“Atlante immaginario”
di Giuseppe Lupo

Avete presente l’elzeviro? A molti, soprattutto fra i meno anziani, questo termine risulterà poco familiare, essendo decaduto dall’ormai depauperato italiano minimale del mainstream comunicativo: diremo dunque, a loro beneficio, che quel nome era adoperato, almeno fino a qualche decennio dalla fine del secolo scorso, per una piuttosto breve composizione in prosa italiana, di solito entro una colonna di pagina di giornale (quelli di una volta però, a lenzuolo, tanto scomodi da maneggiare in lettura quanto provvidenziali a partire dal giorno dopo, per imballarci qualcosa), il cui scopo era, di fatto, quello di riempire appunto tale spazio tipografico in mancanza di più impellenti sollecitazioni da parte della cronaca quotidiana: salvo a non venir pubblicato, se invece necessità di spazio di questo tipo incombessero. L’elzeviro, infatti, non aveva nessun preciso legame con l’attualità: descriveva il mondo, nei suoi aspetti trascelti fra i più accattivanti, un paesaggio, un’opera d’arte, una mattinata all’ippodromo, e via bellettrizzando di questo passo. Né più né meno, direte, che le Meraviglie d’Italia I viaggi la morte di Gadda; che infatti, non a caso, proprio in questo modo videro in gran parte la luce, prima di ricomparire  dopo qualche anno in volume.

Che tale meritoria pratica novecentesca (meritoria, s’intende, nei confronti del bello stilo della prosa italiana, che non poco se n’è giovata in passato) sia ancora in auge, in questo nostro tempo di frettolosi tabloid e di digitalizzazione ossessiva, ce ne certifica la recente uscita di questo Atlante immaginario (Marsilio, 2014), in cui  Giuseppe Lupo, del resto valoroso e frequentemente premiato narratore, ha raccolto appunto i pezzi, solo latamente cronachistici, usciti su Avvenire fra il 2012 e il 2013.

Agganci a vicende di quei mesi, a dir vero, non mancano di fare capolino, qua e là, per fornire spunto alle riflessioni, sempre guidate da nitida eleganza discorsiva, di Lupo; ma non è questo, il caso più frequente. Occasionalmente si discute di cartografia, e di quanto possano essere permeabili i punti di contatto fra questo modo di rappresentare la realtà e quelli attraverso i quali l’invenzione fantastica s’insinua fra le cose degli umani; oppure di quell’altro inestinguibile modo per disseminare l’invenzione in mezzo ai miasmi grevi della verità, che è la letteratura: soprattutto in quanto l’autore ne ha ampia e fattiva pratica, sì che non è raro gli occorra di aprirsi, in queste pagine, a momenti di sperdimento fantastico, dietro una trama narrativa da rimpolpare di parole (è lui stesso a fare il nome di Pirandello assediato dai sei personaggi dentro l’ombra montante del suo studio), invitandoci così cordialmente a dividere con lui quei privatissimi, esaltanti momenti iniziali attraverso cui ogni scrittore dev’essere passato e di cui poi, a pagina scritta e stampata, non rimane più traccia.

Ma dove Lupo ottiene i risultati di miglior livello, sul piano, certo, di quello che potrebbe esser letto in prima battuta come un “diario in pubblico”, ma evidentemente anche di quella che si lascia senza molto sforzo definire poesia (poesia bell’e buona, per quanto la composizione tipografica si impunti a mantenerle il molto meno pretenzioso status della prosa), dove Lupo, dicevamo, dà il meglio di sé, è nei numerosi brani, pausati sapientemente su tutto l’arco del libro, in cui, partendo da questo o quel frustolo di realtà venutogli fra i piedi, risale, attraverso il fiume muto e tellurico della memoria, di quella fisica, delle vene e del sangue, prima ancora che di quella dei ricordi che trapassano sbiadendo nella mente, su, indietro fino alle sue origini: alla terra che – come i campi di Andes a Virgilio – la nascita gli ha dato e la storia gli ha tolto; la storia, condivisa da Lupo con intere legioni di altri uomini e donne del Sud, che almeno fino agli anni Sessanta di quel nostro sciagurato (e per qualcuno, bontà sua, breve…!) secolo XX, nel Meridione, ha imposto a tanta parte degli intellettuali, o semplicemente degli esseri umani non di altro capaci che di piegare nel lavoro il proprio corpo, l’abbandono del proprio mondo, geografico, certo, ma ancora più di legami d’affetto, di parametri culturali trasmessi dai padri e dagli avi, con cui inquadrare il mondo, e la sua mancanza di senso.

Si dirà che così Cristo ha mosso finalmente il suo passo, oltre Eboli: ma – senza voler adesso entrare nella spinosa diatriba se tutto quello che poteva esser fatto di buono è stato poi realmente fatto, al Sud come al Nord – la testimonianza, civile e trasognata insieme, di Giuseppe Lupo, il rimpianto sorridente per il modo di narrare dei suoi due nonni, la bellissima immagine dei ragazzi lucani che lasciano un frammento d’albero dietro la porta della ragazza a cui vogliono dichiarare amore (chi mai lo farà più, su nel Nord nebbioso, e così tronfio del proprio “progresso”?), restano in noi come possibili risarcimenti che la letteratura si offre di porgere, anche a quel remoto soffrire.

(Giuseppe Lupo, Atlante immaginario, Marsilio, 2014, pp. 160, euro 15)

“Fiabe lapponi”
di Aa.Vv.

Fiabe lapponi (Iperborea, 2014) è la prima di una serie di raccolte dedicate alle fiabe scandinave, a cura di Bruno Berni, che la casa editrice Iperborea manderà alle stampe.

La Lapponia, mitica terra di Babbo Natale, comprende un territorio vasto e sfuggente, dalle inospitali condizioni climatiche, un’area geografica che abbraccia le regioni settentrionali di Norvegia, Svezia, Finlandia e la penisola di Kola in Russia. La natura crudele e matrigna ha condannato per molto tempo all’emarginazione e al nomadismo il popolo dei Sami (o lapponi).

È solo nel corso dell’Ottocento che, in concomitanza con i primi rigurgiti di indipendenza (culturale e linguistica), queste popolazioni nordiche cominciarono a fissare per iscritto la tradizione fino ad allora esclusivamente orale delle fiabe.

Lungi dall’essere semplici racconti per intrattenere e sviluppare la creatività dei bambini, le fiabe, proprio nel secolo del Romanticismo, hanno acquistato una propria dignità letteraria grazie ai fratelli Grimm, anche se la loro circolazione è molto più antica risalendo in epoca antica, e si sono fatte strumento di edificazione dell’identità nazionale.

Ad esempio, dopo che la Norvegia riuscì a ottenere l’indipendenza dalla Danimarca nel 1814, dopo ben 400 anni di dominio, si palesò subito la necessità e il desiderio di una lingua nazionale scevra dall’influenza danese, una lingua propria in cui veicolare i propri usi e costumi. Furono gli studiosi Peter Christen Asbjørnsen e Jørgen Moe a raccogliere e pubblicare per la prima volta le fiabe norvegesi, definite dallo stesso Jacob Grimm ‹‹le migliori che esistono››.

