“Deserto americano” di Percival Everett

Cosa si prova a essere morti e rendersene perfettamente conto? Ce lo racconta Percival Everett attraverso lo sguardo di Theodore Street, il protagonista di Deserto americano (Nutrimenti, 2009).

Professore universitario con una carriera in declino, padre mediocre e marito assente, Ted decide di porre fine alla sua collezione di fallimenti, sale in macchina e guida verso il luogo che sarà teatro del suo suicidio. Ma anche allora i suoi piani vanno per il verso sbagliato: un camion lo centra in pieno e Ted muore sul colpo, decapitato. O almeno così sembra, fino a quando al suo funerale non apre gli occhi, si alza dalla bara e se ne va, dopo aver scrutato i presenti «ad uno ad uno ricordandone la voce e ciò che di buono o di cattivo avevano detto o fatto nei suoi confronti».

È l’inizio di un incubo: il rifiuto da parte dei figli, lo straniamento della moglie e naturalmente lo spietato assalto dei media. Ma un uomo resuscitato (per di più dopo tre giorni dalla sua morte) fa gola a molti, e Ted diventa il centro dell’attenzione di fanatici religiosi, fondamentalisti e scienziati al servizio dell’esercito, che nelle basi segrete tentano di dare vita a un plotone di soldati invincibili. E Ted è proprio questo: un uomo morto eppure immortale, invulnerabile nella sua totale assenza di funzioni vitali, ma non solo.

La morte gli ha regalato una nuova vita, una nuova consapevolezza di sé, un coraggio e una sensibilità che gli permettono finalmente di guardare in un’ottica totalmente nuova e inaspettata ciò che lo circonda. Il tempismo con cui si manifesta questa empatia è amaramente ironico, e rivela una sovrastruttura fatta di interrogativi ai quali Everett non prova nemmeno a rispondere. D’altronde, la scrittura non è fatta solo per dare risposte; anzi, come racconta lo stesso autore, «come tutti i miei libri l’ho lasciato libero: deve imparare a cavarsela da solo».

Sotto l’esilarante scrittura di Everett non è difficile intravedere una riflessione sul significato della morte, che altro non è che «un punto senza dimensioni nel tempo», ma anche sull’importanza della vita e sul modo in cui troppo spesso sprechiamo il nostro tempo, consacrandolo al disperato raggiungimento di una posizione all’interno di una società ormai alla deriva. Se con questi presupposti Everett mira, apparentemente in maniera quasi inconsapevole, a smuovere qualcosa nell’animo del lettore, la forma che assume la scrittura alleggerisce notevolmente la lettura con la sua ironica e amara comicità.

In Deserto americano lo scrittore prende le distanze dalla sperimentazione e i giochi linguistici che caratterizzano le sue opere: qui non troviamo le digressioni e il divertissement del precedente romanzo Glifo, ma la sua narrazione fitta e rocambolesca è altrettanto piacevole.

Deserto americano è un romanzo che nasconde un po’ del suo autore nelle sfaccettature di ognuno dei suoi personaggi, in particolare Ted, che racconta la sua storia in terza persona perché «di fatto, è fuori di sé, morto. Come è possibile che possa scrivere?». Un libro che avrebbe dovuto avere, in origine, il coraggioso titolo di Making Jesus, prima di essere censurato dall’editore. Un titolo che forse avrebbe posto l’attenzione solamente su alcuni aspetti della storia, ma che sicuramente avrebbe ritratto alla perfezione il romanzo e il suo protagonista.

«Non sono un angelo. Non esiste un dio nel nome del quale io agisco da emissario. Non sono un salvatore. Non sono un messia. Finalmente, in questa vita, sono soltanto una persona rispettabile».

 

(Percival Everett, Deserto americano, trad. di Marco Rossari, Nutrimenti, 2009, pp. 263, euro 16)

“Turn Blue” dei Black Keys

Tre anni fa abbiamo imparato a conoscere ed ascoltare i Black Keys. Dopo dieci anni di fatiche (e sei album in studio), il duo composto da Dan Auerbach e Patrick Carney ha centrato il bersaglio con El Camino, il disco in grado di lanciarli in alto nella scena rock degli ultimi tempi. La danza in piano sequenza di Derrik Tuggle sulle note di “Lonely Boy” ci ha colpito, ci ha fatto sorridere, e ci ha fatto scatenare. La band americana si è trovata nella situazione di dover confermare il proprio successo con addosso gli occhi di pubblico e critica : innegabili, dunque, le altissime aspettative al momento dell’uscita di Turn Blue.

La gestazione del lavoro è stata lunga, a causa di impegni di varia natura (come per il caso di Auerbach, alle prese con la produzione di Ultraviolence di Lana Del Rey), e molto sofferta, soprattutto per il doloroso divorzio che ha accompagnato l’ultimo anno del cantante. Per sua stessa ammissione, queste vicende personali hanno finito col contaminare Turn Blue non solo nel tono generale del disco ma anche nei temi trattati, intrisi di dolore e ricordi.

Ad aprire la strada per quello che sembra un lungo unico viaggio c’è “The Weight of Love” (titolo subito piuttosto emblematico), una sorta di intro di quasi sette minuti in cui alle orecchie di molti sono affiorati echi più o meno flebili dei Pink Floyd. Personalmente, non posso negare di aver accarezzato ricordi di vecchi successi degli Oasis. Da qui in poi però il ritmo sembra scorrere senza alti né bassi, come ad accompagnare l’ascoltatore verso l’inevitabile conclusione. Nonostante sia condivisibile la scelta di abbandonare il sound un po’ blues un po’ scanzonato di El Camino, questo ritorno alle origini sembra celare una certa impalpabilità di fondo.

Troppo a lungo mi sono trovato nella situazione di chiedermi quante e quali tracce avessi già ascoltato. Una distrazione di qualsiasi tipo e si finisce col perdersi. Fin dal primo passaggio televisivo, “Fever” mi era sembrato un singolo, se mi si può passare il termine, vagamente fiacco. Una sensazione provata più volte nel corso di questi tre quarti d’ora. Un sussulto giunge con l'incursione della batteria di Carney per “It’s up to you know”, quando il ritmo cerca sommessamente di cambiare direzione, prima di tornare mestamente in carreggiata.

