[RockNotes] Le uscite di febbraio

Beck, Morning Phase
(Capitol)

Qualsiasi didascalia o frase è superflua: Beck è uno dei pochi che merita ancora ascolto obbligato a ogni uscita discografica. A prescindere. Noi abbiamo ascoltato qualcosa in anteprima: ha fatto centro anche stavolta…

Pontiak, Innocence
(Thrill Jockey)

Abbandonate le categorie e i generi, hard-core, neo-psich, etc: i Pontiak spaccano e basta. I tre fratelli Carney con Innocence pubblicano l’ennesimo lavoro granitico e implacabile. Da far tremare i muri.

SiVa, Argomenti che non vi interessano scritti con i piedi
(Lapidarie Incisioni)

«In Italia si producono più dischi di musica indipendente di quanti se ne riescono a vendere», ci dice il noncantautore calabro-romano SiVa; così, coerente, registra il suo album nel rivoluzionario e utile formato dello spazzolino da denti. I dieci pezzi di Argomenti che non vi interessano scritti con i piedi sono un ironico pastiche di generi e linguaggi che strizzano l’occhio al teatro canzone. Se volete un consiglio, il disco rende meglio live e SiVa è in giro a promuoverlo: non perdetelo.

Black Flag, What the…
(SST/Goodfellas)

Mentre nell’ambito hard-core i Pontiak arrivano all’apice, è da segnalare il lavoro della band che ha dato linfa e lustro al genere: i mitici Black Flag. Il risultato, a prescindere dalle controversie e litigi all’interno della band, è solo per i fan più inossidabili.

Non Voglio Che Clara, L’amore fin che dura
(PiciccaSony)

Godiamoci questa piccola grande realtà italiana finché dura. I ragazzi di Belluno sfornano un pregiatissimo disco, “da camera”, impeccabile negli arrangiamenti come nei testi, con quel tocco di malinconia ideale per rendere più dolci quelle giornate di pioggia. Da consigliare a chi non li conosce.

XIU XIU, Angel Guts: Red Classroom
(Bella Union)

Ancora tanta disperazione nella nona creatura in studio degli Xiu Xiu di Jamie Stewart, Angel Guts: Red Classroom. Incentrato sull’essenzialità di synth e drum machine, questo disco appare più scarno e disperato del precedente Always: momenti brillanti, alti meno, ma comunque l’ennesimo valido lavoro scaturito dalla zona più dark della wave.

Warpaint, Warpaint
(Rough Trade)

Ormai tutti parlano di loro: sono una moda e sembra quasi un delitto criticarle. A voi ascoltatori l’ardua sentenza: le basi per un buon lavoro ci sono, ma tutto quest’entusiasmo, nonostante i numerosi ascolti, ci sembra eccessivo.

Dum Dum Girls, Too True
(Sub Pop)

Strana parabola quella di Dee Dee e le sue Dum Dum Girls. Quando si tratta di concentrare gli sforzi in un riuscitissimo ep, End of Daze, i risultati sono ottimi, quando si tratta di sferrare l’album in grado di confermarle, il guizzo latita. Dopo i due gradevolissimi predecessori, Too True pur apparendo ammaliante all’ascoltatore quasi quanto Dee Dee sulla copertina, dà la sensazione dell’ennesimo colpo mancato. E la pazienza sta finendo.

“Il giorno che diventammo umani” di Paolo Zardi

Con Il giorno che diventammo umani (Neo Edizioni, 2013) Paolo Zardi, già autore, tra gli altri, di Antropometria, ci consegna ancora una volta una raccolta di racconti: di primo acchito il titolo, oltre a incuriosire, sembra lasciare intendere il delinearsi di uno scenario particolarmente carico di elementi del tutto consoni a stimolare la riflessione.

E in effetti Zardi gioca a carte scoperte sin da subito: la menzogna, il sangue e la violenza legano l’un l’altro tutti i suoi racconti, servendoci su un piatto freddo personaggi le cui vite tra loro si sfiorano quasi in preda a una troppo masticata vergogna, che impedisce, a conti fatti, un contatto vero, qualcosa che, se pur alla lontana, possa anche solo assumere il sembiante di una misera fiamma di commiserazione.

Ma non è la vergogna «di essere un uomo» che ha accompagnato la vita e l’opera di Primo Levi quella che permea le storie de Il giorno che diventammo umani; si tratta invece del sentimento di una consapevolezza accresciuta dalla percezione che, mancando l’uscita di sicurezza, non si hanno più colpe nel ricavare, tra ciò che il convento offre, le proprie vie di fuga: alla vita, e al suo peso, si resiste desistendo, congelando all’occorrenza anche l’ultima goccia di in altri tempi più viva dignità, e scongelando prontamente – manco noi tutti fossimo automatico meccanismo – i mai sopiti ferini istinti: ubi maior minor cessat.

La carne stessa soggiace allo sconclusionato riprodursi delle sue cellule: si muore, e non è che lo si voglia. Si è dunque agiti, quando non si agisce in reazione, quando non ci si trascina in una quotidianità che si vorrebbe, questa sì, diversa, e la si accetta, mentendole, con accoppiamenti da tacere e con parole da recitare, perché l’ordine si conservi, e perché tanto, lo si sa, c’è la morte che ammicca, anche se, è chiaro, sono tanti i casi in cui si è già morti, e da non poco tempo, no.

Ha mano da chirurgo Zardi nell’incidere sull’interiorità del lettore squarci che, numerosi, lasciano al pensiero l’impressione di essere precipitato lungo un dirupo, e la certezza che si potrebbe sprofondare ancora, e irrimediabilmente: le pagine de Il giorno che diventammo umani, asciutte e dirette, sono il frutto di uno sguardo che centra il mondo nella sua immediatezza, menzogna sangue violenza, e di una voce che non vuole intrattenere, ma farsi, con coraggio, cronaca di un vuoto di valori forse allo stato terminale.

