drammaticamente diverso, «essere-nel-mondo»: checché se ne voglia pensare, il libro è, nella sua meritoria per quanto acuminata brevità, un’esperienza che si raccomanda caldamente, a ogni buon, vero lettore.


(Massimo Cacciari, Doppio ritratto, Adelphi, 2012, pp. 86, euro 7)

“Il sorriso di Godot” di Stefano Giovinazzo

Quando Stefano Giovinazzo mi ha dato il suo libro e mi ha chiesto di presentarglielo la prima cosa che ho letto è il titolo: Il sorriso di Godot. Volevo pensare a Beckett ma il pensiero si spingeva più vicino, agli anni sessanta (settanta?), a Claudio Lolli e a quella sua bellissima canzone.
Ma l’autore di “Ho visto anche degli zingari felici” è lontano anni luce dalla poetica di Stefano. Per stile, tradizione e per tanti, tantissimi, altri motivi.
Cercavo di trovare qualcosa che li accomunasse. Ma niente, non mi veniva in mente nulla.
Ciò che avevo tra le mani – una nuova raccolta di poesia pubblicata da Edilet alla fine del 2011 – era, ancora una volta, un testamento di immagini e parole con la funzione di “libro aperto” sull’animo dell’autore.
Perché sta sorridendo Godot? È per caso giunto a destinazione?
Leggo e cerco di capire. L’approccio lirico si tramuta. È un processo lento, sottile. Pian piano si traccia un disegno visibile, palpabile, definitivo. Un solco sulla superficie vischiosa della quotidianità. Sprazzi di colore si moltiplicano fino a diffondersi nel cuore e negli occhi del lettore, dimostrando di fatto la capacità indiscutibile di dire molto con le parole più semplici.
Nella ricerca poetica dell’autore, che rimanda a una tradizione classica che fa l’occhietto alla natura e topoi tipici della nostra letteratura, c’è un forte desiderio di rimettersi in gioco, sovrapponendo costantemente figure retoriche e intuizioni linguistiche.
C’è qualche ingenuità, certo, e anche qualche verso imperfetto ma il tutto sembra funzionare bene, trasformando la semplicità del “discorso” in una volontaria estroflessione dell’io, capace di riprodurre una sensazione al tempo stesso nostalgica e vitalistica.
Si attende. Fatto normale, vista la dichiarazione d’intenti del titolo.
C’è dolore e persino qualche rimorso ma anche il desiderio, e l’impegno, di guardare oltre, “di rinascere dal principio”.
La spinta mortifera del tempo, della pioggia incessante, dei dirompenti anni ottanta, dei cigolii e dei rumori non portano a un nichilismo vuoto a se stesso ma a un richiamo alla rinascita (ancora una volta continua) e alla libertà.
Giovinazzo “ha deciso di crescere”: l’attesa dell’opera di Beckett, si produce nello spettacolo del “sorriso” che è la “pienezza indecifrabile della vita”.
Ed è qui, nell’humus che chiamiamo vita, che intravediamo Godot come se rinascesse dal nulla, per essere nuovamente nulla. Ed è qui che ripenso a Claudio Lolli e mi torna in mente che il protagonista della canzone continua ad attendere anche dopo la morte. Continua ad attendere. E a sorridere.
Perché solo il sorriso può salvarci.


(Stefano Giovinazzo, Il sorriso di Godot, Edilet, 2011, pp. 104, euro 10)

“L’estate alla fine del secolo” di Fabio Geda

Catturata dai colori caldi della copertina, entro in libreria in una piovosa giornata invernale e prendo in mano L’estate alla fine del secolo (Dalai editore). Fabio Geda, con il suo precedente Nel mare ci sono i coccodrilli, è per me già una garanzia. E infatti non mi delude.

Siamo nell’ultima estate del XX secolo e abbiamo due storie da conoscere: quella di un nonno e quella di suo nipote, che si incrociano dopo esser state a lungo separate.
Il burbero nonno ebreo, nato proprio il giorno in cui in Italia vengono promulgate le leggi razziali, e suo nipote adolescente, con una vita abbastanza difficile a causa, soprattutto, di una brutta malattia del padre, si vedranno costretti a trascorrere insieme un’intera estate. La madre di Zeno, il ragazzino, decide di affidare suo figlio all’anziano padre per assistere il marito in ospedale.

Simone, il nonno, vive da eremita sulle montagne liguri e sta progettando di uccidersi: la sua è sempre stata una non-vita, condizionata inevitabilmente dalle leggi razziali.
Si legge nelle primissime pagine: «Nasco il diciassette novembre del 1938 senza averne diritto. Dovrei rimanere nel ventre di nostra madre e nutrirmi di proteine e zuccheri finché posso, finché riesco. Farmi riassorbire dal corpo che mi ha generato. Ma non mi è concesso».

Zeno Montelusa, invece, ha dodici anni, ama i fumetti e, con la sua sensibilità e la sua spontaneità, piomba nella vita del nonno in modo improvviso e inaspettato portando una ventata di cambiamento: riuscirà persino a far uscire l’anziano dalla sua condizione di vita irreale e non vissuta fino in fondo, allontanando il dolore, per quanto possibile.
Il rapporto che riescono a costruire, fatto di silenzi e di gesti significativi, li segnerà per sempre.

Si intrecciano le due storie sullo sfondo del presente e del passato e, parallelamente, si intrecciano le due voci narranti che raccontano in prima persona, mettendo in luce l’interesse dell’autore per i rapporti generazionali, tema già affrontato nel precedente romanzo e decisamente approfondito in questo. Crescere non è facile, come non è facile vivere la consapevolezza della vita che sta per giungere al termine.
Sono entrambi momenti in cui l’uomo è necessariamente costretto a riflettere, a fare i conti con se stesso, e l’autore riesce a trattare tematiche così delicate toccando le corde dell’anima. Bellissima è la scena in cui Zeno guarda suo nonno, lo guarda fumare la pipa e si perde nella luce dei suoi occhi. Capisce che si assomigliano, il loro sguardo è lo stesso: «…lo sguardo – perdio – quello era mio: ne avrei riconosciuto l’inclinazione e il peso tra mille. Solo la direzione era diversa. Io mi perdevo nel futuro. Lui in ciò che era stato».