Poi, quando tutto sembra finito, il fulmine a ciel sereno. L’album si chiude con “Gotta get away”, sorprendente inversione di tendenza.  Auerbach prova a fuggire da sua moglie girando in lungo e in largo, regalandoci una traccia molto vicina ad una hit rock estiva, una di quelle classiche canzoni da ascoltare col sorriso stampato sulla faccia con gli amici in viaggio verso qualche località balneare. E forse proprio partendo da qui si può provare a dare una spiegazione migliore alle critiche più o meno velate mosse a Turn Blue. Finirebbe col sembrare ingiusto definirlo un flop o un brutto disco, e come detto non deve essere un punto a sfavore l’abbandono delle sonorità di El Camino. Però nei miei ricordi e nei miei lettori MP3 c’è sempre posto per “Lonely Boy” o “Gold on the ceiling”, brani fortemente riconoscibili ancora oggi. Questo disco sembra il paesaggio che ci scorre davanti gli occhi durante un bel viaggio tra località sperdute. Tre quarti d’ora con gli ultimi Black Keys di certo non stancheranno, ma come quando si guarda fuori dal finestrino e si guardano campi coltivati o verdi colline senza osservare qualcosa che ci rimanga impresso, anche ascoltare questo disco sarà una bella strada di cui difficilmente però conserveremo qualche prezioso ricordo. “Gotta get away” potrebbe essere una deliziosa eccezione, ma probabilmente tra qualche anno se mi si chiederà il titolo di qualche traccia di Turn Blue faticherò a trovare una risposta.

 

(Turn Blue, Black Keys, Nonesuch, 2014)

 

“Gli anni di ghiaccio ” di Anna Kim

Gli anni di ghiaccio (Zandonai, 2014) è il terzo romanzo di Anna Kim, e le è valso l’European Union Prize for Literature 2012.

Il romanzo è ambientato a Vienna, nel 2005, ma è intriso di ricordi che provengono da Kosovo ed è chiuso tra le mura di un ufficio che ricerca persone scomparse. Luan Alushi è un uomo albanese che, da sette anni, è alla ricerca della moglie Fahrie, arrestata nel 1998. Nora, impiegata nell’organizzazione di ricerca, è la narratrice interna, la testimone di un dolore timido, il perno intorno al quale ruota una speranza che sembra essere perpetua, ma che è destinata ad affievolirsi mano a mano che la realtà prevale.

«Tutti e nove i cadaveri erano stati sgozzati e avevano i peli del corpo bruciati. La testa di una delle vittime era stata scotennata e le erano stati cavati gli occhi».

Anna Kim racconta, con grande realismo, il vuoto che ha seguito la guerra del Kosovo. È  forte il contrasto tra il dolore di chi resta e la fredda burocrazia, indifferente e ineludibile. La scrittrice non si limita a narrare solo di una coppia, ma  fa il ritratto di un paese disfatto dove c’è chi sceglie di rimanere indifferente, perché tiene alla propria vita più di ogni altra cosa, e chi, invece, mette davanti a tutto la libertà, sentendosi più libero mentre, chiuso nella recinzione di filo spinato, crede di lottare. 

Dal punto di vista stilistico il romanzo è caratterizzato da una scrittura fortemente sperimentale. Un flusso di coscienza tra la prima e la seconda persona, che non fa uso di virgolette e che inventa una punteggiatura curiosa alternandola a quella classica. Il tocco di originalità appare eccessivo e volutamente autocompiaciuto, mostrando l’ingenuità stilistica di chi scrive.
«A casa si fa largo quel sentimento ingrato
richiamo alla memoria i momenti, non faccio la pignola e conferisco loro il significato che mi pare e piace, uno sguardo, il suo spegnere, spegnersi, il contatto che c’è stato e mi domando se è il caso di presupporre di più –
poi parlo di te per far posto ad altro […]»
La scrittrice personalizza la regola dell’andare a capo, conclude la frase talvolta con un trattino, quasi tutto questo esagerare fosse un altro modo di comunicare quanto non si comunica con la sola narrazione. José Saramago si serve di frasi molto lunghe, e si serve di una punteggiatura anticonvenzionale, tale da rendere la lettura poco fluida e volutamente rugginosa. Olga Tokarczuk sottolinea l’importanza che per lei hanno alcuni nomi comuni con l’uso dell’iniziale maiuscola, comeTenebre, Cerve, Colpa. Non è raro, dunque, lo sperimentalismo letterario, eppure quello di Anna Kim non sembra rispondere a un’esigenza di comunicazione, quanto piuttosto al desiderio furbesco di sorprendere con un’escamotage che non ha una vera e propria ragione d’essere.

La trama, che è svelata già nelle prime pagine, rischia di rendere la lettura inizialmente poco frizzante, anche se mai piatta. Il finale, invece, sorprende e lascia attoniti.


(Anna Kim, Gli anni di ghiaccio, trad. di Anna Allenbach, Zandonai, 2014, pp. 144, euro 12)

“Edge of Tomorrow – Senza domani” di Doug Liman

Ha trovato una nuova giovinezza nel cinema di fantascienza, Tom Cruise. Dopo Oblivion e i quasi trecento milioni di dollari di incasso in tutto il mondo, torna con Edge of Tomorrow, ennesima – solo all’apparenza – battaglia finale per la Terra contro gli invasori.

Ci sono gli alieni, i Mimic, che hanno conquistato quasi tutto il mondo. Gli umani si sono organizzati in un esercito globale affidando a delle estensioni robotiche le loro speranze di combattimento. William Cage è un tenente dell’esercito statunitense responsabile delle pubbliche relazioni. Non è mai stato sul campo di battaglia, quando è iniziata l’invasione ha ricevuto la chiamata alle armi e ha sfruttato la sua conoscenza del marketing per ottenere un incarico di ufficio. Eppure per un equivoco finisce sul fronte, in prima linea, nella più importante battaglia che l’umanità deve affrontare lungo le coste francesi, dopo il grande successo conquistato da “l’angelo di Verdun”, il sergente Rita Vrataski che ha guidato l’esercito internazionale a un’inattesa vittoria pochi giorni prima. Dopo neanche cinque minuti dallo sbarco, Cage è già morto, dopo essersi fatto saltare in aria per eliminare degli alieni. È a quel punto che si risveglia al centro di reclutamento dove era iniziata la sua missione al fronte. Ogni volta che muore, e muore spesso, resetta il giorno e riparte da capo, dall’inizio dell’offensiva. Solo il sergente Vrataski sa cosa gli stia succedendo.