Di fatto la lingua norvegese, fatta da un insieme di dialetti ugofinnici anche molto distanti tra loro, divenne la lingua ufficiale solo nel 1991.

Sono storie inattuali ma eterne che si rifanno agli archetipi, ai sentimenti e alle relazioni più profonde della cultura nordica.

I personaggi sono vari e intriganti. Oltre a quelli classici quali cacciatori, demoni, streghe, principesse, giganti e orchi, troviamo quelli della mitologia Sami: Gieddegæṧ-galgoo, una vecchia saggia a cui gli eroi delle fiabe si rivolgono spesso per chiedere consiglio; Stallo, una specie di orco piuttosto sciocco e facile da raggirare; Acceṧ-ædne, una troll malvagia, brutta e astuta che spesso cerca di sostituirsi ad altri personaggi femminili; Njaveṧ-ædne, bella e di buon umore ma ingenua, spesso infatti si fa ingannare da Acceṧ-ædne; diavoli che nell’immaginario lappone assumono le sembianze di ricchi signori norvegesi ben vestiti; noaide, sciamano lappone con funzioni da guaritore.

I protagonisti delle Fiabe lapponi, prese quasi esclusivamente dall’opera del norvegese Just Knud Qvigstad, si distinguono da quelli delle altre fiabe scandinave per alcune peculiarità: scrive Berni «simili sono i temi, diversi sono i personaggi, come lo Stallo lappone è diverso dal gigante svedese e diversa è appunto l’atmosfera». In molte narrazioni ricorre per esempiola figura del Sami arguto che si fa beffe dell’orco un po’ tonto, lo Stallo, proiezione del norvegese cattivo. Una di queste, Sette in un colpo, ricordail Prode piccolo sarto dei fratelli Grimm.

O ancora troviamo una volpe senza stivali che contribuisce ad arricchire il suo padrone proprio come il Gatto con gli stivali di Perrault. Tra i Sami, si narra di un tal Ruobba che fa la guardia a un albero di foglie d’oro, forse nato da un innesto di quello che faceva mele, anch’esse 24 carati, nella favola dei Grimm L’uccello d’oro.

Anche l’ambientazione è diversa. Mercanti, cacciatori di renne, pescatori, porcai, cavalieri si muovono in ampi spazi selvaggi diversi dal ‹‹paesaggio campagnolo danese››, oppure l’azione di svolge nellasida, ovvero l’accampamento lappone composto da più tende e mandrie. Di fatto poi la dimora del principe è una fattoria.

Spesso gli eroi delle fiabe lapponi pagano per i propri errori e leggerezze e la morale non è mai scontata, a volte è amara e frustrato il lieto fine.

Per chi ama le temperature nordiche è impossibile non lasciarsi sedurre dal fascino del loro “c’era una volta”. Il pungente freddo invernale del resto propizia l’immersione in questo mondo di metamorfosi e magie alla scoperta di una popolazione spesso dimenticata, alla ricerca delle proprie radici iscritte nelle formule ripetute di queste fiabe, impreziosite dalle illustrazioni di John Andreas Savio, quali «testimonianze raccolte in un’epoca in cui il progresso tecnologico non aveva limitato le peculiarità regionali, in cui l’arte della narrazione e della memoria erano ancora vive, espressione del modo in cui un popolo vede se stesso e di come, in fondo, vorrebbe essere visto dagli altri».

(Fiabe lapponi, trad. di Bruno Berni, Iperborea, 2014, pp. 192, euro 15)

“La teoria del tutto” di James Marsh

Università di Cambridge, 1963. Stephen è uno studente di fisica brillante e indisciplinato che passa le sue serate tra birre bevute in eccesso, chiacchierate con gli amici e feste. È a una di queste feste che incontra Jane, studentessa di letteratura francese e spagnola. Non avrebbero niente in comune, all’apparenza, dai percorsi di studio al rapporto con la religione – ateo lui, «C di I», chiesa di Inghilterra, lei –, eppure si piacciono, e iniziano a frequentarsi. C’è il ballo, e lui la invita anche se non balla, si baciano, si mettono insieme. Un giorno Stephen cade andando a lezione, sembra niente, però il medico che lo visita scopre altro: ha la malattia del motoneurone, la sindrome di Lou Gehrig, per chiamarla con il nome del giocatore di baseball che suo malgrado l’ha resa famosa. In sostanza il suo corpo smetterà gradualmente di rispondergli, fino alla morte. Tempo stimato due anni. Stephen si proietta nella depressione più nera, e sarà Jane a scuoterlo, a fargli capire che quel poco tempo che resta lei lo vuole passare con lui, accada quello che deve accadere. E accadrà che i due anni diventeranno tre, poi cinque, poi dieci, poi venti, e ancora durano, e arriverà la laurea, e il matrimonio, e il dottorato, e tre figli, e la fama internazionale, e l’ingresso dell’ordine dei Companions of Honour del Regno Unito, incontrando la regina Elisabetta.

Stephen è Stephen Hawking, astrofisico di fama internazionale, autore di un bestseller come Dal big bang ai buchi neri. Una breve storia del tempo che ha aperto le inaccessibili porte della comprensione della fisica al grande pubblico e di alcune delle teorie alla base delle principali ricerche scientifiche contemporanee. Jane è la sua prima moglie autrice del libro autobiografico Verso l’infinito da cui è partito lo sceneggiatore Anthony McCarten per costruire La teoria del tutto, bio-pic di coppia diretto da James Marsh candidato a cinque premi Oscar tra cui miglior film.

C’è un momento di svolta nello stile narrativo di La teoria del tutto e coincide con la discussione della tesi di dottorato di Stephen e il suo ingresso ufficiale tra i grandi dell’astrofisica mondiale. Nel momento esatto in cui le teorie del giovane Hawking arrivano a scuotere il mondo scientifico, James Marsh decide di smettere di seguire la sua vita accademica per spostare l’attenzione sul rapporto con Jane e la nascita della loro famiglia, con tutte le difficoltà collegate alla malattia.

Se da un lato è una scelta inevitabile per aggirare la mostra becera del corpo di Hawking in disfacimento o l’esposizione di concetti scientifici troppo complessi per essere compresi dal pubblico – e probabilmente anche solo per essere mostrati in un prodotto di finzione (Marsh si limita a immaginare i momenti delle intuizioni che arrivano dal quotidiano, e un po’ gioca a fare Godard quando aggiunge il latte al caffé) –, dall’altro l’attenzione alla dimensione familiare finisce per rendere La teoria del tutto un film sentimentale con toni da commedia piuttosto convenzionale, in cui l’unica particolarità è data dalla malattia.

Marsh e McCarten si sforzano di trovare un implicito legame tra le formulazioni teoriche e la vita privata, suggerendo come la visione del tempo, centrale in tutti gli studi di Hawking, muti con l’evoluzione del rapporto con la malattia e con la moglie, con l’apertura dell’orizzonte degli eventi che il non precipitare della malattia apre ogni volta di più e le infinite gioie, sempre più inaspettate, che continuano ad arrivare. Pure troppe, visto che c’è una saturazione di buoni sentimenti.

