“Prima dell’apocalisse” di René Girard

A quasi dieci anni dall’attacco alle Twin Towers si torna a parlare dell’Undici Settembre (e delle trasformazioni planetarie che, direttamente o indirettamente, ha provocato) in un volume interessantissimo, edito dalla ri-nata Transeuropa, chiamato Prima dell’Apocalisse. Sul volume troviamo come autore René Girard anche se, in realtà, dell’antropologo e pensatore francese è il protagonista soltanto di uno dei due documenti, un’intervista rilasciata a Robert Doran presso la casa di Stanford, che compongono il libro (l’altro è una riflessione dell’epistemologo Jean-Pierre Dupuy).

Girard cerca di trovare una spiegazione a quel crogiolo di implicazioni (culturali, politiche e sociali) che hanno caratterizzato l’ultimo decennio e lo fa partendo proprio dalle macerie di Ground Zero. Ancora una volta si torna a parlare di religioni – cristiana e musulmano – cercando di riportare la prima al centro del pensiero occidentale. Ciò che sta accadendo oggi è la conseguenza di un’azione antisacrificale prodotto dal cristianesimo nei secoli. L’apocalisse biblica non deve essere intesa con termini arcaici: l’uomo ha in sé un potenziale quasi divino di autodistruzione. Le sorti del pianeta sono nelle nostre stesse mani e dobbiamo cercare di fare in modo che il conflitto odierno con i fondamentalismi islamici non assuma connotati ancora più distruttivi per quel residuo di logica sacrificale che sta emergendo in molte parti del pianeta.

Anche Dupuy porta l’attenzione su un’apocalisse, questa volta ambientale ma comunque sempre diretta da “mano umana”. Il suo procedimento filosofico, di natura epistemologica, analizza la dimensione di incertezza che stiamo vivendo. Dobbiamo vivere con una certezza, quella che il dramma sia già di facto accaduto. Non dobbiamo aspettare ma, con una forma illuminata di catastrofismo, prevenire la “distruzione” osservando il nostro tempo con gli occhi di un futuro possibile, e prevedibile, in cui l’apocalisse, appunto, è già realmente accaduta.

In entrambe le visioni, speculari ma comunque pessimistiche, c’è un invito che giorno dopo giorno appare sempre di più inascoltato. E questo fa davvero rabbia.  

“Sono comuni le cose degli amici” di Matteo Nucci

Sono comuni le cose degli amici (Ponte alle Grazie, 2010), romanzo d’esordio di Matteo Nucci, è un libro decisamente onirico, fatto di suggestioni, ricordi e intuizioni quasi ossessive, che catturano in profondità l’animo del lettore, trascinandolo in un sentimento di familiare compassione, come accade solo nelle narrazioni dei grandi scrittori. Attraverso un sapiente gioco a incastro, fatto di dialoghi, a volte appena sussurrati, e di descrizioni minuziose, capaci di risvegliare sensazioni sopite, Nucci ricostruisce una serie di rapporti umani cogliendoli nella loro straziante bellezza e drammaticità.

Tutto ha inizio con una veglia funebre: la morte improvvisa del padre diventa per Lorenzo, il protagonista, un pretesto quasi ossessionante per riconsiderare la propria vita vissuta, con i suoi legami, le sue amicizie e i tradimenti. Così, in una sorta di elaborazione mal riuscita del lutto, gradualmente si fanno spazio nella mente del protagonista dubbi esistenziali, sospetti insoluti e una particolare attenzione per la figura paterna, sempre presente ma mai davvero compresa. La storia, costruita in tre parti legate tra loro dal sottile filo del dubbio, si dipana in una coralità di personaggi che alimentano, di volta in volta, inconsapevolmente, le ossessioni e le fobie di Lorenzo, il quale sembra accorgersi solo adesso di quale sia il reale volto delle cose. Il finale aperto non lascia scampo tanto al protagonista, quanto al lettore stesso, incastrato, ormai, anch’egli negli angustianti sospetti che neppure il dialogo conclusivo con la madre, figura quasi sacra, sembra sopire.

Nucci riesce, dunque, a costruire un romanzo intimistico-esistenziale, in cui ogni certezza, anche la più scontata, sembra avere una metà oscura, e in cui il vero e unico protagonista diventa il dubbio, nutrito da parole e gesti corali, solo in apparenza dettati dal caso. In un costante puzzle di emozioni, percezioni e ricordi, l’autore porta avanti una narrazione basata soprattutto sulla descrizione; una descrizione mai banale e scontata, ma in grado, invece, di rievocare nel lettore sensazioni vive e profonde. Nucci ricrea, così, un’atmosfera quasi surreale, a tratti alienante, in cui il protagonista, seguito a ruota dal lettore, si perde, tralasciando ogni cosa, pur di riafferrare il senso del passato, il significato ultimo dei rapporti umani. E nasce allora spontaneo nella mente del lettore più attento il richiamo al racconto-capolavoro di Beppe Fenoglio, Una questione privata, e al partigiano Milton perso dietro al suo dubbio amoroso a tal punto da rischiare la vita stessa.

Sono comuni le cose degli amici si rivela essere, in definitiva, un romanzo ben orchestrato, portato avanti attraverso continui flashback, a volte descrittivi, a volte dialogati,  intrecciati tra loro come in un lungo sogno,  nel quale si percepisce appena quale sia la verità delle cose, ma non se ne raggiunge mai la piena consapevolezza.

Intervista a Massimo Maugeri - parte prima

 

Massimo Maugeri è uno dei nomi ricorrenti del panorama letterario italiano ormai da qualche anno. E questo, credo, grazie anche a delle evidenti qualità caratteriali dello scrittore catanese, fra le quali spiccano l'equilibrio, l'ostinazione, la costanza e una buona dose di nervi saldi. Perché Maugeri, oltre che scrivere e leggere tanto, dirige – oserei dire – un blog, Letteratitudine, che praticamente è una rivista letteraria aperta ai commentatori. E la direzione, quando si tratti di cose come un litblog realmente democratico, è una forma di potere che logora chi ce l'ha molto piú di chi non ce l'ha (Andreotti docet). Insomma, a dirla tutta, portare avanti senza stipendio Letteratitudine è piú faticoso che stare ai vertici di un quotidiano cartaceo (con lo stipendio). A fare la maggior differenza è che su un quotidiano non bisogna gestire i continui interventi di qualunque lettore, invece in un blog questo è prioritario quanto presentare degli articoli validi. Io la vedo cosí. Come la pensa lui, invece, lo vedrete adesso. Buona lettura.

Caro Massimo, oggi, per cominciare, farò un po' il bastian contrario: perché ti piace Moravia? (gli inglesi, mi confidò il direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Lubiana nel 2004, non lo traducono piú dopo esserci rimasti male con ''L'uomo che guarda'' ed io in questo caso li ammiro molto).

Caro Sergio, altre volte abbiamo discusso di (e su) Moravia e ci siamo simpaticamente e amichevolmente scontrati su Letteratitudine, dal momento che a te il noto scrittore romano non ha mai convinto più di tanto.

Perché mi piace Moravia? Ti dico questo: in generale credo che l'incontro tra uno scrittore e un suo lettore – quando è un incontro che lascia il segno – porta sempre con sé qualcosa di magico, di irripetibile. Magari perché quell'incontro è capitato in un determinato momento, in una data circostanza. In alcuni casi certi incontri letterari sono irripetibili e unici proprio per questa ragione. Credo che sia capitato qualcosa del genere tra me e Moravia.

