“Grande Nazione”, il ritorno dei Litfiba

Dopo dieci anni i Litfiba sono tornati insieme. Una delle band più apprezzate di sempre. Quella che ha aperto a tanti gruppi indipendenti la strada per il successo. Dieci anni passati chi a suonare nelle fiere di paese (Ghigo Renzulli e lo spettro del nome della band), chi fra canzoni commerciali e duetti di dubbio gusto (Piero Pelù e le sue uscite con Anggun). Un gradito ritorno: in Grande Nazione si sente come i due protagonisti di ben trentadue anni di musica italiana siano finalmente riusciti a trovato il modo di far convivere canzoni più commerciali e musiche più indipendenti.

I due reduci della grande formazione degli anni 80 (manca un certo Gianni Maroccolo diventato guru della musica e produzione indipendente italiana), si sono divisi i compiti tirando fuori un album che ricorda un po’ le loro produzioni di inizio anni ’90.
Ma cosa hanno da dire davvero i Litfiba dopo tutti questi anni? Ovviamente vogliono riprendere il discorso lasciato in sospeso prima dei grandi numeri di Mondi Sommersi, ultimo vero grande album dello storico duo. Si torna sul palco inscenando uno spettacolo contro la politica di questa “Grande Nazione”, facendo finta che gli ultimi dieci anni non siano mai passati e rispolverando anche un certo look mefistofelico,

Tralasciando spunti e riflessioni sulla loro politica di marketing, passiamo a un discorso più musicale che riguarda l’album in questione. Non c’è che dire, i Litfiba suonano come i loro fan si aspettavano da tempo. Le chitarre di Ghigo sono molto potenti e la voce e i testi di Pelù toccano argomenti che riguardano sia la politica che la società italiana.

Non a caso lo stesso album è stato presentato con un documentario voluto appositamente per parlare di quel fenomeno che è la fuga di cervelli dal nostro paese.

Il disco inizia con “Fiesta Tosta”, brano molto duro, capace di ricordarci come nella nostra società non ci siano più limiti, con un riferimento all’ex presidente Berlusconi e ai suoi festini.

“Squalo”, invece, è il pezzo meno riuscito dell’album ma sicuramente quello con il ritornello più orecchiabile: è stato scelto, infatti, come singolo per attirare fan vecchi e nuovi.

“Elettrica” e “Tra me e te” fanno pensare più a canzoni dell’ultimo periodo dei Litfiba prima dell’uscita di Pelù. Inoltre il testo del secondo brano potrebbe riferirsi alla ritrovata ispirazione fra le due menti del gruppo.

“Grande Nazione” e “Anarcoide” sono sicuramente i pezzi più coinvolgenti ed energici del disco. Menzione particolare, infine, per la ballata “La mia valigia”, si sente una certa ispirazione per un’Italia un po’ fiacca ma che sicuramente ha tanta voglia di combattere. Idea che potrebbe riassumere anche un po’ il ritorno dei Litfiba che, nonostante la loro poca credibilità, persa nel tempo, sicuramente hanno ancora qualcosa da dire.

“A.C.A.B.” di Stefano Sollima

Alla fine esci dal cinema, cerchi risposte sui volti, nei gesti degli altri, ma non le trovi.
Allora ti guardi dentro e, anche se all’inizio non vuoi ammetterlo, senti che i conti non tornano.
Il mondo non è quello che hai appena visto. Semplicemente non può essere ridotto così male.
Ti senti nervoso, frughi le tasche come se avessi perso le chiavi di casa o ti avessero fregato il portafogli, sistemi la sciarpa, infili i guanti per proteggerti dal gelo siberiano di questo febbraio 2012, ti chiedi «Ma cosa faccio qui?», e pensi che è stata proprio una sensazione di freddo paralizzante ad inchiodarti alla poltroncina mentre guardavi A.C.A.B. All Cops Are Bastards, del regista Stefano Sollima, tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini, giornalista di La Repubblica.

Dalla trasposizione cinematografica viene fuori un’opera troppo cupa e senza speranza di evoluzioni positive, che pure poggia su un’idea interessante, cioè un soggetto che vuole raccontare il mondo e le sue magagne dal punto di vista – originalissimo e minimale – dei poliziotti del Reparto Mobile.
Un vero peccato, perché il ritmo dell’azione è gradevole e gli attori sono piuttosto bravi e tagliati per la parte, su tutti Pierfrancesco Favino, a suo agio nei panni di Cobra.
Già, Cobra, perché fin dai “nomi di battaglia” scelti c’è traccia di scarsa fantasia.
Nell’Italia post-Romanzo Criminale non ci vuole molto a battezzare un celerino Negro o Mazinga, si poteva fare di meglio. Ed era opportuno non soffermarsi sul classico stereotipo polizia contro ultras da stadio modello anni ’80, che ormai ha fatto il suo tempo… ma questa naturalmente è solo un’opinione personale.

Il film, ambientato nel 2007, sembra restare prigioniero della stessa violenza gratuita che voleva denunciare. Ha poi il limite di sembrare influenzato dalle tipiche atmosfere stile Distretto di polizia et similia, con le classiche sovrapposizioni tra la fredda durezza delle giornate di lavoro e la bruciante complessità delle problematiche della vita di famiglia. Sovrapposizioni che finiscono per generare una certa confusione nello spettatore.
Va aggiunto che voler rappresentare questi poliziotti/mele marce tanto scaltri nell’eludere le leggi dello Stato per interpretare le norme secondo le proprie convenienze, quanto disastrosi, fino alle estreme conseguenze, nella gestione degli affetti, francamente sembra una forzatura.
Il risultato finale è dover prendere atto di trovarsi di fronte a un gruppo di omiciattoli in divisa & casco & scudo sostanzialmente strafalliti, che sfogano le loro frustrazioni nell’esercizio catartico di una violenza rituale collettiva, fine a sé stessa, che ha nel manganello lo strumento per fare (in)giustizia.
Rompere qualche testa per sfogare i nervi: un’equazione troppo banale per chi serve (nel senso più alto del termine) lo Stato. A un’opera d’arte si può chiedere molto di più.