D’altro canto, però, è nella incredibile interpretazione del quotidiano della famiglia Hawking che La teoria del tutto trova la sua vera forza. La dimensione domestica dell’incredibile Stephen di Eddie Redmayne (meritatissima nomination all’Oscar, e, dopo la vittoria del Golden Globe, grande favorito per il premio) è quella in cui viene fuori tutto il lavoro di trasformazione. Non solo, la progressione graduale della malattia si accompagna a una crescita esponenziale del talento impiegato. Bastano le sopracciglia e il movimento delle labbra, basta la passività con cui affida il corpo agli altri per far capire tutto quello che c’è da capire. Non si vedeva un simile lavoro dai tempi di Daniel Day Lewis in Il mio piede sinistro. Accanto a Redmayne, la Jane di Felicity Jones (anche lei candidata) è una pietra vestita di seta, dall’apparenza fragile e delicata, dalla risoluzione incrollabile.

È l’interazione tra i due, il contraltare posato di Jane all’intelligenza brillante di Hawking (perché La teoria del tutto è un film in cui si ride, anche), il contrasto sereno tra il razionalismo scientifico e l’affidamento fideistico, a creare vera energia.

(La teoria del tutto, di James Marsh, 2015, biografico/drammatico, 123’)

“Bravi & Camboni”
di Paolo Piras

Il calcio non è solo gloria e trionfi. Il calcio è anche, o soprattutto, sudore e fatica e (piccole) sofferenze continue di chi lo gioca e di chi lo guarda. Perché dietro ai campioni, ai bravi, ci sono i camboni, gli scarsi in dialetto cagliaritano, i giocatori tristi che non hanno vinto mai, quelli che fanno infuriare il pubblico e che finiscono per essere ricordati per sempre, comunque.

Paolo Piras, giornalista del Tg 3, ha raccolto le storie dei Bravi & Camboni (Egg edizioni, 2014) della squadra di cui è tifoso, il Cagliari. Squadra di poche glorie nella storia del calcio, ma di grandissimo tifo e di tanti, troppi giocatori passati senza lasciare traccia se non il ricordo dell’illusione dell’affare. Perché, per definire un bidone, Piras fornisce una formula precisa: «tra le unità di misura del bidonismo si contano l’entità della spesa e il richiamo iniziale del nome, direttamente proporzionali alla delusione finale». Maggiore l’attesa e maggiore la spesa, quindi, e inevitabilmente maggiore la possibilità della delusione.

Nel 1982, per fare un esempio, arriva a Cagliari Waldemar Victorino, attaccante uruguayano di meno di un metro e settanta soprannominato in patria El Piscador, il pescatore. L’anno precedente, durante un incontro tra Italia e Uruguay per il Mundialito, una competizione amichevole tra le squadre vincitrici della Coppa del Mondo, aveva fatto impazzire il suo marcatore Collovati. In patria era un idolo. Quindi, quando il presidente Alvaro Amarugi riuscì a portarlo in Sardegna c’era, giustamente, una certa attesa. Quell’anno era arrivato anche Julio César Uribe, El Diamante Negro, fantasista peruviano che in America Latina era considerato secondo solo a Maradona e Zico. C’era di che sognare, magari non lo scudetto, ma comunque di vedere l’Europa. Del Piscador si diceva che avesse segnato 620 gol in carriera. Aveva già trentatré anni, ma era un campione, o almeno si credeva. Piras racconta che durante la sua prima partita di preparazione contro il Tasinanta calcio, non esattamente un’eccellenza del pallone, Victorino segnò tre degli undici gol del Cagliari. A fine partita fu sentito dire «E con questi sono 623 in tutto», frase che proiettò una certa inquietudine tra i più (non vale contare i gol delle amichevoli, lo sanno tutti, contano solo quelli nelle gare ufficiali). Nel suo unico anno in Italia segnò un solo gol, contro la Roma, ma di mano, annullato e ammonito, quindi. La sua voracità sotto rete lo portava a fare solo confusione. Passò la maggior parte del tempo in panchina, giocò dieci partite in tutto. Iniziarono a circolare delle storie, che quel Victorino arrivato a Cagliari non fosse Waldemar, ma il fratello scarso.Venne ceduto in Argentina a fine stagione, quando il Cagliari precipitò in B, altro che Coppa Uefa. Il suo compagno di meraviglie, Uribe, resiste altri due anni, ma con Maradona e Zico l’unica cosa che ha in comune sembra essere il continente di provenienza. Anzi, con la maglia della nazionale peruviana ha avuto l’occasione di fare una diversa storia del calcio. Perché il 30 giugno del 1985 il Perù si è giocato con l’Argentina la qualificazione al mondiale dell’anno successivo, quello in Messico che Maradona ha praticamente vinto da solo. In quella partita è proprio Uribe ad avere sui piedi l’occasione per far vincere il Perù, farlo accedere al mondiale ed eliminare l’Argentina. Ed è proprio Uribe a sbagliarla, e a far uscire il Perù, far accedere l’Argentina e ad avviare il cammino della vittoria albiceleste.

Sono queste le storie che racconta Paolo Piras, piccola mitologia del calcio solo apparentemente minore. C’è spazio per la gloria di chi il Cagliari l’ha fatto grande davvero, in quella stagione 1969-1970 dell’unico scudetto rossoblu, per Riva e Greatti, che scelse di non essere libero (di ruolo) e fece la gloria del compagno Pierluigi Cera, per i «chilometri di sigarette» dell’allenatore Manlio Scopigno e per la vulcanologia del presidente Amarugi. C’è il principe uruguayo Francescoli, il giocatore che ha sempre ispirato Zidane, e chi ha dovuto aspettare la fine della carriera per indossare la maglia della squadra che ha sempre tifato, Gianfranco Zola.

Non bisogna essere tifosi del Cagliari per apprezzare Bravi & Camboni, non è affatto necessario. Piras butta giù profili di autentici nessuno della storia del calcio e di grandi campioni con la stessa ricetta di ironia e umanità, di passione e disincanto. E alla fine ci si trova a tifare un po’ per il Cagliari.

