“Recital” di Maurizio Pollini

Maurizio Pollini torna alla Sala Santa Cecilia di Roma, questa volta con un piano solo. Un ritorno graditissimo, lungamente applaudito sin dall’inizio, che ha dato la possibilità ad uno dei più prestigiosi pianisti del mondo di confrontarsi con un repertorio più sperimentale e ardito. I nomi dei compositori in programma non devono confondere le idee, Pollini ha scelto Chopin e Liszt per evidenziare il fil rouge che lega i compositori di musica contemporanea con il passato. Comincia con la Fantasia in Fa minore op. 49 per poi concentrarsi sui due notturni, op. 62, più ostici rispetto ai più famosi, pieni di contrasti e dissonanze, dove a dominare è un tema drammatico, duro. Le composizioni scelte da Pollini mettono in primo piano il colore, i cromatismi, il particolare piuttosto che tendere verso una lineare melodia. Infatti, ritroviamo quest’aspetto anche nei primi quattro brani di Liszt, inquietanti e opprimenti, che non lasciano via di fuga. Sono bozzetti impressionistici, squarci, dove il dolore e la morte talvolta riecheggiano di lontano e talvolta si fanno più presenti, pressanti. Sono musiche dell’ultimo periodo di Liszt, a cui viene dedicata tutta la seconda parte del recital, e costituiscono un prologo alla Sonata in Si Minore , il piatto forte della serata. Una composizione importante perché segna il passaggio definitivo di Liszt alla sola composizione, abbandonando definitivamente l’attività concertistica, ma è, al tempo stesso, un omaggio non gradito a Schumann che aveva in precedenza dedicato al compositore ungherese la Fantasia op. 17. Nonostante il repertorio non proprio semplice e immediato, il pubblico del Santa Cecilia ha manifestato il suo apprezzamento con un lungo applauso. Lo Studio trascendentale n°10 di Liszt e lo Studio n°12 op. 10 di Chopin sono i bis proposti da Pollini, il giusto epilogo di una serata unica e speciale.


Recital
di Maurizio Pollini
pianoforte Maurizio Pollini
Andato in scena il 22 febbraio 2012 presso la Sala Santa Cecilia, Roma.
 

“Ti amo ma posso spiegarti” di Guido Catalano

Come si destruttura lasciando che il senso arrivi, e che sia gradevole, e che sia arte, e che sia poesia, e che sia emozione? Lo si fa solo conoscendole bene, la poesia e la lingua; poi, sperimentando in direzione ossidata e contraria: dilatando i confini, creando alla bisogna. Parole, situazioni, segni, sensi, strutture. Il classico nutre, ha nutrito, si sente, ma non lascia nostalgia di sé.

È una raccolta che si fa leggere proprio bene, il centone-liber di guido catalano (minuscolo, come lui stesso in copertina). Un diario di stra-bordo di illuminazioni sentimentali e linguistiche, di vampate di genio dialogico: fortunato, guido, a trovarle di donne che (sublime inversione…) “te l’appogino”, tengano il tuo passo; pare quasi una altera te, la sponda dei tanti fortunatissimi battibecchi del tuo libro…

Nemmeno scoccia il fumettato, la giovanili-sticheggian-te fattura del volume tutta a urlare “non è un libro convenzionale!”: le pagine in negativo, l’occhiello-spioncino, l’autore icona che ricorda un po’ Fidel. Non scoccia perché impatta, questa poesia: muove e commuove. Non scoccia perché assona, questa poesia, e se la leggi a voce alta (io, e ho deciso di recensire) te ne accorgi. Non scoccia perché non è affatto posa oppure è posa sì, ma dopo lungo decantare: le sofferte originalità che fanno capolino (come guido in copertina) lui le ha pagate tutte, te ne accorgi. Livido su livido, cicatrice su cicatrice. E gliele invidi, quasi, per densità di vita e originalità di confezione.

catalano catalizza: c’è l’amore al porno d’oggi, il pudore del patire, la dolente accettazione che non è e non sarà, per chi è nato in peri-’80, mai più “noi due per sempre”. Chi la prende molto male nei privé (addirittura, c’è chi lo…), chi si priva e un taglio a testa e a toro, chi si dedica allo spinning chi diventa un po’ vegano. guido ha preso penna [in mano]: meno male, perché leggerlo ricorda dove siamo, quando siamo, quanti siamo e che lingua che parliamo è che è la nostra e ci si presta, se chiediamo. Ecco, fa cose così; per tutto il libro, però. Ed è più bravo.


(Guido Catalano, Ti amo ma posso spiegarti, Miraggi Edizioni, 2011, pp. 160, euro 12)

“Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”

La polizia brancola nel buio. La nebbia è così fitta che si può tagliare con il coltello. Altissima e dorata la Madonnina, a metà strada tra la terra e il cielo, vigila sul ritmico affannarsi di uomini loschi che si aggirano guardinghi tra la Cerchia dei Navigli e Piazza Castello, a metà strada tra il peccato e la salvezza. Quelle musicate dai Calibro 35 sono storie di malavita e d’inseguimenti, di liti in carcere tra banditi di professione e spavaldi capetti di quartiere, di viaggi psichedelici e scippi codardi, di ex sbirri corrotti e indegnità morali. Colonne sonore di un mondo cinematografico ormai perduto che rivivono in questo Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale (Venus, 2012), terzo capitolo della trilogia revival-poliziottesca della band milanese che riporta in auge stilemi tipici del sound anni ’70. La bontà del prodotto si vede soprattutto nell’efficacia degli arrangiamenti, i quali esaltano la scrittura dei pezzi, suonati con grande maestria in uno strano ibrido di funk, rock progressivo e jazz, che sta dando alla band milanese anche un crescente successo nel mondo, dal quale questa musica deriva e al quale tende ad appartenere naturalmente: il cinema. Si trovano, infatti, brani dei Calibro 35 nelle colonne sonore del nuovo noir banditesco all’italiana, come in Vallanzasca di Michele Placido nella fortunata serie tv Romanzo Criminale.

