“R.E.M. 1979-2009” di Milena Ferrante

Il 21 settembre di quest’anno i R.E.M., decidendo di sciogliersi, hanno chiuso il loro ultimo capitolo. E così, qualora si volessero scoprire o magari approfondire i precedenti passaggi della loro vita e della loro folgorante carriera, non resta altro da fare che leggere R.E.M. 1979-2009 di Milena Ferrante, edito dalla casa editrice Giunti per la ricca e notevole collana Bizarre.

Occuparsi e scrivere della band americana non è certo qualcosa di facile e scontato: primo, per la densità dei fatti avvenuti nel trentennio biografico preso in esame ed esemplificato già dal titolo; secondo, per l’importanza e l’influenza che i quattro rocker georgiani hanno sul contesto rock contemporaneo. Il libro della Ferrante prende atto di tutto questo e lo fa con delle scelte molto felici, accompagnando la storia del gruppo e dei loro dischi con una cronologia dettagliata posta a bordo pagina, arricchendo il volume con delle schede monografiche d’approfondimento e una specifica discografia selezionata, per non parlare degli interessanti focus tematici posti alla fine di ogni capitolo. Il tutto condito con una bellissima sfilata di immagini e illustrazioni.

Alla luce di queste scelte, si può così godere a pieno delle vicende del gruppo che viene giustamente definito dall’autrice come «l’anello che congiunge il rock indipendente più intransigente e lo sfavillante universo dei campioni delle classifiche». Partendo dal lontano ottobre 1979, l’anno dell’ormai primo ed epico concerto della band tenutosi alla St Mary’s Episcopal Curch, al 394 di Oconee Street ad Athens, iniziamo a conoscere le gesta di Michael Stipe, Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry, le sfaccettature della loro personalità e l’originalità del loro stile. Fin da subito colpisce l’integrità con cui i giovanissimi musicisti affrontano i palchi e le difficoltà della gavetta, sempre pronti a difendere con intransigenza la propria musica e le proprie scelte, divenendo in pochissimi anni i veri paladini del rock indipendente. Si arriva così all’esordio fragoroso di Murmur, disco dell’anno secondo Rolling Stone, che quasi per assurdo consacra fin dall’inizio i R.E.M. come portavoce e rappresentanti massimi di uno stile – l’underground – che allora faceva parecchia fatica a ritagliarsi spazio nel panorama musicale mondiale, oscurato dai futili lustrini delle tante band pop celebri ed emblematiche di quel periodo. Fatto sta che album dopo album, i ragazzi di Athens infilano una perla dopo l’altra, mettendo in pratica alla perfezione la lezione strutturale dei Velvet Underground, innestandola sulla chitarra dei Byrds e sull’eco dei Beach Boys: al resto poi, ci pensano loro, regalando degli attimi di emotività senza paragoni come Perfect circle.

Cavalcati gli anni ottanta fino alla consacrazione post-Document come «più grande rock and roll band americana», il biennio ‘90-‘92 ci propone quelli che sono giustamente definiti dalla scrittrice «I cancelli del paradiso». Solo con questo titolo si possono raccontare i fasti seguiti a due album assoluti come Out of time e Automatic fot the people, la cui genesi, come per i precedenti, viene descritta minuziosamente sia dal punto di vista compositivo, che dal lato emotivo e vitale con cui i membri del gruppo hanno affrontato le loro New adventuries in hi-fi. Arriviamo così al triennio 1998-2001, nel quale, nonostante il ritiro del batterista Bill Berry, i superstiti continuano la loro avventura. Accelerate è il modo migliore per chiudere il libro; un disco potente capace di riportate la band sulla cresta dell’onda dopo il mezzo fiasco di Around the sun, facendola anche conoscere alle leve di ascoltatori più giovani.

E nel libro c’è una frase, tra le primissime pagine, che soprattutto alla luce dello scioglimento della rock band, può essere considerata la loro summa. L’ha scritta il chitarrista Peter Buck, nel 1984, come monito a non vendersi mai l’anima per il business: «Se i R.E.M. riescono a cambiare la vita di chi li ascolta oggi, come fu cambiata la mia dal rock, non avremo vissuto invano».

Possiamo rassicurare la chitarra dei R.E.M.: infinite file di fan stanno a testimoniare che grazie alla musica prodotta non hanno vissuto in vano.

Il self publishing, Amazon e l’editoria nazionale

Ecco i fatti: ai primi di dicembre, Amazon annuncia l’opportunità per autori ed editori di usufruire del sistema Kindle Direct Publishing, cioè della possibilità di rendere disponibili i propri libri sul Kindle Storeitaliano.
In questo modo, chi decidesse di pubblicare con Amazon vedrebbe spalancarsi le porte di un mercato enorme, non solo italiano ma mondiale. Il self publishingattraverso il Kindle Direct Publishingpermette infatti di raggiungere tutte quelle nazioni che hanno già stretto accordi commerciali con Amazon (oltre un centinaio), e quindi di affacciarsi su un mercato potenzialmente smisurato.
Fin qui tutto bene.

È infatti un’altra la novità più accattivante che all’aspirante scrittore viene offerta da Amazon: la ripartizione delle royalty. Se finora l’autore di un testo cartaceo poteva vedere nella quota del 10% di ricavo un sogno irraggiungibile, adesso Amazon garantisce, di un libro digitale, un guadagno del 70% sul prezzo di copertina senza IVA (escludendo tuttavia dal conto le spese di trasmissione dati). Un’enormità. Soltanto il 30% rimarrebbe nelle mani del colosso yankee. La società fondata da Jeff Bezos ritiene quindi che il cliente, scrittore/lettore, sia da favorire. Il “credo” sarebbe quello di mettere il consumatore al centro del sistema, facendolo sentire protetto e tutelato. Un sogno per quanti hanno sempre desiderato pubblicare un libro o leggere spendendo poco e avendo una possibilità di scelta incredibilmente ampia. È però anche una mossa che permetterebbe ad Amazon di monopolizzare il mercato.