(Paolo Piras, Bravi & Camboni, Egg edizioni, pp. 248, euro 14)

“Storia del denaro”
di Alan Pauls

Magnificazione del piano sequenza. Ma non è cinema: è letteratura, vera. A un certo punto della Storia del denaro, ultimo straordinario romanzo di Alan Pauls (SUR, 2014), il padre del ragazzo attraverso i cui occhi è raccontata, impartisce al figlio una vera e propria lezione di vita, “itinerante”. Una camminata in ufficio viene trasformata in uno «scrutinio degli impiegati» (va da sé, tutti morti come vuole «l’esistenzialismo da impiego statale che impera allora in America Latina»). Tutto in un solo sguardo, un’unica inquadratura che è in cifra l’omologo più o meno approssimativo del romanzo costruito con un’unica frase che originariamente lo scrittore argentino si era prefissato come tecnica e visione del suo lavoro. Cinema dunque, ma in un’accezione diversa dalla solita in virtù della quale si parla di scrittura cinematografica a proposito di romanzi (e per lo più si finisce per intendere una lingua approssimativa, da sceneggiatura, un segno marcato del montaggio e del dialogo, una visività non di rado piallata sul presente oggettuale della rappresentazione, eccetera). Pauls, che pure ha scritto spesso per il cinema (e molto presente il cinema risulta nelle cogitazioni sparse nel libro), confessa nelle sue interviste di essere sempre stato a disagio con la sceneggiatura perché la sua è scrittura pura e non funzionale a un altro linguaggio ma tenta di rubare al cinema la possibilità di inquadrare il mondo in un movimento di macchina che rubi tutto il possibile della scena e simuli la vita come tempo. Se ha poi rinunciato a costruire il suo romanzo (terzo di un trilogia che comprende anche Storia del pianto Storia del capelli) con un’unica frase, i suoi restano periodi lunghissimi, di splendida ma leggibilissima complessità – e realizzano, ovviamente, più di quanto possa il cinema: perché involgono sì immagini movimenti rumori (strepitoso il crepitio dei crostini nella bocca di un morto, un amico del marito di sua madre) per ognuna di esse si dipartono tangenzialmente riflessioni supposizioni inferenze: il dicibile dell’universo umano qui racchiuso in una famiglia argentina degli anni Settanta i cui rapporti passano attraverso la contingenza materiale e il dominio metafisico insieme del denaro: presenza palese e occulta che pare costituire l’ambiente, la possibilità  stessa del vivere. Attraverso il denaro si configurano caratteri, relazioni, scelte psicologiche e sociali. Pauls racconta stando addosso agli oggetti (mentali e materiali) con un’ostinazione che richiede al lettore la stessa pertinacia e – diremmo – passione. Non quella feticistica per i dettagli in quanto tali, ma per l’esplorazione di una possibile verità delle cose che passa attraverso la definizione molecolare delle stesse in una corrente potenzialmente inesauribile.

Pauls, concentrando lo sforzo del suo continuum narrativo su un tema particolare (il denaro – che pure particolare abbiamo visto non è) e la sua declinazione sui vari componenti di una famiglia (allargata diremmo, poiché il figlio ha da fare con genitori separati e dunque con protagonisti estranei al nucleo originario), con tecnica straniante tangenzialmente racconta l’Argentina tragica degli anni Settanta – che non è solo quella funestamente consegnata alla storia che tutti conoscono, ma una trama sociale di atteggiamenti, di modi di vivere, di domande: come fa l’amicizia a coesistere con il denaro?, come si fa a “valutare” il prezzo di una vita, come accade con i sequestri di persone delle FAR o con una polizza assicurativa? Nel catalogo sudamericano che vanno costruendo le edizioni SUR, Pauls emerge ormai come uno scrittore di sicura grandezza.

(Alan Pauls, Storia del denaro, trad. di Maria Nicola, SUR, pag 240, 15 euro)

“Exodus – Dei e re” di Ridley Scott

Premessa esegetica: l’Esodo è il secondo libro dell’Antico Testamento. In esso si racconta la storia della schiavitù ebraica sotto i faraoni d’Egitto, della liberazione guidata da Mosè, del lungo cammino verso la Terra Promessa e del consolidamento dell’alleanza tra Dio e il popolo eletto attraverso le tavole dei dieci comandamenti e la ritualizzazione della vita quotidiana e religiosa degli ebrei.

Ridley Scott concentra il suo Exodus – Dei e re sulla liberazione e ancora di più sul confronto di rivalità e affetto tra il profeta Mosè e il faraone Ramses II, cresciuti insieme come fratelli (anche se di fatto cugini adottivi) alla corte di Menfi e finiti a combattersi come rivali.

Mosè è infatti un generale dell’esercito egiziano quando lo vediamo per la prima volta. È stimato da tutti per il suo coraggio e la sua virtù. Il faraone Seti lo preferisce addirittura al figlio Ramses, che ritiene troppo poco saggio e vittima delle passioni per succedergli. Durante una visita a un cantiere, Mosè entra in contatto con il popolo ebraico, sfruttato in schiavitù nella costruzione dei monumenti egiziani. È lì che scopre la sua vera natura, le sue origini ebraiche, l’abbandono nel Nilo per sottrarlo alla repressione del faraone contro i primogeniti. La scopre anche Ramses, nel frattempo succeduto al padre, che decide di esiliarlo. Divenuto pastore a Madian, e marito e padre, incontra Dio sotto forma di bambino e decide quindi di guidare gli schiavi ebrei contro il faraone e verso la liberazione.

L’anno scorso era toccato alla Genesi e al diluvio universale trovare una nuova vita cinematografica con Noah. Darren Aronofsky aveva scelto per il suo Russell Crowe biblico un approccio che coniugava l’aspetto religioso con una sfumatura molto vicina al cinema fantasy contemporaneo (prendiamo i Guardiani), rinunciando in più punti all’aderenza con la Scrittura per una gestione personale dell’apparato mitico ancor più che religioso. Exodus di Ridley Scott sceglie una strada differente che non riesce a definirsi pienamente. Il discorso puramente religioso viene lasciato in secondo piano e, anzi, quando viene avanti sono tutti molto attenti a rimanere sul vago e a condannare ogni forma di fondamentalismo e prevaricazione in nome della fede, visti i tempi.

La storia di Mosè, il suo rapporto con Dio e il suo ruolo all’interno del popolo ebraico sono raccontati in un’ottica che se non si può dire pienamente storica può essere definita quanto meno secolarizzata. La filmografia di Ridley Scott ha ormai insegnato a tutti che il regista britannico preferisce prendersi tutte le libertà narrative che vuole nel suo rapporto con la storia, ogni volta che la incrocia (da 1492 a Robin Hood). Exodus si adegua a questa idea di cinema. Quello che Scott vuole raccontare è soprattutto la storia di Mosè come uomo e il suo rapporto con Ramses. È nell’opposizione tra i due che si sviluppa la trama principale del film, nell’inadeguatezza di Ramses ad adempiere il suo ruolo, nell’amore del padre che sente più forte per Mosè che per lui (e qui Scott si limita a rifare se stesso e il rapporto Commodo-Marco Aurelio di Il gladiatore). Mosè, dall’altra parte, si trova strappato dalla sua casa tre volte: da appena nato sottratto alla vera madre, da adulto bandito da Menfi e di nuovo nove anni più tardi quando Dio lo chiama a sé per guidare il popolo eletto allontanandolo dalla nuova famiglia.

È nel rapporto tra Mosè e Dio che questa visione secolarizzata viene fuori per quello che è: quando i due “si incontrano” per la prima volta, Mosè ha appena preso una botta in testa inseguendo le sue capre sul Monte Sinai. Tutto quello che succede – il cespuglio in fiamme che non brucia, il dio-ragazzino rasato che dice «Io sono» con una certa perentorietà e la missione che diventa irrinunciabile – può sembrare il delirio di un allucinato convinto di parlare con un dio che solo lui può vedere (e qui c’è una differenza sostanziale con la Bibbia, in cui anche il fratello di Mosè, Aronne, parla con il Signore). Infatti, è così che lo vede Giosuè, uno dei suoi più vicini collaboratori, quando lo spia mentre parla da solo sui monti. Anche le piaghe che colpiscono l’Egitto trovano una loro giustificazione scientifica e non divina per esistere, fino a un certo punto, però, in cui nessun tipo di spiegazione razionale può essere dato e allora si ripiega sull’intervento divino.