Limitati al massimo i rifacimenti veri e propri – troviamo qui solamente due cover, una dell’immancabile Morricone (“Passaggi nel tempo”) e l’altra di Piccioni (“New York New York”) – la band milanese, forte del suo nucleo sonoro di base, si lancia in un gioco che è al tempo stesso audace esperimento musical-letterario, sulle orme del Pierre Menard di Borges che, dopo aver riscritto ricopiando fedelmente il Don Chisciotte, parola dopo parola, producendone un’esatta riproduzione, vi scopre significati altri, diversi dall’originale, aggiornati ai tempi. Una copia che acquista senso nel nuovo orizzonte di ricezione per il quale viene prodotta. Così i Calibro 35 ripropongono un linguaggio forte di precise regole sintattiche e grammaticali con grandissima fedeltà, ma lo reinventano de-contestualizzandolo. Non siamo di fronte, infatti, a un semplice gioco al citazionismo estremo, che è pur presente. Il messaggio che si vuole far passare non è quello di una nostalgica rievocazione del poliziottesco all’italiana: l’operazione è più fine ed elaborata.

L’obiettivo ultimo è quello di immaginare mondi nuovi a partire da esperienze passate. I brani presentati diventano così colonne sonore di film mai visti, sottofondi per immagini e scene non ancora girati e che, probabilmente, mai verranno girati. La musica è qui un collante tra un’epoca passata e una stagione che è invece ancora tutta da inventare, in una commistione di generi e arti caratteristica dell’esperienza musicale, letteraria e artistica dell’era post-moderna.

È un mondo sonoro e filmico dove possiamo trovare Quentin Tarantino che gira un b-movie a Bollywood in “New Dheli Deli”, dove spacciatori in turbante smerciano potentissimi allucinogeni sognando la California a cavallo di elefanti indiani nelle fangose strade della capitale del subcontinente, mentre il suo amico Rodriguez, in vacanza a Milano, immagina zombie poliziotti in divisa e occhiali da sole che avanzano in una notturna e orrorifica Tangenziale Est in “Pioggia e Cemento”. Si procede con le suggestioni noir dell’incalzante incedere di “Massacro all’Alba”, che disegna uno scenario perfetto per un immaginifico triellio all’ultimo sangue sulla Grande Muraglia cinese tra Bruce Lee, Beatrix Kiddo e Pantera, il pistolero-stregone messicano nato dalla penna di Valerio Evangelisti, nel finale di un film tutto pugni, sparatorie e inseguimenti, girato in bullet time da uno schizofrenico Sergio Leone con produzione a Hong Kong. E mentre la malavita romana, in trasferta trans-continentale negli States in “La Banda del B.B.Q. (Brooklyn, Bronx, Queens)”, mette a ferro e fuoco i bassi newyorkesi facendo tremare i malviventi locali e mangiando piatti di bucatini all’amatriciana innaffiati col vino dei Castelli, “Uh Ah Brr”, scherzoso intermezzo con coretto, sembra la perfetta colonna sonora della pubblicità di una nuova marca di sigarette al mentolo che, dicono, non fanno poi così male.

Tutto è inquadrato nella cornice composta concettualmente del primo e ultimo brano, che si autocitano componendo nella loro unione il titolo del disco, esplicitando quei riferimenti linguistici e stilistici esterni al lavoro che abbiamo citato in apertura. Un mondo immaginario sui generis che, quindi, ruotando intorno al sound proprio di film quali La polizia incrimina, la legge assolve (1973) e Squadra antiscippo (1976), proietta questi stilemi artistici su produzioni altre, fantastiche e letterarie, delineando un ascolto che si fa maieutico nell’evocare un susseguirsi di immagini nella fantasia dell’ascoltatore. Ed è proprio in questo che risiede la bellezza di questa musica, che oscilla incostante tra estetica vintage e cinema d’exploitation, commistioni di generi e ossessioni pop.


(Calibro 35, Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, Venus, 2012)

“Elisabeth”: a tu per tu con Paolo Sortino

Abbiamo intervistato Paolo Sortino, autore del fortunato Elisabeth che ha ricevuto grande attenzione critica e suscitato una interessante riflessione sulle potenzialità (e i limiti) del romanzo ispirato a fatti di cronaca.


Il tuo libro narra la drammatica vicenda di Elisabeth Fritzl, sequestrata e violentata dal padre-mostro per gran parte della sua vita. Che cosa ti ha spinto ad analizzare un caso tanto orribile? Hai mai provato repulsione per l’oggetto della tua narrazione? Hai mai pensato di dare una svolta diversa alla tua storia?