Da leggere. Punto.


(Fabio Geda, L’estate alla fine del secolo, Dalai editore, 2011, pp. 288, euro 17,50)

“Il Guggenheim” al Pala Expo di Roma

Fino al 6 maggio è possibile visitare al Palazzo delle Esposizioni di Roma la mostra Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945-1980, un percorso nell’arte americana diviso per periodi e stili che comprende circa sessanta opere provenienti dalla Solomon R. Guggenheim Foundation. In un periodo in cui è fortemente preminente l’arte europea, in particolar modo quella francese, nell’immediato dopoguerra il baricentro si sposta negli Stati Uniti D’America e New York consente a molti artisti europei di potersi esprimere liberamente.

La mostra comincia, quindi, con i surrealismi – siamo nel periodo ’20/’30 – di Yves Tanguy, con “En lieu oblique”, che viene messo a confronto con Matta. Le figure appaiono liquide e il paesaggio rappresentato è irreale, abitato da oggetti/figure inanimate che sembrano affiorare da un atmosferico deserto. Basta, invece, alzare lo sguardo e ritrovare la famosa costellazione di Calder, che rimanda ai cromatismi delle macchie di Mirò, scultura mobile in filo e parti metalliche. Si prosegue, poi, con altre opere che evidenziano un carattere gestuale ripreso dal concetto di scrittura automatica di Breton, dove il segno grafico si esprime senza freni inibitori, un filo diretto tra la mano e il mondo sotterraneo dell’inconscio. Ecco, quindi, le prime opere di Pollock e quelle più conosciute, manifesto della nuova pittura americana, orizzontale, non più incentrata sul cavalletto ma sulla tecnica del “dripping”, del gocciolamento, come concretizzazione pittorica del caso e del gesto incontrollato dell’artista. Nelle opere di Pollock, si avverte il mondo ancestrale dei riti delle popolazione precolombiane, dove il pigmento e il gesto pittorico acquistano il loro carattere significante. La pittura dell’autore ha un carattere diagrammatico, è presente un annullamento della visione in cui l’aspetto tattile prevale sulla vista. Riprendendo un discorso di Gilles Deleuze, nell’arte può accadere, come in quella greca, che la vista prevalga sul tatto oppure che ci sia, come nell’arte egizia, un equilibrio tra tattile e visivo. Nella pittura americana, invece, è il tatto a prevalere e, in più, sono presenti due fattori che determinano un’importante rottura col passato : tutto è regolato dal caso e non c’è una figura da distruggere, a differenza della pittura di Francis Bacon dove è presente sia la figura che il caso.

La Pop Art, invece, è rappresentata dallo stile fumettistico di Roy Lichtenstein, dove il retino tipografico si fa pittura e citazione dell’arte delle avanguardie dei primi anni del Novecento mentre, proprio accanto, campeggia la muta e tragica rappresentazione del “disastro arancione” di Andy Warhol, esponente di primo piano della Pop Art americana, ovvero il cinico e spettrale spettacolo delle serigrafiche sedie elettriche ripetute che non fanno altro che mostrare l’indifferenza e la cinica accettazione del tema della morte da parte del pubblico dei mass media.

La sezione sul minimalismo si basa su un processo di riduzione della realtà antiespressiva e impersonale e sull’enfasi del carattere oggettuale dell’opera. Il Minimalismo tende alla riduzione a forme elementari oltre che al concetto di ripetizione e di modulo. Il termine Minimal Art fu coniato dal filosofo Richard Wollheime ha come sua fonte la produzione dada dei ready made di Duchamp. Molto interessante, inoltre, la sezione foto-realista, che vede come esponente Chuck Close. Nelle opere iperrealiste vi è una riproduzione meccanico/sintetica della fotografia che documenta lo studium degli anni ’70 ma, allo stesso tempo, il suo superamento perché nell’eccedere l’immagine gli artisti ne mostrano l’aspetto fittizio ed effimero. Sembra quasi una gara con la fotografia che trova il suo giusto e geniale compimento in Stanley 1980-81 di Chuck Close, un esperimento “post-puntinista” reso possibile grazie ad un sapiente uso dei colori e a una conoscenza approfondita della teoria della percezione.

Insomma, il Palazzo delle Esposizioni è riuscito, ancora una volta, a offrire al suo pubblico un percorso interessante, ben curato, che introduce, sin dall’inizio, il fruitore, senza troppi preamboli, nel mondo dell’arte del Guggenheim. 

 

Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945-1980
Roma, Palazzo delle Esposizioni, fino al 6 maggio.

Per maggiori informazioni:
http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-014

“Wrecking Ball” di Bruce Springsteen

È profondo il solco che intende lasciare Bruce Springsteen col suo nuovo Wrecking Ball. Una profondità che al primo ascolto appare subito cifra caratterizzante e assieme veicolo delle tante questioni espresse.