Ecco, Exodus ha questo: non riesce mai a trovare una sua specifica identità, rimane sospeso tra storia, mito e religione senza decidere dove appoggiarsi. I suoi protagonisti gli vanno dietro, perché il Mosè di Christian Bale è un condottiero, è un ribelle, è un invasato, è un uomo pieno di dubbi, è un padre che vuole tornare dalla famiglia, è un fratello che soffre, è un po’ Massimo Decimo Meridio e un po’ Robin Hood (per rimanere sul cinema di Scott) ma pure William Wallace, è un po’ tutto e un po’ niente, a seconda del momento. Quello che non riesce mai ad essere è un personaggio di adeguata grandezza per fare il film da solo.

Intorno a lui, a parte il Ramses complessato di Joel Edgerton, si muove un brulichio di personaggi minori senza una adeguata dimensione, senza un ruolo determinato o determinante. Sono scritti poco, non sono strutturati nonostante si potesse contare su una serie di attori di primo livello (John Turturro, Ben Kingsley, Sigourney Weaver, Aaron Paul). Considerando che Exodus voleva essere un film di uomini c’è qualcosa che non va.

Ovviamente, per tutto quello che è spettacolo visivo non c’è niente da recriminare. Ridley Scott è riuscito a infilare nel film anche le battaglie che gli vengono tanto bene, la traversata del Mar Rosso è spettacolare, e tutto il resto di ottimi effetti speciali e scenografie a schermo verde.

(Exodus – Dei e re, di Ridley Scott, 2015, storico, 150’)

“La vita sobria. Racconti ubriachi” di AA.VV.

Cin cin. È tempo di brindisi e bollicine.

Si beve molto durante le feste o quando si deve celebrare qualche ricorrenza o un successo raggiunto, ma si beve anche per il solo piacere di farlo o per terminare una deliziosa cena.

D’altra parte si beve però anche per cercare di ricacciare giù quel groviglio psichico oscuro e irrisolto che ci opprime e ci rende la vita infelice, esito necessario di un’inquietudine angosciosa che non ha pause, o semplicemente perché si potrebbe avere tutto ma ci si annoia.

Litri di birra, vinacci dozzinali, Martini, bourbon, Shiraz rosso, liquori e Margaux Chateau Palmer scorrono a fiumi nelle storie che compongono la raccolta curata da Graziano Dell’Anna per Neo Edizioni, La vita sobria. Racconti ubriachi. Racconti aspri, corposi, di sapiente agglomerazione di autori emergenti: Claudia Durastanti, Gianni Solla, Fabio Viola, Alessandro Turati, Francesco Pacifico, Olivia Corio, Dario Falconi, Paolo Zardi, Stefano Sgambati e Filippo Tuena.

In letteratura il connubio alcol/scrittura da sempre si è retto sul precario equilibrio fra ebbrezza creativa e dipendenza autodistruttiva. L’alcol come reagente in grado di dischiudere alla coscienza dimensioni inaudite dove attingere ad un più altro grado di conoscenza e d’arte, ma al tempo stesso segnale di un disagio esistenziale frutto di un’eccessiva sensibilità.

«Scrivi da ubriaco; correggi da sobrio», era il motto di Hemingway, così come Cheever affermava che «L’eccitazione data dall’alcol e quella data dalla fantasia sono molto simili».

Fernanda Pivano, traduttrice degli americani, si stupiva che «degli otto americani insigniti del Premio Nobel cinque erano alcolizzati; conosciamo tutti almeno qualcuna delle avventure di William Faulkner, Ernest Hamingway, Eugene O’Neill, Sinclair Lewis e John Steinbeck». A questi si potrebbero aggiungere altri scrittori che non furono insigniti del Nobel ma che soggiacquero in fatto di ispirazione al dio Bacco: Williams, Carver, Cheever, Berryman, Fitzgerald, Jack London, Truman Capote, Raymond Chandler, Roberto Bolaṅo e naturalmente Charles Bukowski, il cui segreto era «una pinta di whisky e due confezioni da sei di birra tutte le sere mentre scrivevo».

In La vita sobria, affogano nell’alcol i loro dispiaceri, i loro fallimenti o le loro incertezze coppie in crisi, famiglie disfunzionali, infanzie rubate e lavoratori precari. Ce n’è per tutti i gusti alcolici.

Claudia Durastanti in “Jet Lag” ci racconta la solitudine insopportabile nella vita sovraesposta e sovraffollata di una rockstar che ricorda come il suo primo viaggio in aereo a quattro mesi concise con la conoscenza della “fata verde” dei poeti maledetti: «Mia madre aveva allungato il latte col bourbon, la mia riluttanza al pianto era chimicamente indotta».

Poi c’è Greta, protagonista del racconto di Olivia Corio, “Il guscio vuoto”, alle prese con una madre depressa e sconclusionata e con gli amici di lei, il «popolino dell’aperitivo» che odiava profondamente: «Sua madre quando c’era gente non capiva più nulla, rideva e beveva senza alcuna forma di contegno e quando parlava era come se avesse un apparecchio in bocca e le consonanti suonavano come viscide lumache». Greta è stanca, vorrebbe essere solo quello che è, una ragazzina: «Greta sapeva stare al mondo perché aveva una madre bambina a cui doveva ricordare di portare l’ombrello se pioveva, il bavaglino per la mensa, il bollettino della rata pagata, la liberatoria per la gita, le ricette mediche per le bombe che prendeva in farmacia».

E ancora c’è l’eterno fidanzato lasciato a un passo dall’altare di Paolo Zardi in “L’amore reclinato”, che misura il suo dolore con l’etilometro alla ricerca della atarassia: «In poco tempo aveva scoperto che esisteva la felicità, esisteva l’infelicità, e poi esisteva il contrario di entrambe, un limbo limaccioso e lentissimo dove nulla era bello e nulla ti feriva».

Un paio di birrette possono invece fare da reagente incendiario ed esasperare la pornolalia di una coppia romana in “Gli eroi perfetti”di Fabio Viola.

Non mancano racconti grotteschi e divertenti a loro modo come quello di Alessandro Turati, “Sogni andati a male”.

La vita sobria è tanto altro ancora. Spetta al lettore sommelier, al termine della degustazione, premiare il suo preferito, l’autore che ha saputo meglio registrare le aritmie di vite spente e inconcludenti.

Ciò che ne emerge è senza dubbio un quadro desolante della società, di una generazione affaticata dal vivere che cerca rifugio in paradisi lisergici o etilici ad alto tasso di obnubilamento della coscienza. Si beve in fondo anche per dimenticare.