Il caso Fritzl, in quanto notizia di cronaca, mi ha sconvolto subito per complessità di fatti e risvolti nel tempo. Mi ha costretto a uno sforzo di immaginazione fin dal primo momento perché era particolarmente difficile individuare e figurarmi il gesto criminoso in sé – l’atto, l’azione-chiave: sta nel rapimento? Nel substrato psicologico di sottomissione al quale l’ha sottoposta per anni, fin da bambina, ben prima di rinchiuderla nel bunker? Sta nella costruzione del bunker? Nella privazione della libertà fisica e intellettuale della ragazza? Nelle violenze sessuali ripetute? O piuttosto nell’incesto e nei figli che ne sono nati? Forse nella privazione della libertà di questi ultimi? Nella riduzione in schiavitù o nell’omicidio del piccolo Michael? Oppure nell’estinzione del cadavere nella caldaia di casa? Certamente il crimine di Josef si compone di tutte queste cose, e complice da non sottovalutare è stata la cultura di una certa società che fa non solo da cornice a questa dolorosa vicenda, ma è parte integrante di un motore antropologicamente devastante. Posso dire di averne analizzato alcuni aspetti sotto lo studio appunto dell’antropologia, della psicologia cognitiva, con un approccio filosofico-estetico. Poi ho elaborato il risultato di quell’analisi in volontà di esprimere altro dal fatto di cronaca, limitandomi quindi a utilizzare questo come “schema” al quale agganciare un discorso tutto mio, che fin dalla prima riga si staccasse dalla realtà col fine di doppiarla, neutralizzarla, secondo la mia visione delle cose che pensa la realtà e l’arte come un’equazione a somma zero.
Non ho mai pensato di “rappresentare” la realtà, ma appunto di annichilirla. Togliere lo stesso allo stesso, creare un’immagine dell’uomo e della donna – e del loro ambiente vitale – che fosse una sottrazione alla realtà del mondo. Credo che Josef Fritzl aspirasse a tanto, e sebbene in forma negativa (non intendo moralmente, ma in quanto vero e proprio negativo fotografico del mondo reale) tale desiderio è lo stesso di cui si nutre la letteratura. La capacità di cambiare la realtà creandone altra; aggiungere a essa una quantità numerabile di realtà nuova. Il mondo costruito da Josef è un molto simile al nostro, vale a dire privo di referenza. La domanda che mi sono posto a suo tempo è stata: può sopravvivere l’essere umano in un mondo così? La risposta, credo sincera, è stata affermativa. L’uomo riesce a vivere anche in questo mondo depredato di ogni significato, purché riesca a trasformare il vuoto in un’esperienza transestetica.
Non ho mai pensato di dare una svolta diversa alla storia per il semplice fatto che non ho mai pensato di darne una specifica. Il mio lavoro è teso al sollevamento di un masso per vedere cosa c’è sotto, senza pretendere di capire come sia arrivato fin lì né che fine farà dopo.


La protagonista del tuo romanzo è una donna. Peggio: è una donna che esiste davvero. Peggio ancora: è una donna che ha vissuto la condizione della propria femminilità nel più animalesco e traumatico dei modi. Come hai lavorato all’immedesimazione in una personalità tanto complessa? Ritieni di aver compreso a fondo il caso umano di questa persona o di averne voluto dare una possibile interpretazione (la tua)?

Per quanto detto, il lavoro che ho portato avanti non è espressione di una mia interpretazione di quanto accaduto nella vicenda storica. Certamente non ho vissuto la vita di Elisabeth, ma mi ha dato modo di immaginare la stessa felicità minima di cui avverto il compimento nella mia condotta di vita, qualcosa di infinitesimale che annida nel dolore. Una felicità fatta di poco, pochissimo, quasi niente, in contrasto con la violenza che l’idea di felicità oggi più diffusa porta in seno, perché si pensa che sia qualcosa da conquistare a ogni costo, con la forza piuttosto che con il sacrificio. Occorre pensare invece che la felicità si possa ottenere con ciò che si possiede, non con altro. Josef, nel romanzo, sa benissimo che amare qualcuno vuol dire comprendere i suoi desideri, non lo nega di certo, anzi questa convinzione sta alla base di molti suoi ragionamenti. Ciò che non sa – ma che comprende a sue spese – è che desideri determinati nascono in un mondo determinato, e quindi amare una persona significa amare il mondo in cui vive. A dire la verità lo capisce anche Elisabeth, la quale allora arriva a comprendere ragioni del bunker che la cronaca non concepisce nemmeno.


Elisabeth scoraggia una banalizzazione del male, ma allo stesso tempo la sua fortuna sembra strizzare l’occhio a un certo manicheismo di facile impatto. Qual è la tua posizione a riguardo?

Manicheismo? Direi proprio di no. Una cosa è il dualismo, su cui si regge ogni forma di potere, anche quello di Josef (destra/sinistra, sopra/sotto, dentro/fuori, maschio/femmina) e che Elisabeth combatte e riesce a distruggere, altra cosa sono le dicotomie. Quando si ha a che fare con queste, ogni cosa diventa difficile quanto se stessa.


Qualcuno ha criticato la scelta di analizzare una vicenda così sconvolgente e mostruosa senza il permesso della famiglia che ne è stata colpita. Che cosa ti senti di rispondere a questa obiezione? Hai mai pensato di entrare in contatto diretto con Elisabeth Fritzl o con la sua famiglia?

Credo le critiche alle quali ti riferisci non siano che espressioni di ottuso moralismo.
La pietà che certi critici mi rimproverano di non avere, io la nutro come individuo, vale a dire che sono abbastanza pietoso verso Elisabeth Fritzl da non andare a chiederle nulla. In quanto scrittore, invece, me ne frego altamente della realtà (sempre che non sia pensata in quanto “leggi al lavoro”, siano fisiche o comportamentali, ecc, allora mi incuriosiscono e le riconosco come materia di studio). Come ho detto, la mia volontà è di neutralizzare la realtà, non di rappresentarla. Credo che si esprima benissimo da sola e non abbia bisogno dell’appoggio degli scrittori. Anzi il fatto che la realtà sia in grado di esprimersi (per altro molto male) ne fa il mostro che secondo me ogni scrittore sano di mente intende sconfiggere. E comunque è quello che voglio io, e tanto basta. Ce lo insegna la storia dell’arte: se traccio su un foglio il ritratto di un cagnolino che ho di fronte, altro non faccio che creare un altro cane. Entrambi saranno reali, ma se il secondo somiglia al primo, vuol dire che questo non è nel disegno. Si trova altrove, in una dimensione che anche volendo io non riuscirò a estinguere o a disturbare, se non con la forza che hanno le dimensioni parallele, qualcosa di sempre meno fantascientifico e che rilancia tutto nel mondo delle possibilità, le quali non vanno più pensate come il contrario del più sano determinismo, quanto “variabili nascoste” dello stesso.