Non di un solco invece, ma di una netta inversione di tendenza si può parlare rispetto agli ultimi due lavori, Magic e Working on a Dream. Due contenitori di gradevoli e a tratti ottime canzoni, ma lontane da quell’unità e compattezza che Wrecking Ball invece conferisce senza timore di smentita. Anche i critici più attenti al dettaglio non possono non riconoscere che siamo di fronte a undici brani sapientemente concepiti e realizzati (nella versione deluxe c’è l’aggiunta di “Swallowed up” e “Amercan Land”), con tonalità e arrangiamenti convincenti e più simili per certi versi a The Rising del 2002. Allora come oggi, il disco nasceva da un’urgenza di risposte (e di domande), dopo la terribile sfida lanciata in quell’ormai famigerato 11 settembre 2001; gli americani, impauriti e spaesati, aspettavano di conoscere il punto di vista del loro cantautore più rappresentativo. Vale lo stesso oggi, di fronte a una paura però più sfuggente, non per questo meno intensa. Ora a regnare è una disillusione che Springsteen vuole caricare di energia, di volontà di reagire. C’è spazio eccome per la speranza, non temete. Disillusione e speranza in un ossimoro che si riflette anche nelle note (in un pezzo rock arriva improvviso il folk, o addirittura il rap), ma non ne scalfisce l’equilibrio penetrante dell’intero disco.

Un progetto che deve essere apparso immediatamente buono allo stesso cantautore, se poteva costruirlo attorno a un cavallo da corsa già rodato come “Wrecking Ball”, canzone già da qualche tempo eseguita dal vivo e qui presentata in un crescendo maestoso. È un appello a resistere alla rabbia e a non farsi abbattere dalla paura.

L’altra certezza collaudata è il già classico “Land of Hopeand Dreams”, anch’esso conosciuto e per l’occasione rispolverato in una versione studio che ben si presta a mantenere dritta la rotta verso «una terra di speranza e di sogni».

Per tentare di trovare qualche risposta, ancora una volta Springsteen decide di immergersi dove si respira davvero il dolore, in quella periferia d’America dove a parlare devono essere i protagonisti. Sono loro che raccontando le proprie storie danno unità e senso a tutto il disco. Il singolo “We Take Care of Our Own” immette subito chi scolta in un tale scenario. Il messaggio è diretto e confortante, perché è «occupandoci di noi stessi e dei nostri cari» che possiamo mantenere riferimenti certi nella selva delle tante crisi odierne.

Sul versante strettamente musicale, l’esperienza delle Seeger Sessions non appartiene al passato. Dà ancora frutti notevoli, perché Bruce getta nella mischia spesso quel tocco di folk che valorizza e rende epici momenti come “Easy Money”e ancor più “Shackled and Drawn”, in cui il contrasto fra la collina del banchiere e il “quaggiù”, dove le catene impediscono anche di sognare, si fa stringente e accenna a una questione decisamente attuale. Il momento è di quelli in cui non c’è da scherzare e i margini per una tranquillità simile a un miraggio sono sempre più stretti. È l’ambiente della struggente “Jack of All Trades”: è necessario saper fare tutto per andare avanti, o perlomeno adattarsi, in ogni caso prendere «il lavoro che Dio ci dona», e vedrai «amore che ce la caveremo». Subito dopo ancora il folk a imporsi nella potente “Death to My Hometown”, con l’elemento popolare che sembra affacciarsi dalla finestra nel retro, mentre invece è ben presente e fa sentire la propria voce di protesta.

Wrecking Ball è un disco che non fa mancare sorprese. Da questo punto di vista vengono in parte confermate le anticipazioni che parlavano di un album dal carattere sperimentale. Ne è prova evidente soprattutto “Rocky Ground”, quando la vocalist Michelle Moore a un certo punto approccia addirittura a un rap che non vuole comunque strafare. È forse la spiccata commistione di stili, simbolo positivo di un’America che proprio nella musica trova la realizzazione migliore della varietà di culture, a fornire la novità all’album. I riferimenti sono però precisi anche per gli springsteeniani doc, i quali trovano costante riferimento in uno stile che non viene stravolto, semmai ampliato, rinnovandosi e confermandosi a un tempo. Per suggestioni “più antiche”, “You’ve Got It” rimanda al Bruce anni ’80.

Non andava certo a caccia di conferme o gloria. Non sarebbe comunque nel suo stile. L’impressione però è che Springsteen avesse bisogno di un album così (la recente scomparsa dell’amico Clarence Clemons impone già di per sé una riflessione totale, da qui in avanti). E che ne avessero bisogno i fan o chi cerca nella sua musica un riferimento per i propri, tanti problemi quotidiani. Il carattere popolare del rock di Bruce Springsteen è ciò che permette un tale ancoraggio (anche dopo i milioni di incassi e una vita certo non da periferia) alle backstreets così incisivamente descritte. Il messaggio deve sempre rimanere aperto alla speranza, e a volte la spinta a credere è più semplice di quanto possa sembrare. Mentre ci affanniamo a pensare ai nostri drammi, quasi dimentichiamo che il viaggio non è finito, perché We are alive.


(Bruce Springsteen, Wrecking Ball, Columbia, 2012)

“22/11/’63” di Stephen King

«Ed è per questo che la storia dà i brividi, perché nessuno la può cambiare», cantava De Gregori. Già, la storia nessuno la può cambiare. Ma cosa succederebbe se invece a un insegnante di una piccola provincia americana venisse all’improvviso data questa possibilità? Quali sarebbero le conseguenze sul presente? E il passato può essere veramente cambiato? E se sì a quale costo?

È sempre affascinante quando la storia incontra l’immaginario. E proprio questo accade in 22/11/’63, la nuova fatica di Stephen King. Un corposo romanzo in cui l’autore, a distanza di cinquant’anni, ripercorre alcune delle vicende che a partire dal 1958 hanno condotto all’assassinio di Kennedy, avvenuto il 22 novembre 1963, intrecciando abilmente elementi reali (grazie a una accurata ricerca) con personaggi frutto di fantasia. Tema e metodo non certo nuovi nella letteratura statunitense: basti pensare alla sensazionale trilogia di James Ellroy che partendo da American Tabloid e passando per Sei pezzi da mille conduce sino a Il Sangue è randagio. Ma le analogie fra i due autori si fermano qua. King, infatti, differentemente da Ellroy, non descrive un mondo che ha perduto i confini tra bene male, nel quale i protagonisti sono in gran parte militanti radicali, tossici e corrotti, assassini o politici desiderosi di onnipotenza. No, King stavolta sfugge persino al suo epiteto di “maestro dell’horror” riuscendo a costruire un lunghissimo romanzo (persino troppo, a mio giudizio) in cui, pur essendoci sullo sfondo l’affaire Kennedy, una bellissima storia d’amore diviene per lunghi tratti del libro padrona della scena, relegando quasi in secondo piano il resto della trama. Se questo sia un merito o un difetto lo lascio giudicare ai lettori.