Inoltre i riferimenti alle tristi vicende della scuola Diaz, alla morte di Raciti prima della partita Catania-Palermo e a quella del tifoso della Lazio Gabriele Sandri, finiscono per mescolare finzione cinematografica e fatti di cronaca (fiction o documentario?), con risultati incerti e classici effetti déjà vu, a volte peggiorati da dialoghi troppo prevedibili e spesso limitati all’essenziale, quasi che si raccontasse di decerebrati senza un minimo di istruzione, tutti tatuaggi, partite di rugby sotto la pioggia battente, atti di nonnismo da caserma e poster del Duce in camera che politicizzano troppo la storia.
Quanti poliziotti come quelli di A.C.A.B. ci possono essere in giro? A parer mio pochi, pochissimi.
A ben guardare questo è un film che rischia di confondere le idee all’opinione pubblica, che ha già perso fiducia nelle barcollanti Istituzioni di questo Paese e ha pure il torto di rappresentare le donne come figurette minori, dato che a farla da padrone è sempre la “morale” distorta del branco, abituato a pensare che «Chi mena per primo mena due volte» e che porta sul corpo, ma anche nell’anima, le cicatrici di tante battaglie, per poi scivolare – a sorpresa – nella trappola della retorica finale attraverso la figura di Adriano detto Spina: «Volevo fare un lavoro onesto. Per questo faccio il poliziotto». Troppo poco, i giovani di oggi hanno profili molto più complessi e ambizioni e orizzonti d’attesa che forse gli adulti non possono capire. Questo è il vero problema della nostra società.

“Gli innamorati immaginari” di Leonardo Petrillo

Chi ne ha l’opportunità, in queste giornate di gelo, si metta un paio di scarponcini da neve e vada a vedere Gli innamorati immaginari. Alla fine, avrà altro da battere che non siano denti o ginocchia.
Lo spettacolo, in scena al teatro India fino al dieci febbraio e successivamente al teatro Tor Bella Monaca, è frutto di un laboratorio di perfezionamento sulla commedia dell’arte organizzato da Teatri di Roma e tenuto, fra gli altri, dallo stesso regista Leonardo Petrillo. Partendo da antichi canovacci, gli attori hanno lavorato interpretando a braccio ogni singola scena. Nel testo finale è depositato il meglio delle improvvisazioni nate in questo processo.
La storia è il familiare quadrilatero amoroso in cui ciascuno è innamorato della persona sbagliata. Con la giusta dose di artifizi e mistificazioni Pulcinella e Arlecchino otterranno l’indispensabile lieto fine per i loro padroni, con tanto di risoluzione dei numerosi equivoci d’identità.
Non si va però certo a vedere questo spettacolo ricercando l’originalità dell’intreccio; come dice Pulcinella: «Il testo è solo ’nu pretesto. Nun è ’a storia che dovete seguire, ma i personaggi. La nostra è ’na commedia d’attori…» E qui, infatti, a stupire è il dinamismo degli interpreti, l’eleganza del gesto, il ritmo comico che non dà tregua. Seguendo lo schema classico del teatro dell’arte, ciascuno degli otto protagonisti non ha più di tre ingressi in scena in ciascuno dei tre atti in cui è divisa la commedia. Ma se non sono sul palco, gli attori sono intorno a esso, musicando il testo, cantando, o anche solo sottolineando con effetti sonori gli eventi che si svolgono in scena. E lasciando lo spettatore a domandarsi di che marca di barrette energetiche facciano uso.
Petrillo rende vivo e illuminato tutto lo spazio scenico: la botola in cui cade un personaggio diventa il castelletto di un teatro di burattini, lo sguardo e la fantasia dello spettatore non sono mai lasciati a impigrirsi, ma vengono accompagnati dal grande al piccolo, da sopra a sotto il palco, dalla quinta agli squarci che vi si aprono, amplificando con continue giustapposizioni la vis comica del testo. Solo verso l’epilogo si ha la sensazione che l’impulso iniziale sia stato così forte da protrarre il cammino un po’ oltre il punto d’arrivo naturale della vicenda.
Lo spettacolo viene messo in scena da due diversi cast, i sedici giovani attori che hanno partecipato al corso. Nel gruppo sul palco sabato sera, senza nulla togliere agli altri, Giuseppe Pestillo nel ruolo di Pulcinella è stato mattatore prorompente, fulcro di tutte le tensioni della rappresentazione. Insieme a lui spiccavano per aderenza al personaggio e precisione Federico Passi e Chiara Spoletini.
Il consiglio è di vederlo non tanto e non solo per riscoprire le radici del nostro teatro, ma per godersi certe allegrie che per fortuna condividiamo ancora coi bambini, come quella per la neve.


Gli innamorati immaginari – ovvero chi si somiglia non si piglia
di Leonardo Petrillo
con Sara Putignano, Rosa Rongone, Pietro Quadrino, Savino Maria Italiano, Ivan Picciallo, Lelio Naccari, Federico Passi, Manuel Fiorentini, Caterina Fiocchetti, Viviana Picariello, Elisabetta Mandalari, Chiara Spoletini, Antonio Gargiulo, Giuseppe Pestillo, Valerio Amoruso, Luca Bondioli.

Roma, teatro India, fino al 10 febbraio; teatro Tor Bella Monaca dal 24 febbraio al 4 marzo.

“Gobbi come i Pirenei” di Otello Marcacci

Qualche giorno fa mi sono trovata in una situazione imbarazzante. Ero seduta nella sala d’attesa di uno stimato professore. Benché la stanza fosse piena, non volava una mosca. Gli altri pazienti stavano compostamente seduti in silenzio. Al massimo potevano scambiarsi qualche parola sussurrata. Per ingannare il tempo, come mio solito, mi ero portata un libro, Gobbi come i Pirenei, romanzo d’esordio di Otello Marcacci, edito da Neo Edizioni, giovane casa editrice indipendente abruzzese che anche nella nuova collana Dry (che ha come simbolo un simpatico cavatappi) ha il coraggio di puntare sugli esordienti.