L’idea di coniugare Ricomincio da capo con Bill Murray con le affollate battaglie con invasori extraterrestri alla Starship Troopers sembra pura follia, eppure è quello che ha fatto Doug Liman, il padre cinematografico della serie di Jason Bourne, con Edge of Tomorrow. All’origine, a ispirare tutto, c’è il romanzo illustrato di Hiroshi Sakurazaka All You Need is Kill – e l’influenza manga si sente soprattutto nell’idea generale di sincretismo tra uomini e alieni, e nel finale ancora di più –, ma c’è molto altro che si somma al fumetto.

Una logica da videogioco, in primo luogo, attraversa tutto il film. La possibilità di Cage di ripartire sempre dallo stesso momento dopo ogni morte lo porta a sfruttare questa potenzialità come un punto di salvataggio, lanciandosi di volta in volta in tentativi per sviluppare i suoi piani e i suoi allenamenti. Dopo essere entrato in contatto con Vrataski, che come lui aveva condiviso il potere di ripartire da capo dopo uno scontro diretto con un Mimic, inizia un addestramento spericolato per arrivare al Mimic Omega, il centro nevralgico dell’invasione, coordinatore e demiurgo di tutte le forze aliene e salvare il pianeta. Le morti di Cage si susseguono una dietro l’altra, tra calcoli sbagliati, distrazioni e la spietata freddezza di Vrataski che ogni volta che lo vede in affanno o ferito lo finisce con un colpo in testa. È qui che subentra la dimensione comica, la sorpresa maggiore di Edge of Tomorrow, con Tom Cruise che riesce a costruirsi un ruolo, per lui, insolito di imbranato, come è nei fatti Cage, che si trova costretto a condividere un destino più grande di quanto mai avrebbe voluto.

È in questo incontro tra videogame e comicità che Edge of Tomorrow trova tutta la sua forza. La scrittura di Cristopher McQuarrie (I soliti sospetti, ma anche X-Men, Mission Impossible) evita con tutta la sapienza del mestiere il rischio ripetitività che la ciclicità del «vivi, muori, ripeti» porta inevitabilmente con sé fermandosi al momento giusto e lasciando sviluppare la trama con tutta la coerenza che un simile impianto narrativo rende possibile.

Intorno, c’è tutta la bravura degli attori, ovviamente in primo luogo Emily Blunt come Vrataski, ma anche il sergente Farell di Bill Paxton, così ostinatamente determinato nel suo militarismo, nel rimanere fermi nella stessa dimensione temporale mentre intorno a loro Cage cresce, cambia, anticipa e muta. Intorno, più in là, c’è Liman che si muove perfettamente tra paesaggi digitali e frenetiche scene di lotta.

Si guarda pure un po’ alla storia, con l’agguato sulle coste francesi che fa tanto sbarco in Normandia, e Parigi, per una volta, centro dell’invasione da liberare.

(Edge of Tomorrow – Senza domani, di Doug Liman, 2014, fantascienza, 113’)

“∞ (Infinity)” di Yann Tiersen

∞ (Infinity) è l’ultima fatica discografica di Yann Tiersen, musicista di origini bretoni che dopo ben quindici anni di carriera e camaleontiche svolte artistiche è in grado di dire ancora tanto ed è capace di farlo in modo estremamente complesso. Non ci soffermeremo troppo sul suo passato, sulla guerra che ha combattuto contro l’accademismo musicale, nonostante debba molto agli studi classici, né parleremo del marchio che pubblico e critica hanno affibbiato al musicista francese dopo il successo strepitoso della pellicola di JeanPierre Jeunet Il favoloso mondo Amelie, di cui è difficile scordare l’originalissima colonna sonora.  Superata questa fase, dopo diverse collaborazioni artistiche (da Elizabeth Fraser, Shannon Wright e Neil Hannon dei Divine Comedy), Yann Tiersen decide di scrollarsi di dosso questo marchio, intraprendendo strade nuove, soluzioni complesse quanto le precedenti ma in maniera diversa. Il primo tentativo sperimentale arriva con il duro e sofferto lavoro Dust Lane (2010), che prosegue poi con la sua nemesi gioiosa e positiva Skyline (ad appena un anno di distanza dal precedente) approdando poi al nuovissimo ∞ (Infinity), che nonostante sia un diretto discendente di questi due sopracitati lavori, vanta di una consapevolezza artistica eccezionale in cui l’impiego di elementi contrastanti vanno a creare un sound primordiale di una compattezza sonora che attrae sin dal primo ascolto. 

Non appena ci immergiamo nelle atmosfere di ∞ (Infinity), infatti, ci accorgiamo che il disco, registrato tra  l’isola di Ouessant e Brest (luoghi nativi e molto cari al compositore francese) e l’Islanda, rispecchia perfettamente le ambientazioni algide e silenziose  tipiche del nord Europa. Molti degli artisti che hanno collaborato al disco (oltre ai musicisti che compongono la live band  con cui Tiersen fa spesso il giro del mondo), infatti, sono nord europei: dagli archi soffici e delicati delle Amiina, allo voce profonda dello scozzese Aidan Moffat (Arab Strap), che in “Meterorites” ci trasporta e ci guida in un  mondo addormentato e nebuloso, fatto di  suoni avvolgenti e freddi allo stesso tempo. Yann Tiersen va dritto al sodo, punta alle nostre coscienze, ci obbliga a riflettere. L’utilizzo di diverse tessiture sonore, come gli innesti tra strumenti tradizionali tipici dell’impronta artistica di Tiersen e le parti elettroniche, tra oscillatori, synth e manopole analogiche, ci portano in un universo ben costruito, di cui quasi non abbiamo mai sentito parlare ma che sappiamo bene trovarsi lì, ad aspettare noi. L’aspetto melodico rappresenta una delle cose più difficili da interpretare, poiché spesso voci e parti testuali vengono impiegati al pari degli altri strumenti, tutti volti a dare un senso poetico e musicale al brano. Probabilmente, è proprio per questo motivo che Yann Tiersen decide di avvalersi di diversi linguaggi testuali: utilizza infatti il  dialetto bretone  in “Ar MaenBihan”, ilfaroese nella bellissima “Grønjord” (lingua madre del suo amico e collaboratore Olavur Jakupsson) e infine l’islandese nella oscura e macabra “Steinn”.