Ma partiamo dall’inizio.
Lisbon Falls (Maine), 2011. Jake Epping è un professore della Lisbon High School, usuale frequentatore della tavola calda di Al, a differenza dei suoi colleghi e di quasi tutti gli studenti. I due non si possono definire amici, il loro è un normale rapporto fra ristoratore e cliente. Tuttavia un giorno, mentre si trova ancora a scuola, Jake riceve una chiamata di Al, il quale gli chiede un incontro non appena possibile, meglio se nel giro di qualche ora. Stupito tanto dall’inusuale richiesta quanto dal tono di voce del ristoratore, il professore si presenta poco dopo alla tavola calda, dove l’uomo gli rivela che la dispensa del locale in realtà è un passaggio temporale che conduce al 1958 aggiungendo: «Puoi cambiare la storia Jake, lo capisci? John Kennedy può salvarsi… Ferma Oswald quel 22 novembre 1963. Salverai anche suo fratello Bob, e Martin Luther King; bloccherai le rivolte razziali. E forse eviterai anche la guerra in Vietnam». Ci avrebbe già provato lui stesso se non fosse ormai vecchio e malato. Ma grazie ai suoi molti viaggi nel passato ha scoperto almeno due importanti elementi che potranno essere utili a Jake se vorrà intraprendere questa folle impresa: per prima cosa non importa quanto una persona rimanga nel passato, al suo ritorno nel presente saranno trascorsi sempre e solo due minuti; ancora più importante è sapere che c’è un rapporto direttamente proporzionale tra rilevanza del cambiamento e resistenza del passato a tale cambiamento.

Sta a Jake adesso decidere se accettare la sfida. Ma se lo farà e se riuscirà veramente a salvare Kennedy quali saranno le conseguenze delle sue azioni sul presente? Cosa sarebbe successo infatti se a Dallas quel giorno del novembre 1963 il giovane presidente non fosse stato ucciso? Senza dimenticare gli effetti sulla sua vita personale.

Una geniale idea, una tenera storia d’amore, un interessante (nonché opinabile) punto di vista riguardo ai fatti accaduti a Dallas il 22 novembre del 1963. L’importante è non aspettarsi lo stesso pathos di altre opere di King.


(Stephen King, 22/11/’63, trad. di Wu Ming I, Sperling & Kupfer, 2011, pp. 767, euro 23,90)

“Raster Noton Anniversary” alla Gaité Lyrique di Parigi

Venerdì 24 e sabato 25 febbraio 2012 sono stati, per gli amanti della musica elettronica (e non solo), due giorni difficilmente dimenticabili.
In quel riuscitissimo mix di classicità e futurismo che è la Gaité Lyrique di Parigi, è stato infatti celebrato l’anniversario di una delle più importanti label della musica contemporanea, la Raster Noton, fondata da Carsten Nicolai (alias Alva Noto) e Olaf Bender (alias Byetone).
La prima serata, decisamente “dance-oriented, ha visto quindi in scena Kangding Ray e successivamente gli stessi Byetone e Alva Noto; nella seconda, è stato invece presentato il progetto Décade, frutto della collaborazione tra Anne James Chaton (testi e voce), Andy Moor dei The Ex (chitarra) e ancora Alva Noto (elettronica).
Dopo un inizio molto promettente, affidato alla vena vivace, atmosferica e non priva persino di una certa tensione emotiva di Kangding Ray, sale sul palco l’attesissimo (almeno da me che assisto per la prima volta a un suo live) Byetone e si capisce da subito che ci sarà seriamente da divertirsi.
Lo show proposto è infatti di quelli adatti a lasciarsi andare scatenandosi in pista, sotto i colpi dosati di una cassa corposa e ovattata al tempo stesso, il cui timbro spesso “cicciotto è uno dei tratti distintivi del musicista tedesco. Le strutture compositive sono estremamente semplici e procedono generalmente per accumulo o sottrazione di sonorità nette ed essenziali dal sapore spesso industriale, cesellate con quella finezza e quello spirito di ricerca ossessiva che è forse, più di ogni altro elemento, ciò che accomuna maggiormente i vari rappresentanti dell’etichetta di Chemnitz; la melodia, quando presente, è solitamente scandita da linee di basso decisamente facili e in certi casi poco avvertibili, relegate quasi sullo sfondo; il senso del ritmo e della progressività è talmente spiccato da fare della sua esibizione, quanto a ballabilità, nettamente l’apice della serata. Il sound è scuro e l’andamento percussivo, fluidissimo, è orchestrato grazie a pochi ma efficaci componenti, per una minimal techno accattivante e nutrita dei più disparati glitchs; di tanto in tanto subentrano poi suoni ruvidi e invadenti che sembrano meramente giustapporsi, in modo fastidiosamente disarmonico, alla traccia originale e che finiscono invece, in certi casi, per costituire l’ossatura dalla quale si dipanerà il pezzo successivo.
Chiude quindi la serata Alva Noto con un live dall’impronta fortemente noise. La resa complessiva, pur mantenendo la solita proverbiale eleganza e il consueto rigore estetizzante nell’equilibrio compositivo, è infatti marcatamente più sporca che in precedenti sue esibizioni e non mancano perfino suoni vagamente rockeggianti, simili a fugaci e iperdistorte schitarrate; molti dei glitches utilizzati ricordano apparecchiature dal funzionamento meccanico quali vecchie macchine da scrivere, fotocamere analogiche coi loro caratteristici scatti o ancora trilli simili a quelli prodotti dall’apertura dello sportello dei registratori di cassa di un tempo; il tutto viene a innestarsi su ritmiche serrate e potenti, scandite dai battiti talora smorzati e talaltra sordi delle percussioni le quali, a loro volta, si stagliano su ronzanti, stridenti e brulicanti tappetoni i cui echi turbolenti rendono caotica e poco limpida l’intera trama sonora. A circa metà dell’esibizione sale poi sul palco Anne James Chaton e il duo così formatosi ci regala un momento di cadenzata ironia grazie al brano “Uni Acronym: su una base elettronica che procede in modo volutamente ripetitivo sino alla fine, il poète sonore originario di Besançon declama una lista, redatta in ordine alfabetico dalla A alla Z, di vari e risaputi acronimi (BIC, BIT, BMG, BMW, BMX ecc…) in corrispondenza dei quali scorrono nel frattempo sullo schermo alle loro spalle i rispettivi simboli.