Forse. Paolo Zardi lascia aperto uno spiraglio. Nell’ultimo racconto, il protagonista, presumibilmente lo stesso scrittore, ha con sé Infinite Jest di David Foster Wallace. Noi, con fiducia, raccogliamo l’invito dell’autore de Il giorno che diventammo umani: nella vita, che «fa schifo», Wallace insegna invece che si ride e si piange, certo in sproporzione, ma si ride e si piange. E soprattutto quanto possa allora essere ingiusto, e accomodante, ricordare proprio quel giorno esclusivamente come la prima e nostra ultima caduta.


(Paolo Zardi, Il giorno che diventammo umani, Neo Edizioni, 2013, pp. 208, euro 14)

“Al saloon della donna gufo” di Tessa Gallagher

La raccolta di racconti di Tessa Gallagher, Al saloon della donna gufo (Edizioni Empiria, 2008) è un vero caleidoscopio di personaggi, per cui al lettore sembra di capitare per davvero in un saloon e incontrarli uno per uno. Si tratta quasi di fortuiti ritrovi dal parrucchiere, come succede nel primo racconto “L’alfiere rosso”, dove la protagonista è dapprima irritata, ma poi affascinata dall’insolito cliente maschio del locale, con un possibile, anzi probabile, seguito della conoscenza appena fatta.

Al di là del banale episodio quotidiano, la scrittura della Gallagher è sorprendentemente ricca e profonda, con osservazioni che rivelano la sensibilità dell’autrice per i risvolti delle situazioni che si creano: Tess ce li mostra questi individui, ce li addita con pazienza, penetrando negli interstizi di vite normali, osserva attenta ogni ondulazione, ogni avvenimento, ogni turbamento.

C’è molta autobiografia in questi racconti: numerose sono le vedove – come lo è lei stessa del grande scrittore Raymond Carver. Può quindi dirci tutta la solitudine di donne perse nella quotidianità, ma che comunque trovano in essa forza e poesia. È sempre la stessa storia che ricomincia, con sfumature che si arricchiscono a ogni vicenda. Abitudini in cui irrompe qualcosa, piccoli contrattempi che comunque sono bene accolti, perché distolgono da più pericolosi disagi interiori, come se le noie quotidiane potessero diventare esorcismi oppure offerte all’imperscrutabile fato, che si sazierà di esse senza accanirsi oltre.

Un elemento fondante del libro è l’orgogliosa rivendicazione da parte dell’autrice del suo sangue misto con quello dei nativi pellerossa, che la induce a narrare episodi di storia dell’America in modi diversi, come una storyteller girovaga della tradizione americana popolare. Questa parentela con gli avi nativi è più desiderata di quanto lo sia in realtà, è un’assimilazione spirituale ai grandi miti della natura. Nelle sue storie gli animali diventano quasi dei totem: i colibrì, uccelli che ricorrono spesso nei racconti, mitizzati in primis per la loro propensione a creare ibridi con altre specie, ma anche per l’abitudine di stare rannicchiati tra loro quando dormono; l’orso, con cui il protagonista Tivari del racconto, “Sognare gli orsi”, ha un legame profondo e misterioso, che ritorna perfino nel nome della madre che si chiama Ursa.

Solitudine e natura, uomini che si fanno giustizia da soli, nel solco dell’individualismo americano, come il boscaiolo che per vendicarsi del padrone che non lo paga gli sabota il lavoro. Ma anche ostilità verso le armi che sono una costante della società, che l’autrice rifiuta di comprare nel divertente una “Pistola tutta per me”, mostrando la sua incapacità di possedere un’arma, definita «cosa maligna». Similitudini con l’unione mistica con la natura descritta in Walden, con i personaggi che sembrano foggiati come dei novelli Thoreau, che si rivolgono più alle forze della natura che ai loro simili per avere conforto e aiuto.

Commovente il racconto “La donna che pregava”, in cui ancora una volta nell’interiorità e nella comunione spirituale con le altrui sofferenze si supera la propria pena. Estraneità e magia in “La donna lasciata intatta dal fuoco”, e critica ai poeti di professione, definiti megalomani della parola, nel “Barone della poesia”. La scrittura è il narrare in genere, come un vagare, o quasi una danza, in “Pasticcio di cervo”. La poetica serata con l’amico cieco sotto le stelle in “La pioggia spegne il fuoco dell’accampamento”, o il satori, quasi un omaggio per Kerouac, provato dalla protagonista Ruby di “Il Budda visto di sfuggita” – forse il racconto più compiuto della raccolta – dopo un alterco casuale in un supermercato.

Su tutto il Grande Spirito dei nativi, che aleggia ancora sull’America, animando una natura descritta con un’empatia verso i luoghi piena di intima meraviglia. E lontano, sullo sfondo, l’oceano che con il suo ritmo eterno sembra dare consigli per le decisioni umane.


(Tessa Gallagher, Al saloon della donna gufo, a cura di Riccardo Duranti, Edizioni Empiria, 2008, pp. 254, euro 16)

“Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia

Prendi I soliti ignoti, dai loro una laurea in una materia scientifica o umanistica che non garantisce uno sbocco nel mondo del lavoro, ispirati a Breaking Bad e a tutto il cinema di Guy Ritchie, dimentica il concetto che a delitto corrisponde castigo, di qualsiasi forma, e ottieni Smetto quando voglio, opera prima di Sydney Sibilia che parla d’Italia cercando di fare cinema all’americana.