L’intento spudoratamente dichiarato è quello di rendere il discorso musicale fluido, scorrevole, percepito come un’unica unità di tempo, concetto molto caro al musicista francese, che negli ultimi lavori ha raggiunto ormai un apice di ricerca sonora, minimale non tanto nell’ensemble strumentale, quanto più a livello teorico-filosofico. (Infinity) è l’urto continuo con una massa sonora che ci colpisce di prepotenza: un buco nero in cui siamo risucchiati senza poter far a meno di voler scoprire cosa viene brano dopo brano. Stupisce infatti come, dopo aver ascoltato l’introduttiva e primordiale “Infinity” e  “Slippery Stones, arrivi  la dolcissima e melodica “A Midsummer Evening”, singolo che ha anticipato anche l’uscita dell’album. Ci accorgiamo con quanta semplicità vengano affrontante e risolte problematiche di per sé molto complesse  da gestire. Yann Tiersen non ha paura di provare nuove soluzioni e di stravolgere vecchi concetti: evidente è il richiamo allo stile di Steve Reich rivisitato in chiave elettronica e del tutto personale nel brano “Ar Maen Bihan(o nella parte introduttiva di “The Crossing”) e, come subito dopo una chiusura distorta tipicamente Joy Division, si arrivi  alla felicissima “Lights, guidata e tenuta insieme dalla timbrica del toy piano (strumento importantissimo per Tiersen sin dalle origini della sua carriera). Del tutto naturale quindi diventa poi il percorso dell’album che prosegue con la fresca e armoniosa “Grønjorde non ha paura di ritornare cupa e oscura in Steinn. Un lavoro che convince e ci porta fuori dal mondo esterno spingendoci a scoprire infiniti nuovi particolari ascolto dopo ascolto.

Non ci resta che vedere quale sarà lo sviluppo live di (Infinity). Come spesso lo stesso Tiersen tiene a sottolineare, la dimensione dal vivo è un processo creativo a se stante rispetto al lavoro in studio: si parte dalle tracce del disco, per poi creare quasi dei nuovi brani, concepiti soprattutto da un legame artistico condiviso con tutti gli altri musicisti della band, che prendono parte a questa sacrale riscrittura dell’album insieme a chi il disco l’ha pensato, composto e suonato.  Lo aspettiamo allora in questo tour estivo che toccherà diverse città italiane tra cui Castellazzo, Roma, Prato, Pescara, Rimini e Merano. Se i presupposti sono quelli di ∞ (Infinity), allora non possiamo che aspettarci che un live pieno di sorprese e grandi emozioni.

 

(Yann Tiersen, ∞ (Infinity), Mute, 2014)

 

“Il Posto” di Annie Ernaux

«Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di “appassionante” o “commovente”. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare notizie essenziali». Pubblicato in Francia nel 1983, vincitore del premio Renaudot nel 1984, arriva anche in Italia, con la traduzione di Lorenzo Flabbi, Il Posto (L’orma editore, 2014) di Annie Ernaux.

La perdita del genitore, la sofferenza per la distanza venutasi a creare durante la crescita tra la scrittrice e il padre, il primo legato ai dettami di un mondo operaio e la seconda in fuga da questo attraverso l’emancipazione fornitagli dallo studio. La decisione di raccontare la vita del proprio caro nella provincia francese del primo dopoguerra per esorcizzare i propri demoni e il senso di colpa. Elaborazione di un lutto attraverso la descrizione di un’epoca, di uno stile di vita. Romanzo breve che in realtà romanzo non è. Definibile piuttosto come una serie di instantanee che ci raccontano di un mondo lontanissimo eppure così vicino: una Francia in piena crescita dopo la seconda guerra mondiale, una famiglia umile che cerca l’avanzamento sociale passando dal lavoro in fabbrica all’apertura di una bottega, un padre orgogliosamente legato alle proprie origini e di indole assai modesta che «si sbarbava nel lavello della cucina, sorbiva rumorosamente la sua zuppa a colazione, sputava e starnutiva con piacere», una figlia che si sentiva aliena in questo piccolo universo.

Racconto autobiografico nel quale Ernaux mette a nudo il dolore e il “sentirsi sempre fuori posto” della propria famiglia attraverso una scrittura scarna, “piatta” ma allo stesso tempo solidissima, che riesce a trasportare il lettore direttamente in quel piccolo sobborgo francese, dove il non riuscire ad affrancarsi dal proprio status di famiglia umile diventa cruccio e stigma che influenzerà negativamente la vita dell’intero nucleo familiare. Non c’è orgoglio, rimpianto o nostalgia nelle parole dell’autrice: «Naturalmente, nessuna gioia di scrivere, in questa impresa in cui mi attengo più che posso a parole e frasi sentite davvero, talvolta sottolineandole con dei corsivi. Non per indicare al lettore un doppio senso e offrirgli così il piacere di una complicità, che respingo invece in tutte le forme che può prendere, nostalgia, patetismo o derisione. Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un’altra».

Una famiglia modesta in cerca del riscatto ma legata da un indissolubile filo alle sue abitudini contadine e operaie, una figlia completamente a disagio che lentamente smette di avere un dialogo con i suoi genitori e rifugge le proprie origini. In apparenza è questa la chiave di lettura del romanzo. In realtà Ernaux con quella che lei stessa definisce scrittura “autosociobiografica” compone un capolavoro dove storia, sociologia e letteratura si intersecano. Un libro che “parla a tutti noi di tutti noi”.


(Annie Ernaux, Il posto, trad. di Lorenzo Flabbi, L’orma editore, 2014, pp. 120, euro 10)

“Animalia” di Julio Cortázar

Per poter leggere Animalia (Einaudi, 2013) di Julio Cortázar senza di tanto in tanto aggrottare le sopracciglia con fare perplesso o soffermarsi con più attenzione su una frase nella convinzione che ci sia sfuggito qualcosa, è fondamentale partire da un presupposto: mettere da parte qualsivoglia forma di scetticismo. Fatto? Bene, adesso potete avere accesso al mondo dello scrittore argentino, in cui fenomeni e creature che una mente cauta definirebbe inammissibili (o quantomeno improbabili) trovano spazio nella scrittura con una naturalezza disarmante.