La prima volta che incontrai lo scrittore romano, avevo circa dodici anni. Quel libro stava lì, nel bel mezzo di uno scaffale centrale della libreria di mio padre. Era una raccolta di racconti. Mentre rispondo a questa tua domanda il libro in questione è qui, accanto a me. Un'edizione rilegata della Bompiani dei primi anni Sessanta. Un libro contemporaneo, dunque… che aveva visto la luce pochi anni prima che io venissi al mondo. Il titolo è di quelli che non si dimenticano: L'automa. Presi in mano il volume pensando, forse, che avesse a che fare con il mondo dei robot… o qualcosa del genere (era l'epoca di Goldrake, Mazinga e compagnia bella). Non conoscevo Moravia, era la prima volta che lo leggevo.

Iniziai a sfogliare il libro, a immergermi nelle storie. Mi piaceva. Nonostante fossi un ragazzino, quelle storie riuscivano a colpirmi… a entrare nel mio immaginario. Fra le tante ce ne fu una che mi colpì in particolare. Te la racconto in breve. C’è un uomo che, giunto nei pressi di casa, – per distrazione – dimentica di scendere dall’autobus. Scende alla fermata successiva, che però è parecchio distante. L’uomo si è trasferito da poco nel quartiere. Non conosce quella zona: gli sembra quasi un altro luogo. Mentre torna indietro, a piedi, scorge una donna bionda. La vede solo di schiena, ma la trova affascinante e decide di seguirla. Si sente così attratto che, a un certo punto, gli viene in mente che per lei sarebbe disposto ad abbandonare persino la moglie e i figli. Più la segue, più l’attrazione cresce. La donna entra nell’androne di un palazzo. Lui continua a seguirla. Solo quando la blocca sulle scale si accorge che è sua moglie e che l’androne dov’era entrato era quello di casa sua. Era bastato che la moglie si tingesse i capelli (era stanca di essere bruna) e che la incontrasse in una zona non conosciuta del quartiere perché lui (l’automa) la scambiasse per un’estranea.

Questo racconto sortì una specie di effetto folgorante nel dodicenne Massimo Maugeri. Com'era possibile che un uomo non riconoscesse la propria moglie? Eppure capii che era possibile. Quella storia mi colpì così tanto che, di recente, ho sentito l'esigenza di citarla nella scrittura del mio racconto Incontro a Porta Pia (all'interno della raccolta da me curata Roma per le strade (Azimut). Il racconto è disponibile in rete, qui: http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/roma_per_strade_2_massimo_maugeri220410.html

Da lì in poi, cominciai a leggere Moravia con gusto e interesse.

Molti si stanno dimenticando che sei un romanziere (e per giunta premiato), dunque rinfreschiamo la memoria ai lettori esponendo la tua poetica di fondo e anche, se vuoi, gli argomenti che hai affrontato nella scrittura e/o che vorresti affrontare.

Hai ragione. Il blog Letteratitudine mi ha assorbito molto in questi anni e in tanti mi identificano in maniera quasi esclusiva con esso. Ma io mi sento soprattutto un narratore, e alla scrittura tengo tantissimo. Infatti l'anno prossimo dovrebbe uscire una mia raccolta di racconti. E poi sto revisionando un nuovo romanzo che ho appena finito di scrivere.

Per quanto riguarda gli argomenti affrontati, come sai sono particolarmente attratto dalle problematiche connesse alla crisi d'identità (individuale e collettiva, direi), che cerco di raccontare con una mia impronta.

Come ho avuto modo di dire nell'ambito di un'altra intervista, sono un convinto sostenitore dell’importanza della metafora, anche – e soprattutto – in letteratura. In questo senso, a volte, ho l'impressione di andare controcorrente. Ho l'impressione, cioè, che l’editoria dei nostri giorni persegua una strada diversa, basata su una sorta di nuovo neo-realismo (lasciami passare questa etichetta). Io invece credo sia importante non solo scrivere storie perfettamente ancorate alla realtà, ma anche romanzi che si affidino in un modo o nell’altro alla metafora… e al mito. Perché metafora e mito incidono molto sul nostro immaginario, e inducono in maniera indiretta – ma a volte in maniera più efficace – alla riflessione. In fondo è quello che ho tentato di fare con il romanzo Identità distorte. Intendiamoci… non è che mi prescrivo un compitino da assolvere, quando mi metto di fronte alla pagina bianca. È che istintivamente le mie storie vengono fuori così. Se poi quello che scrivo abbia senso e valore, oppure no – che la mia narrativa sia vendibile, o sia destinata a rimanere fuori dal mercato – non sta a me dirlo. Mi rimetto, come tutti, al giudizio degli addetti ai lavori e dei lettori.

Però, come ho avuto modo di sostenere in altre circostanze, ritengo che uno scrittore abbia il dovere morale di mettere in luce quello che avverte, quello che sente dentro, a prescindere dal fatto che possa essere condivisibile e in linea con l’onda trainante del mercato (e deve farlo senza lamentarsi se poi le proprie storie non trovano lo sbocco sperato). D'altronde credo che chi tenti di scrivere per il mercato abbia perso in partenza. Ti cito un aneddoto che, a suo tempo, mi fece molto riflettere. I protagonisti sono due noti scrittori americani: Don DeLillo, uno dei padri della cosiddetta letteratura postmoderna e un autore più giovane ma già molto conosciuto, Jonathan Franzen. Questi scrive a DeLillo lamentandosi della crisi del romanzo sociale e della difficoltà a trovare lettori. DeLillo gli risponde con una frase che mi è rimasta impressa: “Lo scrittore conduce, non segue. La forza motrice risiede nella sua testa, non nel numero dei lettori.” E ancora: “La scrittura è una forma di libertà personale. Ci libera dall’identità di massa che vediamo formarsi intorno a noi. Alla fine, gli scrittori non scriveranno per diventare gli eroi fuorilegge di una sottocultura, ma soprattutto per salvare se stessi, per sopravvivere come individui.”

Questioni di stile, non di contenuti e significati. Scegli e motiva la tua scelta: Italo Calvino o Vitaliano Brancati?

Anche se ammiro molto il mio conterraneo Vitaliano Brancati, non ho dubbi nello scegliere Italo Calvino. Non ho dubbi perché Calvino è uno dei miei autori preferiti e – a mio avviso – uno dei grandi della letteratura mondiale del Novecento. Un talento poliedrico, una scrittura eclettica, variabile, raffinata, capace di alternare reale e fantastico all'interno di forme narrative di indiscutibile pregio. Amo la trilogia de I nostri Antenati. E amo allo stesso modo Se una notte d'inverno un viaggiatore, un volume che – come ho sostenuto in altre circostanze – vale da solo come un corso di scrittura e di lettura messi insieme. Ritengo preziosi il lascito delle Lezioni americane e la valenza metaforica e metanarrativa de Le città invisibili.

Mi dispiace che alcuni critici e scrittori della nostra generazione (più di uno, per la verità) detestino Calvino. Un autore che, viceversa, (a mio modo di vedere, almeno) deve essere ri-scoperto, rivalutato e reso fruibile alle nuove generazioni di lettori.