(AA.VV., La vita sobria. Racconti ubriachi, Neo Edizioni, 2014, pp. 160, euro 13)

“Tra un atto e l’altro”
di Virginia Woolf

1941. Una mattina Virginia Woolf esce di casa, e come per una passeggiata si dirige verso il fiume Ouse, che diventerà il teatro del suo silenzioso suicidio. Sulla sua scrivania restano alcune lettere e un manoscritto, lo struggente romanzo postumo Tra un atto e l’altro, di recente ripubblicato da Guanda.

Riassumere la trama di questo romanzo mi dà quasi l’impressione di privarlo di qualcosa. In breve possiamo dire che la seconda guerra mondiale è alle porte, e in un paesino perso fra le campagne inglesi viene allestita, per passare il tempo, una rappresentazione teatrale sulla storia dell’Inghilterra alla quale prende parte l’intera comunità. L’azione si svolge nell’arco di 24 ore e la scenografia, i costumi e i dialoghi sono improvvisati ma, in fondo, sono anche poco importanti, e ciò che conta in queste pagine è quello che c’è dall’altra parte: gli spettatori, la “realtà”. «Erano tutti catturati e ingabbiati; prigionieri, spettatori di una recita. Non accadeva nulla».

La cosa importante non è dunque la rappresentazione ma quello che c’è intorno ad essa, quello che succede fra gli spettatori, quello che accade quando il confine fra finzione e realtà diventa talmente flebile che quasi non si vede più. Difficile capire quale sia la realtà quando la si guarda attraverso degli specchi, come gli oggetti in vetro che gli attori usano per interpretare la parte dello spettacolo dedicata al presente, un presente in cui l’imminenza della guerra si respira in ogni dettaglio. Ogni cosa fa parte di un unico flusso, di cui noi siamo una parte integrante e tuttavia disorientata.

Simboli e presagi pervadono il romanzo, presagi della guerra incombente ma anche del suicidio della scrittrice («Che mi ricoprano le acque… le acque del pozzo dei desideri…»), in uno stile forte, potente e a tratti carico di inquietudine: «Là, appiattito sull’erba, acciambellato in un anello verde oliva c’era un serpente. Morto? No, soffocato, con un rospo in bocca. Il serpente era incapace d’inghiottire, il rospo era incapace di morire. Uno spasmo gli contraeva le squame; colava sangue. Era un parto alla rovescia – una mostruosa inversione. Così, alzando il piede, li schiacciò… La tela bianca delle scarpe da tennis divenne rossa di sangue e vischiosa».

In questo romanzo la tradizionale forma narrativa della Woolf si spezza, e la scrittrice decide di abbandonare in maniera radicale l’illusione avvicinandosi alla realtà, a una quotidianità concreta e prosaica, quella che ritroviamo a ogni intervallo, quando la rappresentazione finisce e siamo costretti a tornare a noi stessi, a ciò da cui ci siamo staccati per rifugiarci nella finzione scenica.

Lo spaesamento pervade il romanzo fino alla sua conclusione, fino alla notte simbolica che cala sulla scena. Tra un atto e l’altro, benché terminato prima della morte dell’autrice, resta un’opera in attesa di una revisione definitiva: è un’ultima, malinconica traccia che non si può fare a meno di leggere con una punta di rimpianto e inappagata curiosità.

 

Tra un atto e l’altro, Virginia Woolf, Guanda, 2009, traduzione di F. Wagner e F. Cordelli, pp. 210 euro 14,50

 

“Hungry Hearts” di Saverio Costanzo

Jude e Mina si incontrano nel bagno di un ristorante cinese di New York. È un momento niente affatto romantico, ma diventa il primo momento di una storia d’amore. Vanno a vivere insieme, Mina è italiana e lavora negli Stati Uniti, ma possono trasferirla. Solo che rimane incinta, e allora rimane anche a New York, con Jude che la sposa e aspettano il bambino insieme. Un giorno un’indovina dice a Mina che suo figlio sarà speciale, un bambino indaco (come il titolo del libro di Marco Franzoso che Saverio Costanzo ha adattato), un neonato diverso dagli altri. Quando nasce, Mina decide che suo figlio vivrà al riparo da tutto ciò che è male: per i primi sette mesi di vita il bambino non esce dal piccolo appartamento che diventa una fortezza di imbottiture e reti per evitare incidenti, mangia solo quello che dice lei e che lei coltiva nell’orto ricavato in terrazzo, non vede medici. Jude è preoccupato, e tanto, perché il piccolo non cresce e la febbre non passa e Mina non vuole portarlo dal pediatra e quella che era una vita felice e serena diventa una guerra di ogni giorno, silenziosa e logorante, per il bene del figlio.

La storia di Jude e Mina, dei loro Hungry Hearts e del loro bambino senza nome, è un percorso nella paranoia e nell’ossessione che Saverio Costanzo segue rimanendo tutto il tempo vicino ai suoi protagonisti. Il suo cinema precedente, fatto di tre film diversi come PrivateIn memoria di me e La solitudine dei numeri primi, prosegue in quello che è il filo comune delle storie che racconta: il disagio dello stare al mondo, l’inadeguatezza nei confronti dell’esterno e dell’altro, sia esso il militare invasore o la società e le sue aspettative. Qui a patire il senso di alterità è Mina, straniera trapiantata in un paese lontano, sola senza genitori che segnino una radice con la terra che un tempo era sua, che ha solo Jude, prima, oltre il lavoro, e poi il bambino, che diventa il suo cordone di collegamento con il mondo, con un mondo autosufficiente che si accontenta della minuscola ma labirintica casa di New York. Franzoso ambientava la sua storia in Italia e lasciava la madre, lì Isabel, straniera. Costanzo sposta negli Stati Uniti perché la città è più fredda e altra e aggressiva e aumenta il senso di isolamento di Mina.

La profezia dell’indovina non la convince pienamente, anzi ne ride con Jude, ma sente qualcosa cambiare con la consapevolezza della gravidanza. L’esteriore diventa la sua unica preoccupazione, un concentrato di minacce per il figlio che verrà e che poi arriva. Tutto ciò che è altro da lei è pericoloso e sbagliato, incluso il padre, che può toccare il bambino solo dopo essersi lavato le mani, libero da contaminazioni del mondo fuori casa. Eppure Jude non la abbandona. È turbato per l’ossessione, non ne capisce l’ostinazione, ma si fida di Mina e di quello che dice, del suo legame con il figlio come sua naturale estensione. Solo che come padre è preoccupato per l’evidenza che vuole il bambino troppo magro e troppo piccolo con i mesi che passano, ed è in quel momento che avvia un conflitto segreto, fatto di omogeneizzati di carne dati di nascosto e di visite pediatriche.