Pietro ha 37 anni e un posto come ricercatore di neurobiologia appresso a un professore incompetente e ignorante immerso nel mondo universitario per agganci politici molto più che per meriti. Non basta fare tutto per lui per ottenere l’agognato contratto a tempo indeterminato, perché quando finalmente esce la graduatoria per il posto fisso, Pietro si trova ancora una volta superato da qualcuno con meno meriti ma più conoscenze e deve dire addio al suo assegno di ricerca e al suo lavoro. Come fare per mantenere se stesso e la donna con cui vive da sette anni diventa un problema serio. Per risolverlo l’ispirazione arriva da un debosciato mantenuto a cui Pietro dà lezioni di recupero il pomeriggio: sfruttare la conoscenza scientifica accumulata sui libri per sintetizzare una nuova droga, legale perché basata su una molecola non ancora registrata dal ministero della salute, e impadronirsi del mercato degli stupefacenti. Con una banda formata da altri fuoriusciti accademici disperati, dall’antropologo al chimico, Pietro irrompe nel mondo delle smart drugs alla ricerca di quella dignità e quella sicurezza che il sistema non è in grado di dargli.

Il lavoro nobilita l’uomo, si dice. L’assenza di lavoro, soprattutto quando si è titolati e costretti ad accontentarsi di tutt’altro per vivere, degrada, mortifica, umilia. È degradante alla soglia dei quarant’anni, con lauree e dottorati conseguiti, non poter pianificare il futuro. È mortificante dover lavorare in nero in pompe di benzina o come lavapiatti per degli extracomunitari. È umiliante dover mentire sui propri titoli per elemosinare un posto allo sfascio. Se la società non è in grado di offrire quello che spetta a chi ne ha diritto allora è giusto trovare un modo di aggirare la legge, senza preoccuparsi delle conseguenze sugli altri.

Questo in sintesi il messaggio di Smetto quando voglio. Si può discutere sulla moralità dell’azione di riscossa, ed è lecito farlo. Perché Pietro e la banda dei ricercatori restano impuniti e vittime anche quando mettono su un piccolo impero della pasticca e diventano criminali. Perdono un po’ il controllo, tra tatuaggi e prostitute, questo sì, ma restano buoni e onesti, comunque autorizzati allo sbando per aver sofferto ingiustamente per tanto tempo. È un concetto difficile da accettare che marchia il limite del primo tentativo di Sibilia, anche sceneggiatore con Andrea Garello e Valerio Attanasio. Cercando di fare il cinema criminale di Guy Ritchie, dove i protagonisti sono delinquenti totali, o a sintetizzare, termine lecito, in meno di due ore cinque stagioni di evoluzioni psicologiche dello spacciatore per necessità Walter White di Breaking Bad, Smetto quando voglio tralascia, accelera e semplifica l’originale spunto di partenza senza trovare la direzione conclusiva verso cui definirsi, bruciandosi in un finale irrisolto, che non è commedia nera, che non è denuncia sociale, che non è condanna morale.

Rimane la critica al mondo del lavoro ormai paralizzato, al sistema universitario incapace di garantire il merito, la scelta coraggiosa e riuscita di girare più in stile Hollywood che Cinecittà (macchine leggere, montaggio veloce, fotografia satura) senza perdere l’identità nazionale e un cast che deve molto alla traccia di Boris che porta in sé e funziona in tutti i ruoli maschili, meno nella eccessivamente rigida Solarino, con Edoardo Leo che a tratti invade troppo e Libero De Rienzo che, sarà pure per il nome condiviso, replica il pigro cinismo del Bart di Santa Maradona. Cameo un po’ paraculo dei gruppo di The Pills.

(Smetto quando voglio, di Sydney Sibilia, 2014, commedia, 100’)

“Diecimila alberi” di Marco Pisciottani

L’incursione nell’universo degli adolescenti, da una angolazione squisitamente narrativa, di solito si fa strada attraverso stereotipi ricorrenti, il più delle volte compendiabili in due schieramenti antitetici: da una parte se ne enfatizzano le sregolatezze, dall’altra la chiusura. La verità è nel mezzo, più complessa, celata tra le sfumature.

«Quale migliore test di quello dell’albero per tracciare la struttura psichica di una persona?». Il test richiamato nel romanzo d’esordio di Marco Pisciottani (Bordeaux edizioni, 2013), è il Baum Test, «ideato dallo psicologo tedesco Karl Koch nel 1949. Ispirato da Emil Jucker. Test reattivo proiettivo utilizzato per ottenere conoscenza psicologica globale del soggetto», partendo dal disegno di un albero.

All’analisi degli indici grafologici di diecimila alberi, il quarantenne Silvano Magnini, fondatore di una nuova e misteriosa dottrina (la «Deondrologia Multidisciplinare»), affida la speranza di dimostrarne la scientificità accademica fornendo il suo contributo «a una nuova comprensione della psicologia dell’adolescenza». L’adolescenza, trattata alla stregua di una malattia esantematica, «questo stadio della psiche umana nella quale sono leggermente più visibili gli archetipi, strutture profonde e invisibili dell’inconscio che normalmente solo nei pazzi mostrano pienamente la loro evidenza terribile».

La struttura del testo, diviso in tre parti, rimanda alla fisiologia di un albero – fronde, tronco e radici –, intessendo con prosa mirabile un’immersione struggente nell’ondata di emozioni che accompagnano la crescita, tra fantasmi e paure, gap generazionali, disordine cronico, senso di solitudine, di smarrimento, rabbia. «Quel disegno gli arrivò come un grido di ribellione, testimonianza di una guerra tra una giovane anima e il caos. Silvano era terrorizzato dalla scoperta che inseguiva da anni. Teneva il caos tra le mani: ma era pronto ad affrontarlo?»