Intervista a Massimo Maugeri - parte seconda

 

Il tuo romanzo ''Identità distorte'', come dicevi, affronta la modernità e l'identità dell'uomo in questa epoca. Ecco. Il filosofo Umberto Galimberti sostiene che togliendo la parola Dio dal Medioevo non capiremmo quell'epoca, e che, invece, togliendo le parole denaro e tecnologia non capiremmo la nostra. Tu…

Credo che le parole di Galimberti siano condivisibili. Anche se, a mio modo di vedere, la parola denaro si potrebbe abbinare a qualunque epoca dell'esperienza umana… e la parola Dio è una delle più strumentalizzate di tutti i tempi. Certo, la nostra epoca è fortemente caratterizzata – nel bene e nel male – dall'evoluzione dei processi tecnologici. Ma anche, di riflesso, dalla velocità con cui avvengono certe trasformazioni. Stiamo vivendo in groppa a un secolo fortemente accelerato, compresso e complesso. Non è facile provare a prenderne le misure.

Perché gli scrittori americani oggi hanno tanto successo in Italia?

Non solo gli scrittori americani, ma – di recente – anche quelli spagnoli e nordeuropei. Difficile rispondere. Forse perché, al di là di questioni meramente stilistiche, hanno saputo raccogliere meglio di altri l'eredità della grande tradizione romanzesca dell'Ottocento e del Novecento. Forse perché il loro modo di scrivere storie ha una impostazione più biblica, più a largo respiro, rispetto al nostro modo di raccontare.

L'ISTAT ci dice che nel 2010 in Italia i lettori sono aumentati, arrivando a circa 25 milioni. Un commentino…

Che le campagne promozionali a favore della lettura stiano cominciando a dare frutti? Incrociamo le dita e speriamo che la crescita continui.

Il Salone del Libro di Torino è la piú grande manifestazione italiana del settore. Cosa ne pensi? Pro e contra, eh…

Il Salone del Libro di Torino è la piú grande manifestazione italiana del settore, su questo non c'è dubbio. È la più grande occasione d'incontro tra scrittori e lettori… e non solo. È un luogo che offre la possibilità di partecipare a seminari e conferenze di altissimo livello culturale e letterarie… ad alta concentrazione spazio-temporale. Il Salone offre anche la possibilità, ai lettori più arguti, di scovare vere e proprie chicche in mezzo agli stand. Mi riferisco ai libri prodotti dalla piccola editoria di qualità che sarebbero difficilmente reperibili nella libreria sottocasa. Lì al Salone c'è la possibilità di prenderli in mano, annusarli, sfogliarli, leggere qualche brano… per poi decidere di acquistarli.

Il principale aspetto negativo, per quanto mi riguarda, è l'enorme caos delle giornate di picco. A volte si prova una sensazione di ottundimento, quasi… determinato anche dal continuo brusio. E poi rimane la sensazione che il Lingotto non sia più sufficiente, dal punto di vista logistico, a ospitare una manifestazione così imponente destinata – a quanto pare – a crescere ulteriormente.

Letteratitudine. Pro e contra. Sinceramente.

Ti rispondo sinceramente. Letteratitudine, per me, è una sorta di miracolo bellissimo e faticoso al tempo stesso. Come ho detto e scritto in altre circostanza, questoblogè nato nel settembre del 2006, dalla semplice esigenza di trovare qualcuno con cui discutere di libri e letteratura rimanendo in casa. E dunque nasce proprio da un mio desiderio di comunicazione. Peraltro non è un caso che il blog abbia visto la luce quasi contestualmente alla nascita della mia secondogenita. Perché, appunto, avevo deciso di rimanere il più possibile in casa anche per via delle bimbe piccole.

Così creai questo blog… uno tra i milioni di blog nati in Italia. Certo, allora non avrei mai potuto immaginare che avrebbe avuto questo successo.

L’ho definito sin da subito come open-blog perché nasce proprio con l'idea dell'apertura, dello scambio e della condivisione. Per questo considero “Letteratitudine” il mio blog, ma anche il nostro blog. Il blog di tutti coloro che vi scrivono. E mi riferisco anche, e soprattutto, ai commentatori/frequentatori, che sono la vera anima del sito. Sono loro a renderlo bello e speciale. Per me la vera "fortuna" e forza di questo blog è proprio questa: avere frequentatori/commentatori di altissimo livello che condividono con me la passione per i libri e la letteratura. Ne nascono dibattiti a volte anche accesi, ma che non scadono nell'offesa o in commenti irrispettosi per persone o opinioni.

Io cerco il più possibile di essere una sorta di “medium invisibile”… nel senso che il mio sforzo è quello di creare un’occasione di scambio evitando di imporre la mia opinione. Per me il massimo è gustarmi una discussione che si sviluppa in maniera interessante senza che ci sia il bisogno dei miei interventi volti ad animarla e a moderarla. Ecco, quando capita così… provo una grande soddisfazione letteratitudiniana.

Ma al di là di questo, avverto la necessità – non solo mia – di ritrovarsi in un “luogo” dover poter esporre – e potersi esporre – in maniera serena. Inoltre questi confronti, incentrati sempre sui libri (e che stimolano alla lettura dei libri), spingono altresì a sviluppare e a mantenere allenata la propria capacità critica. Anche di questo credo che, oggi, ce ne sia tanto bisogno.

E poi le sorprese piacevoli non mancano mai. Come qualche mese fa, per esempio… quando una radio nazionale australiana mi contattò per un’intervista radiofonica: ulteriore conferma che ci sono tantissime comunità di italiani (e italianisti) sparsi nel mondo che seguono Letteratitudine. Quell’intervista radiofonica non la dimenticherò mai… anche per via dell’appuntamento telefonico, fissato alle 7 del mattino per ragioni di fuso orario.

Ovviamente tutto questo ha anche un prezzo. Ed è la grande fatica quotidiana che affronto per mandare avanti il blog, il lavoro enorme svolto dietro le quinte, l’impegno costante nel risolvere sul nascere eventuali situazioni di conflitto (il rischio è sempre dietro l’angolo) che possono sorgere tra commentatori e che, a volte, mi causano anche un grande sforzo emotivo. Insomma, un grande dispendio di tempo ed energia (a volte mi dico che senza Letteratitudine avrei al mio attivo almeno altri tre romanzi). Ma credo che ne valga assolutamente la pena.

Immagine contro letteratura. Quale delle due ha la testa piú ''dura''? (Libero di dire pazzie).

Immagine e letteratura hanno entrambe la testa durissima. In egual misura, direi. E sono strettamente legate. Derivano, entrambe, dall'esigenza di comunicare. Ed entrambe si prestano a trasfigurazioni artistiche. E poi, da un certo punto di vista, hanno anche un'origine comune. Penso ai geroglifici, per esempio: i segni pittorici che compongono il sistema di scrittura utilizzato dagli antichi Egizi. I geroglifici non sono altro che una forma di letteratura basata sull'immagine.

Se immaginiamo una competizione sportiva tra immagine e letteratura, secondo me finisce pari. E senza tempi supplementari da giocare.

Poesia, per finire. Io sostengo l'indispensabilità di un ritorno alle forme metriche classiche italiane e alla tecnica esecutiva, con l'uso, seppur moderno e personalizzato, della sillabazione, della retorica, della prosodia e della stilistica – che, ricordo, anche un gran contestatore come Giuseppe Parini usò nel ''Giorno'' per massacrare i nobili settecenteschi: raffinatissimo ma tremendo, il Parini. Cosa ne pensi? Torneremo a rime, allitterazioni, iperboli eccetera? Sarebbe buono per la poesia italiana?