La seconda serata, di tutt’altro genere, è stata dedicata alla presentazione del già nominato progetto Décade, nato nel 2009 dalla collaborazione tra Anne James Chaton, Alva Noto (conosciuto dal primo nel 2003) e Andy Moor (col quale Anne James Chaton costituì un duo a partire sempre dal 2003). Si tratta di un lavoro dalla vocazione altamente sperimentale in cui l’elettronica raffinata e severamente percussiva di Alva Noto si combina ai riff crudi, distorti e aggressivi della chitarra di Moor, a tratti letteralmente violentata dal musicista olandese che non esita a percuoterne la tastiera, piantarne il manico a terra sfregando più o meno nervosamente la paletta o battendo la stessa contro il suolo, o ancora a produrre vistosi e prolungati feedback, il tutto ad ogni modo alternato a momenti d’improvvisa delicatezza e inaspettata vocazione intimistica. Ai due risponde Anne James Chaton che con tono incorruttibilmente monocorde e una voce variamente effettata recita, dando luogo così ad un’alienante litania dal sapore fortemente ritualistico, versi surreali in differenti lingue (francese, inglese, tedesco, giapponese): vaghi ritratti d’individui tratteggiati a partire dall’assemblaggio di frasi lapidarie collegate tra loro per affinità concettuale e/o fonetica. Il risultato è una sorta di monolitico mantra di poco più di un’ora caratterizzato da un clima torvo e insolito e da un sound ipnotico, incalzante e a tratti ossessivo, per un prodotto finale che pecca forse di fiacchezza in qualche breve passaggio – anche se è difficile capire se tale valutazione dipenda da un’impressione soggettiva o piuttosto dalle peculiarità del pezzo in sè stesso – ma che nel complesso può a mio parere considerarsi estremamente interessante e originale.

 

Raster Noton Anniversary
con Alva Noto, Byetone, Kangding Ray, Anne James Chaton, Andy Moor.

Evento svoltosi il 24 e 25 febbraio presso la Gaité Lyrique di Parigi.

“Mio nonno è morto in guerra” di Simone Cristicchi

Succede che nel 2012 arriva un libro che non ti aspetti. Succede che con una laurea in Lettere, che significa, tra le tante cose, aver letto Malaparte e Vittorini e pagine e pagine di manuali di storia, e con dei nonni nati negli anni ’20 che nei dopopranzi festivi ti raccontavano sprazzi delle loro gioventù (e non stavi tanto a dare peso alle loro parole, quanto alle loro facce, perché non arrivavi a comprendere fino in fondo quegli occhi lontani, persi dietro un ricordo), credi di aver conosciuto il possibile. Succede, invece, che proprio con questo libro che non ti aspetti il confine di ciò che si conosce si sposta in avanti, di qualche voce. Di qualche racconto ancora.

Sono cinquantasette i racconti, per la precisione, che Simone Cristicchi pubblica con Mondadori in Mio nonno è morto in guerra.

L’autore non è nuovo alla narrazione: a partire infatti dalle canzoni, proseguendo con il teatro e arrivando fino ai racconti, Cristicchi rivela così la sua cifra distintiva. Essere un narratore, in versi su un palco, e in prosa tra le pagine di un libro. Tracciando un solo filo conduttore: le emozioni. 

Mio nonno è morto in guerra, raccoglie storie e voci di chi ha attraversato, o meglio, è stato attraversato dalla seconda guerra mondiale. È un libro che a partire dal titolo svela il doppio fondo della storia, privata e pubblica (sempre ammesso che sia ancora possibile distinguerla). 
Il nonno di Cristicchi, infatti, come scopriamo dal primo racconto, non è morto in guerra, anzi è stato uno dei pochi reduci della campagna di Russia, con un principio di congelamento ma salvo.
Il titolo perciò, assume un’accezione più ampia e profonda ben spiegata dall’autore in un brano che anticipa i racconti: «…ché in guerra se non morivi fisicamente moriva qualcosa dentro di te».

Cristicchi ha raccolto le storie, che ci consegna in questo libro, girando l’Italia con la sua tournee teatrale e live. Cercando e ascoltando le storie di uomini e donne che negli anni ’40 erano bambini o ragazzi, prima dei soundcheck o delle prove in teatro. Attingendo alcune storie anche dalla “Banca della Memoria” e scoprendo posti di cui la maggior parte di noi ignora l’esistenza come il Magazzino 18 di Trieste, deposito delle masserizie dei profughi Istriani.