Il tono del racconto si adegua al precipitare di Mina. L’incontro iniziale è da antologia della migliore commedia, lo sviluppo dell’amore è sereno ed esclusivo, fatto di giornate passate a letto e di sensualità quotidiana, il matrimonio è un trionfo di “What a Feeling” e canzoni napoletane stonate e ubriache. C’è un incubo ricorrente a segnare la rottura della serenità: l’immagine di un cacciatore che uccide un cerbiatto davanti al locale del matrimonio, e poi se ne va nel buio della notte. A quel punto la serenità passa e subentra la mania. Costanzo si avvicina ai suoi attori nella gabbia dell’appartamento, usa grandangoli che distorcono lo sguardo. È anche operatore, è lui a tenere la macchina da presa in spalla, a condividere lo spazio con Mina e Jude. Col crescere del disagio l’immagine è sempre più allucinata. Si è parlato di venature horror, di suggestioni di Hitchcock e ancora di più di Polanski. Vedeteci quello che volete, Hungry Hearts mostra soprattutto la deformazione della realtà nella lente di un sentimento eccessivo e malato. Perché Mina pretende una purezza ideale per il figlio che porta all’intransigenza e al pericolo, e Jude è troppo preoccupato per entrambi per riuscire a essere definitivo nei gesti e non ha altro rifugio se non la sapienza di sua madre. Si è detto anche che Hungry Hearts fosse un film sulle ossessioni alimentari (Mina è vegana, pretende il veganesimo per il figlio), ma la fissazione per il cibo è secondaria e inquadrabile all’interno di un discorso più ampio sulla dipendenza eccessiva delle madri dai figli, sulla possibile distruzione che può portare troppo amore.

Lasciati praticamente tutto il tempo soli sullo schermo, Alba Rohrwacher e Adam Driver (che sarà nel prossimo Star Wars VII – Il risveglio della forza e che è in netta ascesa a Hollywood) trovano una perfetta sintonia di nervi e di corpi che ha portato per entrambi una meritata Coppa Volpi all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Rohrwacher, smagrita e alienata, è bravissima.

(Hungry Hearts, di Saverio Costanzo, 2014, drammatico, 109’)

“Guarigione”
di Cristiano De Majo

I motivi per scrivere non mancano mai. Anche a chi dovrebbe ignorarli e lasciarsi tramortire da altre sanguigne priorità, come cuocere il fimo o sintonizzare il decoder. C’è sempre, o quasi, una ragione che prude sotto le unghie, ma essenzialmente l’intera sbottonata gamma di moventi può essere inglobata da due poli: scrivere per fare sfoggio di sé oppure scrivere per mettersi a nudo. Nella maggior parte delle occasioni, i due termini amoreggiano al punto da non distinguersi un gran che mentre altre volte la propensione è più smaccata. In un caso estremo l’autore compiaciuto spolvera per gli altri il suo mondo più riuscito, l’argenteria di mezzi nella credenza buona e tutta l’opera si trasforma in una variazione guizzante sul tema «come mostrarsi acrobatici anche negli starnuti». Nell’altro invece, chi scrive s’inchioda, come fa l’entomologo con le sue creature, perché è l’emorragia ad autenticare il pezzo. Nel libro in questione i dubbi sono pochi.

Cristiano De Majo non s’imbelletta per le feste. Con Guarigione (Ponte alle Grazie, 2014) ci propone una materia che è difficile eludere: se stesso.

E non in quanto pantocratore del suo universo letterario, ma come “semplice” oggetto del suo scrivere.

De Majo è il suo racconto. Trentotto anni, napoletano, redattore e critico per riviste e quotidiani, l’autore si spoglia partendo dalla sua doppia paternità. Simultanea e sconvolgente. Un matrimonio in cui irrompono due pianti. Due gemelli di cui uno è più fragile, con addosso l’ombra bisunta di una malattia genetica. Epidermolisi bollosa. Suo figlio si sfalda con un graffio, perché ha la pelle di farfalla.

Resta solo un’impotenza allagante e la voglia serrata di non lasciare che prevalga l’angoscia, di preservare per lui la tranquillità. Da qui inizia a marciare la storia, prende forma il senso della sua relazione, l’insana essenziale avventura di amare. Il fidanzamento con Laura, i viaggi annodati per costruire e accorciare distanze, il moto verso Roma e poi il ritorno a Napoli, il tumore che squassa la coppia. E poi ancora più indietro, la percezione infantile di un destino eccellente, la ritrosia adolescente verso un mestiere qualunque e molto sicuro. Cristiano da bambino si sente speciale e da ragazzo recalcitra all’idea del posticino comodo e ben pagato. Vuole vivere scrivendo. Vuole affermarsi facendo ciò che gli piace, non riesce a pensarsi impacchettato dentro un contratto, con le vacanze d’agosto prenotate a Natale.

Ma rispondere di altre due vite spariglia le carte e cambia trucco alle proprie intenzioni. Anche perché per i più che trentenni, la normalità dei propri padri (pensione, contributi, tempo indeterminato, casa di proprietà) diventa solo un lessico nostalgico se non quasi allergenico. E quindi il tempo pugnala di domande tetaniche.

Cosa sarebbe stato scegliendo di somigliare meno a se stessi? A cosa è servito in quel momento rimanersi fedeli se poi comunque il pensiero si è dirottato altrove? Quand’è che ci si tradisce?

Forse è una condizione perenne, si esce e si entra disattendendo ogni giorno i propri programmi. Per esorcizzarsi.

Così come ci si ammala aspettando di guarire, perché da quell’evento, da quel noi riesumato e spavaldamente salvo sgorghi lo stelo di un altro dolore. Che ci permetta di sperare ancora. Non c’è molto altro al di là di quello scarto.

È inevitabile ritrovarsi chiamati dalla sequela di queste guarigioni, dalle digressioni iniettate di onestà. Quasi magnetica è quella dedicata a Carlo, coetaneo di Cristiano stroncato a ventidue anni in Sudafrica nel pieno centro di un incidente d’auto. Il cuore dei suoi genitori che batte da morto come una campana funebre e quell’esistenza beffarda e strisciante che nonostante tutto continua a grondare, fino a rinfrescare le stanze, a riarredare il silenzio di quel letto spento.

Linguaggio secco il suo, acuto e smaliziato. Una lente da cui non c’è alcuna intenzione di sfuggire: «Ognuno di noi ha uno spazio-tempo tutto per sé, ignoto agli altri, alle persone che ci amano e ci conoscono così bene. È il terreno del libero arbitrio assoluto e del segreto, il luogo dove edificare doppie e triple vite, l’inebriante e allo stesso tempo orribile campo delle possibilità» .

Un luogo a cui la scrittura offrirà sempre asilo.

Raccontarsi non stanca. Lo confermano alcuni casi di successo, come Diario d’inverno di Paul Auster o il torrenziale La mia battaglia di Karl Knausgaard. Un po’ più e un po’ oltre l’autobiografia, Guarigioneci restituisce il valore dei nostri limiti, il senso d’umanità densa e sempre messa alla prova.

Ernest Hemingway sosteneva che «i bei libri si distinguono perché sono più veri di quanto sarebbero se fossero storie vere». Senza inventarsi nulla, De Majo ha scritto un libro non facile. Semplicemente bello del suo essere vero.

(Cristiano De Majo, Guarigione, Ponte alle Grazie, 2014, pp. 252, euro 16,50)

“Storie di uomini e di libri”
di Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi

È possibile racchiudere in sole 297 pagine tutte le collane che hanno scritto la storia dell’editoria letteraria italiana? Secondo Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi decisamente sì. E ce ne hanno dato  prova in un saggio dal titolo emblematico, Storie di uomini e di libri. Leditoria letteraria italiana attraverso le sue collane (minimum fax, 2014), legando quindi indissolubilmente la vita e il lavoro di chi fatica dietro le quinte del meccanismo editoriale.