Mi immergo nella storia a tal punto che, dimentica del luogo in cui sono, comincio a ridere, ma a ridere di brutto. Alzo gli occhi e mi ritrovo purtroppo di nuovo catapultata nella dura realtà con mille sguardi che come saette mi fulminano schifati, scuotendo la testa in segno più di disprezzo che di compassione. Gioventù bruciata! Qualcuno avrà pure pensato di fare istanza al governo Monti per includere nella manovra “salva Italia” la riapertura dei manicomi. Eppure mi dichiaro sana di mente (almeno credo) perché Gobbi come i Pirenei è davvero un romanzo divertente come raramente mi è capitato di leggere. Divertente ma non solo. Perché oltre a essere un romanzo ironico offre anche molte occasioni per fermarsi a riflettere sulla propria vita.

Tutti siamo un po’ Eugenio Bollini, uno tra tanti, un figurante che vive un profondo disagio interiore che maschera sapientemente con l’umorismo.

Eugenio Bollini, ciclista professionista, è un mediocre, un perdente, uno che molla alla prima difficoltà. Infatti non è mai riuscito a finire un Tour de France e gli unici trofei vinti sono stati «i classici portachiavi ricordo» messi in palio dagli organizzatori delle gare ciclistiche. Ha un figlio, Lapo, con cui vorrebbe mantenere un buon rapporto dopo che si è lasciato con la bella, ma superficiale moglie Carolina. Vorrebbe che Lapo fosse orgoglioso di lui. A livello affettivo è diviso nella scelta tra due donne molto diverse fra loro, una modella polacca e un’avvocatessa dall’intelligenza straordinaria. Tutte e due bellissime.

È un anarchico come suo padre, ama Jim Croce ed è uno tifoso della Viola, antijuventino per eccellenza (parola d’ordine «Juve merda»). Non ha peli sulla lingua ed è un simpatico gaglioffo. Ha una madre «scassacazzi», donna Lucia, che non fa altro che rammentargli i suoi fallimenti, una sorella gelosa dell’affetto paterno e un padre, Giorgio, «persona tenerissima, autorevole e mai autoritario», suo primo tifoso: «Adoravo mio padre perché è stato un maestro di vita e mi ha sempre supportato senza farmi sentire inadeguato». È lui a spingerlo a intraprendere la professione ciclistica perché il ciclismo, quello vero di Coppi e Bartali, non quello dopato di oggi, è una palestra di vita: «Mi parlava dell’onore e della dignità di quello sport che chiamava a raccolta persone di ogni censo e razza e che premiava solo chi sapeva resistere al dolore e alla fatica senza lamentarsi. Uno sport che univa in sé, allo stesso tempo l’individualismo e il senso di squadra. Per lui il ciclismo sapeva insegnare a salire e scendere non solo le montagne, ma anche le asperità della vita e, con esse, le fortune e i dispiaceri».

Eugenio ralizza di essere a un punto di svolta nella sua vita proprio quando diventa consapevole della sua mediocrità. Scopre di non essere né un genio né un campione, ma bensì di far parte di quella categoria di persone affette dalla «sindrome del Q.I. 130»: «…Noi della classe 130 percepiamo su di noi tutto il male del mondo senza avere la possibilità né di guarirlo né di ignorarlo». Da qui nasce il suo disagio interiore frutto della comune discrasia fra ciò che da bambini si pensava di diventare e ciò che veramente si ottiene e diventa da adulti nel mondo dopato (non solo del ciclismo) di oggi. La realtà si rivela spesso infatti non all’altezza delle proprie ambizioni e questo disagio è ancora più acuito, forse, se si vive in una provincia come Lucca. Dalla provincia spesso si fugge. Ma il punto è riuscire a far pace con se stessi e avere fiducia nelle proprie possibilità perché prima o poi la vita ti regala sempre un’altra chance. Filosofia tanto banale quanto complessa.

E questo Eugenio cerca di farlo a suo modo, che è un modo umoristico, in senso pirandelliano, facendoci ridere e piangere. La promessa fatta al padre di finire il Tour assume un significato simbolico di chiusura di un cerchio per avere la possibilità di aprirne un altro e cominciare finalmente una vita più vera nella piena accettazione dei propri limiti.

Accanto a Bollini si muovono tutta una serie di personaggi memorabili caratterizzati con grande cura. Impedibili sono, per esempio, le sortite telefoniche in toscanaccio del Duca, nelle situazioni più inopportune (persino un funerale) e dagli effetti tragicomici. Situazioni che l’autore sa orchestrare sia grazie all’agile ritmo della scrittura sia grazie allo humour del protagonista screziato da una sana ironia iconoclasta. E mentre continuo a sorridere leggendo le ultime parole del capitolo finale, mi convinco che anche un buon gregario, «uno che si muove nella penombra e che si uccide di fatica, anche se sa che non vincerà mai», può finire sotto le luci della ribalta senza alcun merito e guadagnarsi tanti tifosi che si immedesimano in lui, godono e si commuovono per una vittoria comunque morale.


(Otello Marcacci, Gobbi come i Pirenei, Neo Edizioni, 2011, pp. 288, euro 15)

“Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson

A fumare, fumava molto. E quel giorno l’ascensore non funzionava; i sette piani di scale della sede della rivista Expo se li è dovuti fare a piedi. Aggiungeteci una mole notevole di lavoro. Stress. Metteteci pure l’aver appena concluso il terzo capitolo della saga – e già la mente guardava al seguito. Infarto. Era il 9 novembre 2004 e lo scrittore svedese Stieg Larsson moriva così, in redazione, quasi a voler autocitare una scena dell’ultimo romanzo. Se ne va improvvisamente, lasciando compiuti solo i primi tre atti del suo decalogo Millennium: Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta.
Caso editoriale da trenta milioni di copie vendute per il mondo, giusto per dare qualche cifra. Più la degna rappresentazione cinematografica. Proprio qualche giorno fa è uscita nelle sale la trasposizione americana del primo capitolo, ad opera di David Fincher. Ne approfittiamo per vedere meglio cosa ha lasciato al mondo della narrativa contemporanea lo scrittore più freddo e implacabile del terzo millennio, parlando proprio della sua opera prima.

«Era diventato un rito che si ripeteva ogni anno».

Uomini che odiano le donne è il thriller nero più sconcertante, indelebile e mozzafiato scritto negli anni 2000. I motivi del caso editoriale sono tanti, in primis la personalità dell’autore. Infatti Larsson non è un semplice romanziere con la vocazione palese e straripante per la narrazione; è qualcosa di più. A differenza degli altri colleghi di penna, lo svedese è un giornalista con una missione. Sente la vocazione del suo ruolo e ne fa una ragione di vita.