Io ho un'idea molto classica della poesia. Se penso alla poesia mi viene subito in mente Dante. Penso pure che metrica, rima e quant'altro ce l'abbiamo tutti nel sangue (più o meno consapevolmente). Tale patrimonio genetico/letterario esce fuori anche in contesti ludici. Mi viene in mente il primo Letteratitudine book award (una specie di gioco/parodia di premio letterario che mi sono inventato sul blog), dove la competizione finalizzata a promuovere il libro preferito – da far vincere nel gioco – si svolse a suon di rime simildantesche.

Lascio il link per chi volesse dare un'occhiata:

http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/12/eleggiamo-il-libro-dellanno-2007/).

Insomma… a chi è contro le rime sono pronto a rispondere per le rime.

“Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi

Canale Mussolini (Mondadori, 2010) è l’ultimo romanzo di Antonio Pennacchi. Oltre ad evocare tristi fantasmi, il titolo del libro può sicuramente generare equivoci, ma solo perché sono in pochi a sapere che ancora oggi esiste un canale che si è chiamato proprio con il nome del capo del fascismo: il Canale Mussolini appunto (se sia ancora il nome ufficiale del corso d’acqua non sono riuscito a scoprirlo, ma molto probabilmente no). Questo costituisce l’arteria principale delle opere di ingegneria idraulica realizzate per bonificare la Pianura Pontina. La sua funzione è quella di convogliare tutte le acque che scendono dai monti Lepini e dai Colli Albani per portarle al mare. Acque copiose che, per la particolare conformazione del terreno, riuscivano con difficoltà a raggiungere la costa e provvedevano invece ad alimentare il sistema della palude che dominava incontrastata su quell’enorme piana, che, in lunghezza, partendo da Anzio e Nettuno, corre ininterrotta fino al promontorio del Circeo ed oltre, a lambire Terracina; ed in larghezza va dal mare fino ai monti Lepini, che la fanno finire all’improvviso, o come dice Pennacchi stesso con un’espressione molto efficace: la interrompono sbucando alla “traditora”. Una pianura sterminata, a quel tempo fatta di boschi fittissimi e impenetrabili, di laghi, stagni e finanche di sabbie mobili. Luogo disabitato dal quale bisognava tenersi a debita distanza soprattutto perché era il regno sul quale imperava un terribile e subdolo “drago”: la malaria (proprio con le fattezze del drago veniva rappresentato ancora nel XVII secolo questo flagello).

Ed è in questo humus, di cui la palude trabocca, che Pennacchi affonda le mani per pescare la vita da cui nascono tutti i suoi romanzi.  E forse non potrebbe essere altrimenti, considerato che l’autore è nato, cresciuto e pasciuto a Latina, città simbolo della bonifica pontina. Un cantore delle gesta di queste genti che realizzarono l’impresa non esiste ancora e Canale Mussolini (ma un po’ tutta l’opera di Pennacchi), in questo senso, colma una lacuna, che a suo avviso è da imputarsi a ragioni puramente cronologiche: nell’agro pontino le generazioni in grado di parlare di loro e dei loro antenati stanno arrivando solo oggi ad avere la capacità culturale ed il riconoscimento intellettuale per farlo.

Il romanzo narra le vicende dei Peruzzi, una famiglia di mezzadri (contadini che coltivavano la terra affittandola e come canone d’affitto corrispondevano al padrone dei suoli metà del raccolto. Il mezzadro usava anche spostarsi, ma sempre nei dintorni dei luoghi in cui era nato e radicato, in cerca di terreni migliori e condizioni più vantaggiose) dedita a lavorare le campagne fertili del ferrarese tra una sponda e l’altra del Po, che viene catapultata nella pianura pontina a vivere e lavorare su di un podere lambito proprio dal Canale Mussolini. A spingerli ad abbandonare la propria terra è un motivo semplice e crudo allo stesso tempo: la fame, che li investe all’improvviso a causa delle politiche economiche scellerate del fascismo e dell’impunità dei potenti di turno, in questo caso dei ricchi aristocratici.

Lo scavo del Canale fu un’impresa titanica (nei secoli passati molti avevano provato a fare la bonifica, anche gli antichi romani, che in materia erano espertissimi, ma tutti avevano miseramente fallito): bisognava correre contro il tempo perché la palude riavanzava ad ogni minima occasione e tutto questo mentre la malaria mieteva vittime. Titanica però fu anche l’opera di colonizzazione e non solo perché un terreno appena bonificato è tutt’altro che fertile: bisognava reinventarsi un presente su di un passato che si era costretti ad abbandonare e in alcuni casi anche a dimenticare. Il tutto in un posto dove gli abitanti dei paesi vicini (Cori, Norma, Sermoneta, Sezze, Fondi, tanto per citarne alcuni) erano ostili. Questi “indigeni”, per secoli, avevano guardato, dall’alto dei loro monti, con la sufficienza di chi guarda un pazzo fare una cosa inutile, chi si affannava a domare la palude. Adesso che finalmente l’opera era riuscita e le terre venivano date, con intenti ben precisi (precisione fascista lui la chiama), a mezzadri del nord che parlavano un’altra lingua e avevano usi e costumi diversi, si sentivano defraudati, tanto che ancora oggi, a più di ottanta anni di distanza, gli effetti di quella inimicizia si sentono ancora.

I meccanismi narrativi del romanzo sono semplici e lineari, forse anche troppo. Il narratore è un personaggio del racconto stesso ed usa una prosa molto vicina al parlato con frequentissimi ricorsi al discorso diretto, dove fa capolino anche un po’ di dialetto. Questa però è una caratteristica di tutta l’opera di Pennacchi che sembra avere una specie di rifiuto dello scrivere raffinato o forbito. Pennacchi sembra tendere alla ricerca della semplicità. Tendenza che può essere vista come funzionale al suo obiettivo finale: mettere al centro la storia.Le storie le aspetta, le sceglie, le cura, le svela, a volte le lucida, ma stando sempre attento che siano fortemente radicate nella realtà, e non ultimo, che siano affascinanti e che valga davvero la pena di perdere tempo a sentire come vanno a finire.

La finzione del romanzo esiste soltanto come stratagemma narrativo che tra l’altro, specie all’inizio del libro, funziona molto poco perché si sente molto la volontà di voler concatenare dei fatti in maniera credibile, con il risultato di vanificare il tutto. In questa finzione esiste però una verità, ed è quella che Pennacchi ci vuole trasmettere, una verità che è unica e indiscutibile, anche se sa benissimo che quella è la sua verità. Sua perché così l’ha vissuta o gliel’hanno raccontata o l’ha scoperta studiando sui libri.

Pennacchi è nato nel 1950 ed ha al suo attivo una bibliografia un po’ scarna: se si eccettuano i saggi ed una raccolta di racconti (tra l’altro molto belli e divertenti) questo è il suo quinto romanzo. Ma siamo convinti che la bravura non si misuri intermini di quantità. Inoltre sembra ancora che si faccia fatica ad accettare la sua figura di scrittore: lui non viene dai salotti buoni della letteratura anzi, fino a qualche anno fa per vivere praticava un lavoro che era tra i più infami ed infamanti, almeno per quei benpensanti che hanno già storto il naso non appena son venuti a conoscenza della candidatura di Canale Mussolini allo “Strega” (per il momento è ancora in semifinale): faceva l’operaio (lavorava all’Alcatel di Latina a fasciare di gomma i cavi elettrici) e ha conseguito la sua laurea in lettere soltanto da adulto. Forse è per questo che rifiuta di scrivere in maniera forbita: non vuole accomunarsi a certa gente.