Un percorso a ostacoli quello dipanato, autodistruttivo, fino al riscatto conclusivo.

Non mancano le citazioni colte, da Erich Neumann a C. G. Jung, passando per Anatole France, Giuseppe Ungaretti e perfino Muriel Barbery. La Barbery e la sua Paloma Josse (la dodicenne geniale e brillante protagonista del romanzo L’eleganza del riccio) «hanno l’onore di essere citate qui», scriverà in una pagina del suo diario Emanuele, che come Paloma, al cospetto di un albero prova «un misto strano né rimorso né rimpianto, solo nostalgia di un’assenza».

(Marco Pisciottani, Diecimila alberi, Bordeaux Edizioni, 2013, pp. 412, euro 16)

“I Borgia” di Neil Jordan

La storia è un grande contenitore a cui attingere per trovare ispirazione  o riciclare eventi: per farlo bene però c'è bisogno di un regista fantasioso ma prudente, che ci pensi due volte prima di lanciarsi in voli pindarici (Da Vinci's Demons vi dice niente?). Neil Jordan la fantasia ce l'aveva quando ha deciso di realizzare la sua versione de I Borgia, serie di produzione canadese trasmessa sul canale statunitense Showtime, ma come in ogni prodotto destinato al mercato nordamericano resistere alla tentazione pericolosa di allungare il brodo oltre i limiti consentiti è stato difficile.

Il risultato? Una serie tv gradevole, che appassiona fino a un certo punto e che inevitabilmente si scontra con il calo di ascolti che costringono I Borgia a chiudere con la terza stagione. Conclusione che non ha accontentato i fan, costretti a vedere la serie mutilata, dal momento che l'idea di Jordan – ovvero girare una puntata di due ore per scrivere la parola fine – non è stata accolta dalla rete.

E I Borgia si è conclusa così, lasciando spazio, per la gioia degli appassionati di drammi storici, alla versione europea, anche essa in onda dal 2011: regista diverso, attori diversi, stessi personaggi, nuovo successo.  La versione canadese,  comunque, possiede tutti gli ingredienti per piacere al pubblico: per chi non fosse storicamente informato, i Borgia vissero nel Quattrocento e sono tra le famiglie più controverse e amate dalla letteratura. Attorno ai suoi componenti si sono concentrati letterati dell'epoca ma anche alcuni più recenti, tutti desiderosi di portare alla luce gli intrighi politici e gli amori incestuosi di cui i membri della famiglia sono stati ripetutamente protagonisti.

A dare il volto a Rodrigo Borgia c'è Jeremy Irons, famoso attore britannico, ed è sicuramente la sua interpretazione a tratti sopra le righe a caratterizzare in maniera funzionale alla storia un personaggio complesso come quello che viene ricordato col nome di papa Alessandro VI: salito al soglio pontificio con la corruzione e grazie all'appoggio del figlio Cesare, è lui il protagonista assoluto, perno attorno al quale ruotano gli altri personaggi e al contempo una panoramica politica e culturale dell'epoca, dove alleanze e congiure sono la prassi per assicurarsi il potere.

Le pedine che il Papa muove per ottenere la benevolenza dei suoi potenziali nemici sono i figli: Cesare, brillante stratega e politico che per compiacere il padre abbraccia controvoglia il cardinalato, Juan, a capo dell’esercito ma inetto rispetto al fratello e Lucrezia, che è stata dipinta dalla storia come una donna pericolosa e infedele, innamorata del fratello Cesare con il quale avrebbe consumato in segreto tanti anni di amore incestuoso.

Tutta l’astuzia, la cattiveria  e l’egoismo di questa controversa famiglia sono stati raccontati senza filtri, senza risparmiare sesso e violenza e senza nascondere la minima nefandezza più o meno attestata che la storia ci ha tramandato. La cancellazione della serie è stata decretata unicamente dall’audience, spauracchio con il quale devono confrontarsi un po’ tutte le serie televisive almeno una volta nella loro vita. I Borgia sono crollati, ma l’interesse per le serie storiche e in particolar modo per le vicende dei protagonisti è rimasto alto, motivo per cui ci ha pensato la Francia a raccogliere l’eredità degli sfortunati colleghi e a trarne profitto. Dimostrazione del fatto che la storia, un po’ come succedeva a scuola, piace fino a che non si rimane impantanati su una guerra o su una questione di potere e pagina dopo pagina ci si dimentica come ci si è arrivati.

 

“Il ponte” di Iain Banks

The bridge il titolo originale, Iain Banks il suo autore. Il ponte (Meridiano Zero, 2013) è destinato a dividere i suoi lettori. Scritto nel 1986, debutta nel panorama italiano con netto ritardo, ma sicuramente non per i tempi.

Uno spaventoso incidente sul Forth Railway Bridge di Edimburgo, un uomo giace sull’asfalto. Inizia così la vicenda di John Orr, nome fittizio del nostro protagonista. Un corpo che porta con sé i segni dell’incidente e i suoi dolori, un’amnesia che gli ha portato via i ricordi donandogli un mondo allucinante in cui vivere: il ponte. Una dimensione racchiusa in un’enorme costruzione di ferro rosso come il sangue, un collegamento tra rive sconosciute.

Nessuna via di accesso o di uscita, una folla immensa di persone di ogni razza, origine e lingua. Una babele moderna governata da un’autorità non definita, priva di politica, religioni e morale di sorta. Una terra in cui le concezioni di tempo e spazio sono state annullate, nessuna storia. Questo è il nuovo mondo del signor Orr, ripescato dalle fredde acque del fiume, ribatezzato in attesa di ritrovare la sua memoria.