Nel 1995 a Stoccolma, cinque ragazzi muoiono sotto i colpi dell’estremismo di destra. Lui, per risposta e denuncia, contrattacca fondando la rivista Expo, con il dichiarato intento di combattere il razzismo e le altre piaghe che infestano la Svezia: antisemitismo, violenza sulle donne, criminalità e corruzione. Il dipartimento di Giustizia svedese e Scotland Yard gli chiedevano consulenze per i crimini d’estrema destra. Il parallelo tra la sua figura e quella di Mikael Blomkvist – il protagonista della trilogia – inizia a prendere forma. Nella realtà c’è Stieg con le sue crociate, nel romanzo c’è Blomkvist e la sua di rivista: Millennium, appunto.
Fondete insieme la vocazione e lo spirito di denuncia al ritmo serrato di una prosa ferrea e implacabile. Unite la trama noir al pretesto per poter raccontare gli aspetti più terribili e nefasti dalla società e dell’essere umano moderno. Avrete il caso Larsson.

Prima la Francia, poi Germania e Italia cadono sotto le pagine del romanzo. Un po’ d’attesa e avrete la successiva – e per altro gradita – invasione postuma degli altri “figli” scrittori dell’autore provenienti dalla medesima terra.
Già, perché la Svezia, fino ad allora ai margini della letteratura, è parte intrinseca e imprescindibile di questi libri. Non c’è goccia di sangue che possa macchiare le terre bianche e glaciali. Non c’è scena di violenza insostenibile che ceda e si compiaccia di se stessa, sfociando nel “già visto” e nello scontato. Da come vengono raccontati e descritti, gli eventi del romanzo sono perfettamente reali e plausibili.

Emblematici sono i dati spietati che correlano l’incipit delle parti del romanzo.
Parte prima: «In Svezia il 18% delle donne al di sopra dei quindici anni è stato minacciato almeno una volta da un uomo».
Parte seconda: «In Svezia il 46% delle donne al di sopra dei quindici anni è stato oggetto di violenza da parte di un uomo».
Parte terza: «In Svezia il 13% delle donne è vittima di violenze sessuali al di fuori di relazioni sessuali».
Pochi dati, capaci, però, di calare come ghigliottine sul lettore che si addentra nell’abisso del romanzo. Esatto, perché non va trascurato un particolare: Uomini che odiano le donne è un innanzitutto un libro che non ti lascia. Inizi e, pagina dopo pagina, senti quell’irrefrenabile piacere ad andare avanti sempre di più. È questo un particolare capace di fare la differenza tra il bel libro e il capolavoro, tra il fenomeno da classifica stagionale e il caposaldo assoluto, copiato, imitato, in grado di aprire strade romanzesche impensabili.

Fra i tratti innovativi di Larsson, oltre alle già citate qualità e capacità dello stile inedito e unico, ci sono delle scelte narrative di spessore, tra le quali, senza dubbio, la scelta dei protagonisti: il giornalista d’inchiesta Blomkvist, che all’inizio del libro troviamo oppresso e rovinato dal processo Wennerstrom, e soprattutto lei, Lisbeth Salander, «the girl with the dragon tatoo», come la chiamano in America.
Se Blomkvist è l’eroe con qualche macchia e tante paure, ma pur sempre ligio, Lisbeth è un personaggio immenso e complesso, contrastante e ambiguo, a cui è impossibile rimanere indifferenti. Giovanissima hacker di caratura planetaria, assoldata dall’agenzia d’investigazione di Dragan Armanskij, Lisbeth ha un passato drammatico («Tutto il Male», lo chiama) e un presente tutt’altro che facile. È un’ex-adolescente turbolenta e problematica. È un’asociale volontaria: lei non piace al mondo – sarà a causa del suo look punk estremo? – e il mondo non piace a lei. Un comune accordo. Nel lavoro è un prodigio; tutti hanno dei segreti e per quanto nascosti, Lisbeth ci può arrivare tranquillamente. Le cose però si mettono davvero male quando le commissionano di indagare su Blokmvist e le viene assegnato come nuovo tutore Nils Erik Bjurman: è lui il primo uomo che odia le donne del romanzo. Sarà con lui che si inizierà a sprofondare nel baratro.

L’altro nome femminile alla base del libro è Harriet Vanger. Pupilla dello zio Henrik Vagner, sono quarant’anni che della sua sparizione non si sa nulla. A ossessionare lo zio, oltre al ricordo e al rimorso, c’è un regalo che ogni anno gli fa rivivere il dramma; via posta, sempre con timbro postale diverso: un fiore incorniciato. Proprio come faceva la sua nipotina. Saranno Blomkvist e Salander a fare luce sulla scomparsa, entrando nelle spesse tenebre dei segreti dei Vanger, camminando sulle orme bibliche di un serial killer di donne. Tra citazioni del Levitico, foto sfocate e una famiglia piena di ex nazisti e oscure personalità. Fino alla fine. Una fine che è solo l’inizio, soprattutto per chi adesso le gesta dei suoi eroi se le gode dall’alto. Magari rimpiangendo il bianco gelido della sua cara e spietata Svezia.


(Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, trad. di Carmen Giorgetti Cima, Marsilio, 2007, pp. 676, euro 21,50)

“La morsa” di Luigi Pirandello

La morsa si stringe su chi vive l’apparente calma della quotidianità, perché fatta di accattivanti giorni felici, come di silenziosi baci, di figli che crescono e di un lavoro soddisfacente. Si cade nella morsa in virtù di una ricompensa, dunque. Si accetta di vivere una felicità immediata al prezzo di vincoli senza tempo. Pirandello costruisce in La morsa un’altra “stanza della tortura”, in cui tuttavia non vi è alcun boia. La tortura è l’evidenza della vita che viene mostrata. Non c’è necessità di alcun torturatore quando le vittime non distinguono la vita dalla tortura. I vincoli sociali fanno sì che i personaggi possano solo sfiorarsi, mentre le loro vite sono staticamente chiuse in bacheche di vetro, simboli di ruoli sclerotizzati, che si ripetono infinitamente senza alcun epilogo. Proprio l’epilogo è riportato nel sottotitolo della pièce: «Epilogo in un atto di Luigi Pirandello». Anche se la sensazione è quella di una messa in scena breve e chiusa in sé stessa, si percepisce l’eterno ritorno delle costrizioni che vivono i personaggi in scena, in un’esistenza sempre più vicina alla ripetizione teatrale.