“Lo potevo fare anch’io” di Francesco Bonami

Lo potevo fare anch’io (Mondadori, 2009) è un agile libretto di Francesco Bonami che affronta una questione sempreverde: l’arte contemporanea è davvero Arte? Bonami cerca di spiegare per quale motivo si debba rispondere con un sì, e per farlo si rivolge ad un uditorio di non addetti ai lavori, o meglio «distratti ai lavori», come lui stesso scrive nell’introduzione, ossia a chi l’arte interessa abbastanza da vedersi una mostra scevro dall’angoscia di problemi intellettuali senza capo né coda.

Il libro passa in rassegna tutte le maggiori personalità dell’arte contemporanea, da Duchamp, Warhol, Kounellis, Basquiat, sino a Bacon, Christo, Cattelan e Hirst.  Bonami vuol mostrare come non contino tanto i risultati che l’artista può raggiungere: l’arte vera è fatta anche di opere brutte e disgustose; di feci umane inscatolate, di tele tagliate o tappezzate di mosche e vetrine di mucche sezionate; o anche di apparenti prese in giro, ad esempio quadri completamente bianchi, orinatoi e vecchi portoni firmati ed esposti come autentiche sculture. Ciò che invero conta è l’Idea, con la i maiuscola, e quell’universalità che dell’Idea è il puro distillato. Solo da un’Idea universale nasce la vera Arte. Per spiegare il concetto, l’autore si serve d’una efficace analogia frutticola: «Non basta dipingere una mela che riproduca realisticamente quella dell’albero o del fruttivendolo, occorre saper fare quello che di invisibile sta dentro, non il baco ma l’anima della mela, i suoi mille significati, quella mela universale che non c’è bisogno di vedere per sapere cos’è».  Ecco l’oceano che divide pittori della domenica da menti geniali e prolifiche.

Il libro ha la sua utilità; chi volesse farsi un’idea degli artisti contemporanei, defunti o no, potrà ben servirsi degli specimen biografici che costituiscono la polpa dello scritto. L’annosa (ma direi secolare, o addirittura sempiterna) querelle se l’arte contemporanea sia davvero Arte, però, Bonami in realtà vuol poco toccarla. Del resto, probabilmente, l’incomprensione generale non rappresenta il vero problema di un fenomeno che invece sembra riscuotere sempre più grandi successi di pubblico. Le “affinità elettive” tra arte ed economia (Benedetto Croce si rivolterà nella tomba!) sono sempre più strette, e su questo fatto basterebbe leggersi un’interessante raccolta di saggi della studiosa Barbara Rose, edita da Scheiwiller nel 2008 con il titolo Paradiso Americano, secondo cui le leggi di mercato dominerebbero gli artisti più di quanto faccia l’effettivo talento.

Ciò di cui oggi più avremmo bisogno sarebbe una riflessione su come l’Arte spesso finisca per collimare tragicamente con la parola “astuzia”; come essa sia sempre più alla mercé di persone che s’interessano maggiormente dell’estetica di banconote e assegni piuttosto che della qualità effettiva di un prodotto artistico. Un’era in cui tutto è stato esperito e dove la creatività viene misurata sulla capacità del genio di turno di stupire il mondo, attende invece  un ritorno: qualcuno che, lontano dal rombo delle metropoli americane e dai templi stipati di mercanti, bisognoso di silenzio e quiete, riallacci ponti con quel che c’è di più intimo in lui  e, anche solo per poco, si bagni con quella pioggia dorata che Musil definì «feconda omerica semplicità».

(Francesco Bonami, Lo potevo fare anch'io. Perché l'arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, 2009, pp. 166, euro 9,50)

“Favole al telefonino” di Fabian Negrin

Mercoledì 9 giugno arriva in tutte le librerie Favole al telefonino, volume di Fabian Negrin (Orecchio acerbo, 2010), pensato come omaggio a Gianni Rodari. Questa speciale dedica non è casuale: il 2010 è infatti l’anno dedicato a Gianni Rodari, del quale ricorrono il novantesimo anniversario della nascita, 23 ottobre 1920, e il trentennale della morte, 14 aprile 1980.

E non è finita: quest’anno cade anche l’anniversario dell’assegnazione al geniale favoliere italiano del più prestigioso riconoscimento internazionale, il “Premio Internazionale per la letteratura per l’infanzia H. C. Andersen”, che gli fu assegnato nel 1970 alla Fiera internazionale del libro per ragazzi di Bologna.

L’idea di Negrin è vincente: se Rodari aveva pensato di scrivere delle storie brevi nel suo indimenticabile Favole al telefono, l’autore argentino, di origini italiane, vincitore del Ragazzi Award 2010 e della BIB Plaque di Bratislava 2009, ne ripropone il concetto (brevità e velocità) plasmandole al tempo in cui viviamo. Favole di centosessanta caratteri, quelli degli SMS per intenderci. Alcune spassosissime: «C’era una principessa che dormiva da cent’anni / 1 notte 1 principe innamorato la baciò e la svegliò. / Sei l’uomo dei miei sogni, disse lei. Poi si addormentò».

Il volume, davvero delizioso, non è solo testo (tredici mini favole) ma una serie di tavole che giocano con il nero e i colori, sovrapposti e scomponibili. Negrin colpisce nel segno: tutto riconduce a quella dimensione giocosa e onirica che, con estrema duttilità e malleabilità, arriva dritta nel cuore del lettore (anche se l’ironia sottile di alcuni testi non va pensata, a mio avviso, solo per un pubblico di bambini) e ci trasporta con leggerezza nel mondo delle fiabe.

(Fabian Negrin, Favole al telefonino, Orecchio acerbo, 2010, pp. 28, euro 13,50)

Le guerre di Malaparte

 

Malaparte e la guerra. Un rapporto nato da un qualcosa che ribolliva nel suo animo, un istinto “animale” o “primordiale” che, senza mediazioni, ha lasciato in lui una sensazione amara ma al tempo stesso vitalistica, riversata in opere che esibiscono, senza veli, una visione del mondo disincantata ma niente affatto fatalistica.

Da sempre considerato “scrittore maledetto” se leggiamo con rigore, senza pregiudizi, le molte pagine che ci ha lasciato ci accorgiamo, a mio avviso, di quanto questo scrittore si presenti come protagonista e come testimone privilegiato degli avvenimenti del suo tempo, in quel terribile passaggio della nostra storia in cui dall’inizio della prima guerra mondiale alla fine della seconda si è assistito ad una irragionevole strage e alla rottura di molti schemi (politici e sociali) precostituiti.

Malaparte si muove tra l’orrore e i “fatti di sangue” come un cronista disincantato e consapevole, perso in riflessioni che trovano, non nel singolo avvenimento ma in una catena di conseguenze, la propria ragione d’esistere. Oscillando tra sogni e utopie, speranze vane di riparare l’irrimediabile o di riprendere un cammino interrotto da una brusca “rottura”, tenta di farsi interprete fedele di una realtà complessa e ricca di contraddizioni.