Qual è il tuo rapporto con la pratica della scrittura? E che cosa pensi della condizione dell’esordiente?

Si parla tanto di moda degli esordienti, ma tutti gli scrittori lo sono stati per un giorno nella vita. Purtroppo però oggi le farfalle hanno la pretesa di tornare nel bozzolo a ogni cambio di stagione: sarebbe interessante capire cosa sperano di ottenere quegli scrittori che a cinquant’anni promuovono ogni nuovo libro come fosse il primo.
Il mio rapporto con la scrittura è piuttosto banale. Mi metto al computer, scrivo tre pagine e ne cancello quattro.


Quanto ha contato l’editing per il tuo lavoro e che rapporto hai avuto col tuo editor?

Ho imparato tantissimo. Sensibilità e comprensione sono state riservate al mio lavoro in ugual misura dal mio editor, Marco Peano. Marco indica, non dice. Ti fa sentire senza toccare.  


Per concludere, ti va di dirci tre libri verso cui pensi di avere un debito come scrittore?

Dovrei elencarne troppi. Sono gli stessi coi quali mi sento in debito come lettore grato. Gli autori sono i più diversi: da Stephen King a Proust, da Duns Scoto a Duglas Adams.


Grazie Paolo e in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri.

Leggi la recensione di Elisabeth su Flanerí.

“Arcipelago Europa” di Karl Schlögel

Marijampole si trova nel sud della Lituania, vicino a quello che una volta era in confine tra Impero Tedesco e Impero Russo. Qui oggi confluisce la maggior parte delle auto usate dall’Europa occidentale per essere immesse nel mercato di quella orientale. È per città come questa che l’Europa dell’est interessa a Schlögel: non come luogo esotico, ma come parte integrante e dignitosa dell’intero continente.

Per capire che questo luogo è davvero importante per l’autore, dobbiamo dare un’occhiata al colophon e scoprire il titolo originale, Marijampole: oder Europas, che nella traduzione italiana restituisce un altro significato fondamentale di questo volume. Arcipelago Europa, dunque, e se ci pensiamo è proprio questo il modo in cui molto spesso viviamo l’esperienza del nostro continente, viaggiano a basso costo e scegliendo di visitare una città poi l’altra per pochi giorni. È dunque un continente multiforme: quello «della Guerra fredda non esiste più. Dov’erano spazi omogenei – “l’Est”, “l’Ovest” – vi sono oggi frammenti, enclave, isole. Secondo alcuni è solo un’opera incompiuta, ma in realtà sono questi i tasselli della nuova Europa. […] La disgregazione è il momento della disillusione, del chiarimento. È lì che si intravedono le forze da cui potrà nascere il nuovo».

Ma poche righe dopo ecco tornare l’europeizzazione, prendendo spunto dal porto di Rotterdam, una voracissima bocca da cui ogni prodotto penetra velocemente per arrivare nelle nostre case. Ed è come se l’arcipelago si riempisse di villaggi vacanze. Il passo verso l’omologazione commerciale di cui ci beiamo, basti pensare all’Ikea, è breve, e subito si fa omologazione culturale: è forse così innocuo abitare tutti dentro case specularmente arredate?

E allora, che cosa rimane? Il senso di un continente lontano più di vent’anni dal crollo della cortina di ferro, che ha trovato una certa condivisione economica, ovverosia che il problema di una banca di Dublino preoccupa anche un operaio di Reggio Calabria, ma cerca – senza riuscirvi – di aggrapparsi a riferimenti culturali condivisi.


(Karl Schlögel, Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città, trad. di Marco Cupellaro, Bruno Mondadori, 2011, pp. 304, € 24.00)

“iTunas” dei Tunatones

Sono italiani e vengono dal Veneto, ma sono saliti alla ribalta portandoci il sound allegro e spensierato del rock americano del tempo che fu. Sono i Tunatones, band “Surfabilly” (così ribattezzata per la fusione degli stili Surf e Rockabilly) che, dopo la positiva esperienza live dello scorso anno, presenta al pubblico il suo primo lavoro in studio, iTunas.

Il lavoro dei tre ragazzi (le voci di Mike3rd e Alberto Stocco, rispettivamente chitarrista e batterista, e Alessandro Arcuri al contrabbasso) è dedicato alla memoria di Steve Jobs, scomparso pochi mesi fa, e di George Harrison.
Proprio dell’ex Beatle i Tunatones sono sinceri estimatori, e lo hanno dimostrato nell’estate 2011, quando alla Biennale di Venezia (in occasione dell’esposizione del Bangladesh) hanno portato sul palco un tributo intitolato “Homage to George Harrison”. Il brano, presente anche nell’album, è un medley di poco più di 6 minuti di vari successi in versione rockabilly dello stesso Harrison, che nel 1971 suonava nel celebre concerto che sarebbe passato poi alla storia.