La vicenda è infatti di quelle ancestrali: il triangolo del tradimento, il sottile amante che inizia a sentire il fiato sul collo e cerca la fuga (l’avvocato Antonio Serra, interpretato da Arturo Cirillo), l’annoiata donna traditrice che prende coscienza del suo stato (la signora Giulia, interpretata da Sabrina Scuccimarra), il marito oberato di lavoro che si trasforma in persecutore (Andrea Fabbri, interpretato da Sandro Lombardi). Tuttavia ciascun personaggio presto rivela il suo patimento interiore: ognuno è vittima di un ruolo che non ha nulla a che vedere con le proprie emozioni. La morsa è quindi stretta da un vago ma asfissiante rapporto tra l’uomo e la società e ciascuno è perciò destinato a vivere in solitudine il dibattersi della propria esistenza nel ruolo, solo come gli oggetti nelle bacheche che colmano la scena.

La regia di Arturo Cirillo riesce a dare un tono di frustrante oppressione, anche grazie ai suoni animaleschi che emergono di tanto in tanto e che si confrontano con la staticità complessiva della scena. L’atmosfera si fa intrisa di sospetto e della perversione del marito persecutore finchè non avviene lo svelamento del tradimento, che sembra allentare irrimediabilmente una tensione che pure aveva il merito di catturare l’attenzione dello spettatore. Tale rottura dell’incubo, tuttavia, risulta funzionale all’economia complessiva del testo, che vedrà nel tragico finale il solo modo per compiere nuovamente lo schema classico della persecuzione dell’amore fedifrago. Arturo Cirillo, ormai maestro nell’interpretazione di personaggi emersi e vissuti nel sospetto, divide alla pari la scena con un sorprendente Sandro Lombardi, che riesce a rimanere sempre composto nel suo enorme e ridondante sadismo. La signora Giulia invece, pur contaminata dal peccato, sembra inizialmente poter mantenere la propria integrità: si scoprirà presto essere una corda tesa e pronta a spezzarsi, come ben sottolineava Tolstoj in Anna Karenina: «Ecco, se prendete una corda che non sia troppo tesa e tentate di spezzarla non ci riuscirete, ma se la corda è tesa fino all’estremo, la spezzerete toccandola con un dito».

Ancora una volta l’apparenza borghese, pur definendo e categorizzando nettamente e irrimediabilmente ogni personaggio, lascia spazio al non detto, che si palesa non nella parola gridata, ma nel vuoto lasciato dalle estremità spezzate della corda tesa, un vuoto incolmabile e per questo mortale per i mortali e immortale nel suo ripetersi perennemente.


La morsa
di Luigi Pirandello
regia di Arturo Cirillo
con Arturo Cirillo, Sandro Lombardi e Sabrina Scuccimarra

 

Andato in scena presso il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli dal 31 gennaio al 5 febbraio 2012.

“Sogno di una notte di mezz’estate”, regia di Carlo Cecchi

L’idea geniale di Carlo Cecchi di mettere in scena non il saggio di diploma del 2009 dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico ma tutto ciò che attiene alla sua realizzazione trova concreta realizzazione in un lavoro, giunto al suo secondo anno di tournée, dove la teorizzazione della messa in scena di un’opera di Shakespeare come il Sogno di una notte di mezz’estate diviene rappresentazione. La trama non viene sconvolta: in due ore vengono presentate le tre storie ateniesi, intrecciate tra loro, che vedono come protagonisti Lisandro e Demetrio, entrambi innamorati della stessa donna; Oberon, re degli elfi, la moglie Titania e il loro battibecco sul servo indiano della regina delle fate che Oberon vuole come suo paggio e, infine, una compagnia squinternata che vuole mettere in scena uno spettacolo in occasione del matrimonio, già programmato, tra Teseo, duca di Atene, e Ippolita, regina delle Amazzoni. Queste tre vicende si incontreranno inevitabilmente in un bosco incantato.

Come avvenuto già nel suo Tartufo, Cecchi si avvale di una traduzione rispettosa della lingua dell’epoca esaltandola con alcuni interessanti momenti musicati dal vivo e un tocco di napoletanità nella scena della prova dello spettacolo nel bosco che ricorda tanto la Francesca Da Rimini di Petito. La vicenda shakespeariana non viene tagliuzzata e smembrata ma viene riletta. Carlo Cecchi guida gli attori dentro e fuori la scena, è il capocomico, e regala uno spettacolo metateatrale curioso, divertente nonché una lezione di teatro magistrale. La sua lettura drammaturgica del classico di Shakespeare è pura, umana, scevra da artifici e ambizioni finto-sperimentali e consegna al pubblico un testo non mediato da scenografie maestose e istrioni pomposi. Infatti, i pregi e i difetti della scenografia, degli attori ancora acerbi, vengono esaltati per far venire fuori uno spettacolo brioso, pieno di ritmo ed energia, autentico. Cecchi mette in scena un testo e rappresenta il teatro: non poteva esserci lezione più azzeccata di quella che sta fornendo, replica dopo replica, al suo pubblico.


Sogni di una notte di mezz’estate
di William Shakespeare
regia di Carlo Cecchi
traduzione Patrizia Cavalli
scena Roberto Bivona e Carlo Cecchi
costumi Sandra Cardini
luci Stefano Barbagallo
consulenza musicale Nicola Piovani
aiuto regista Valentina Rosati
produzione Teatro Stabile delle Marche
con il patrocinio dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”

In scena dal 31 gennaio al 12 febbraio 2012 al Teatro Vascello di Roma.

“Fare i libri” a cura di Riccardo Falcinelli

Mercoledì 1 febbraio, presso la libreria Fandango Incontro (Roma), si è tenuta la presentazione di uno degli ultimi volumi firmati minimum fax: Fare i libri. Dieci anni di grafica in casa editrice (2011), a cura dell’art director della casa editrice, Riccardo Falcinelli.