Lo sguardo di Malaparte si sposta come una telecamera in continuo movimento che ferma l’immagine ora su un evento, ora su un altro. Prima la guerra combattuta e raccontata, la logorante vita di trincea, l’allucinante stillicidio del primo conflitto che con Caporetto vede il clamoroso rovesciamento della morale borghese, l’elevazione da “sconfitta storica” al nuovo significato di vendetta del popolo umiliato e offeso. Poi l’appassionato racconto di un incubo, l’eloquente resoconto del marciume della società moderna, l’isterismo estremo e il tormento al tempo stesso attrattivo e ripulsivo con cui ha descritto l’Europa alle prese con una guerra, la seconda, generata dal un germe comune: la follia.

Anche la prosa malapartiana è mossa da una carica istintuale, è ricca di espressività e di “espressionismo”, si sfuma in una resa verbale al tempo stesso realistica e immaginifica. Il linguaggio si presenta nella sua sontuosità, nella ricerca costante ed esasperata di ogni possibile apporto descrittivo. Si va avanti per metafore, per similitudini e creando microcosmi pregni di un’aurea  poetica e di prospettive nuove, inedite, sorprendenti.

Le sue opere maggiori sono proprio quelle che parlano di guerra, non importa il palcoscenico da cui sono tratte ma gli uomini che vi partecipano. E cambia la sensibilità con cui sono osservate: da una parte l’esperienza carsica e il successivo ritorno alla “normalità”, nella quale la classe politica cercava di nascondere la disfatta del 24 ottobre 1917 e in cui Malaparte intravede non un ammutinamento militare ma il perturbamento sociale di una vera e propria rivoluzione; dall’altra la delusione fortissima di una Europa sconfitta e priva di ogni ideale di purezza che coincide in una coscienza comune  vergognosa, umiliata e disfatta. Una Europa che nel 1945 si risveglia dal peggiore degli incubi, da una sconfitta totale: lo scrittore diventa “portavoce” di uno scenario di orrori continui e implacabili, si immerge in un abisso di dolore, di disperazione, di disgusto e riemerge in una luce fioca e labile di speranza.

L’ostracismo che la cultura italiana ha espresso nei confronti dello scrittore (almeno fino agli ultimi anni, in cui sembra ci sia un rinnovato interesse) è, a mio avviso, sinonimo di cecità. Una critica troppo legata al “personaggio” Malaparte, all’uomo che non riesce a stare lontano dal proscenio, dalle luci della ribalta; alla visione semplicistica dell’autore come un giovane intellettuale certamente intelligente, ma superficiale.

Come spesso accade a chi si trova a dover contrastare degli stereotipi, si può incorrere a volte in qualche eccesso nella direzione opposta: cioè attribuire allo scrittore toscano qualità “morali” superiori a quelle realmente possedute. Ma non per questo, anche perché lo considero il punto di partenza del mio lavoro, non posso non accettare l’idea che alla base del pensiero malapartiano ci sia, al contrario di quanto si pensi, una quanto mai coerente ideologia politica. L’eventuale contraddittorietà che si può riscontrare in questo o in quel passaggio trova la sua radice non nel camaleontismo (o nel trasformismo) dell’uomo ma nella facilità di interpretazione che viene data, troppo spesso, ad alcune vicende storiche.

Dai lavori di Guerri e di Pardini, che per il suo studio ha potuto per la prima volta utilizzare integralmente l’archivio Malaparte, emerge infatti come la biografia dello scrittore, e soprattutto la sua biografia politica, abbia attraversato momenti decisivi della nostra storia.

Gli anni giovanili di Malaparte inducono lo scrittore ad avvicinarsi ad aree politiche lontane dal moderatismo: affascinato da Mazzini, garibaldino, si accosta al pensiero di Sorel e al sindacalismo rivoluzionario e anarchico. Giovane e imbevuto di ideali sovversivi riversa il suo impegno politico nelle schiere interventiste, sperando, con l’entrata in guerra dell’Italia, di riprendere il percorso bruscamente interrotto nel 1870, con la fine delle spinte risorgimentali. Il percorso di Malaparte richiama quello analogo di personaggi di primo piano del futuro regime fascista. Penso ad esempio ad Italo Balbo, o di intellettuali come Delio Cantimori che, come  ricorderà lui stesso, aderì al fascismo sperando che il movimento delle camicie nere avesse messo in pratica la rivoluzione repubblicana, sindacale e nazionale di Corridoni e di Mazzini.

Non si può dimenticare che Malaparte fu poi un esponente di punta dell’ala intransigente del fascismo, diventando teorico di una “rivoluzione” basata sul richiamo allo squadrismo delle province contro le manovre e i compromessi di Roma, cioè contro il governo di Mussolini. Nel 1924, sulla sua rivista «La conquista dello Stato», giunse a minacciare apertamente il duce, invitandolo ad ubbidire alla base, cioè a quei fascisti intransigenti e rivoluzionari che erano poi, per Malaparte, gli unici fascisti “veri”.

La «rivoluzione d’ottobre italiana»(come viene chiamata, dallo scrittore, la marcia su Roma) non si contrappone, o almeno non frontalmente, all’altra rivoluzione d’ottobre, quella russa, poiché entrambe si scontrano irreversibilmente  con degli avversari comuni e  irriducibili: il mondo borghese, il liberalismo, la democrazia.

Dalla metà degli anni venti con l’inizio vero e proprio della dittatura, la normalizzazione tanto temuta dagli squadristi, segnano anche in un certo senso l’emarginazione di Malaparte, il quale ripiega su attività esclusivamente culturali, sia pure con accenti di “fronda”, all’interno dell’ambiente “strapaesano”, del quale è, con Maccari, il principale animatore.

Disilluso del fascismo, Malaparte si trova anche a dover subire un breve periodo di confino per certi suoi violenti attacchi a Italo Balbo (che forse si aspettava che Mussolini avrebbe avallato), fuoriesce dall’elite di regime fino a staccarsene completamente.

In questi lo scrittore azzarda la stesura di alcuni saggi come tentativi di teorizzare alcune idee che aveva partorito a partire dalla presa di potere di Mussolini. Il più interessante di questi è sicuramente Tecnica del colpo di stato, che, scritto sul finire degli anni venti, venne pubblicato in Francia (e in francese) nel 1931, e conferì all’autore fama europea, cosa che, come si può immaginare, gli comportò onori e glorie ma anche numerose seccature in patria, specialmente in fasi storiche turbolente come la sua.

La tesi del libro si articola in tre punti fondamentali: la conquista del potere con la violenza non è un problema politico, ma tecnico; i principi che permettono la conquista dello Stato sono gli stessi che permettono di difenderlo; le condizioni che permettono il colpo di Stato non sono di natura politica o sociale, ma appunto tecnica e materiale. Secondo Malaparte, in particolare, i veri protagonisti dei colpi di Stato non sono le masse, ma gruppi ristretti di uomini, risoluti e determinati a prendere il potere, nella Russia zarista così come nell'Inghilterra liberale.

Per dimostrare la sua tesi Malaparte racconta con un taglio decisamente giornalistico alcune vicende esemplari della storia recente, tra cui spiccano la «Rivoluzione d'Ottobre» in Russia nel 1917, e la presa del potere del Fascismo in Italia. Vengono intrecciati intensi ritratti dei protagonisti, ricordi di esperienze personali, fatti di cronaca e valutazioni politiche in unsquisita mistura che fa di questo libro qualcosa di non chiaramente classificabile, a metà strada tra il trattato politico e la narrazione romanzesca.