Ma iTunas non è solo questo: registrato analogicamente come se fosse un live (anche se a tracce separate), il disco d’esordio del trio veneto è un vero e proprio ritorno agli anni d’oro del rock and roll che non potrà non essere apprezzato soprattutto da qualche ascoltatore un po’ più nostalgico.
Le undici tracce sono comunque variegate tra loro, passando ad esempio da “Party by the Pool”, un vero e proprio inno alla festa sfrenata a cominciare dal titolo, a “Mafia e sti cazzi”, dove in alcuni momenti non si può non viaggiare con la mente alle atmosfere dei vecchi film western (senza volersi addentrare troppo a fondo per evitare di scomodare un maestro come Morricone) .

Insomma, un lavoro a 360 gradi mai monotono e che regala mezz’ora di ritmo e allegria senza stress alcuno. Questo è il motto dei Tunatones, sostenitori anche dell’Analog Life Style, un’idea di vita libera e tranquilla dell’artista senza lo «stress da clessidra» (come loro stessi lo hanno definito); una sorta di filosofia dello Slow Food trapianta in ambito musicale.

Il disco è stato presentato a Febbraio del 2012, ed è uscito, oltre che come cd e download digitale, anche in vinile da 180 grammi. Ma a prescindere dal formato il consiglio è di dare assolutamente una possibilità ad iTunas, senza dubbio ci sarà di che divertirsi.


(Tunatones, iTunas, Prodoscimi Records, 2012)

“Vol.1” dei Thegiornalisti

E meno male che ci sono i Thegiornalisti. Parafrasando il titolo di una loro canzone – già inno nei live – conosciamo meglio una delle band emergenti più interessanti e talentuose del contesto indie-rock nostrano, andando a sviscerare meglio il loro notevole disco d’esordio: Vol.1.

Notati subito dalla critica del settore per freschezza e talento, forti di un successo di pubblico e consensi che poco a poco stanno fuoriuscendo dai confini capitolini, il gruppo dal nome che incuriosisce, riesce a far parlare di sé per l’aspetto basilare della loro attività; ovvero la Musica. Ovviamente quella con la maiuscola, capace di emergere e fuoriuscire in un magma rock spesso poco meritevole nei confronti della vera qualità.

Vol.1, la cui copertina è altrettanto originale – ed essenziale – come il nome del trio, è una sequela di brani dalla compostezza formale non indifferente, dove calde e coinvolgenti chitarre s’innestano e si bilanciano sui testi scritti dal vocalist Tommaso Paradiso. Dall’iniziale giro di basso di “Siamo tutti dei marziani”, passando per il coinvolgente ritornello di “Una canzone per Joss”, viene naturale immergersi nell’avvolgente sound dei Thegiornalisti: ogni accordo e assolo sono perfettamente controllati e calibrati, dando vita così a una track-list fatta di pezzi a cui non è possibile rimanere indifferenti. C’è ne per tutti i gusti: dagli echi western morriconiani della “Mano sinistra del diavolo”, ai lenti riff melodici di “Animali”, alle ballate dolenti de “Il Marinaio” e “Io non esisto”, ai momenti più diretti, come la già citata “E menomale” o “E allora viva!”. Non potendo dimenticare poi il capolavoro dell’album: “Autostrade umane”.

Un ottimo esordio, dunque, per i Thegiornalisti i quali, per niente scossi dal successo, sono già in studio, pronti a presentare il secondo capitolo.


(Thegiornalisti, Vol.1, Boombica, 2011)

“L’officina del diavolo” di Jáchym Topol

Quasi come Hrabal. Un Hrabal al quadrato o la sua radice quadrata. Jáchym Topol è tutto questo, ma anche molto di più. E molto di meno.
Topol in fondo è solo Topol ed è tantissimo. Ed è soprattutto l’autore, originalissimo (non se la prendano i critici che si ostinano a paragonarlo all’autore di Ho servito il re d’Inghilterra), di un libro, L’Officina del Diavolo (Zandonai, 2012), che si legge tutto d’un fiato nonostante la tematica certamente ostica.
Ad essere messo in scena è un vero e proprio specchio di commedia umana: l’Occidente che esce fuori dai totalitarismi est-europei. Siamo alla post-perestroika, alla post-occidentalizzazione.

L’esuberanza dell’autore – che scrive come un novello Salinger trafitto dal dolore della dittatura e della rinascita – ci conduce per mano, attraverso funamboliche e iperboliche invenzioni (Linguistiche? Letterarie? Storiche?), in un viaggio che non ricorda affatto le nostre vacanze low cost con Ryanair o Easy Jet. In Repubblica Ceca ci entriamo dalla porta posteriore, non dalla turistica Praga ma da Tezerin, una rossa Auschwitz minore. Mattoni rossi, capre, ladruncoli, vecchie dentro le case, erbaccia e un odore di antico che sa di morte e putrefazione. Eppure siamo a pochi chilometri dalla città di Kafka: qui, in questa cittadina quasi sconosciuta, si è combattuto, si è stati imprigionati, seviziati, umiliati, uccisi.
Non è forse il luogo migliore per creare un business? Il governo vuole radere al suolo la «città della morte» (tranne la caserma-monumento), loro vogliono riportarla in vita, un luna park per turisti.
E loro sono i sopravvissuti, ma non solo: gruppi di globetrotter, hippy, sbandati. Ma è difficile catalogarli.
Rivitalizzare i luoghi di sepoltura, pratica “attiva” della memoria. Se ne interessano i giornalisti (entusiasti fin che fa notizia), i politici (incazzati come non mai), i familiari dei baldi giovanotti intenti a “ricordare”.