Attraverso i racconti e i dialoghi di John con lo strano ed enigmatico dottor Joyce,«il medico dei sogni»,il lettore viene catapultato in un terreno in cui nulla è più certo, realtà e sogno si mischiano smarrendo il confine. Il romanzo è la sua storia, ma anche quella di Alex e Andrea, del loro amore vissuto sotto le nubi della guerra fredda e del governo Tatcher; è la discesa verso gli inferi di un Barbaro capace di assecondare i suoi istinti più infimi e del suo lare; è la storia di una realtà e del suo parallelo. Un continuo diversificarsi di punti di vista, prospettive. Storie e vicende frammentarie, apparentemente scollegate fra loro ma che rivelano poi il loro intimo legarsi sul finire della storia.

Molti interrogativi vengono posti dal nostro protagonista, poche le risposte, nulle le certezze. Affidarsi alla sicurezza del ponte accettandone i misteri, oppure indagare, scavare e ritrovare i ricordi di una vita persa nelle acque del fiume?

Una nube indistinta e incerta accompagna il lettore fin dalle prime pagine, ne viene avvolto e confuso, vive la stessa esistenza e gli stessi crucci del protagonista.

Un continuo gioco di bolle di sapone, di verità negate e nascoste costituiscono l’iniziazione (alla vita, quella vera?) del nostro protagonista, ed esperienze estreme vissute o presunte conducono alla fine, alla conclusione. Un riaversi che solo un lettore capace di trovare il filo di Arianna e in grado di aggrapparsi a esso con tutte le sue forze e attenzione, potrà capire.

Alberi scheletrici simili a sentinelle deformi e avvizzite, fitta nebbia e deboli fiammelle come fari di carrozza: questa l’alternativa per il lettore inesperto.

(Iain Banks, Il ponte, trad. Alessandra Di Luzio, Meridiano Zero, 2013, pp. 285, euro 16)

Gogol & Company: un presidio culturale tra i Navigli e il Giambellino

«Gogol & Company è un luogo […] per persone di tutte le età, dove è possibile soddisfare la propria fame di sapere e la propria curiosità, dove regalarsi del tempo di qualità senza obbligatoriamente spendere dei soldi, da noi è possibile leggere uno dei nostri libri o uno portato da te seduti comodi comodi su una delle nostre vecchie poltrone di pelle. Nessuno verrà a disturbarti o a farti fretta».

Un presidio. È questa la prima cosa che ti viene in mente quando si arrivi da Gogol & Company, in via Savona 101, a Milano: posizionato tra lo storico quartiere Giambellino, con le sue case popolari e le sue botteghe, e la zona dei Navigli, più ricca e vivace, questo locale trasmette da subito l’idea di un luogo dove fermarsi per un po’ e riposare al sicuro dal turbinio della città.

«Venuta alla luce il giorno del solstizio d’estate dopo quasi 10 anni di incubazione», la libreria caffè Gogol & Company è un presidio sociale e culturale, un punto di ritrovo nel limbo cittadino, un elemento cardinale della zona: ciò che noti subito entrando sono le lavagnette nere appese qua e là tra gli scaffali, che indicano, precisano, per lo più suggeriscono e orientano. Dai libri «più venduti nei primi 3 anni» di attività, alle presentazioni del mese, dai nomi delle case editrici indipendenti che minimo spazio trovano nelle grandi catene, alle citazioni di quelli che sono evidentemente i “numi tutelari” della libreria – H.D. Thoreau su tutti.

I libri sono collocati nello spazio con cura. Quella stessa cura con cui evidentemente sono stati selezionati al momento dell’ordine: le ultime novità, come anche i grandi classici o le pubblicazioni delle piccole case editrice indipendenti sembrano scelte con la stessa attenzione con cui si sceglie un frutto al mercato e l’offerta culturale che ne deriva riempie gli occhi, come solo la propria libreria di casa sa fare. C’è insomma quella voglia di mostrare la bellezza infinita dei libri.

Ma Gogol & Company è anche un luogo «di continua ricerca di condivisione» e per questo si propone come galleria e spazio culturale aperto: mostre fotografiche e presentazioni sono tra gli eventi che si svolgono con maggior frequenza, così come le rassegne, quali, per esempio, “Cosa leggiamo quando leggiamo racconti”, dedicata all’arte del racconto, con ospiti importanti che leggono e spiegano i grandi maestri come Carver e Kafka.

Alla variegata offerta culturale corrisponde un’altrettanto ricercata offerta culinaria. Sempre più raramente caffè e librerie si rivelano complementari, troppo spesso i primi sovrastano le seconde rivelando i reali intenti dei gestori. Da Gogol & Company trovate invece il giusto equilibrio: dalle 9 alle 22, tutti i giorni escluso il lunedì, potete mangiare cibi freschi e genuini, biologicamente etici, da accompagnare a una scelta consapevole e ragionata di vini e di bevande, anche in questo caso ben indicate dalle comode lavagnette segnaletiche.

Perché in fondo, come diceva Molière: «Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico».

Libreria caffè Gogol & Company
Via Savona, 101
Milano
Qui il sito della libreria e ulteriori informazioni.

“Pastorale americana” di Philip Roth

Pastorale americana è il romanzo con cui Philip Roth ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998.