I racconti sono abbastanza brevi, quasi dei primi piani dentro le vite dei testimoni. Delle tranche de vie, singoli episodi tragici e tragicomici. La bellezza di questi racconti consiste nel riuscire a esprimere il massimo drammatico nel minimo drammatico, nel rappresentare il senso dell’orrore come della speranza nella dimensione della concretezza della vita vissuta.
«Gli eroi di cui ci hanno parlato a scuola non sono altro che uomini come noi che si ritrovano in trincea, ma bisogna chiamare eroe anche chi, con il cuore gonfio di angoscia, ha avuto la forza di cercare il dolore di un congelamento ai piedi pur di tornarsene a casa».

I racconti non sono il frutto di una semplice trascrizione di ore e ore di registrazione delle persone intervistate, ma sono stati rielaborati e filtrati dalla sensibilità dell’autore. Autore che però lascia la scena ai testimoni, scomparendo dentro la scelta di una narrazione omodiegetica. Sono tutte storie enunciate in prima persona, fatta eccezione per il racconto “Il rancio del re”. Sono tutte storie narrate con uno stile semplice, senza orpelli né retorica. Lo stile è come se si autodeterminasse a seconda della vicenda focalizzata dal racconto.
Racconti che ancora gridano rabbia per un dolore gratuito e inutile e, per contraltare, bisogno di leggerezza per sopravvivere.
Capita di imbattersi in storie come “Il segreto del lago”, e assistere a una villeggiatura che si trasforma in una carneficina, o come “I cavalli”, in cui la perspicacia salva dall’ottusità; e ancora storie d’amore a lieto fine come “Lettere dal fronte” e “I baci senza sapore”; storie d’amore immortali come quella di “Rodolfo e Giggetta”.

Questi racconti hanno il pregio di non voler giudicare, di non essere faziosi, non sventolare la bandiera di questo o quello schieramento. Cristicchi, col suo modo di raccontare senza reticenze e al tempo stesso delicato, riesce a offrici un punto di vista dal quale è impossibile tirare una riga netta tra buoni e cattivi. Esistono solo uomini e donne giuste, al di là delle etichette di amici o nemici. Come leggiamo nella storia di Augusto, riuscito a fuggire, e diventare anziano, «grazie a un nemico che ha fatto finta di non vedere».


(Simone Cristicchi, Mio nonno è morto in guerra, Mondadori, 2012, pp. 166, euro 16)

“La Fattoria delle Magre Consolazioni” di Stella Gibbons

Essere donna. Lotteria cromosomica e niente di più. Testa anziché croce. Accessori che spuntano al posto di altri. E che in certe latitudini comportano il margine. Un bel recinto caldo dove attendere i consensi, mettere a bollire i propri sogni e vederli evaporare, tanti passi indietro rispetto a ciò che accade.
Essere donna ottant’anni fa. E scrivere. Ma non la lista della spesa o un biglietto adorante del proprio uomo-signore. Rilevare le cose del mondo. E quindi prenderne parte, analizzarle, commentarle, apporre il segno. Eviscerare. Perché il senso, a volte, va estratto ancora vivo, mentre nuota in mezzo al resto. E poi far ridere. Ordinare i pensieri, sagomarli a tal punto che il perimetro finale pizzichi lo stomaco.

Ricapitoliamo: femmina, autrice e anche divertente. Eh no, stavolta è decisamente troppo, un eccesso di pretese condensate addosso allo stesso nome. Quello di Stella Gibbons, poetessa, giornalista e romanziera.
Che ha faticato molto meno a comporre che a farsi leggere. Spettinata da polemiche continue, osteggiata e censurata in Irlanda, per aver liberamente parlato di contraccezione. Ottant’anni fa. Ottenendo in compenso di veder abortito il suo successo. E così, quello che sembra un libro lezioso e delicato, un esercizio di stile donnesco con spirali e volute di vanità espressiva, può rivelare molto di più. Siamo arrivati. Ci troviamo di fronte a La fattoria delle magre consolazioni. Ma non siamo soli. A bussare alla porta, senza un refolo di timidezza, c’è Flora, un’orfana ventenne con in mano il futuro e una piccola rendita.

Abbiamo davanti una “bambocciona”? Solo una figlia della sua storia. Ha imparato parecchio, si è formata alla grazia e soprattutto al superfluo. Sa fare molto, tranne il necessario. Ma crede fortemente che il necessario non serva. Crede che basti appoggiarsi, appollaiarsi sorridente sulla vita degli altri, offrendo in cambio quella spicciola somma. Così, prima approda a casa di un’ amica, che pur essendo mantenuta da un affabile destino pieno di rose, velluto e corse di cavalli, ritiene opportuno che lei inizi a lavorare, che asciughi il suo tempo grondante di ore vuote. E poi si mette in palio. Invia lettere alla scuderia di parenti rimasti. Finché qualcuno dalle vaghe campagne del Sussex, non le risponde e la incuriosisce. Non lasciandole altra scelta, se non provare quei passi. Trasferirsi su quel ramo, quello che trema di più. Quel momento, quel suo ingresso borghese tra i Desoladder innesca un racconto pittoresco e surreale. Ancora una volta il detonatore è un incontro improbabile. L’impatto tra due civiltà. Il cosmo cittadino di Flora e un contesto familiare sgangherato, che cade a pezzi come la stalla dove sbuffano le bestie, come le vacche che perdono una zampa, senza che nessuno se ne accorga. Una vecchia zia ormai deragliata, che impugna il clan intero col suo carisma oscuro e tutto un nugolo di personaggi fumettistici, inverosimili, quasi atemporali. Seth e Reuben, giovani forti e stracciati, che ammazzano alba e tramonto mentre “gallottano”, qualsiasi cosa poi significhi. La cugina Judith, con una trama di capelli aggrovigliati, immersa in vestaglie che hanno scordato colore e missione, tra tende ingolfate di polvere che otturano persino se stesse. Sguattere che partoriscono al fiorire del succhiodendro, mucche svogliate e aiutanti sordo ciechi. Un carnevale sbocciato di esseri eccentrici, dove la protagonista riuscirà a sconvolgere il disordine.