Topol racconta, si diverte e diverte, nella miglior tradizione seria/faceta di chi sa raccontare l’orrore con il sorriso. E lascia la parola all’io narrante/protagonista/alter ego (?) che commuove e ci fa infuriare per la sua ingenuità: lo odiamo quando ci racconta dei suoi compiti carcerieri (in gioventù), lo amiamo quando osserva la “bella” venuta dall’Ovest, quando brucia tutto, quando lo vediamo partire per la Bielorussia.
Ed è proprio nella fredda Minsk che cambia tutto o forse non cambia niente. Lui, capraio della prima ora, diventa “esperto” (in cosa poi?) dell’ultima: ma qui il passaggio vecchio/nuovo sta ancora prendendo forma. O meglio c’è l’ha e mette paura: un girone infernale di uomini, morti che camminano e parlano e riesumano eccidi e assassinii e odi e rancori. Operai tutti, dell’Officina del Diavolo, intenti a mettere mattoni su mattoni. Quelli che servono il museo all’aperto, e universale, dei totalitarismi.


(Jáchym Topol, L’officina del diavolo, trad. di Letizia Kostner, Zandonai, 2012, pp.165, euro 14,50)

“Europeana” di Patrik Ouředník

Centocinquanta pagine senza virgole e con pochissimi punti, pensieri liberi e coraggiosi che si susseguono accalcandosi in un libro che si legge d’un fiato, come bere un bicchiere d’acqua dopo una corsa in piena estate: un calderone ricchissimo di Storia e di storie in cuitutto ci appare come visto dall’alto, in fermento, piccolissimo e brulicante.

La trama di Europeana la conosciamo tutti, è la storia del XX secolo che abbiamo studiato sui libri di scuola e che ci hanno raccontato i nostri nonni, ma Ouředník, uno dei massimi autori della letteratura contemporanea ceca, nonché traduttore e linguista, ce la racconta in modo del tutto nuovo e originale.

Vengono ripercorsi i fatti salienti di questo secolo in una prospettiva inedita, raccontati alternando cinismo e irriverenza a una comicità amara: un meccanismo che fa nascere nel lettore uno spunto serio di riflessione e che gli riempie la testa di domande e di dubbi, smontando le certezze.

L’autore parte da eventi singoli, particolari, per raccontare la Storia: si parte dall’invenzione del reggiseno, dall’altezza dei soldati, dal sesso in automobile negli anni Settanta, da Barbie con la divisa a righe dei campi di concentramento e ancora dalla liberazione delle cavie dai laboratori farmaceutici per raccontare le due guerre mondiali, l’emancipazione femminile, il genocidio e i grandi avvenimenti storici.
Il tutto senza mai nominare i nomi dei grandi personaggi: ci sono le persone e non i personaggi, le storie dei piccoli, degli uomini comuni.

In Europeana la storia dell’umanità è vista come un qualcosa di lontanissimo, incapace persino di creare un senso e di dare un significato reale alle azioni umane raccontate. L’unico senso possibile può essere quello soggettivo, che ognuno lega a una determinata situazione.

E non a caso la nuova edizione di Europeana inaugura la collana Sablier, della casa editrice palermitana :duepunti edizioni, in cui si ritrovano raccolti quei libri capaci di durare nel tempo, quei libri che ognuno “sente” in un modo diverso. 
Anche perché non è facile catalogare Europeana in un genere letterario, in un filone ben definito. Non è un saggio, né un romanzo:è semplicemente “La” storia raccontata attraverso la voce di un osservatore “esterno” (che è però l’autore stesso) che descrive gli avvenimenti ma sembra non conoscerli, sembra non essere direttamente coinvolto (invece Ouředník è vissuto nel secolo che racconta). Anche questo espediente dello straniamento contribuisce a rafforzare l’idea, contenutistica oltre che formale, didecostruzione della memoria storica europea, una sorta di sfida che mette in crisi la solidissima identità Europea. Un’identità fondata su stereotipi e luoghi comuni che vengono assolutamente rimessi in discussione: ci accorgiamo improvvisamente, leggendo, della piccolezza e della banalità di alcuni episodi e di come sono diventati tragedia perché portati all’esasperazione. Solo allora, banalizzandoli appunto, ne percepiamo la ferocia assurda, la drammaticità raccapricciante che ne è venuta fuori. E se è vero (come è vero) che dal passato si deve imparare qualcosa, l’unico modo per farlo è riflettere e osservare a distanza, come insegna Ouředník.

E dunque, in un momento storico in cui questa fantomatica Europa invade le nostre vite, credo che Europeana sia davvero il libro che andrebbe letto e discusso per dare alle azioni e alle istituzioni il giusto peso.


(Patrik Ouředník, Europeana, trad. di Elena Paul, :duepunti edizioni, 2011, pp. 160, euro 20)

Licia Maglietta interpreta “Il difficile mestiere di vedova”

Sul palco una cornice monumentale contiene il personaggio di una vedova. Talora costei si appoggia alla struttura, talaltra se ne allontana. È un ritratto disteso sull’oscurità dello sfondo del Nuovo Teatro Nuovo ma, nella messa in scena di Licia Maglietta, il ritratto vive del suo dinamismo: ritrarre è ri-trarre, è un ritorno incessante su ciò che può lentamente essere tratto dal personaggio. Il personaggio si es-pone, è vero, ma non pone una realtà statica. Questa, invece, pur nell’apparente semplicità dell’intreccio, vive di un continuo scambio con il vissuto di chi lo spettacolo lo osserva, come di coloro che osservavano la vita della vedova.