Protagonista è Seymour Levov detto “lo Svedese”: alto, biondo, atletico, da giovane è l’eroe della comunità ebraica di Newark, che vede nei suoi successi sportivi un simbolo di speranza per la vicina fine della Seconda guerra mondiale. Lo Svedese non è solo un modello estetico, ma anche etico: è conscio del proprio ruolo, rispettoso, responsabile, ubbidiente. Incarna pienamente l’american dream, quello di una società borghese avanzata e progressista. Da adulto gestisce l’azienda fondata dal padre, sposa Miss New Jersey e insieme hanno una figlia, Merry, una bambina sveglia che ha il solo difetto di essere balbuziente. Questa è l’unica imperfezione nella vita perfetta dello Svedese, nel mondo ideale fatto di ordine e armonia che ha pazientemente costruito sulle colline del New Jersey.

Ma il regno incantato viene mandato in pezzi dalla bomba che Merry, all’età di sedici anni, fa esplodere nel piccolo paese dove vivono i Levov come forma estrema di protesta contro la guerra in Vietnam. Da quel momento inizia l’inesorabile caduta del protagonista, tormentato dal senso di colpa, incapace di darsi una spiegazione e soprattutto di comprendere dove possa aver sbagliato, lui, il padre ragionevole, sempre alla ricerca del dialogo con la figlia; nonostante i suoi sforzi, la crepa che si apre nella sfera famigliare è tanto inconcepibile quanto insanabile.

La storia dei Levov è raccolta da Nathan Zuckerman (il noto alter ego di Philip Roth), scrittore di successo ed ex compagno di scuola del fratello di Seymour, il quale rievoca la propria infanzia passata nel “culto” dello Svedese e, sentendone ancora il fascino, si accinge a ripercorrerne la parabola.

Con un pathos tragico venato di nostalgia e un’implacabile, a tratti impietosa, lucidità, Roth narra lo sconvolgimento della pastorale americana, il fallimento dell’utopia borghese fondata sulla famiglia, il lavoro, il rispetto delle regole («Cosa diavolo c’è di sbagliato nel fare le cose giuste?» chiede Seymour in un lacerante scontro con il fratello). L’irruzione della storia nella tranquilla provincia americana, l’imperialismo e il terrorismo, il crollo di un mondo che si credeva solido, coerente, innocente. L’illusione ‒ così umana ‒ di avere tutto (o quasi) sotto controllo, l’ingenuità di poter far prendere alla vita la direzione giusta, ma senza vanagloria, bensì con responsabilità e senso del dovere. «Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti». Roth compie un’appassionata analisi del conflitto storico tra generazioni, ideologie, modi di vivere, della violenza strisciante nella società americana e dell’incomprensione insita in tutti i rapporti umani.

La grandezza del romanzo sta nella magistrale orchestrazione narrativa (una delle doti innegabili di Roth), nella complessità dei punti di vista e nello spirito tragico che lo permea, dove innocenza e colpevolezza si fondono e le contraddizioni non si risolvono, anzi, esplodono con tutta l’irrazionalità che lo Svedese ha sempre respinto: «Nulla di tutto questo è vero. Cause, risposte chiare, a chi dare la colpa. Ma non ci sono ragioni. Merry è costretta a essere ciò che è. Come tutti noi. Le ragioni si trovano nei libri». Ed è proprio in libri così che troviamo le ragioni per comprendere l’intima enormità di ogni esistenza e amare la letteratura che ce la rivela.
(Philip Roth, Pastorale americana, trad. it. di Vincenzo Mantovani, Einaudi, 1998, pp. 458, euro 13,50)

Acciaio


Oltre la pioggia sul porto di Taranto, navi ancorate sul Mediterraneo, oltre le nostre risate amare.
«Quante volte l’hai letto Montale?»
Un vortice d’odio, opulenza, superbia ha battuto il suo ventre sulla gru meccanica, quella più alta, sulle colline di acqua cadute sulla spiaggia.
«La Puglia è meravigliosa d’estate».
L’ecosistema infranto, le percentuali sul cancro date a casaccio.
«È morto un altro operaio. Le ali, hanno detto, non portava le ali!»
Mangiano insieme fuori i cancelli tanti operai, la gente di Taranto è indecisa tra la bella morte e la brutta vita, il fumo cola dalle bocche più alte dell’acciaieria, le bandiere rosso salmone sventolano taciturne, i carabinieri tristi, fermi, pieni di lividi, sul confine tracciato dalla miseria, indecisi se picchiare o ritirarsi per cena.
Lo Stato prende tempo, firma, resiste, indietreggia, accusa gli altri, i palati fini degli anni trascorsi, i ricorsi della magistratura, la chiusura forzata, la riapertura dinamica, il conflitto tra i poteri.
«Francesco è morto, aveva trent’anni, aveva tanti diritti e pochi poteri».
Ieri però hanno proferito parola gli addetti ai lavori, tutti sui posti di comando, negli uffici, sui tetti, con dinanzi i nuovi progetti: riniziamo a produrre, nuove norme, nuovi impegni.
«Salviamo anche gli stabilimenti di Genova…»
Una madre intanto non parla ma scrive dei figli ammalati che non potrà mai vedere diventare grandi.
Lavoro o salute? Lo Stato sociale demolito dagli economisti a vita, dagli esattori delle tasse, in televisione gridano allo scandalo, lo sciacallo con la cravatta blu non aderisce allo sciopero, la verità esaurisce il suo tempo, avanti il prossimo. Tra Roma e il mar Ionio c’è un cavo del telefono rotto. «Pronto? Dove scappare?»
Montale era un poeta ma piove, piove ancora in italiano.
L’acciaio è un tessuto più forte, non scalda come la lana, ma tiene lontana la fragilità, la disoccupazione, la fame, l’appiattimento sociale di un migliaio di persone, con le mani sporche e le ginocchia stanche. «Lei è mai stato davanti una catena di montaggio? Dico, soltanto davanti, ce l’ha mai avuto il coraggio?» Il cervello offuscato del Ministero e dei giornalisti, andremo tutti in pensione come si va in paradiso, senza ascensore, con la fatica, magari con un tumore al polmone destro, il mutuo pagato a metà e l’ilarità dei nuovi presentatori televisivi. Le pubblicità: «Papà me lo compri?»
I vecchi marinai che dimenticano tutti i porti tranne il primo da cui son partiti. Abbiamo due, tre figli anche noi, qui a Taranto e non sono d’acciaio, ma hanno un diario e la sera scrivono quattro righe tutte in corsivo: «Sulla mia vita, decido io»
Il progresso, le concessioni valide per il duemilatredici, i giudici con cui solidarizzare, perché c’è un verdetto oltre il mare, oltre i buoni costumi, oltre i fumi da cui ricavare la tredicesima.
«Quest’anno farò la cresima, padre Ignazio dice che siamo cresciute e forse siamo già donne. E così potremmo guidare, votare, vivere da sole, fare la comunione e confessare i peccati di carne. Sposarsi e piangere davanti a un letto d’ospedale o al cantiere davanti al cadavere precipitato del nostro amore. Oppure viaggiare, andarsene da Taranto e vivere in un altro posto dove le leggi, quelle sì, che sono d’acciaio…»
Il dolore è un caffè con l’acqua sporca, sotto l’albero c’è una classe politica corrotta, Francesco non aveva la scorta, ha battuto la testa contro il vortice dell’irresponsabilità, della moderatezza, della pacatezza, del risolveremo tutto senza spargimento di sangue.
Langue il tuo ricordo, un morto ancora sulle coscienze dei governati, dei mestieranti della cosa pubblica, dei servi del più magnanimo dei liberali.
Rileggo Montale ogni volta che sali le scale, non è facile né pregare né contestare, vorrei soltanto farti indossare le ali e un’armatura d’acciaio contro tutte le smorfie malate che girano troppo su Taranto.