Il libro, lanciato in occasione della fiera “Più libri più liberi”, nel dicembre scorso, si propone come una sorta di manuale di grafica – preciso, completo e dettagliato – il cui punto di forza è senz’altro l’uso innovativo dell’esperienza pratica raccolta sul campo, giorno dopo giorno, per illustrare una disciplina che, soprattutto agli occhi dei non addetti ai lavori, viene spesso sminuita al mero rango decorativo.

A presentare il volume, oltre al curatore, Riccardo Falcinelli, i due editori, Marco Cassini e Daniele Di Gennaro, in un gioco delle parti che vediamo riflesso nelle stesse pagine del libro, sulle quali si susseguono gli interventi delle figure principali della casa editrice, a dimostrazione di quanto il progetto grafico assuma una posizione centrale, e corale, nel progetto editoriale di minimum fax.

«Questo libro vuole aprire le porte e i cassetti della casa editrice e raccontare il nostro percorso identitario dal punto di vista della grafica», nulla di più vero, dato che il manuale, oltre a completi apparati tecnici che “smontano” il libro in ogni suo dettaglio – dal tipo di carta, alle diverse font, alle miscele cromatiche che danno vita alle copertine, passando per i dettagli di piegatura di bandelle e sovraccoperte –, ci propone un’infinita serie di aneddoti, riflessioni, discussioni che hanno accompagnato le scelte grafiche di minimum fax e di Falcinelli in questi anni di collaborazione.
Fare i libri ha infatti anche l’obiettivo di celebrare un connubio di lavoro e buon gusto che va avanti appunto da dieci anni, mantenendosi in equilibrio sul delicato filo dell’«industria culturale», come ricorda Cassini, una definizione sempre in bilico tra l’aspetto più umano, divertente e appassionante del mestiere e quello più prettamente aziendale, nella duplice tensione che contraddistingue il lavoro editoriale. Ci imbatteremo quindi nel racconto di un caporedattore che posa per una copertina, di libri invecchiati così bene da essere rispediti al mittente perché apparentemente danneggiati, di gite in rosticceria per fotografare un pollo arrosto, di progetti riusciti e bozzetti accantonati.

Ciò che salta agli occhi, sfogliando questo coloratissimo volume, è soprattutto la pluralità degli aspetti che in un progetto grafico propriamente detto devono essere sapientemente selezionati, distillati e distribuiti in modo equilibrato ed elegante. Come infatti sottolinea Falcinelli nel corso della presentazione, quello che troppo spesso viene trascurato è in realtà il concetto fondante della grafica editoriale, il fatto cioè che «la grafica nasce consustanzialmente al prodotto, non è un semplice orpello decorativo, ma è ciò che dà forma al libro, non qualcosa che vi si mette sopra a mo’ di decorazione». Grafica – o meglio book design – come fulcro, quindi, come il valore aggiunto che attraversa l’oggetto-libro da parte a parte, plasmandolo e contribuendo in modo sostanziale a trasmetterne i contenuti.

Oltre a una gioia per chi ha seguito in questi anni il percorso della casa editrice, oltre a un manuale di riferimento per chi si affaccia alla disciplina della grafica editoriale, Fare i libri rappresenta una vera e propria chicca in quanto prodotto editoriale in sé, dall’accessibilità molteplice e poliedrica. I contenuti sono distribuiti infatti su due indici differenti: una sequenza verticale, che ripercorre la genesi, lo sviluppo e il restyling delle diverse collane minimum fax, è intrecciata con una panoramica orizzontale, che ci propone l’argomento della grafica editoriale dai diversi i punti di vista degli addetti ai lavori.
La tematica che fa da perno all’intero volume resta una, e molteplice: come si fanno i libri? Lo scopriremo leggendo gli interventi, non solo dei due editori e dell’art director, ma anche del direttore editoriale, Martina Testa, del caporedattore, Dario Matrone, e dell’addetto stampa, Alessandro Grazioli, ed entrando così nel vero e proprio cuore del progetto stesso: l’officina del libro.
Il risultato è, come ha concluso Di Gennaro, «un condensato fisico che dà meraviglia». Provare per credere.


(Fare i libri. Dieci anni di grafica in casa editrice, a cura di Riccardo Falcinelli, minimum fax, 2011, pp. 170, euro 15)

“Falso movimento” di Riccardo D’Anna

Falso movimento (Memori Edizioni, 2011), l’ultima fatica di Riccardo D’Anna, è un romanzo fuori dal comune, affascinante, avvolgente. Difficile non pensare a Memento, il bel film a ritroso di Christopher Nolan o, sempre in campo cinematografico, a quel gioiello che fu Il sesto senso di Shamalyan.

Avrete capito che l’architettura del libro è di quelle non facili da inquadrare a prima vista, e anche da descrivere per il povero recensore, in bilico tra il divieto tassativo di far trapelare inopportuni indizi rivelatori e la voglia di raccontare l’essenza di questo noir moderno che si dipana a macchia d’olio tra America e Italia.
12 settembre 2001. Michele, il protagonista, in Florida per un convegno di dentisti , non può rientrare a Roma a causa del blocco totale susseguente l’attentato alle Twin Towers appena avvenuto, e decide di accettare l’inquietante invito di un lontano parente della moglie. Cosa accade, nella realtà e nella mente del protagonista da quel momento in poi è descritto dall’autore in un alternarsi di piani narrativi e di flash back incalzanti che troveranno solo nel finale, nella miglior tradizione dei gialli, la giusta collocazione.
Attenzione però, il romanzo non è “solo” un noir ben congegnato ma anche, e soprattutto, un viaggio nella memoria che, come sembra dirci l’autore, è fatta di dettagli: i ricordi portanti di un intero percorso umano. Siano essi l’amore per le persone più importanti della vita, sia una squadra di calcio, sia episodi di scarsa rilevanza concreta ma di grande impatto emotivo.
È difficile dire di più senza il rischio di scoprire le carte. Diciamo che tutti gli elementi significativi della vita di un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, il protagonista della storia, vengono analizzati attraverso la lente, a volte deformante, della memoria, nella ricomposizione di un puzzle formato affresco in cui i sentimenti, le persone e i ricordi vengono a galla alla rinfusa, con collegamenti apparentemente casuali ma in realtà convergenti in un disegno di senso compiuto che appare nella sua completezza solo nell’intensa conclusione di questo inconsueto romanzo.