Come possono, allora, gli editori italiani restare inerti a guardare mentre il gigante decide di entrare nel settore editoriale offrendo ad aspiranti scrittori la possibilità di varcare la soglia della pubblicazione a bassissimo costo e senza l’obbligo di un controllo editoriale sui contenuti?

Se poi lo stesso Amazon decide di offrire guadagni (potenziali) che nessun altro può garantire, la partita per il controllo del sistema librario digitale sembra finita prima ancora d’iniziare.

Ma la situazione non è così semplice. Già adesso in Italia la quota di lettori è incredibilmente misera. Tutti gli studi del settore evidenziano come nel nostro paese si legga poco, nonostante ogni giorno vengano pubblicati circa 160 titoli, fra cui un centinaio di novità. Peccato che il 60% circa di tutti questi testi non venda mediamente nemmeno una copia. Aggiungere quindi ulteriori testi attraverso il mercato a basso costo degli eBook potrebbe, secondo alcuni, portare al completo blocco di un mercato già di per sé saturo. Ovviamente in una situazione come quella italiana, dove l’editoria cartacea è gestita da 5 grandi gruppi che si spartiscono il 63% del fatturato totale, la nuova via dei testi digitali potrebbe essere un’opportunità da non sottovalutare per tutti gli altri. La spinta di Amazon, da questo punto di vista, potrebbe aiutare a far nascere e sviluppare un nuovo settore che gli editori nostrani non sembrano in grado di far maturare da soli. Il lato negativo è che Amazon sta attuando una politica che nel futuro gli permetterà di avere il monopolio, o quasi, di tutto il compartimento librario elettronico. Grazie alla sua operazione volta a incoraggiare il self publishingpotrebbe un giorno legare a sé sia i clienti/scrittori sia i clienti/lettori. Tutto questo sarebbe prodotto anche dalla scelta di utilizzare formati digitali proprietari protetti con cui creare eBook, che verrebbero poi legati indissolubilmente ai lettori Kindle prodotti dalla casa stessa.

Il rischio maggiore per gli editori nostrani è che, se mai il mercato dei testi digitali dovesse prendere il via, questo sarebbe inevitabilmente connesso ad Amazon, senza alcuna possibilità di scalfirne il potere. La soluzione caldeggiata da molti è quella di contrastare l’enormità di testi che Amazon renderebbe disponibili ai suoi clienti con prodotti di qualità, che attraverso il passaparola eluderebbero le capacità pubblicitarie del gigante americano permettendo la nascita di un sotto-mercato librario che, sebbene con mezzi limitati, potrebbe sopravvivere e magari svilupparsi floridamente.
Staremo a vedere…

“Sherlock Holmes - Gioco di ombre” di Guy Ritchie

Come finale sarebbe stato bellissimo. Un tocco di poesia in un film d’avventura, indimenticabile quanto inaspettato: simili eppure diversi, l’uno la Nemesi dell’altro, dopo una lunga strada percorsa insieme e consapevoli di essere le due facce della stessa medaglia, il buono e il cattivo sono uniti nel momento supremo. Il genio del bene che accetta sereno il suo destino e il genio del male che urla la sua rabbia, quella di chi vede svanire la vittoria a lungo pregustata. Un po’ come succede a Risiko, quando perdi 18 armate contro 3 sparuti carrarmatini, divenuti misteriosamente “immortali”. E qualcuno non ti va a tirar fuori una combo da 14?

Come finale era bellissimo, ripeto, ma non andava bene, perché il cinema è un’industria, esattamente come l’editoria. La stessa editoria che costrinse Arthur Conan Doyle ad ammazzare Sherlock Holmes nel momento del suo maggior successo, per non essere più assediato dagli editori che gli chiedevano nuovi racconti. Succede, quando hai abbastanza soldi. La stessa Rowling dichiarò, anni fa, che non avrebbe esitato a far morire Harry Potter prima di scrivere l’ultimo romanzo, se avesse avuto il sentore che disturbava lei e la sua famiglia. Ma ci ha fatto la grazia.
La grazia ce l’ha fatta anche “Mr.Ciccone”, pardon, ora di nuovo Guy Ritchie, che non brilla come gentiluomo (un mio insegnante di inglese lo odiava in quanto «si comporta come un deficiente fingendosi una specie di gangster londinese ma appartiene a una ricca e stimata famiglia upper class») e ha il fastidioso vizio di scatenare risse per motivi futili, ma i film, almeno, li sa fare. Chiaro: sotto il segno del post-moderno, che si traduce in azione frenetica, montaggio vertiginoso, colpi di scena come se piovesse. E che volete di più da un film?

Già mi immagino le proteste dei cineasti e vi prego di leggere la prossima frase con tono lamentoso e nasale, insomma da critico: «Eh, ma manca lo sviluppo personale dei protagonisti, non c’è arte, è mestiere». Quasi vero, vi rispondo. Innanzitutto perché a cambiare nel tempo non è Holmes, ma il buon dr. Watson («Eroe è colui che cambia») un divertente Jude Law, sempre ottimo comprimario (e infatti Alfie era una palla) ma che nei romanzi di Doyle è, per le leggi della narrativa, il vero protagonista. E narratore. Ma chi se ne frega, scusate, sono “le Avventure del dr.Watson”? Non mi pare. Il mattatore deve quindi essere Holmes. Che nasce come personaggio flat, immutabile, alla Topolino. Solo che Topolino è semplicemente insopportabile, mentre l’Holmes di Robert Downey Jr. è ubriacone, drogato, anticonformista, alienato dal suo stesso genio. Dunque irresistibile: scusate eh, ma se volete vedere un film fatto di sguardi intensi, sorrisi accennati, silenzi, avete sbagliato genere. Se ti piace la vita comoda vai in campeggio? No.