L’autore specifica, nell’introduzione all’edizione italiana uscita solo nel 1948, che il suo testo può essere di monito ai governanti di Europa per la difesa dei loro Stati; anche se la sensazione non è tanto quella di ascoltare un suggerimento spinto da uno sincero slancio democratico, quanto piuttosto una osservazione “tecnica” e distaccata, una dissertazione filosofica su una argomento a lui caro. Alcune sue intuizioni storiche sono giuste (Hitler prenderà il potere per via parlamentare e si dovrà sbarazzare di parte del suo seguito), altre analisi probabilmente errate (l’antisemitismo di Stalin non è soltanto un’arma evocata allo scopo di eliminare Trotzky ma una prerogativa intrinseca della sua politica, basti pensare al famoso “complotto dei medici” degli anni cinquanta) ma nel complesso la dimensione storica e politica, per quanto è vivissima quella squisitamente narrativa, è attenta e accurata.

Finita l’esperienza francese, è lontano dalla politica e nei burrascosi anni del dopoguerra che Malaparte raggiunge, con Kaputt e con La pelle, il massimo successo letterario. Difficile dire quanto, nel tratteggiare il quadro senza speranza di una Europa divenuta, con la guerra, un «mucchio di rottami», Malaparte fosse sincero e quanto intervenisse anche il suo bisogno di stupire e scandalizzare: ma in quell’affresco “gigantografico” di una Europa in decomposizione si trova la traccia di idee radicate in lui da tempo, sin dallo stato d’animo del giovane sovversivo che aveva combattuto nella Grande guerra tornandone con la convinzione che la vecchia Europa fosse già da ricostruire.

L’eccezionalità tragica della materia, della guerra «perfezionata come arte del massacro», è resa da una gelida e astratta violenza del linguaggio e delle immagini. Il gioco insistito di dialoghi brillanti si fa abile manipolazione di idiomi europei, alternando momenti di “civile raffinatezza” con cinici colpi di teatro che riducono tutto ad una farsa ridicola e inguardabile. Alcune immagini oggi classificherebbero Kaputt nel genere splatter, in quanto basato sull’estremo realismo degli effetti speciali, dal continuo richiamo al sangue al “racconto” minuzioso della lacerazione dei corpo o di ogni altro particolare scabroso. Il realismo che porta all’esagerazione, allo scopo di far disgustare i lettori o semplicemente di mettergli in mostra il lato peggiore di un qualcosa che non si deve ripetere. In questo “gioco al massacro” in realtà c’è anche molta ironia, quella derivante da una «commozione razionale, arida e fredda sempre, anche quando giunge al riso come a un modo superficiale di sofferenza». Un’ironia metafisica che resta a un livello di sense of humour, non sempre riscontrabile ma comunque presente nell’atmosfera volutamente malinconica e infernale della descrizione.

Quando gli occhi di Malaparte si insinuano su Napoli, in una sorta di Gomorra ante tempore in cui la metropoli partenopea è al centro, come nel romanzo-inchiesta di Saviano, di un processo di corrosione e depravazione dell’intero sistema occidentale, lo scrittore sembra quasi perdere il controllo di sé. La città colpita a morte dalla guerra e rimasta a marcire e a corrompersi nelle retrovie è raccontata in un modo che nasconde forse il desiderio di mostrare, al di fuori di ogni ragionamento, il dolore che lo invade, la disperazione e, perché no, lo schifo. Attraverso le pagine de La pelle, Malaparte si annovera, a buon diritto, tra gli scrittori “pestigrafi”, per i quali la peste è un contagio morboso di violenza, schiavitù, oppressione. Una peste che sfalda i tessuti profondi della coscienza. Non è un caso che il romanzo termina con una frase detta a voce bassa («è una vergogna vincere la guerra»), perché la disperazione, quella più profonda, non ha bisogno di essere urlata.

“Verso la dolcezza” di François Bégaudeau

Parigi a cavallo delle ultime presidenziali, Parigi come sfondo urbano delle esperienze di uomini e donne alle prese con il proprio essere e con il caos dei sentimenti. Parliamo di Verso la dolcezza (Einaudi, 2010), dell'autore François Bégaudeau, già noto al pubblico per il precedente romanzo La classe, da cui è stato tratto l'omonimo film premiato con la Palma d'oro a Cannes.

Verso la dolcezza è un romanzo che poco ha di veramente dolce se non la «ricerca della dolcezza», più volte fatta notare, dei personaggi che lo abitano, in equilibrio precario sull'amara esistenza che il quotidiano riserva loro sotto forma di surrogato di vita. Niente di malinconico, poco di sentimentale: i personaggi vivono la realtà dell'oggi tra il bisogno d'amore e di sesso e il desiderio di realizzazione e libertà.

Ciò che più colpisce di questo romanzo è il distacco con cui vengono vissute e raccontate le storie dal protagonista, Jules, uno dei tanti adulescentes trentenni francesi. Alle soglie dei trentacinque anni «arrivò il momento di diventare uomo», questo è quanto sostiene, ad apertura di romanzo, Jules: una frase che, a ben vedere, potrebbe rappresentare la chiave di lettura di tutte le storie narrate in questo romanzo, il faro, il filo sottile e sotterraneo, il significato ultimo dell'opera che sembra volerci comunicare l'impossibilità a raggiungere la “forma”, che la società impone di perseguire, in contrapposizione a quanto “sta dentro” ogni essere umano, compresi i sogni e compreso il cinismo che in ciascun individuo rappresenta la forza per non soccombere alla disfatta dei desideri. Le storie di questi personaggi, assolutamente terrene, possiedono quella singolarità, intrinseca in ogni individuo, tale che, alla fine degli episodi narrati, si ha la sensazione di aver preso parte e visto da vicino il personale e divertente difetto che rende ogni esperienza umana degna di nota.

Bellissimi alcuni momenti del romanzo tra cui le parole di Jeanne, forse unico vero amore di Jules che «sognava dolcezza senza crederci lui per primo», la quale gli scrive una lettera perché non riesce a continuare quella storia d'amore fatta di rumori e priva dei silenzi che solo l'amore, non lui, può dare: «La verità è che tu non credi alla possibilità del sole. E addirittura disapprovi le benevole carezze dei suoi raggi. Tu ti ripari dai ricatti dell'emozioni. Al sentimentalismo preferisci il lirismo arido, ma il lirismo presto decollerà dal suo rigido piedistallo e tu resterai soltanto arido. Come una pietra».

Nell'insieme Verso la dolcezza risente, sia concettualmente che stilisticamente, del nostro insicuro e confuso presente e, di certo, l'autore ha voluto mostrare ai lettori, attraverso il tratto ironico di cui si serve nella descrizione della generazione dei trentenni, una delle facce più colpite di questo tempo.

(François Bégaudeau, Verso la dolcezza, trad. di Tiziana Lo Porto e Lorenza Pieri, Einaudi, 2010, pp. 152, euro 15,50)

“Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” di Claudia Durastanti

Se non fosse per il titolo che dà garanzia di una promessa, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsilio, 2010) si potrebbe identificare come un romanzo di naufragi. Questa è l’America di Claudia Durastanti, che nel suo libro racconta le vicende di tre coppie di amanti impegnati ad attraversare il mare magnum di umori e tendenze di tre decenni di storia.