(Riccardo D’Anna, Falso movimento, Memori Edizioni, pp. 117, euro 12)

“Razzisti a parole (per tacer dei fatti)” di Federico Faloppa

Tra i vari modi con cui i linguisti si fanno un’idea di quanto una determinata parola o espressione sia entrata nell’uso comune c’è quello di cercarla su internet. È quanto ha fatto Federico Faloppa, docente di Linguistica italiana all’Università di Reading, con l’espressione «non sono razziata, ma», che nel 2010 ha prodotto circa 140.000 occorrenze. Preso di per sé, questo risultato può anche non contare molto, ma se si pensa che solo tre anni prima dalla stessa interrogazione erano emersi 10.000 risultati, ecco che i numeri assumono la forma di indicatori.

Faloppa ci ricorda – e pare che ce ne sia ancora bisogno, soprattutto se si leggono le molte dichiarazioni leghiste riportate nel volume Razzisti a parole (per tacer dei fatti), edito da Laterza – che nell’uomo non esistono razze biologiche, per il semplice motivo che come specie esistiamo da troppo poco tempo e non abbiamo avuto il tempo di distinguerci geneticamente. Se dunque il razzismo di oggi non è più di tipo scientifico, può essere però il razzismo della paura del diverso, che sfocia in quello delle pratiche discorsive: dal dare del tu al nero o al filippino senza conoscerlo, immaginando che non sia padrone della nostra lingua; all’uso di termini che hanno una loro connotazione specifica, come immigrato, ma che vengono utilizzati con altri significati. Esemplare di questo uso è la formula «immigrati di seconda generazione», soventemente pronunciata durante i dibattiti sull’integrazione scolastica, con la quale si cela la connotazione fondamentale di quei bambini, il fatto di essere nati in Italia, e si pone l’accento sulla loro provenienza straniera.

Ecco allora che si delinea il quadro di un linguaggio che, anche quando si hanno le migliori intenzioni, soffre di preconcetti, quando non delle eccessive premure di quel politicamente corretto con cui ci si rassicura dando nomi nuovi a questioni irrisolte.


(Federico Faloppa, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza, 2011, pp. 144, € 9.00)

“La trappola e la nudità” di Walter Mauro ed Elena Clementelli

Lunedì 30 gennaio nella libreria Feltrinelli della galleria Alberto Sordi si è tenuta la presentazione del nuovo libro di Walter Mauro ed Elena Clementelli, edito da Giulio Perrone. In realtà il testo La trappola e la nudità. Lo scrittore e il potere era stato pubblicato per la prima volta nel 1974. Il professor Giulio Ferroni, docente di Letteratura italiana alla Sapienza, ha introdotto l’opera con un interessantissimo discorso sollevando un dibattito letterario.


Nodo fondamentale del testo è il rapporto tra scrittore e potere. La prima osservazione riguarda la scelta della parola “scrittore” al posto di “intellettuale”: quest’ultimo è un termine di cui oggi si è un po’ abusato, dal momento che nasce alla fine dell’Ottocento in un contesto letterario di persone che si definiscono tali; lo scrittore è, invece, un artista poiché scrive, ma non necessariamente un intellettuale. La “trappola” è appunto il concetto di potere nelle tante manifestazioni che assume.


Attraverso una serie di interviste il libro cerca di ricostruire un’epoca, un passato urgente e drammatico. Gli artisti descritti sono uomini dalla grande personalità, personaggi di rilievo, dominati da una profonda emergenza interiore ovvero una creatività pronta a esplodere e trasformarsi in un’esperienza umana forte. Pensiamo a grandi nomi italiani e stranieri quali: Montale, Moravia, Carlo Levi, e ancora Lorca, Neruda, Rafael Alberti, Vargas Llosa, Gombrowicz: tutti hanno vissuto la tragedia del potere sulla propria pelle nel periodo in cui i totalitarismi – fascismo, nazismo, franchismo – dilaniavano l’Europa. Nei primi anni Settanta la spinta del ’68 è forte, incalza l’anelito di libertà dei popoli colonizzati o ex-colonizzati, si pensi ai colpi di stato avvenuti in Cile e in Argentina.


La situazione politica si manifesta con una spinta in avanti forte e per molti intellettuali si traduce nell’esilio; anche coloro che non sono materialmente fuori dalla patria sentono la propria posizione di outsider. La “nudità” è la posizione dello scrittore che fa affidamento sulla parola e sul valore della parola. Si parla di una «necessità della parola», la parola è schiacciata da un confronto diretto con la patria e vive sradicata nell’esilio. Emblematica l’immagine di una poesia di Rafael Alberti il quale passando davanti alle coste dell’amata Spagna non può avvicinarsi perché bandito dalla propria terra.


Nel libro si succedono interviste che partono dal rapporto esistenziale con l’autorità paterna, un rapporto che si fa di volta in volta, indifferente, avvolgente o perfino ossessivo. Quest’opera può essere considerata un ampio saggio sulla problematica del potere il cui punto di partenza è la distinzione in tre categorie di Max Weber: razionale, tradizionale, carismatico. 
Emerge una serie di ritratti morali in cui a volte fa da sfondo un paesaggio, o il luogo dell’incontro: ricordiamo il salone di Moravia in cui si respira la letteratura che può circolare nella vita di tutti i giorni. Tra tanti Mauro rievoca Raphael Alberti e la sua casa in via Garibaldi, «in cui confluivano tutti gli scrittori del mondo – Bellow; Neruda; Lorca – accolti a braccia aperte. Si stendevano sul divano e in piena libertà recitavano a memoria le poesie». Ancora una volta il jazz si rivela come un fil rouge nella vita di Walter Mauro: sembra infatti che l’idea del libro sia nata durante il Festival del Jazz di Bologna conversando con James Baldwin, grande interprete del genere.