«Francesco» gridano forte gli operai, ma ormai non li può sentire, è lì nel vuoto che precipita, è lì che scende forte risalendo piano tutti i suoi pensieri più belli, quelli che ti vengono a cercare quando te ne vai via per sempre, ma ormai…
«Francesco» non serve a niente sparare parole, quel nome non è più il suo, è lì nel nulla in cui ti chiamano solo gli angeli che volano senza l’elmetto e le lacrime che scendono senza le corde.
Francesco sta giù sull’asfalto, immobile, con la barba non fatta, con la testa schiacciata nel cemento, dentro una pozzanghera di sangue come se avesse piovuto dolore. Con i suoi occhi chiari che piacevano tanto alla moglie, quegli occhi chiari con cui è nata la sua ultima figlia, Beatrice, un mese fa, quella bambina che toccherà suo padre poggiando le dita su una vecchia fotografia, quella bambina che crescerà senza imparare a chiamare: «Papà».
Ebbene sì! Francesco è scivolato dal ponteggio più alto di Taranto, c’era anche la televisione a riprendere il fatto, i giornalisti di oggi non sanno però che il verbo riprendere significa anche correggere e non filmare.
Dicono che non aveva il copricapo protettivo, le scarpe antinfortunistiche: «È salito lassù, senza la corda stretta in vita, senza la cintura sui fianchi».
La vita però lui se la stringeva sempre a sé, senza una corda, ogni sera a cena quando guardava, con le attenzioni e i sogni, con le preoccupazioni e i sacrifici, la sua famiglia. Se la guardava come un pittore guarda i suoi pennelli, come un mago guarda dentro il suo cilindro, come un muratore fissa le sue mani spaccate.
Una famiglia come tante altre, dove lei è a casa, i figli a scuola e il papà a lavorare e a perdere sempre al Superenalotto. «Una famiglia dove ci si sveglia alle cinque e cinque, si mangia qualcosa, si ride appena, si taglia il pane, si vede una telenovela… e alle tre e un quarto del pomeriggio, di un fottuto venerdì, vieni a sapere che tuo marito è morto, tuo marito che non voleva lavorare a quelle condizioni però doveva lavorare».
Francesco non c’è più. Dicono che era una brava persona, che non parlava poi molto, preferiva accarezzarsi la barba, preferiva pensare con quelle mani sporche di grasso e d’amore, sporcate da quell’Italia inutile che prende appalti illegali costringendoti a lavorare.
«Me l’aspettavo», dice ancora sua moglie, ma questo non l’aiuta per niente a non piangere, disperarsi a volte è come spegnersi. Morti bianche, bianche come un foglio su cui non riesci a scrivere nulla, bianche come il volto sconosciuto di un assassino.

“Masticando umani” di Santiago Nazarian

Santiago Nazarian, classe 1977, è stato a più riprese e da più autorevoli voci definito uno dei più promettenti scrittori brasiliani. I suoi sette romanzi infatti gli sono valsi numerosi e prestigiosi premi letterari e hanno permesso alla sua scrittura di essere fruita anche fuori dal suo paese d’origine. Masticando umani (La Linea, 2013), quarto romanzo dell’autore, è il primo libro di Nazarian tradotto in Italia.

Il romanzo racconta le vicende di un coccodrillo che dopo una felice infanzia vissuta in natura, decide di trasferirsi in città; spinto dalla tipica curiosità giovanile e da un certo grado di imprudenza, il feroce rettile approda nella rete fognaria di una città metropolitana. Qui l’animale è costretto a confrontarsi con le miserie della vita nei bassifondi, a interagire con i disgraziati abitanti di quell’ambiente insalubre e a calibrare ogni suo atteggiamento alternando il suo istinto di predatore a una certa disposizione al compromesso.