Non sarà dunque Quarto Potere, ma di chicche, nel film, ce ne sono parecchie. E non parlo solo degli intermezzi comici come la tenuta mimetica urbana di Holmes. C’è la scena del treno, di sapore marrazziano, o il matrimonio di Watson (che assomiglierà molto al mio, conoscendo il testimone) e la memorabile partita a scacchi. Già, perché Moriarty è un figlio di buona donna che trasuda buone maniere, anche se ti deve dire in faccia che ucciderà il tuo migliore amico: in fondo sono le maniere che han reso celebre l’Inghilterra. Non l’Impero, ma lo Stile. E questo, nel film, traspare.

Allora non mi criticate Guy Ritchie, ché è anche grazie a lui che una intera generazione (la mia) riesce ancora a spegnere il cervello e a farsi raccontare una storia, come bambini davanti al fuoco. E va ancora a godersi il grande schermo, prigioniera dell’industria dello spettacolo. Quella stessa industria che non apprezza il mio finale, in cui l’omicidio per vendetta diventava autosacrificio nel nome dell’amicizia. E la stessa che mi dice di aspettare Sherlock Holmes: il Mastino dei Baskerville. Per far cassa prima che gli attori invecchino.

Consigliato a: gentiluomini vittoriani, zingari veri o presunti, adolescenti dentro e fuori, il mio vecchio coinquilino Francesco. 

“Art” di Yasmina Reza

È ufficiale: Yasmina Reza è la drammaturga di moda dei nostri tempi. Leggermente sopravvalutata, ultra citata, eppure la sua scrittura è efficace e, supportata da validi attori, riesce a divertire il pubblico e a intrattenerlo con qualità. Art, complice anche la regia di Giampiero Solari, ha una serie di ingranaggi perfetti e ruota attorno a tre amici dai caratteri totalmente diversi : Serge, interpretato da Alessio Boni, è un dermatologo che ha acquistato per duecentomila euro un quadro di arte contemporanea totalmente bianco di un pittore alla moda, oggetto della diatriba tra i tre; Marc, un efficacissimo Gigio Alberti, invece è un ingegnere aeronautico, che apprezza uno stile più classico di arte ed è convinto delle sue idee a riguardo; Yvan, interpretato da uno stupefacente Alessandro Haber, è un agente di articoli da cartoleria che vorrebbe, invece, fare da moderatore tra i due amici. Fra tensioni e discussioni accese, si affrontano le tematiche dell’amicizia e della comprensione dell’arte borghese contemporanea. Lavoro brillante e serrato, con poche imperfezioni, che si può definire “intrattenimento alt(r)o”, un incontro di boxe ironico con finale da commedia. In fin dei conti, vengono rispettate tutte le premesse e l’azione scenica catalizza lo sguardo dello spettatore che, di volta in volta, partecipa applaudendo e ridendo di gusto.

Haber e Alberti ancora una volta confermano le loro qualità, Alessio Boni, invece, è una gradita scoperta. Yvan è l’anello debole, è fragile eppure le sue osservazioni sulla vicenda non sono del tutto infondate. «Al di là del prezzo pagato per il quadro», dice Yvan a Marc, «se il quadro emoziona Serge, perché biasimarlo?»
Il suo discorso è giusto, come lo è il punto di vista di Serge – che si è affrancato dal mentore Marc per cercare una propria strada – o quello dell’ingegnere irremovibile. Hanno ragione, però, solo perché sono l’incarnazione – nelle tre accezioni diverse – della morale e della cultura borghese, intrappolati in un sistema predefinito a monte, che utilizza la cultura e l’arte solo per fini decorativi. Il cancro della società attuale parte proprio dai loro atteggiamenti emblematici, dalla chiusura mentale di Marc all’“essere sempre à la page”di Serge per non sfigurare in società, passando per l’inazione di Yvan. Art non ci parla solo dei valori dell’amicizia né solo del valore dell’arte contemporanea ma è piuttosto una critica, forse troppo velata, ai vizi della società borghese attuale che, però, ha il difetto di non ferire nessuno. Alla fine, nel quadro ognuno vedrà qualcosa, un colore, una sfumatura, un tratteggio in quanto riflesso delle proprie convinzioni. Il che ci fa capire quanto la società influisce sulle nostre scelte e sui nostri gusti.

 

Art
di Yasmina Reza
regia Giampiero Solari
con Gigio Alberti, Alessio Boni, Alessandro Haber.
scene Gianni Carluccio
luci Marcello Iazzetti
costumi Nicoletta Ceccolini
traduzione Alessandra Serra

Roma, Teatro Eliseo, fino al 15 gennaio

“Corpo celeste” di Alice Rohrwacher

Il film Corpo Celeste narra la storia di Marta, una ragazzina di tredici anni di origine calabrese, ma che ha sempre vissuto in Svizzera. Quando la madre perde il lavoro, la famiglia è costretta a trasferirsi nella provincia di Reggio Calabria, dove Marta si troverà a vivere in un contesto completamente diverso da quello a cui era abituata, dominato da una mentalità ipocrita e filoclericale.