 A mio avviso leggendo questo libro si ripercorre nel bene e nel male una fase importante non soltanto della storia europea, con i suoi protagonisti e le sue contraddizioni, ma dell’intera umanità.
Un viaggio nella memoria che, attraverso il singolo ricordo, ricostruisce il passato e traccia il percorso della militanza della scrittura con il suo compito netto e deciso.



 
(Walter Mauro ed Elena Clementelli, La trappola e la nudità, Giulio Perrone Editore, 2012, pp. 256, euro 14)


“1965-1966 La nascita del nuovo rock” di Riccardo Bertoncelli

Suscitare nel lettore almeno un po’ di nostalgia. Un po’ di rammarico per non aver potuto vivere lo splendore di quel biennio di più di quarant’anni fa. Di rimpiangere quella musica ormai leggendaria. Credo fosse questo l’intento di Riccardo Bertoncelli, noto critico musicale e curatore di un libro così prezioso. Infatti, sembrerà incredibile, ma tutti gli eventi e gli artisti citati nei capitoli di 1965-1966 La nascita del nuovo rock sono veramente accaduti in quel lasso di tempo così ridotto. Il curatore, non risparmiando davvero nulla, imposta la narrazione e l’esposizione in maniera rigorosa e chiara, raccontando tutto ciò che c’è da sapere sulla musica di allora.

L’inizio però è datato 1964, l’11 dicembre per essere precisi, quando Sam Cooke – astro nascente del soul e difensore dei diritti della comunità nera – muore assassinato in un motel di Los Angeles. Una delle sue ultime composizioni sarà appunto “A Change Is Gonne Come”. Il ragazzo ci aveva visto lungo, riuscendo a presagire i grandi cambiamenti sociali e culturali che da li a breve sarebbero arrivati, combaciando con l’ascesa e la ribellione dell’ultima generazione e l’avvento dei “Sommi padri del rock”.

Conclusosi il capitolo dedicato alla svolta presagita da Sam Cooke, si apre una dettagliata e fitta cronologia – non solo musicale – dedicata, mese per mese, alle date da ricordare del biennio.
Giustamente, i primi ad apparire sfogliando le pagine sono proprio loro: i Beatles. Quel periodo, anche per i ragazzetti di Liverpool, è stato davvero epico. Senza dilungarsi troppo sul titolo di baronetti conferitogli proprio in quegli anni, musicalmente parlando, abbiamo in primis Help!; il disco che include una certa “Yesterday” (e non solo) e l’annesso e omonimo film. Nel 1965 accadono due incontri davvero storici: quello con Re Elvis e quello con Bob Dylan. Soprattutto il secondo influirà pesantemente sul disco della svolta del gruppo, ovvero Rubber Soul, il primo album concepito come tale, tra le cui note cresce una complessità, una maturità e una composizioni del testo totalmente nuova. “Novegian Wood” ne è un esempio perfetto.

Il libro intanto continua senza tralasciare nulla, approfondendo sia il lavoro discografico successivo del gruppo – il più grande album di sempre, Revolver – sia le vicissitudine interne e pubbliche dei quattro di Liverpool: dagli estenuanti live in giro per il mondo (Italia compresa), al secondo libro di Lennon, dalla disastrosa esperienza delle Filippine, fino alla “chicca” dedicata alla misteriosa Butcher Cover. Viene così data la possibilità al lettore di conoscere e rivivere a pieno quei giorni davvero di fuoco vissuti da George, Ringo, John e Paul; giorni destinati a fare e cambiare per sempre la storia della musica. E non solo.

C’è poi il “Big Bang”!
Quello musicale, ovviamente. Un’esplosione cosmica di accordi e parole concepita dal genio di Bob Dylan, in quegli anni estremamente ispirato e florido, che riuscirà a cambiare fin dal profondo i connotati dall’arte contemporanea. Renderà elettrico il folk, scriverà cupi e oscuri testi, abbandonando le tematiche civili e cantautoriali. E vi riuscirà con una trilogia di album che da sola meriterebbe un libro a se stante. Bring It All Back Home, Higway 61 Revisited (il disco con “Like a Rolling Stone”) e Blonde on Blonde. Come riassume perfettamente il sottotitolo del capitolo a lui dedicato: «Una vita in due anni».

Anche se i due pesi massimi appena incontrati basterebbero già da soli ad appagare gli appassionati più dediti, il volume è in realtà appena all’inizio; ecco arrivare infatti – sempre nell’orbita del “Big Bang” – i nomi di Byrds, Beach Boys, Who e Rolling Stones. Se dei primi viene raccontato il boom della loro cover di “Mr. Tamborine Man”, dei secondi non si può non parlare facendo riferimento a Pet Sounds, vera pietra angolare della musica moderna. Nato dalla volontà di Brian Wilson di trasformare la sala d’incisione non in un mero mezzo di registrazione programmata, bensì in un vero e proprio luogo di creazione artistica, le tracce dello storico lavoro sono un volo pindarico inimmaginabile per quel periodo. Tanto da sconcertare i produttori, i fan e la band stessa (che molto spesso non comprenderanno il genio compositivo di Brian); solo i Beatles capiranno la portata del lavoro, dando vita a un “duello” scolpito a suon di album con la band californiana, che ridurrà letteralmente Wilson sull’orlo della follia. Una follia chiamata Smiley Smile e sottotitolata “Good Vibration”.

Si prosegue poi con l’interessante capitolo di Cesare Rizzi sulle origine del Garage Rock, fino ad arrivare ai capitoli americani su Velvet Undegroud, Coltrane e Frank Zappa.
E quale modo migliore per riassumere il tutto se non proponendo una carrellata dei 20 dischi che hanno cambiato la storia?
Sembrerebbe non esserci posto per l’Italia e invece il meglio è riservato alle fine. Sempre con un capitolo a firma da Cesare Rizzi – intitolato «Memorie e frammentidel bit originale»– si può venire a conoscenza del panorama musicale italiano che ai tempi prendeva forma.

Insomma, 1965-1966 La nascita del nuovo rock più che un libro è una riuscitissima via di mezzo tra l’enciclopedia di storia della musica e un bellissimo album di ricordi. Ricordi di quarant’anni fa, ma per niente sbiaditi.


(1965-1966 La nascita del nuovo rock, a cura di Riccardo Bertoncelli, Giunti Editore, 2011, pp. 288, euro 19,50)