Dopo le avventure del sottosuolo, il coccodrillo subisce un ulteriore, traumatico trasferimento: viene infatti reclutato da una stramba università come docente di Razionalità; l’ambiente accademico però si rivela ancora più insopportabile della vita nella fogna, a causa delle restrizioni etiche a cui l’istinto animale deve necessariamente piegarsi. Abbandonata anche questa difficile situazione, il rettile decide di ritirarsi, di nascondersi in un motel e di coltivare la sua più alta aspirazione: diventare uno scrittore di successo.

Il romanzo infatti è scritto in prima persona, è il protagonista stesso che racconta le sue vicende e lo fa cosciente della sua stravagante abilità di potersi esprimere attraverso il linguaggio degli esseri umani. La sua duplice capacità di comprendere l’umanità quanto il mondo animale, permette al coccodrillo di assumere una forte posizione critica sull’uno e sull’altro; ovviamente l’espediente si traduce in un’attenta analisi delle dinamiche della società moderna. La fogna è il simbolo della vita ai margini, della povertà materiale e di spirito, del vizio, della paura, degli abusi e delle problematiche sociali. L’università è invece il simbolo della vita rispettabile, che nasconde però troppe ipocrisie: quella intellettuale, quella della ricchezza, della generosità. Un ambiente istituzionale a rappresentare una vita civile che, tanto quanto quella primitiva, impone limiti e restrizioni, difficoltà e poche soddisfazioni da conquistare con sudore.

L’espediente narrativo di un animale parlante e che scrive le sue memorie condiziona la scorrevolezza linguistica, spesso compromettendo l’attenzione durante la lettura; lo stesso espediente inoltre costringe l’autore a una costruzione farsesca delle situazioni e di tutto l’impianto narrativo del romanzo. Ciò che ne deriva è però assolutamente coerente con le sottili critiche a una società ambigua e con un’enigmatica visione dei sentimenti, delle passioni e degli impulsi umani.


(Santiago Nazarian, Masticando umani, trad. di Angela Masotti, La Linea, 2013, pp. 199, euro 15)

“Canzoni contro la natura” degli Zen Circus

Accompagnato da un piccolo tour in giro per le librerie, il nuovo disco Canzoni contro la natura degli Zen Circus arriva in un momento particolare per i membri del circo zen. Tutti e tre negli ultimi tempi si sono dedicati ai loro progetti individuali con discreto successo e solo pochi mesi separano l’uscita solista di Appino – Il testamento – da questo nuovo, pluriannunciato disco.

L’unica natura cui vanno contro le canzoni dell’album è quella umana: si potrebbe dire che il disco declini l’umanità stessa attraverso la natura. Lo si capisce arrivando al cuore dell’album, al pezzo “Albero di tiglio”: non è più l’islandese leopardiano che va fino all’Africa equatoriale per incontrare la grande madre natura, è un uomo qualunque che ascolta un semplice tiglio che è ferito dall’umanità, e che però è Dio al tempo stesso – ironia, sarcasmo, ma anche qui compare l’insensatezza dell’antropocentrismo. Il tema si ripete nella title track, un racconto apocalittico di ribellione della natura contro l’umanità. Un piccolo, ironico riassunto della tematica dell’album si può trovare nel verso dell’ultimo pezzo, la ballata da intorno al fuoco “Sestri Levante”: «La natura ha leggi marziali, lo spritz Campari invece no».

Strumentalmente i tre del circo zen hanno fatto fruttare le loro esperienze soliste: pezzi accattivanti come il singolo “Viva”, le atmosfere clownesche di “Vai vai vai!” e “Albero di tiglio” con la sua lunga e oscura chiusa strumentale si discostano dalla semplicistica etichetta di combat-folk e cercano una dimensione nuova e più aperta.

È qui però che tutto il progetto un po’ si sfalda. Il tentativo di non abbandonare o comunque mettere in secondo piano l’attitudine punk e combattiva innata negli Zen Circus si affianca a ciò che la maturazione artistica comporta: le due tendenze confliggono per definizione e lasciano l’ascoltatore con pezzi trascurabilissimi come “Mi son ritrovato vivo” o altri ancora che avrebbero potuto salvarsi e invece si risolvono in una mediocrità da storcere il naso, come “Dalì” o “No way”.

Un’altra tendenza con cui gli Zen Circus non hanno fatto bene i conti è quella del cantautorato. Il segno di Rino Gaetano e Fabrizio De Andrè si sente in Canzoni contro la natura, ma lo stretto filo da equilibristi dell’omaggio non regge il peso di tre persone: pezzi come la metonimica storia di “L’anarchico e il generale” (ci si può praticamente cantare “Il pescatore” di De Andrè sopra) o il finale di “Viva” risultano di un già sentito stridente, lontano dalla delicatezza necessaria a un omaggio come si deve – che, peraltro, Appino ha già portato nel Testamento con “La festa della liberazione”.

Insomma, è un’umanità che ha stufato, lo cantano anche nel singolo “Viva” che: «Siamo diventati brutti».

I tre menestrelli degli Zen Circus hanno provato a raccontarcela; non credo sia un compito semplice, soprattutto quando si tenta di utilizzare una forma così chiusa come quella della canzone o dell’album musicale. In generale resta la sensazione di un’opera poco riuscita, discreta più che mediocre, di un gruppo che ha intrapreso un chiaro percorso di maturazione che ancora non è finito. Non li biasimo per questo tentativo, anzi. Aspetto il prossimo disco.


(The Zen Circus, Canzoni contro la natura, La Tempesta, 2014)