La vita in famiglia non è molto più facile da gestire, tra i continui attacchi della sorella e la diversità degli zii e della cuginetta, cresciuti in una realtà per lei incomprensibile, la figura della piccola protagonista appare estremamente solitaria, confortata solo dalla presenza della madre, l’unica a mostrare affetto e comprensione per lei. 

Marta deve fare la cresima, ma il sacramento sembra essere sentito dalla comunità più come un evento mondano (in stile “ballo delle debuttanti”) che spirituale. Inizia così ad avvicinarsi al catechismo, dove si imbatte in un’insegnante bigotta e morbosamente legata al sacerdote della parrocchia, don Mario, prete più interessato alla carriera che non alle questioni di fede.

Il film è tempestato da figure ben delineate quanto inquietanti, interpretate da un cast di attori credibili nei ruoli che ricoprono. Alcuni personaggi sembrano presi in prestito dall’immaginario horror, come il vescovo e il suo segretario, “lombrosianamente” loschi e caratterizzati da un atteggiamento arrogante, o il sagrestano, prepotente e capace di atti deplorevoli.

L’atteggiamento della regista verso la realtà che vuole descrivere, un piccolo centro del Sud, può apparire viziata da alcuni pregiudizi, in quanto l’immagine che si presenta allo spettatore è quella di una realtà retrograda, descritta quasi in chiave “macchiettistica”, e priva di individui pensanti, fatta eccezione della famiglia di Marta che, per l’appunto, ha vissuto in un altro Paese. L’assenza di elementi positivi o anche di contesti differenti da quello della casa e della parrocchia, ad esempio la scuola o un qualsiasi luogo di svago, tolgono realismo al film che, tuttavia, ha il merito di descrivere l’inettitudine di alcuni rappresentanti dell’istituzione ecclesiastica i quali, non riuscendo a porsi come guida nei confronti dei fedeli né a comunicare realmente con essi,  preferiscono far leva sull’ignoranza e la fragilità di alcuni soggetti per far valere la propria autorità.

[Best 2011] I video musicali

Dopo i dieci migliori album del 2011 secondo Flanerí/InMusica, ecco i cinque video musicali che ci hanno colpito maggiormente durante l'anno. Anche in questa occasione il contesto è principalmente rock e internazionale. Buona visione a tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I 5 MIGLIORI VIDEO DEL 2011

5) Foo fighters, White limo
Date una camera a Dave Grohl e ne avrete – come sempre – in cambio un video originale, low cost e soprattutto spassoso, da citare specialmente per le presenza del sommo Lemmy dei Motorhead nel ruolo dell’autista folle della White limo, che alla fine, non pago dei danni, ruba la moglie al leader dei FF.

 

 

4) Rammstein, Mein land
Diretto da Jonas Akerlund, il video del primo singolo del best della band metal tedesca più famosa del mondo, è una divertente e gustosa parodia delle atmosfere anni ‘60 dei Beach boys: tutto questo finché il sole non cala sulla spiaggia e il bagnino – in stile Baywatch – Till Lindemann, con band al seguito, non scatena lo show pirotecnico di Mein land, mostrando il lato oscuro della solare spiaggia.

 

 

 

3) Is tropical, The greeks
Se avessimo dovuto premiare solo l’idea più originale, allora questo video sarebbe stato al primo posto. L’immaginazione e la fantasia dei bambini al potere, con tutta la sua potenza. Nient’altro.

 

 

 

2) Arcade fire, The suburbs
Più che un video un film, chiamato appunto Scene from the Suburbs, diretto dal grande Spike Jonze, dove la formazione di alcuni adolescenti s’intreccia con l’oscuro avvento di sinistri carrarmati. Il tutto, con il sottofondo degli Arcade fire. Che non è poco.

 

 

 

1) Radiohead, Lotus Flower
Nonostante The king of the limbs – esclusi alcuni momenti – ci abbia poco entusiasmato (sensazione condivisa da parecchi fan della band e da molti addetti ai lavori) non potevamo non citare i cinque di Oxford per il video che ha supportato il brano più bello del disco: Lotus flower, appunto. Diretto da Garth Jennings, in un bianco e nero fotograficamente perfetto, ambientato in uno scarno garage, con la camera stabile puntata addosso, frammentata dal montaggio secco, il defibrillato Mr. Yorke, aiutato dal coreografo Wayne McGregor, supporta con il movimento del proprio corpo tutte le basi elettroniche e melodiche del pezzo.
Ovviamente il cantante dei Radiohead pur non essendo un ballerino professionista ha un carisma pazzesco e ogni arto, ogni movimento e ogni espressione del suo volto, in primo piano, sono come il prolungamento degli strumenti musicali impiegati. E come ci si poteva aspettare l’idea semplice ma geniale ha spopolato subito sul web, dando anche vita a parodie e ironici plagi.
 

[Best 2011] Gli album

L’anno sta per finire ed è tempo di bilanci e graduatorie, anche dal punto di vista musicale. E così Flanerí vi propone le sue classifiche, in modo da lasciare impresso nella mente e nella playlist dell’Ipod il meglio della musica di questo 2011.

Va ovviamente premesso che la scelta è puramente soggettiva e forse le posizioni erano poche, ma l’intento della nostra lista musicale non è quello di assegnare premi o riconoscenze, quanto il voler indirizzare il lettore verso i prodotti discografici usciti nel 2011 ritenuti meritevoli di un ascolto duraturo e approfondito vista la limpida bellezza. Il contesto è rock, con poche ma significative eccezioni.