Dove la nostra autrice, allora di soli trent’anni, sa sguazzare con scioltezza, coniando vocaboli e soprannomi, battezzando paesi come «Lamentum» o «Tremarellum», «Campi della flaccida ortica» e bovini chiamati «Rozza» e «Senzascopo». A dimostrare che anche le parole riconoscono gli oggetti, nascendo prima di loro e scegliendoli con cura.
Una vera sottile intelligenza femminile, che per questo sa infilarsi tra le crepe, le espone alla luce e le interpreta senza arrossire. Stella come Flora ci regalano uno scorcio letterario di pura delizia. Un privilegio che è quasi peccato.


(Stella Gibbons, La fattoria delle magre consolazioni,  trad. di Bruna Mora, Astoria Edizioni, 2010, pp. 287, euro 17)

“Un uomo nuovo” e “Native”: a tu per tu con Andrea Galatà

Abbiamo intervistato il giovane attore Andrea Galatà, fresco vincitore, al Catania Film Festival, del premio come “miglior attore protagonista” con il film Un uomo nuovo. Inoltre, da venerdì 4 marzo, è uscito al cinema Native, thriller psicologico in cui Galatà interpreta il ruolo del protagonista maschile.

 

«Nemo profeta in patria» è un detto latino che è stato veritiero fino allo scorso 19 febbraio. Poi sei arrivato tu, miglior attore protagonista al Catania Film Festival con il film Un uomo nuovo, proprio lì, nella città che ti ha dato le origini. Raccontaci qualcosa di quella giornata, che cosa significa per te questo riconoscimento?

È stato davvero molto più emozionante di quanto immaginassi.
Vivo a Roma da tanti anni, ma lasciare la mia terra non è stato facile. Il “richiamo” di cui è capace una terra come la Sicilia può comprenderlo solo chi in Sicilia ha vissuto, anche solo per un breve periodo, chi ne ha sentito gli odori, osservato la natura e spiato le tradizioni.
I film in concorso al Festival di Catania erano di altissimo livello, così gli altri attori in lizza e la giuria, di indiscusso valore artistico. Nessuno aveva lasciato scappare anticipazioni, così quando sono stato chiamato a ritirare il premio ho avuto davvero un sussulto. Poi ho capito che l’emozione più forte è stata riceverlo nella mia città natale.


Nel film Un uomo nuovo, tratto dal romanzo di Adriano Nicosia Cogli la rosa, evita le spine(A&B, 2010), interpreti il ruolo di Rosario Roccese, personaggio contraddittorio che nel finale trova un proprio riscatto. Quanto il protagonista del film rispecchia l’anima del nostro paese? Che cosa condividi e che cosa condanni di Rosario Roccese?

Credo che Rosario non sia contraddittorio, anzi. Rosario è un puro, un estremista. La sua estrema coerenza, virtù in via d’estinzione in questa italietta borghese di banderuole e opportunisti, ci invita a una riflessione sulle possibili conseguenze estreme delle dinamiche politiche e sociali dei nostri tempi. Sono queste a essere contraddittorie. Condividere o condannare lui significa fare altrettanto con tali dinamiche. Una sceneggiatura coraggiosa che mi ha davvero entusiasmato.
La Chiesa con le mani in pasta ovunque, l’alleanza tra politica e imprenditoria, il potere oscuro dei banchieri, sono le principali dinamiche con cui Rosario deve rapportarsi. E deve allo stesso tempo affrontare una volta per tutte il lutto, mai superato, della perdita della sorella. Rosario si trova a un bivio e dovrà scegliere se continuare a cercare ossessivamente di riaggiustare qualcosa che ormai si è rotto irrimediabilmente, oppure fare il salto nel buio e abbandonarsi a un viaggio nuovo verso l’ignoto, che gli consentirà di diventare appunto “un uomo nuovo”.


Venerdì 9 marzo è uscito nelle sale Native, thriller psicologico diretto da John Real, incentrato sulla leggenda siciliana di cui parla anche Luigi Pirandello nella sua Favola del figlio cambiato. Stessa ambientazione di Un uomo nuovo, la Sicilia, diversa la parte che ti trovi a dover recitare. Qual è il ruolo di Andrea, il personaggio che interpreti in questo film?

La mia splendida terra è un luogo ricchissimo di location straordinarie e di leggende affascinanti. È riduttivo pensare alla Sicilia solo come ambientazione di storie di mafia. Abbiamo tante storie da raccontare. Ero bambino quando mia nonna mi raccontava le nostre leggende popolari, tra cui quella delle “donne di notte”, a cui accennano anche il Pitré e Pirandello, e io me la facevo sotto dalla paura!
Il mio personaggio, al contrario, non perde mai il controllo, ha il compito di rappresentare il sostegno, la stabilità. Preparandolo ho cercato, pertanto, di concentrarmi sulla misura. La difficoltà nell’interpretare questo ruolo è stata quella di ricreare un mondo interiore ricco di passioni da tenere però celate. Perché Andrea riesce sempre a non perdere l’equilibrio. È il punto di riferimento che fa da contraltare a una storia tutta al femminile.
Tra il mio personaggio e quello della protagonista c’è una storia d’amore che mi è piaciuta molto, perché ha un elemento di originalità: Andrea e Michela hanno un problema di comunicazione, non si capiscono, ma malgrado ciò, siccome il loro amore è forte, non solo la loro relazione resiste, ma riescono a sostenersi a vicenda e ad affrontare quelle prove terribili che la storia impone loro.
Il loro rapporto ci insegna insomma che chi ci ama è fondamentale per avere la forza di affrontare i nostri “mostri”, ma che alla fine questi mostri possiamo sconfiggerli solo se li affrontiamo da soli. Nessun altro può farlo per noi.