Si tratta quindi di creare un mondo di occhi assenti, eppure giudicanti, portatori di un giudizio che, a teatro come nel piccolo paese della vedova, perde l’individualità del suo creatore, nel primo caso nell’oscurità della sala, nel secondo nella folla del fastoso club siciliano frequentato dalla protagonista. L’estraniamento del personaggio interpretato da Licia Maglietta non è quindi intrinseco alla sua vicenda e al suo temperamento, ma nasce dalla perdita della certezza del punto di osservazione. Persa la nozione della posizione dell’occhio che giudica, l’occhio si moltiplica impietoso e sempre più mostruoso. L’occhio figlia nuovi occhi, in un immondo sovrapporsi di visioni distorte e sempre più indipendenti dall’oggetto che viene osservato: una semplice vedova siciliana può così diventare la tentazione della carne, il pericolo certo per coppie incerte, la sensualità ostentata e sfrontata, la torturatrice della noia matrimoniale. La protagonista non è più protagonista della sua vita. Il protagonista è invece l’occhio che osserva.

La vedova non può far altro che tentare in ogni modo di collimare con la prospettiva di chi guarda: per il pubblico in sala, esattamente come per quello del suo paese, diventerà tragico zimbello. Quasi a compiacere questo movimento del “pubblico”, la vedova si inoltrerà in avventure sentimentali con uomini improbabili, quasi surreali. Il personaggio non approderà ad alcun traguardo nel suo percorso, proprio perché il ritratto teatrale è moto inesauribile, come la vedova è indissolubilmente legata al suo ruolo di torturatrice/martire nei confronti dei compaesani martiri/torturatori. Licia Maglietta è guida di fenomenale espressività in questo sentiero di apparente svelamento del personaggio, in realtà violenta riproduzione di relazioni unidirezionali. La vita della protagonista è manovrata da altri esattamente come la vita dell’attrice nello schema del teatro. In nessuno dei due casi vi è reale conoscenza: si tratta di un ritratto che, nel suo incessante movimento, ha smesso di trarre vita dalla realtà, perché si nutre solo delle fantasie di chi lo osserva.


Il difficile mestiere di vedova
di Silvana Grasso
con Licia Maglietta

Andato in scena al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli dal 17 al 26 febbraio 2012.

“La felicità di Emma” di Claudia Schreiber

Ci risiamo. Ho ancora bisogno di libri. I sintomi sono chiari: formicolio degli occhi in prossimità degli scaffali, ipercinesi dei palmi, aumento del battito cardiaco intorno alla quarta di copertina.
Tutta un’ansiosa primavera muscolare, con ogni fibra e centimetro che scandagliano furiosi in mezzo alle pagine per brucare un po’ di ossigeno. Avviene così, mediamente ogni settimana, quando, dopo aver pulito la bocca dall’ultima riga, comincia a scalciare una fame segreta, che poi non resta più tale, perché serpeggia fino alla gola e fa troppo rumore per poterla ignorare. E non servono starnuti, neanche i più poderosi, per riuscire a scacciarla. Succede così, a noi malati di storie. A noi che dobbiamo sedare una continua astinenza, anche quando è già sazia, anche quando dovrebbe tacere.

E allora ci si accorge che non è tanto e non solo il tipo di trama ad afferrarti. Le fantasmagorie acrobatiche del plot elastico e avvitato, che sa ruotare su se stesso e poi stupirci con effetti speciali.
Perché non esistono vicende banali, ma solo modi banali di raccontarle. Esiste un perimetro impalpabile, metri che non tocchi di un mondo chiamato “atmosfera”.
Esiste chi, quando scrive, qualsiasi sia il segmento in viaggio da A a B, qualsiasi sia l’arredamento della stanza, sa prenderti per mano e portarti dentro. E tu annusi la vernice, calpesti la maioliche di ogni paragrafo fino a stabilire dove dormirai, dove piazzerai le piante che ti terranno compagnia. Così, quando arriva il punto, sai che devi congedarti. E lo fai a stento.

Come è successo a me con La felicità di Emma, primo romanzo tradotto in italiano di Claudia Schreiber, edito da Keller. Ancora Keller, una piccola casa editrice che ci ricorda come scegliere gli autori giusti, come lavorare in un ambiente divorato spesso dagli stessi nomi, senza mai rinunciare a proporre qualità. E sentieri semplici in cui riconoscersi. Una collisione di universi tra due protagonisti.

Max, impiegato nel lavoro e nella vita, consacrato a far quadrare anche l’aria e a contarne i capelli; pulito, impeccabile, ordinato fino allo stremo del calcolo. Se può, quando può, sterilizza anche il tempo. Finché non scopre che il tempo non c’è più. Come capita a tanti, che affrontano i giorni quasi fossero infiniti. Senza contare il necessario. Senza contare che il calendario è anarchico. Senza contare che spesso si ribella e da un momento all’altro ci rivela che non ha più fogli. Tumore al pancreas, un organo piccolo e dimenticato, che si scopre di avere solo quando non funziona.