 

I 10 MIGLIORI ALBUM DEL 2011

10) The Vaccines, What did you expect from the Vaccines?
È sempre bello iniziare la classifica con una band esordiente, anzi con la band esordiente per eccellenza del 2011, come l'ha ribattezzata giustamente NME. Stiamo parlando degli inglesi Vaccines, che senza colpo ferire hanno messo in fila un pezzo rock più bello dell’altro, componendo un primogenito disco breve, impeccabile e sorprendente per incisività ed impatto; se una band agli inizi riesce ad alternare momenti di puro rock irrefrenabile come “If you wanna, Wreckin’ bar”, “Norgraad”, “Post break-up sex” e clamorose perle come “A lack of understanding” e “All in white”, una posizione nella classifica è più che legittima. Con la speranza di trovarli agli stessi livelli anche l’anno prossimo.

9) Noel Gallagher’s high flying birds, Noel Gallagher’s high flying birds
Tra i due fratelli ha vinto lui. Noel accantona la chitarra elettrica e lo sferzante e classico rock di cui è stato alfiere fin dagli anni ‘90, per comporre un album intessuto di morbide ballate e atmosfera acustiche e orchestrali. È lampante che le sue ex “Wonderwall”, “Stop cryng your heart out” e “Sunday morning call”, appartengono a un glorioso passato, ma in questo lavoro ci si emoziona ancora. E parecchio, basta sentire per esempio il capolavoro “If i had a gun”, capace di dimostrare quanto il cuore e il talento di Noel possa ancora creare momenti di musica altissimi.

8) PJ Harvey, Let England shake
Recentemente premiato con il prestigioso Mercury Prize, Let England shake di PJ Harvey è una svolta fondamentale per la carriera dell’artista; abbandonato il sexy e graffiante stile rock, l’artista ha deciso di alimentare al massimo la propria linfa cantautoriale e narrativa per poter narrare la storia della sua terra. Un grande romanzo e un grande disco, fusi insieme. Nulla da recriminare.

7) R.E.M., Collapse into now
Il 2011 verrà ricordato anche per lo scioglimento dei R.E.M., che dopo trent’anni di gloriosa ed epica carriera hanno scelto di congedarsi come era nel loro stile; serenamente, come amici, solo dopo aver composto il loro testamento definitivo, ovvero Collapse into now. Il disco è il primo composto dalla band di Athens con la consapevolezza della fine imminente e del proprio passato artistico, auto-omaggiandosi e non sfociando nella cover di se stessi,. Anzi, producendo il loro lavoro migliore, autentico e magico dai tempi delle Nuove avventure. Non c’era modo migliore per salutare i milioni di fan nel mondo usando brani come “Uberlin”, “All the best”, “Mine smell like honey”, “Oh my heart” e il capolavoro definitivo “Eveyday is yours to win”. Addio, ma senza rimpianti, al massimo, con qualche lacrima.

6) Tom Waits, Bad as me
Quando l’Orco torna a ringhiare non ce n’è per nessuno. Anche perché nessuno è cattivo come lui, come giustamente recita il titolo dell’ultimo disco del mito californiano. Dopo anni di silenzio, Mr.Waits ripesca dall’anima nera e dannata della sua arte un’altra lista di brani clamorosi, dove la sua voce riesce a sfiorare, con facilità e talento unici, il paradiso e l’inferno: “Hell broke luce”, appunto, e non rimane altro da aggiungere.

5) Foo fighters, Wasting light
Puro, ispirato e gridato Wasting light dei FF è il disco hard rock per eccellenza del 2011. Registrato nella cantina di Grohl l’album ha una carica e una energia pazzesca, perfettamente immortalata in ogni singola traccia. Wasting light è il prodotto discografico che più di tutti merita d’esser messo al massimo nelle casse per capire perfettamente cosa vuol dire fare ancora del sano rock.

4) The Decemberist, The King is dead
Quasi sconosciuti da noi, i Decemberist in America sono delle vere e proprie glorie, capaci d’intrecciare alla perfezione e con mirabile maestria la tradizione folk con la struttura melodica pop-rock contemporanea. Il risultato è molto probabilmente il loro capolavoro, The King is dead, intessuto di suoni acustici raffinati e indelebili assoli, dove a prescindere dal genere e dal nome, è impossibile non emozionarsi.

3) Elbow, Build a rocket boys!
Tanto osannati quanto altrettanto sconosciuti dal grosso del pubblico musicale, gli Elbow sono un universo rock unico e affascinante che richiede solo d’esser conosciuto a pieno. Ultimi e tra i pochi baluardi di un rock d’autore complesso e d’altissimo profilo, la band di Manchester ha pubblicato quest’anno Build a Rocket boys!, altro prodotto immenso, capace di trascinarti e, infine, imprigionarti come pochi nella sua bellezza.

2) Bjork, Biophilia
Sul fatto che il talento e la voce di Bjork siano qualcosa di assoluto e totale è inutile discutere, ma non è affatto scontato dire che oltre al chiacchiericcio da primo App-album della storia che l’ha preceduto, Biophilia è un capolavoro immenso. Composto con tecnologie avanzatissime e strumenti inventati apposta per l’occasione, rubando anche qualche rumore spaziale dalla NASA, l’ultimo lavoro dall’artista islandese è un connubio perfetto tra perfezione sonora ed emotività vocale; insomma un disco che solo Bjork poteva regalarci.

1) Wilco, The whole love
Qualora non li conosciate, questo è il disco giusto per innamorarvi degli Wilco. Davanti a tale bravura c’è poco da eccepire; il leader e l’anima della band di Chicagoo, Jeff Tweedy, ha impresso una miscela unica di momenti rock stupefacenti e lente ballate, con accenni elettronici non indifferenti come la apripista “Art of almost”. Poche parole insomma, secondo noi, più bello del 2011 va ascoltato e basta. Magari anche per gli anni a venire.