Ma a ben guardare, piuttosto che di un saggio pare si tratti di un vero e proprio museo editoriale, un dizionario 4fil cui criterio organizzativo non è alfabetico, bensì cronologico; intelligentemente scandito in 45 capitoli agili e di facile lettura –per niente prolissi – ognuno dei quali racconta una collana. Sfilano quelle «ritenute più significative e funzionali per l’impostazione di partenza» e che hanno dominato la cultura letteraria italiana dalla fine dell’Ottocento a oggi: si parte dalla Biblioteca amena di Emilio Treves per arrivare a Stile Libero di casa Einaudi. Ogni capitolo, oltre alla descrizione della collana, contiene una «scheda», sintetica carta d’identità che riassume le informazioni principali, corredata da una bibliografia essenziale.

È questa la sede adatta in cui, ad esempio, si possono ripercorrere le origini dei Gialli Mondadori, i quali avranno tanta fortuna che il romanzo poliziesco in italiano assumerà il nome di giallo. Inaugurati nel 1929, sarà loro affibbiata la denominazione I Libri Gialli o per il colore del cartoncino della prima bozza di copertina, o per far pendant con nomi di altre collane della stessa Casa, come I libri azzurri e I libri verdi. Chiuderanno nel 1941 per ordine del regime fascista. Ingenti le perdite per Mondadori, compensate tuttavia con da I Romanzi della Palma, collana di traduzioni di autori angloamericani, distribuita sia in edicola sia in libreria, dalla vocazione prettamente popolare (il prezzo di copertina era di sole 3 lire).

E non si vogliono ora ricordare Corona di Bompiani e I Gettoni di Einaudi (entrambe dirette da Elio Vittorini); I Coralli (la storica collana che nasce nel 1947 e chiuderà nel 1976, per poi riaprire nel 1993 col nome I Coralli Nuova Serie) e Centopagine einaudiane; Poesia di Neri Pozza; la preziosissima collana mondadoriana I Meridiani inaugurata nel 1969 da Vittorio Sereni con l’opera omnia di Giuseppe Ungaretti; la Collana Praghese di Edizioni e/o e Transeuropa, che da collana di Il lavoro editoriale diventa casa editrice.

Ma perché fare una storia editoriale proprio attraverso le collane? Non bastano più le storie generali dell’editoria? Esplicitano a tal proposito gli autori: «raccontare la storia dell’editoria letteraria italiana per collane a partire dal primo Novecento significa anzitutto valorizzarle come espressioni di politiche, pratiche, orientamenti delle rispettive case editrici in quegli stessi decenni: ciascuna collana è intesa come parte integrante dell’identità della Casa e della sua storia. Le collane in sostanza possono fare storia da sole, con la concretezza dei loro autori e direttori, opere e valori».

Questo libro insomma è una conchiglia che custodisce tutte le perle dell’editoria italiana. Sta solo al lettore schiuderla per apprezzarne il valore.

(Gian Carlo Ferretti, Giulia Iannuzzi, Storie di uomini e di libri. L’editoria letteraria italiana attraverso le sue collane, minimum fax, Roma, 2014, pp. 318, euro 13)

“Compro fallimenti”
di Riccardo D’Anna

«Non oggi, non domani, ma dopodomani vi sistemiamo»: potrebbe essere questo lo slogan che riassume l’attuale situazione in Italia, patria di lavoratori saltuari e laureati senza futuro.
 Per sopravvivere ai nostri tempi moderni la parola chiave è adattamento, inteso come rinuncia ai sogni di una vita e in perfetto connubio col senso di sacrificio, quello che ti fa accantonare ogni aspettativa davanti all’esigenza di lavorare per mantenere i tuoi figli o la tua casa.

Marco è il protagonista di Compro fallimenti di Riccardo D’Anna (Memori, 2014), un non più giovane con tanti sogni rimasti sepolti in un cassetto destinato a restare chiuso. Dopo il fallimento dell’azienda in cui lavorava, ormai adulto e con famiglia a carico, si vede costretto a cercare una nuova occupazione; con una buona dose di inaspettata fortuna viene assunto in una società di recupero crediti.
Tra colleghi si chiamano “tagliagole” perché lo scopo del loro operato è quello di rintracciare persone e recuperare somme di denaro ma di spietato al di là del nome non hanno nulla, anzi: l’immedesimazione con i debitori fiaccati da tasse e in continua fuga dalla realtà dei fatti appare talvolta inevitabile.
 Marco è un po’ come quelli che scappano, un uomo che continua a darsi disperso dal proprio passato, del quale gli restano solo i ricordi ormai più simili a rimpianti. Pensa a se stesso ragazzino, quando era un promettente calciatore, al giovane laureato che voleva scrivere di cinema e si è arrangiato facendo il correttore di bozze, alla sua giovinezza vissuta all’ombra della dipartita di un padre la cui destinazione è rimasta un mistero. Approfittando del suo lavoro, Marco si mette sulle tracce del padre per riportare a galla il passato e trovare finalmente un po’ di pace per la propria coscienza.

Il racconto non è che uno spaccato dell’Italia che meglio conosciamo e l’analisi di una ricerca continua, una volta di un posto di lavoro, un’altra di un genitore ma sempre e più di tutto di se stessi, anche se il tempo è tiranno e non c’è più modo di rimescolare le carte in tavola o togliersi di dosso le responsabilità. 
La narrazione è talmente chiara, limpida e precisa da diventare a tratti piatta e inconsistente, la struttura è ben sorretta da un quadro temporale attualissimo e dipinto alla perfezione, quasi un’istantanea di un giorno qualsiasi nella nostra nazione da molti anni a questa parte.
 Il tema della ricerca potrebbe rendere Marco un personaggio molto dinamico ma la spinta non viene colta, il protagonista risulta quindi lento e quasi sempre fermo, specialista in cronache asettiche e considerazioni a tratti banali e ridondanti.

Piccoli difetti che trasformano l’intero romanzo in una parentesi un po’ anonima in cui si parla di tutti in generale e di nessuno in particolare; trattando tematiche tanto moderne potrebbe essere un bene l’immedesimazione totale del lettore il quale però trova difficile sviluppare empatia con il protagonista. Si parla di famiglia ma ne manca il senso reale, i temi, tranne quello della crisi che è il perno centrale della storia, sono sviluppati solo in superficie. Marco e i pochi personaggi che gli ruotano attorno sono dimenticabili e un po’ freddi.

L’unica cosa che non si dimentica è la povertà in cui tutti stiamo vivendo, che sia materiale o culturale, e un senso di vuoto al pensiero che la nostra nazione pare immobile quando in realtà è lanciata a mille dentro un tunnel alla fine del quale, se non saremo in grado di trovare la luce, ad aspettarci c’è solo la bocca del precipizio.

(Riccardo D’Anna, Compro fallimenti, Edizioni Memori, pp. 135, euro 14,50)