Animalia è un testo che – a volerlo inserire in una categoria – risponde ad alcune caratteristiche del genere “bestiario”, particolarmente in voga nel Medioevo ma difficilmente fruibile da un lettore dell’era postmoderna. Quest’ultimo, magari incoerentemente avvezzo a letture fantasy o di fantascienza, riterrà con ogni probabilità di trovarsi di fronte a un perfetto esempio di ignoranza e superstizione da “Tempi Bui”, e leggendo di creature immaginarie e magiche penserà alla sua epoca intellettualmente e scientificamente superiore. Come comportarsi, però, quando un’opera del genere è concepita da un autore del Novecento?

Aurora Bernárdez, prima moglie di Julio Cortázar, dopo la morte del marito ha riunito alcuni fra i suoi racconti più significativi, dando vita a un volume in cui la realtà ingessata di raziocinio viene ridefinita dallo scrittore secondo nuove regole. Ciò che è lecito nel mondo cortázariano, perciò, risponde a possibilità che sfuggono alla logica: un uomo può vomitare coniglietti, un orso può vivere nelle tubature di un’abitazione, e si possono inventare nuovi animali dando loro una consistenza estremamente reale, come le mancuspie. L’esistenza delle mancuspie, a dirla tutta, diventa lecita al cospetto di bestie come gli axolotl, le protagoniste del brano omonimo che apre il volume: salamandre messicane zoologicamente note ma con un aspetto talmente bizzarro da far pensare a uno scherzo del Creato.

Talvolta, gli animali protagonisti dei racconti hanno comportamenti in apparenza consoni alla propria natura: le formiche divorano voracemente fiori e foglie del giardino, il cavallo imbizzarrisce e vuole sfondare la porta di casa. L’impressione però, in alcuni episodi del testo, è che questi animali siano mossi da una determinazione quasi diabolica nel voler scavalcare la supremazia antropica, da sempre prepotente alibi per giustificare la nostra imposizione sul Pianeta. Improvvisamente, l’invasione degli spazi privati da parte dell’animale schiaccia le sicurezze umane, rendendo la bestia più forte dell’uomo sul piano psicologico.

L’esperienza di leggere Animalia, a conti fatti, si rivelerà un’operazione di grande discernimento, e ce ne renderemo conto appieno solo alla fine, quando nel racconto “Passeggiata fra le gabbie” Cortázar fa una confidenza all’amico Ricci: «Gli uomini che credono di lottare contro altri uomini per difendere la libertà, in realtà stanno lottando contro i formicònidi; basta seguire da vicino le notizie sul Vietnam, sul Brasile, sulla mia patria: la lista è lunga e terribile. Un giorno la faremo finita con loro, Ricci, perché Zötl, voglio dire l’immaginazione, è dalla nostra parte, mentre dalla loro hanno solo la forza. Per questo è un bene continuare a moltiplicare le polveriere mentali, lo humour che cerca e favorisce le mutazioni più strampalate; per questo è un bene che esistano i bestiari colmi di trasgressioni, di zampe dove dovrebbero esserci ali e di occhi messi al posto dei denti».


Chi acconsente a entrare nell’universo di Animalia, perciò, accetta la mano tesa di uno scrittore pronto a lasciarci un po’ di spazio nel suo immaginario e proporci un’alternativa, nel caso ne avessimo abbastanza di quotidianità insopportabili.


(Julio Cortázar, Animalia, a cura di Aurora Bernárdez, Einaudi, 2013, pp. 206, euro 18,50)

“Maleficent” di Robert Stromberg

C’è un’idea interessante dietro Maleficent, ultimo film targato Disney che dopo il poco riuscito Alice in Wonderland di Tim Burton e il più recente Il grande e potente Oz di Sam Raimi continua a riproporre i suoi vecchi classici in nuove versioni. L’idea interessante era quella di andare a indagare sulle origini del male incarnato da Malefica, uno dei personaggi più temibili dell’immaginario disneyano, quintessenza concretizzata dell’idea di strega cattiva e terribile.

Giusto l’idea era buona, poco altro.

Tanto tempo fa eccetera, c’era una brughiera popolata di creature magiche e fate poco distante da una grande città di uomini. Nella brughiera regnava l’armonia della natura su cui una giovane fata, Malefica, era incaricata di vegliare volando con le sue grandi ali per assistere animali e piante in difficoltà. Il re degli uomini non sopporta quel potere così grande a pochi passi da lui e promette il suo regno a chiunque gli porterà la testa della fata. Il giovane Stefano, un tempo amico, unico tra gli umani, della fata la trae in inganno drogandola, ma al momento di decapitarla ha un rigurgito di coscienza e decide di reciderle le ali e portarle al sovrano. Stefano succede al trono sposando la figlia del re, prospera e genera una figlia, Aurora. Malefica, intanto, ha smarrito la bontà ed è diventata regina terribile. Il giorno del battesimo fa irruzione nel castello di Stefano e lancia una maledizione sulla neonata Aurora: al compimento del suo sedicesimo anno di vita si pungerà con un arcolaio e cadrà in un sonno da cui solo il bacio del vero amore potrà destarla. La figlia del re cresce lontana dal castello per essere messa in salvo. Le tre fate che la custodiscono si distraggono spesso e alla fine tocca a Malefica prendersi cura di lei, a distanza, fino ad affezionarsi e a non poter fare più a meno di lei. Il sortilegio che ha lanciato, però, è troppo potente perché lei possa pensare di scioglierlo.

Quando Maleficent si coniuga con la versione animata di La bella addormentata nel bosco, cioè nella scena del battesimo che ricalca quasi integralmente il precedente del 1959, un sorriso scappa a chiunque. È l’unico momento, però, in grado di replicare la magia disneyana. Con la sceneggiatura affidata a Linda Woolverton, penna di spicco del recente cinema Disney (La bella e la bestia, Il re leone), e la regia dell’esordiente Robert Stromberg, Maleficent non sa cosa essere, se omaggio al passato, rivisitazione dark/fantasy o semplice, e banale, commedia dei buoni sentimenti. Anziché indagare la natura di Malefica, ingigantendone il titanismo del male e continuando a scolpirla come icona stessa della paura infantile, il duo Stromberg-Woolverton opta per una virata sul buonismo che fa della strega l’unica vera custode della piccola Aurora.