“E il cane parlante disse bang” di Paolo Pasi

Quando qualcuno mi chiede un parere su un ipotetico libro da regalare o da comprare per sé, io esordisco sempre dicendo: “Beh, il libro è un profumo di carta, deve interagire con la pelle di chi legge”.
Momento aforismatico che essenzialmente ricopre due incarichi: seminare un’ augurale poesia d’ingresso, come si fa con l’incenso prima di un rito e soprattutto mettere le mani avanti in caso il mio suggerimento fallisca miseramente schiantandosi con i reali gusti del destinatario, che si è visto consegnare l’ultimo giallo di Natsuo Kirino quando invece nei massimi frangenti di spremitura intellettiva s’imbatte in Sandro Mayer.
Tendenzialmente non mi capita, perché adoro il lavoro sartoriale che abita dietro un consiglio.
Sì, annusare la tana di chi non conosco, sentir parlare per qualche minuto l’avventore di turno e capire d’un tratto con che titolo vestirlo. Capire chi è e di cosa ha bisogno in quel preciso frammento esistenziale.

Perciò, se avvertite l’irrefrenabile esigenza di prendervi gioco della realtà che da par suo non smette mai di prendersi gioco di voi, che sembra strutturata per essere derisa e smentita e invece si conferma serissima e lussureggiante, un testo perfetto per voi è sicuramente E il cane parlante disse bang (Spartaco Editore) di Paolo Pasi. Una trafila esilarante, una brillante carrellata di racconti tra l’ironico e il grottesco che ci illustrano il presente, deformandolo a tal punto da farcelo sembrare ancora più vivo.

Si comincia con la storia omonima all’intera raccolta, quella di Braccobaldo e del suo vicinato di “cartoni sfollati”, non più animati, un popolo di piccoli eroi di cui ormai la gente si è scordata e che pieni soltanto di vuoto, si sono sfamati di polvere, fino a deprimersi, fino a delinquere.
E così il cane prodigioso s’imbratta la lingua, s’involgarisce, sparge brutte parole, unge i suoi pomeriggi addosso a un bar, a inzupparsi di alcol e poi a inveire contro il bancone.
Il barista lo guarda stranito, non riconosce in quell’avanzo sboccato il beniamino tenero che guarniva i suoi fumetti. Ma è chiaro, la colpa è anche la sua, di tutti quelli che li hanno idolatrati e poi accantonati, figurine usa e getta di un album d’infanzia. Tutti i fan che li hanno appiattiti a un solo ruolo, un solo colore, privandoli per sempre della «complessità», privilegio dei soli viventi.

Si prosegue con il concorrente a sorpresa del Grande Fratello, una presenza esplosiva nel senso più letterale, un ragazzo imbottito di tritolo che irrompe nella Casa per farsi guardare, per imporre le sue chiacchiere minime, i suoi pensieri anoressici, con la minaccia deflagrante di far saltare tutto in caso provino a fermarlo. Ma quell’atto di forza svela solo la natura surreale e autoritaria dello spettacolo in sé, la dittatura del nulla a tutti i costi, in cui anche la pochezza merita ascolto, per il semplice fatto di essere apparsa in tv. E il pubblico divora tutto, tracanna ogni cosa davanti alla cena e decide le sorti di ogni programma col telecomando. Optando per un gran finale.

C’è poi il padre di Alice, che per la sua festa vorrebbe sorprenderla, reclutando per la serata il suo cantante preferito, tale NelloRaga. Un concentrato antropomorfo di finta intraprendenza: sguaiato, strafottente, orgoglioso dei suoi bassi fondi e del suo aspetto criminale. Ma forse non così tanto.

Il modello venerato da una tribù di giovani comparse, zingari di zapping, manichini di se stessi che si girano verso colui che grida più forte, al di là di ciò che dice. Meglio ancora se non dice nulla.

C’è una serie infinita di personaggi inquieti, un affresco psichedelico dell’Italia di oggi, di questi esatti secondi, dove l’assurdo è la regola e il dietro le quinte il vero teatro. Scritto con fantasia per “dovere di cronaca”, con ritmo rapido e ben calibrato, senza colpi di genio, ma con la lucida visione di chi porta alle estreme conseguenze una trama fin troppo nota.

Cosa cercate in una lettura? Una foto o un’evasione? In questo caso, forse, sono presenti entrambe.

Amore (a qualcuno piace parallelo)