Andrea e Rosario, due diversi volti dello stesso attore: quanto è importante, secondo te, per chi recita sapersi reinventare in ruoli diversi tra loro? Hai qualche modello di attore a cui ti ispiri?

Denis Diderot, nel suo Paradosso sull’attore, suddivideva nel ’700, gli interpreti teatrali in due categorie: il comédien, personalità forte che adatterà qualsiasi ruolo a tale personalità (pensiamo ad esempio al nostro Alberto Sordi) e il vero e proprio acteur, colui che preferisce abbandonarsi interamente a ruoli sempre diversi (pensiamo a Robert De Niro). Io preferisco quest’ultima modalità e sono più felice quando ho l’occasione di affrontare sfide diverse. Il mio attore preferito è Al Pacino!


Il tuo impegno artistico va di pari passo con l’impegno “politico”: dal 14 giugno scorso sei tra gli occupanti del Teatro Valle, storico simbolo culturale romano e nazionale. Che cosa puoi dirci dalla tua prospettiva di occupante? Che sviluppi pensi possa avere questo autogoverno del teatro?

L’occupazione del teatro Valle è in continua evoluzione. Questo significa che è reale e viva. Siamo in piena fase costituente, dal 14 gennaio chiunque può diventare socio fondatore della Fondazione Teatro Valle Bene Comune e, visto che la sinistra non ha trovato niente di meglio che rubarci lo slogan, è indubbio che l’alternativa che stiamo immaginando, sognando, progettando, reinventando è ormai punto di riferimento trainante non solo per il mondo della cultura. Purtroppo o per fortuna al momento non ne vedo altre…

“Tempeste e approdi” di Maria Cristina Mannocchi

Sentir parlare di naufragi, reali o metaforici, di questi tempi è piuttosto frequente.
C’è chi, evidentemente non conoscendo Orazio che raccomandava una navigazione moderata né troppo vicino alla costa né in alto mare aperto, va a sbattere contro una famosa isola dell’arcipelago toscano lì da secoli, carte nautiche testimoni. Oppure c’è chi, per citare Bauman, immerso nella «modernità liquida» delle società contemporanee, è alla ricerca della giusta rotta tra i marosi esistenziali.
Maria Cristina Mannocchi, professoressa di Italiano in un Liceo scientifico di Roma, nel suo colto saggio letterario Tempeste e approdi. La letteratura del naufragio come ricerca di salvezza, edito da Edizioni Esemble, traghetta il lettore in un viaggio attraverso le epoche, la letteratura, la filosofia e l’arte, in cui il mare, elemento naturale vitalistico e temibile carico di significati simbolici, è assoluto protagonista. Chi non ha mai avvertito un senso di sperduto sgomento di fronte all’immensità degli abissi marini?
Si parte dagli antichi racconti dei popoli del Mediterraneo che consideravano la navigazione «“atto proditorio” che andava contro le leggi della natura» e non vedevano di buon occhio i marinai di navi mercantili perché corrotti dalla bramosia del guadagno, sino al novello Ulisse dei nostri tempi con il Truman interpretato da Jim Carey nel film di Peter Weir The Truman show.

La concezione del mare corruttore offrì a Platone la metafora dell’acqua salata come limite della conoscenza umana nel Fedone.
Per spiegare quanto sia complicato approdare al sapere assoluto Socrate usò la metafora, desunta dal linguaggio marinaresco, della “seconda navigazione”, «quella navigazione che uno intraprende quando, rimasto senza venti per uscire dalla bonaccia deve porre mano ai remi».
I lettori verranno sbattuti insieme a Ulisse sulle coste dell’isola dei Feaci, dove la bella Nausicaa verrà mossa a compassione dall’abilità persuasiva dell’eroe omerico, che alla violenza saprà sostituire la forza razionale della retorica. Non potevano mancare le storie tratte dalla Bibbia, e poi dai poemi babilonesi o dalle leggende ebraiche: Giona, Gilgamesch, Glauco.
Il naufrago era nel mondo antico come l’homo sacer, era cioè un maledetto, un emarginato dalla comunità.
E ancora incontriamo il saggio epicureo, «colui che ha raggiunto il distacco dalle passioni non è nella tempesta ma osserva dall’alto della sua serenità gli individui che si affannano inutilmente tra i flutti della vita», i naufraghi de La zattera della Medusa di Gericault, Renzo e Lucia, Leopardi e il suo «dulcendo naufragi», Pinocchio per il quale il mare è luogo di metamorfosi, conoscenza e solidarietà, Primo Levi, sopravvissuto al campo di sterminio che condivide lo stesso senso di colpa e la stessa urgenza di raccontare la sua terribile esperienza del vecchio marinaio di Coleridge, Freud e il suo «sentimento oceanico», Jung, Jaspers, Otto Neurath, Cruso, protagonista del romanzo di Coetzee, Foe, Truman e molti altri.

Tante sono le curiosità e gli aneddoti che la sterminata cultura della Mannocchi riesce a soddisfare senza essere pedante, suscitando riflessioni esistenziali su vita e morte, sull’esistenza o meno di Dio. Ogni caduta presuppone sempre una rinascita. Tempeste e approdi è un invito a scendere in esplorazione negli abissi del sé e nella natura di ciò che ci rende umani e che ci dà la possibilità di averne coscienza. L’inabissamento nel mare di pagine di questo saggio porta ad acquisire una nuova consapevolezza. Se ne esce arricchiti, con più “sale in zucca”, il sale del sapere. Pronti a salpare?
Non sarà sufficiente una “piccoletta barca” come per chi si apprestava a salire i cieli paradisiaci insieme a Dante, ma per chi crede basterà il «“legno” della Croce».


(Maria Cristina Mannocchi, Tempeste e approdi. La letteratura del naufragio come ricerca di salvezza, Edizioni Esemble, 2011, p. 252, euro 16)