In sostanza il messaggio è che il destino non può essere vinto, che Aurora si pungerà comunque con quell’arcolaio, anche se sono stati distrutti tutti e anche se viene nascosta nella stanza più segreta, e che gli umani sono capaci di cose orribili contro la natura. Malefica, come fata naturale, impazzisce di dolore per il tradimento dell’essere umano che la strappa dal suo essere creatura alata per condannarla alla terra. La vendetta sembra l’unica soluzione ma poi se ne pente e la forma narrativa in cui si concretizza Malefica sembra finire per essere contemporaneamente quella di eroina e antagonista.

Nella confusione di generi, tra battaglie con alberi giganti (ancora una volta), voli in 3D di fate, amori adolescenti che non sono tali e sovrani che rimuginano la colpa in un travaglio shakespeariano da bignami della drammaturgia, si assiste increduli allo stratificarsi di approssimazioni e svuotamenti di senso che conducono a una mezz’ora conclusiva di terrificante velocità.

Pur perfetta come immagine di strega altera, Angelina Jolie non può fare niente per salvare Malefica dal ridicolo. Elle Fanning, per fare un’Aurora che sia sempre lieta e meravigliata, ride. Ride tutto il tempo.

Prima di diventare regista Stromberg ha avuto una prospera carriera come scenografo che gli è valsa due Oscar, nel 2009 per Avatar e nel 2011 per Alice in Wonderland. Molto del bagaglio paesaggistico di Maleficent ricorda, da vicino, il film di James Cameron. Come in quel caso, anche qui, oltre a qualche scenario di magistrale computer grafica c’è poco altro.

(Maleficent, di Robert Stromberg, 2014, fantastico, 95’)

“Everyday Robots” di Damon Albarn

Sono passati esattamente vent’ anni dall'uscita di Parklife, album che ha segnato gli anni ‘90 con pezzi come “Girls & Boys”, “This is a low”, l'omonima “Parlife” e “To the end”. Un disco collegato a quella battle of britpop combattuta, tra musica e insulti vari, dai Blur e dagli Oasis, i quali nel 1995 avevano donato ai fans un capolavoro come (What’s the Story) Morning Glory?. Nonostante in principio non ci fossero particolari inimicizie, nel giro di un anno le cose cambiarono, sopratutto a causa dei tabloid britannici e degli sponsor. Questo poco ci interessa, anche perchè è storia assai nota, vecchia e sepolta.

Ma parte di questo periodo così fecondo dal punto di vista musicale inglese è dovuto anche a Damon Albarn, il frontman dei Blur e dei Gorillaz. Accantonati già da qualche anno questi due importanti progetti, il cantante londinese ha deciso di riprendere la carriera da solista. Un percorso è iniziato ben dodici anni fa con Mali Music, album nato dalla collaborazione con diversi artisti africani.

Dopo Democracy e Dr. Dee, lo scorso 25 aprile è uscita l'ultima creazione di Albarn, Everyday Robots. Il disco è composto da dodici tracce ed è un viaggio nella mente, nei pensieri e nel passato del cantante: nonostante ciò, non appare autoreferenziale, non è chiuso in qualche cassetto. Piuttosto, il suo sembra essere un modo di confessarsi al pubblico, come se volesse fare un bilancio di questi quarantasei anni di vita, compresi i ventitré anni di carriera. Ci sono riflessioni intime e nostalgiche di un passato fatto di successi e debolezze personali. L’omonima “Everyday Robots”, canzone che apre l'album, esprime il pensiero di Albarn sulla nostra società, malata di tecnologia e isolamento:«We are everyday robots on our phones, in the process of getting home. Looking like standing stones, out there on our own. We are everyday robots in control, or in the process of being soul. Driving in adjacent cars, ‘til you press restart». Il video di questo primo singolo è stato affidato all'artista e desgner Aitor Throup, il quale ha realizzato un ritratto digitale del cranio di Damon.

Come detto, numerosi sono i brani introspettivi e nostalgici come ad esempio “The History Of A Cheating Heart” o il più romantico “The Selfish Giant” dalle sonorità stranamente soul che racconta le vicissitudini di una coppia consumata dal tempo. Il frontman dei Blur parla anche apertamente della dipendenza dalle droghe, dopo aver recentemente affermato come gli effetti dell'eroina lo abbiano aiutato a comporre ottime canzoni. Lo fa in “You And Me”, ma non ostenta vanità ma un timido pentimento, come se quel periodo fosse ormai troppo lontano da lui.

Albarn non ci risparmia niente, nemmeno i ritmi caraibici e africani di “Mr. Tembo”. Il brano vede la partecipazione del coro Pentacostal City Mission Church of Leytonstone ed è stata registrato in onore di un piccolo elefante che il Nostro ha incontrato circa un anno fa in uno zoo della Tanzania. Forse l'unico pezzo allegro e spensierato, aiutato da melodie vivaci. L’opposto di quanto avviene invece in “Lovely Press Play” e “Hollow Ponds”, candidati a diventare i veri trascinatori di questo disco grazie alla loro malinconica bellezza.

Tirando un po’ le somme, Everyday Robots è il coronamento ma non la chiusura di una bella carriera: una confessione sincera e matura, uno sguardo al passato rivolto anche al futuro, senza rimpianti. Certo, ogni tanto si sente la mancanza di certi ritmi britpop, ma le nuove esperienze musicali e i diversi stili del nuovo Albarn non fanno rimpiangere ciò che è stato. Forse. Magari ne riparliamo questa estate dopo il concerto che terrà all'Auditoriom di Roma.

 

(Damon Albarn, Everyday Robots, Parlophone, 2014)

“Tutto quel che è vita” di James Salter

James Salter è un atleta. Uno di quelli che emergono sulla lunga distanza. Muscoli solidi, operosi, capaci di impastare prestazioni costanti, di garantire negli anni performance di livello. Rastrella premi, scava l’alveo del suo pubblico. Non desta tumulti, acquazzoni di applausi. Figura tra i professionisti, abita tra loro, ma il suo nome non tuona. Tanto meno oltre oceano. Lui comunque persiste e lavora, macinando titoli, racconti, sceneggiature. Perché è uno scrittore agonistico. È questa la sua disciplina olimpica.