Prendo un uovo e lo rompo. Probabilmente doveva essere un uovo molto particolare, qualche neutrino del tuorlo deve essersi scontrato con qualche altro neutrino della chiara, ed è lì che è cominciato un nuovo universo.
Non l’ho notato subito, soltanto dopo. Il frigo è viola. Invece il frigo che vedo ogni mattina è blu. E le mattonelle della cucina sono completamente bianche, invece le mattonelle che vedo ogni mattina sono di un caldo colore arancio. Rimango perplesso ad osservare il frigo.
Quando era accaduto? Possibile che Laura non mi avesse detto nulla del frigo nuovo? O lo aveva fatto solo riverniciare? No, impossibile. Nessuna riverniciatura, avrei sentito l’odore. E poi è perfetto, nuovo, e anche i maniglioni, a ben guardare, sono differenti.
Ne avrei immediatamente parlato con lei, non appena si fosse svegliata. «Cara, avevamo un frigo blu, ora è viola», le avrei detto. Mi stropiccio gli occhi. Il frigo continua ad essere viola. Poi faccio la mia prima azione razionale: decido di aprirlo.
È stato come se le cose all’interno del frigo fossero anch’esse diventate color viola, diverse. Da quando in qua in casa si beve il latte scremato? Erano anni che si beveva il latte intero. E cos’è questo penetrante odore di formaggio? Pecorino romano? Ma se Laura è allergica al pecorino romano! E le birre? Nessuno ha mai bevuto una birra tra quelle pareti.
Già, le pareti… Cosa ci fa la riproduzione di Marilyn Monroe nuda sopra il televisore? Le domande iniziano ad affollarsi. Nulla è come prima. I manicotti delle pentole, il numero delle posate, gli ingredienti stivati nella credenza, le dimensioni dei piatti, il lampadario a forma di stella che pendeva dal soffitto, il numero dei cassetti, le dimensioni dei fornelli…
«Sei già sveglio?» mi volto d’improvviso. Una strana sensazione ha preceduto i sensi dell’udito e della vista. Una ragazza bionda vestita soltanto dei propri capelli lunghi avanza verso di me e fa per baciarmi. «Prepari la colazione tesoro?»
La scanso. «E tu chi sei?»
Rimane interdetta per qualche istante, poi riprende a sorridermi.
«Hai voglia di giocare» e di nuovo tenta di abbracciami.
«Ma chi diavolo sei? Tu non sei Laura, dov’è Laura? E questa non è la mia cucina. Anzi questa non è decisamente la mia casa» urlo e mi allontano da lei.
«Ma che ti prende?»
«Dimmi dove sono, e dov’è Laura?»
«Forse è stata una notte troppo focosa per te? Non pensavo di averti sconvolto a tal punto!» replica lei continuando a giocare, portandosi una mano sul pube. «Se non ricordi chi sei, posso sempre trovare un modo per farti tornare la memoria!» salta e si avvinghia a me, si struscia, cerca di baciarmi, lotto e infine mi divincolo e mi porto dall’altra parte della stanza.
Alzo il dito indice e lo punto contro di lei: «Cosa sta succedendo?»
Forse deve aver notato qualcosa nella mia espressione, perché anche lei cambia improvvisamente tono e con l’aria di chi è preoccupata mi fa: «Caro, cosa ti sta succedendo? Davvero non mi riconosci? Oddio… chiamo un medico…» E comincia a digitare un numero sul cellulare.
Glielo tolgo di mano, gridando: «Questo non è il mio telefono, non è il nostro telefono, mio e di Laura. E io… io non sono malato, sto bene», ma comincio a non crederci nemmeno io. Forse sono in preda alle allucinazioni, ma ricordo di aver letto da qualche parte che chi è in preda alle allucinazioni non ne è consapevole.
Tutto precipita. Lei urla. Tutto ruota intorno a me. Millenni di frigoriferi e di telefoni e di posate. Marilyn Monroe ride, ride sguaiatamente dal suo immenso poster.
L’uovo cade nel pentolino. Mi volto. Il frigo è blu. Lo apro. Niente pecorino romano. Il latte è intero. Niente Marilyn Monroe. Tutto sembra essere tornato alla normalità. Attraverso le stanze e il corridoio, arrivo in camera da letto.
Una ragazza bruna sta ancora dormendo sotto le lenzuola, mezza svestita.
«Laura?»
Lei si agita e continua a sonnecchiare, con la voce impastata di sonno mi risponde: «Lasciami dormire».
Sorrido, rassicurato. Torno in cucina. Basta con le colazioni al bacon. Getto via l’uovo. Meglio un caffellatte. Inizio a prepararlo. Tutto sembra essere tornato alla normalità.
Mentre aspetto mangio un biscotto. Poi sputo, ho qualcosa in bocca. Tiro con un dito. Alla luce è un capello. Un lungo capello biondo.
«Sei già sveglio?» mi volto e una ragazza bionda, nuda, avanza verso di me.

 Mariano Macale fa parte degli autori del blog di scrittura Vongole & Merluzzi.

“Non si avrà ragione di me”, omaggio a Dino Campana

Nato dalla collaborazione tra il fotografo nonché editore Claudio Corrivetti e lo scrittore argentino Gabriel Cacho Millet, Non si avrà ragione di me (Postcart, 2008) è un omaggio composto di versi e immagini in bianco e nero al poeta errante Dino Campana e al suo paese natale, Marradi, luogo sacro e maledetto, al tempo stesso. Un libro davvero raro per bellezza di immagini e contenuti.

I versi di ventiquattro scrittori italiani e stranieri del Novecento, la loro poesia rivolta in prima persona al poeta toscano, la dolcezza di una musicalità riprodotta come omaggio a chi proprio della parola prediligeva maggiormente il suono rispetto al significato in se stesso, tutto ciò si ritrova tra queste pagine, dando vita, così, ad un volume dal forte impatto emozionale. Voci inconfondibili quali quelle di Giorgio Caproni, Vincenzo Cardarelli, Alda Merini, Camillo Sbarbaro, Amelia Rosselli, Roberto Vecchioni sono rese ancor più vivide dalle fotografie di Claudio Corrivetti che, con la sua vecchia Polaroid 600, è riuscito a rappresentare Marradi in tutta la sua immobilità, quasi fosse rimasta sospesa e inalterata nel tempo dal giorno della scomparsa di Dino Campana.