Nel racconto c’è una forza autobiografica che non può essere smentita: è evidente nella precisione e nella raffinatezza di alcune scene che probabilmente ripercorrono strade vissute dalla stessa scrittrice, nata a Brooklin e perciò “figlia adottiva” dell’America cantata nelle storie di questo romanzo. E l’uso del plurale non è un caso.

Michael e Jane, Francis e Zelda, Edward e Ginger procedono all’interno del racconto in parallelo, eppure restano bloccati nella staticità di densi quadretti privati, asfittici e graffianti, risultato di una scrittura ben strutturata, consapevole, matura che però perde di vista l’integrità della trama.

È la fotografia di un’umanità che cerca il suo posto nel mondo e che, quasi sempre, finisce per girarci solo intorno, senza trovarlo. Così come l’amore che, lungi dall’essere banalizzato, diventa un pretesto studiato per scavare a fondo nella complessità di uomini e donne che si incontrano per ricadere, alla fine, dentro inevitabili fratture.

Il romanzo, in verità, offre al lettore attento una sfida, oppure, per dirla in altri modi, delle alternative. Da un lato si potrebbe decidere di lasciarsi andare al succulento citazionismo – a volte esagerato, ma pur sempre gradevole – che permette una reale immersione nel mondo culturale dell’epoca, passando per la musica, l’arte e la letteratura; oppure ci si potrebbe arrendere all’idea della mancanza di continuità nel racconto, seguendo le storie tormentate di una gioventù che si piega ai dolorosi cambiamenti della vita.

Quella personalmente scelta è una terza via che riesce ad inglobare entrambe le prospettive, in ragione di una capacità stilistica inequivocabile: è la visione filmica che raccoglie i resti caotici di questo libro in piccoli cortometraggi di passione e disincanto, grumi di vita per intenderci, storie dal “plurale sensato”.

(Claudia Durastanti, Un giorno verrò a lanciare sassi dalla tua finestra, Marsilio, 2010, pp. 304, euro 17,50)

Intervista a Lorenzo Pavolini, autore di “Accanto alla tigre”

Piove. Come spesso accade in questo maggio atipico. Nella sala Kodak della Casa del Cinema, oggi, alle sette circa Lorenzo Pavolini inizia a parlare del suo romanzo. Lo introduce con una battuta ironica, perché l’argomento trattato non è leggero, tutt’altro. È un romanzo in cui Pavolini  si confronta con Pavolini, il nipote indaga sul nonno, mai conosciuto, l’intellettuale si confronta con il politico, un italiano oggi si interroga sul suo passato. Lo scandaglia, il passato dell’Italia, lo mette in vetrina dopo averne analizzato molti dettagli. Il passato di un uomo, o meglio la storia della sua famiglia, è anche la storia dell’Italia. Di quell’Italia che era fascista, ma che ha anche appeso i fascisti a testa in giù a piazzale Loreto. Lorenzo Pavolini è nipote di Alessandro Pavolini, gerarca fascista.

È stata spontanea, istintiva la decisione di scrivere un romanzo sulla storia di suo nonno?

No, non è stata istintiva, ma pensata a lungo, negli anni. Anzi, inizialmente ero restio ad affrontare questo argomento. È stato un momento storico difficile, imbarazzante. Ci ho messo molto tempo a scrivere questo romanzo. Ma tante persone mi chiedevano di mio nonno, e il libro è stata una reazione a queste frequenti domande.

C’è l’utopia, la speranza di affrontare un nuovo capitolo della nostra complicata memoria storica?

La mia intenzione non era quella di mettere in discussione la memoria storica, sono passati sessantacinque anni dalla guerra e quel contesto storico è abbastanza distante per definirlo. Per cercare di capirlo.

Accanto alla tigre affronta un tema delicato, in parte personale:il processo di scrittura è stato doloroso?

Ho dovuto vincere un grosso imbarazzo, l’argomento mi metteva a disagio, prima. Ho scritto con senso di responsabilità, cercando di essere delicato con gli interlocutori ma soprattutto verso i miei familiari.

Accanto a Lorenzo Pavolini (già autore dei romanzi Senza rivoluzione ed Essere pronto e redattore della rivista “Nuovi Argomenti”), ci sono gli attori Filippo Nigro e Rolando Ravello, che dopo la presentazione dell’autore leggono brani tratti dal romanzo.

Fuori la pioggia cessa. Esce il sole. Mario Desiati, direttore editoriale della Fandango, invita i presenti a un brindisi, per il nuovo romanzo di punta della Fandango, candidato al premio Strega e vincitore del premio Mondello.

Brindiamo, perché il passato è ormai alle spalle

“Il viaggio d’inverno” di Amélie Nothomb

Più casualmente di così non poteva cominciare. Anni ’90, una copia molto malridotta di Igiene dell’assassino, opera prima della giovane franco-nippo-belga Amélie Nothomb, sbuca dal bauletto di uno scalcagnato motorino passato di mano in mano fino a me. È l’ inizio di una storia d’ amore. Una storia che, complici gli incontri (casuali anch’essi) con Monica Capuani, smagliante traduttrice, e Daniela Di Sora, fondatrice e cuore pulsante della Voland edizioni, mi ha teletrasportato, per restarci a lungo, nel piccolo e raffinatissimo universo letterario della sulfurea Amélie, della quale si cominciava già ad officiare il culto segreto.

Tutto questo per dire che è con un certo rammarico che negli ultimi anni ho stentato a ritrovare quello shining, quello stato di grazia creativo e un po’ demoniaco che aveva partorito gioiellini come Mercurio, Stupore e tremori, i deliziosi Igiene dell’assassino e Le catilinarie, l’intrigante Cosmetica del nemico. Squisiti bon bon di originalità e intelligenza, dialoghi da leccarsi i baffi e autoironia, anche feroce, a piene mani. Poi un lento ma progressivo appannamento, dio sa quanto mi costa dirlo. Una serie di romanzi graziosi ma non memorabili, spie forse di un’affievolimento nella capacità di graffiare lasciando il segno.

Il viaggio d’inverno segna l’attesa inversione di tendenza: pur restando nei temi a lei tanto cari (i disastri della famiglia, gli amori più bizzarri, la passione per i freaks, la fissazione per i nomi propri) l’estro creativo dell’autrice di razza torna a tratti a risplendere nel racconto dell’insana passione del giovane Zoile per l’eterea e capricciosa Astrolabe (nomi che più Nothombiani di così si muore). Passione messa a dura prova dall’ ossessiva presenza di Aliénor, minorata ma brillante scrittrice con cui Astrolabe divide un gelido appartamento parigino. Un vero amour fou autodistruttivo che porterà Zoile a vagheggiare e forse attuare, ma sempre sul filo della prosa surrealmente agrodolce che è l’inconfondibile marchio di fabbrica di Amélie, un clamoroso e catastrofico attentato. Nothomb che recupera dunque verve e brillantezza, anche se rimane un po’ di nostalgia per i folgoranti dialoghi dei vecchi tempi, arma letale di cui l’autrice belga sembra volersi servire ora con ingiustificata parsimonia.

(Amélie Nothomb, Il viaggio d'inverno, trad. di Monica Capuani, Voland, 2010, pp. 112, euro 12)