Che abbia 88 anni a quanto pare conta poco. Almeno per intaccarne l’energia creativa. Conta molto, quasi tutto, per forgiare la materia del suo dire. Perché la Storia che si schiarisce la gola tra le pagine del suo nuovo romanzo Tutto quel che è la vita (Guanda) è la stessa, più o meno maiuscola o cubitale, che Salter ha inalato negli occhi, la stessa che gli è cresciuta addosso, come un muschio di ricordi, di scenari cangianti, d’impronte sempre vive. La vicenda è un fiume, rampollato nel torace del ’44, durante il secondo conflitto mondiale, in pieno Pacifico.

A navigarla è Philip Bowman, giovane sottotenente della Marina Militare Americana.

È scivolato nella guerra, come correnti di altri uomini, e impara presto a capire quale lingua parla il nemico; a volte quella del mare, più spesso quella del cielo, che grandina morte di aerei suicidi. Il «vento divino» soffia dentro velivoli che decollano per non atterrare, per schiantarsi sulla pelle avversaria. Il Giappone sembra invincibile, è addestrato per non perdere, o per farlo in modo imperiale. E sappiamo a dovere quanto è stato ciclopico il tonfo. Un fungo atomico di polvere e rovina.

Ma Philip torna a casa, perché c’è altro in serbo per lui. C’è New York che freme di ricchezza, che fruscia di promesse e una nuova carriera di editor pronta per essere agguantata, incontro dopo incontro.

Perché ognuno di essi sancisce un passaggio, un lancio di dadi. Una scommessa coi propri sogni.

Come quello con Vivian, bella e vuota d’anima, che resta imprendibile anche quando acconsente a sposarlo, figlia di troppo benessere per essere moglie del suo quotidiano. Il matrimonio si sbriciola in mezzo alle mani, frana come un masso vissuto sempre in bilico, ma Philip non si sottrae al gioco, non può.

Ad attenderlo c’è Enid e la passione inesausta, l’appetito di carne e sudore, le trasferte spagnole in un cielo arrogante di gioia, ma anche quel battito rallenta, perché ha bisogno di incespicare ancora, di ormeggiare su altri fianchi. Christine è l’illusione della volta giusta, del porto maturo, definitivo. Eppure quando si snuda il petto, Bowman diventa solo un bersaglio scontato, troppo esposto per non essere scalfito.

L’amarezza si fa vendetta, incrudelisce il fiato e i residui di ogni scrupolo. E Philip ripiega nella coscienza di una realtà più mite, l’unica che gli è concessa, senza picchi né scosse di cuore.

Non c’è famiglia prevista nei suoi scopi, ci sono altri viaggi e stanze leggere in cui aspettare il giorno dopo.

Ma la potenza del romanzo si dispiega metri e lune oltre la sua parabola vitale. Si dipana infatti in un vivaio di personaggi infiniti descritti in breve e fino all’osso, un arcipelago di esperienze cesellate di dettagli.

Per ognuno c’è un profilo, una scatola di mondo fatta di trascorsi, ambizioni, cimeli lucidi e fondi di scaffale. Ogni ambiente, ogni cambio di scena ha il suo preciso alveare umano, un dedalo di ante e cassetti così fitto che si rischia di smarrirsi.

Dai genitori di Vivian ai colleghi di lavoro, tutti sono tassidermicamente immortalati, senza omettere un tributo spesso e doveroso all’universo editoriale, con le sue spirali di autori più o meno nascosti, gli aneddoti d’ombra e di ribalta. Lo stuolo di famosi e quello di affamati, di artisti squattrinati e di nomi eccellenti, da Ezra Pound a Somerset Maugham, da Federico García Lorca a Thornton Wilder, con accanto il pulviscolo di chi non ce l’ha fatta ed ha sfornato pagine senza ritorno, annaspate nell’affitto e nei dintorni di un bicchiere.

D’altronde scrivere è la sola salvezza, a volte spossata a volte riuscita, ma comunque necessaria.

Provarci è ineluttabile. È la finestra dove l’aria si condensa e poi s’intrappola senza cercare uscita.

La luce emessa per restare a galla, per abbracciare ed eternare tutta la nostra decadenza.

«Vivere per raccontarla», secondo García Márquez, altro puer aeternus della letteratura, deceduto da poco eppure mai spento. In compagnia di Salter c’è un intero plotone di scrittori a cui l’anagrafe non ha certo frenato la mano. Dal coetaneo Andrea Camilleri, al poco più giovane E. L. Doctorow, da Boris Pahor a Toni Morrison, le librerie ancora straripano di esempi di freschezza quasi centenaria.

Perché per mordere il lettore serve la forza, non i denti.

 

(James Salter, Tutto quel che è la vita, Guanda, 2014, pp. 352, euro 18)

“Maps to the Stars” di David Cronenberg

È in concorso al Festival de Cannes Maps to the Stars, ventunesimo film del canadese David Cronenberg che torna sulla croisette due anni dopo aver presentato Cosmopolis, tratto dal romanzo di Don De Lillo.

A Hollywood la celebrità è la più grande attrazione. Le maps to the stars vengono vendute ai turisti per andare a vedere – da fuori – le case dei divi del cinema e della televisione. Agatha è appena arrivata, anzi tornata, da Jupiter, un paese della Florida, non il pianeta, per cercare di ricucire i rapporti con la sua famiglia. Il padre, un noto guru televisivo che fa una terapia fisica di auto-convincimento ai suoi ricchi e famosi clienti, l’ha spedita in un’ospedale psichiatrico dopo che sei anni prima aveva drogato il fratellino e dato fuoco alla casa. Ora Benjie, il fratellino, è diventato una star prepuberale con milioni di incassi e un comportamento da divo consumato: tossicodipendenza, riabilitazione, colossale arroganza. È che la vita della stella consuma, lo sa bene Havana, attrice non più giovane che tenta disperatamente di rioccupare la scena interpretando sua madre, un’attrice che ebbe ben altro successo rispetto a lei, nel nuovo film di un autore molto acclamato.E poi c’è Jerome, che prova a diventare attore, o sceneggiatore, e intanto guida limousine portando in giro quelli a cui vorrebbe assomigliare.