Un libro fatto, dunque, di materia onirica, in un perfetto connubio tra parole e immagini il cui bianco e nero si confà perfettamente alla quotidianità dei luoghi e della natura che contraddistinguono il piccolo paese al confine tra Toscana ed Emilia Romagna. Ci vuole veramente poco per rimanere affascinati dal volume: la copertina che offre uno stralcio della stazione di Marradi e un titolo che riprende alcuni versi di Campana – «In ogni caso né da vivo / e tanto meno da morto / si avrà ragione di me» – sanno catturare l’occhio del cercatore di cammei librari al primo sguardo, come una pepita d’oro luccicante tra i residui di laveria.

“Ultimo tango a Parigi”, quarant’anni dopo

In occasione del quarantennale di Ultimo tango a Parigi, la Dall'Angelo Pictures rimasterizza in alta definizione il film più francese di Bernardo Bertolucci, un'occasione ghiotta e imperdibile soprattutto per gli extra contenuti nel secondo dvd.

Un'edizione speciale, che segue le uscite di Novecento e L'ultimo imperatore, in cui viene offerta la possibilità di poter godere nuovamente di un film cardine del nostro cinema esaltando soprattutto, grazie alla nitidezza delle immagini, il pregevole lavoro visuale di Vittorio Storaro.

La trama, famosa, racconta di un uomo depresso, vedovo della moglie suicida, e di una ragazza che s'incontrano in un appartamento parigino e cominciano una storia di passione mantenendo celate le loro rispettive identità. Una riflessione estrema e perversa sull'amor fou, una passione intensa e carnale che sfida la morale comune trasferendosi in uno spazio semivuoto, claustrofobico, estraneo a ogni perturbazione, di un appartamento da affittare. Un film che parla di desideri repressi e della fine degli stessi una volta spostati dalla dimensione misterica, fatta di coincidenze e incroci, a quella reale della vita, che ci pone faccia a faccia con la nostra quotidianità. Il rifiuto finale di Jeanne è il voler allontanare dalla sua gioventù il fantasma mefitico di una morte dell'eros ovvero di quella spinta – anche violenta – che ha caratterizzato i rapporti clandestini con Paul/Marlon Brando scevri da tormenti interiori e da problemi.

Non può che far piacere ritrovare negli extra il documentario inedito “Once upon a time : Last Tango in Paris”, per la prima volta sottotitolato in italiano, che racconta la genesi del film e l'impatto che ha avuto sul pubblico quando uscì nei cinema. In circa cinquantadue minuti, si susseguono indiscrezioni, aneddoti, riflessioni forti, anche dei due protagonisti, che rendono ancor di più la pellicola di Bertolucci emozionante e leggendaria. Infine, è da menzionare il succoso documentario della proiezione integrale del film censurato durante la rassegna cinematografica “Ladri di cinema” nell'ottobre 1982 a Roma. Un cofanetto, quindi, che farà la gioia dei cinefili e dei fan di Ultimo tango a Parigi ma soprattutto un documento unico da conservare e custodire gelosamente.

“Le nevi del Kilimangiaro” di Robert Guediguian

È impossibile rimanere indifferenti alle conseguenze catastrofiche della globale crisi finanziaria che si abbatte, imperterrita, su ogni società del mondo. Sebbene lo sguardo registico possa parlarne con toni e umori differenti, passando dall’autocompiacimento ironico come il recente Tower Heist al dramma comico di Tutta la vita davanti, non mancano mai ammiccamenti più o meno palesi alla situazione attuale. Robert Guediguian, regista francese sensibile a questa problematica, realizza Le nevi del Kilimangiaro, una pellicola drammatica, sofferta e commovente che, utilizzando uno sguardo realistico, racconta una comune storia di vita.
Michel è un lavoratore onesto, attivo nel sindacato da oltre 35 anni. A causa della forte crisi finanziaria, l’azienda deve licenziare venti dipendenti estratti a sorte. Tra gli sfortunati c’è anche lo stesso Michel, che, allora, si concede anima e corpo ai suoi nipoti. Mentre la sua vita procede tranquilla, due rapinatori armati irrompono nella sua casa: lo picchiano, lo derubano e lo lasciano legato ad una sedia per tutta la notte. Sotto shock e con un braccio fratturato, Michel scoprirà che l’autore della rapina è Christophe, uno dei 19 colleghi che, insieme a lui, hanno perso il lavoro. Il ragazzo, un 22enne con tre mesi di affitto da pagare e due fratellini da mantenere, è costretto a rubare per sopravvivere. Michel denuncia il ragazzo, lo fa rinchiudere in prigione ma poi, davanti alla sofferenza dei due bambini, si pente…

Intenso, toccante, coinvolgente, Le nevi del Kilimangiaro è una pellicola che non lascia indifferenti. Il confine tra vittima e carnefice, infatti, è talmente labile che, spesso, lo spettatore si ritrova a dubitare chi sia l’uno e chi sia l’altro. La crisi, difatti, si abbatte violenta sui ricchi e sui poveri, ma mentre i primi hanno una casa in cui vivere e cibo raffinato da mangiare, i secondi sono costretti a trovare il modo per sopravvivere, qualunque esso sia. L’evidente impossibilità di provvedere a due fratelli più piccoli, di diventare uomo avendo appena sfiorato i 20 anni, di trovare un lavoro in un mercato ormai saturo è rappresentata dalla struggente figura di Christophe, nella sua irritante caparbietà e nelle sue strenue convinzioni da giovane ancora speranzoso in un futuro migliore. Le musiche sono coinvolgenti, la fotografia è realistica, le scenografie sono naturali, la storia è quella di un ragazzo, del XX secolo, sull’orlo della disperazione. Un applauso dunque a Robert Guediguian, artista capace di emozionare con un semplice racconto di vita, seppure ispirato a quello del noto Victor Hugo.
 

Fonte: http://www.taxidrivers.it