Cosa resta allora a Max, che fino a quell’istante non si è mai innamorato, ha vissuto poco, ha vissuto piano, ha evitato i rischi, ha foderato di paure ogni angolo? Cosa resta a chi sa che ogni minuto scivola via come un anno? Che non ci saranno abbastanza falangi per trattenerlo a sé? Ruba dei soldi e poi scappa, come se non l’avesse già fatto da sempre.
E lì, tra gli spasmi della fuga, dopo un incidente, s’imbatte in Emma, una contadina sporca e arruffata che in quarant’anni non si è mai sentita bella, perché troppo occupata a sopravvivere. A farlo da sola. Ad allevare le sue bestie e i suoi tramonti senza guardarsi allo specchio. La sua famiglia è morta e per lei è stato un bene, è stato liberarsi da ombre tanto grasse da non permetterle di muoversi. Emma accarezza i suoi maiali, se ne prende cura come fossero fratelli, come fossero figli, li nutre, li abbraccia e poi li uccide con un taglio netto, perché quello è il suo ruolo. È quella la sua felicità. Il resto non importa. L’essenziale è sentirli contenti fino all’ultimo fiato e risparmiare comunque il dolore.
Un dolore che lei conosce bene. Quello di essere nata femmina quando in campagna servivano altre mani, altre forze superiori alle sue. E allora lei ha imparato a essere maschio, a non piangere, a non lamentarsi, a sotterrare i suoi brividi tra gli strati di fieno. A estrarre il cuore al maiale, a sciogliere i grumi, come se quello non fosse sangue. Mentre altre notti, altra polvere, altre grida le coagulavano dentro, molto al di sotto della pelle. E per quelle non c’è gesto sapiente che le renda più liquide, che le lasci scorrere.
Insomma, Max e Emma s’incontrano e pur essendo all’apparenza inconciliabili, hanno lo stesso buco addosso. Un mal di vivere che attacca i tessuti, senza distinguere quali con esattezza.
Nessuno dei due ha realmente vissuto, per entrambi l’amore è una camera vuota, in cui sentirsi a disagio e più spogli di prima. E dallo scontro tra i loro volumi si sviluppa il corpo della trama, nasce un’altra creatura, fatta dei loro lati più deboli e del loro calore. Un’entropia che si spande e lascia a ognuno una lezione da spremere.

L’autrice non ha pretese di colpi di scena, non sorprende con auto volanti o realtà parallele. Né attorciglia segreti nodosi o identità plurime. Ci offre con grazia la straordinarietà del quotidiano, con le sue ferite più o meno inguaribili. Tratteggia un paesino di sola natura, un villaggio di gente elementare, pettegola e gretta, che alterna estrema pochezza a umanità lancinante. Commuove senza straziare, diverte e colpisce col dono inatteso della leggerezza. Soltanto. Come se fosse facile.


(Claudia Schreiber, La felicità di Emma, trad. di Angela Lorenzini, Keller editore, 2010, pp. 208, euro 14,50)

“Le 13 cose” di Alessandro Turati

«Quando un australiano compra un boomerang nuovo, come fa a buttare via quello vecchio?»

«Ci sono poche cose al mondo come mettersi le mani in tasca, anzi, per me, mettersi le mani in tasca è la cosa più bella al mondo. La seconda cosa più bella al mondo è mettersi un dito in culo dopo aver pensato queste cagate. Emilie sarebbe orgogliosa di me e divertita. La terza cosa è raccontare come cazzo sono finito ad avere un cadavere nel salotto, cavalcato da una bambina spiritata, mentre due cani infoiati si leccano i genitali.»

Visionario, scurrile, amaro, geniale, divertente, folle: questo è Le 13 cose, il romanzo d’esordio di Alessandro Turati, 112 pagine di pazzia e perversione, uno scritto caotico e affollatodi vita che racchiude l’esistenza infelice di un trentenne inetto, depresso, indolente e insieme visceralmente stupido.

Così stupido da risultare simpatico fino all’inverosimile, così banale nella banalità dei suoi racconti, storielle e barzellette da apparire comico, un minchione nato, mi si passi il termine, di quelli con un talento particolare, impresso nel DNA.

Che la mente dell’autore sia un magma caotico in ebollizione lo dimostrano le prime venti pagine del romanzo: si inizia a leggere e si è colti da un senso di smarrimento. Parola dopo parola, frase dopo frase, si impilano dialoghi senza senso, nomi di personaggi che si dubita possano essere i veri protagonisti di una storia che, all’inizio appena accennata, si delinea e chiarisce soltanto giunti a metà del cammino, interrotta da allucinazioni etiliche e oniriche, sporcata dalla miseria di stralci di vita del presente che si sovrappongono a quelli del passato.

Le 13 cose è un romanzo che diverte e fa ridere per l’enormità delle sciocchezze raccontate, ma è anche un romanzo in cui alle battute demenziali fanno da contrappeso i sorrisi amari, quelli che nascono dall’ironia con la quale spesso si accettano le sconfitte della vita. Nascosta dietro all’aspetto più divertente del libro, vi è una storia miserevolmente umana: quella di un giovane che, persa in breve la famiglia e la donna della quale era innamorato, si ritrova solo al mondo, con una manciata di ricordi dolorosi da gestire. Un uomo che decide di arrendersi e di buttarsi via, sopravvivendo, e male, ai giorni che si avvicendano sempre uguali e vuoti.

«Torno al mio ovile e mi siedo un attimo per capire cosa fare: il mio affaccendarmi mi è oscuro. Poi, un colpo di genio: chiudo porte e finestre serrandole al meglio. Apro il gas a manetta. Infine, per spezzare l’attesa, apro il forno e do un morso alla fetta di melone giallo che ormai è diventata una ruga […] Accendo una sigaretta: vengo avvolto da una vampata e assordato da un boato inenarrabile. Ho l’impressione di sentire la testa accartocciarsi su se stessa e le braccia sfilacciarsi come una fune troppo tesa. Le gambe non le sento più e l’uccello è schizzato nello schermo del televisore per poi frantumarsi in mille pezzetti, come un puzzle. Mi resta giusto un secondo per un’ultima considerazione: bravo coglione, proprio un’idea del cazzo hai avuto!»


(Alessandro Turati, Le 13 cose, Neo Edizioni, 2012, pp. 112, euro 12)