C’è una poesia di Paul Eluard che i protagonisti leggono e ripetono più volte. È La libertà, che va scritta su «ogni carne consentita/ sulla fronte degli amici/ su ogni mano che si tende». La libertà è quello che cercano Agatha, Benjie, i loro genitori, Havana. Libertà dal successo imposto e dall’infanzia negata, dalla colpa della scoperta, dall’orrore della scoperta, dal peso del confronto costante. Sotto l’apparente strato della celebrità si agita costante il flusso della decomposizione psichica, della decadenza, della solitudine.

Cronenberg è cambiato, e con lui il suo cinema. Un tempo il corpo era il mezzo con cui esprimere lo sconvolgimento dell’interno. Il cosiddetto body-horror, che insieme al melodramma ha sempre caratterizzato il suo cinema (tipo Il pasto nudo e M. Butterfly), rappresentava le malformazioni e le trasformazioni della psiche sulla carne visibile, come escrescenze, esplosioni, trasformazioni. È da Spider che la rappresentazione del disagio si è interiorizzata: non più pelle ma pensiero a prevalere, non più segno del mutamento ma simbolo. Il corpo, da riflesso della realtà interiore, è diventato strumento di percezione. In una intervista recente, David Cronenberg ha affermato che il suo essere fondamentalmente radicato di un ateismo di matrice esistenzialistico-materialista (ci sarebbe da discutere, su questa duplice etichetta, considerando che l’esistenzialismo rivendicava il ruolo della soggettività proprio rispetto al pensiero materialista che aveva ridotto l’individuo a puro oggetto, e che – magari non i concetti in sé, ma i sistemi filosofici sì – i due termini sono generalmente contrapposti) lo porta a escludere ogni forma di trascendenza e a credere solo nei corpi sensibili. In Maps to the stars restano le cicatrici di Mia Wasikowska a mostrare esteriormente la traccia di un’esplosione di pazzia. I corpi, per il resto, sono gabbie che rinchiudono nella situazione, che conservano l’influenza invisibile del tempo passato e condizionano il presente.

E il presente non è nient’altro che una desolante solitudine, sottolineata dalle riprese che prendono gli attori uno a uno, lo pongono al centro quasi simmetrico della scena e lo lasciano lì a parlare, a mezzo busto. Una solitudine in cui solo i fantasmi – fantasmi veri, non simbolici – della negazione, di ciò che è stato, di ciò che sarebbe potuto essere, arrivano a tenere un’inquietante e allucinata compagnia.

Sarebbe tutto molto bello, se solo fosse riuscito. Perché Maps to the Stars, così come le precedenti due prove di Cronenberg, non ha coesione narrativa, non ha compattezza, non ha neanche sostanza. Scritto da Bruce Wagner, il film di Cronenberg vorrebbe essere, oltre che una parabola sulla solitudine e sul vuoto di senso dell’esistenza, una satira dello star system e le ossessioni delle celebrità. È un mondo incestuoso e divorante, d’accordo, e anche gli abusi d’infanzia, in una prospettiva votata al solo successo, possono diventare medaglie anziché cicatrici, ma la mostra dei capricci, dello sciorinio di farmaci e pasticche, delle invidie e delle ipocrisie, è stereotipato, piatto, per niente incisivo. Cercando di mostrare l’ignoto attraverso il noto, la mappa per le stelle si perde in fretta.

(Maps to the Stars, di David Cronenberg, 2014, drammatico, 95’)

[RockNotes] Le uscite di maggio

Ci sono stati dei ritorni importanti in questo mese di maggio e la conferma di tutte le capacità di Erika M. Anderson, ai più noti come EMA, che con il secondo album si è già imposta come nuovo riferimento del pop. Vediamo le RockNotes di maggio.

 

Pixies, Indie Cindy

(Pixiesmusic/PIAS)

 

La raccolta dei precedenti tre EP che hanno segnato il ritorno discografico della storica band americana, in pratica. Le critiche non sono state leggere e molti ascoltando il nuovo materiale hanno storto il naso, vista anche la mole del nome chiamato in causa. La dipartita di Kim Deal non ha certo facilitato la situazione e il sound ne risente. Sicuramente non è il ritorno che ci si aspettava, ma il materiale non è tutto da buttare.

 

EMA, The Future’s Void

(Matador)

 

Osannata da gran parte della stampa come la nuova eroina del pop – il Mucchio con non poco scandalo le ha dedicato addirittura una copertina – Erika M. Anderson con questo suo secondo album si afferma come un’artista dal talento lampante. The Future’s Void è così bello a prescindere dal genere che va consigliato a tutti, anche ai più scettici.

 

Swans, To be Kind

(Young God Records/Mute Records)

 

Michael Gira non è uno che si fa troppi problemi o paranoie. Comunica e produce quello che reputa giusto senza il minimo cruccio. Così, a due anni da quel capolavoro chiamato The Seer, ecco un altro doppio album. Tra litanie e momenti acustici, blues e psichedelia, i pilastri del noise- hardcore compongono un altro abisso musicale. Non ci sono vie di mezzo nemmeno stavolta: o ci si immerge completamente, o lo si ignora. Comunque monumentale.

 

Cloud Nothings, Here And Nowhere Else

(Carpark) 

 

Su di loro ci sono sempre state aspettative molto alte: qualcuno li ha visti addirittura come i nuovi Nirvana, e va detto che dopo l’ultimo Attack on Memory del 2012, il paragone non sembrava così spropositato. In Here and Nowhere Else la musica – fortunatamente – non cambia: otto brani in cui le chitarre e la batteria sono un tornado inarrestabile. Una furia rock da ascoltare al massimo.

 

Eagulls, Eagulls

(Partisan Records)

 

Loro sono gli Eagulls e vengono da Leeds, e soprattutto suonano il punk, e lo fanno alla grande. Un esordio notevole dove angoscia e rabbia vengono urlati senza mezze misure. Gli amanti del genere – e non solo – gradiranno.

 

Band Of Skulls, Hymalayan

(Pias, Elecrtic Blues Records)

 

Di recente li abbiamo visti dal vivo a Roma all’Atlantico Live e i ragazzi sanno il fatto loro. Dopo il bel Sweet Sour, giunti senza colpo ferire al terzo album, gli inglesi Band Of Skulls confermano con Himalayan il loro marchio di fabbrica: una fusione possente tra blues e rock, con degli accenni melodici non indifferenti. Per chi ama il rock nella sua grezza e pura essenza.