Il Cogitometro


Una di quelle sere che fa freddo e il parabrezza si appanna subito. Per riuscire a vedere qualcosa devi spalmare diligentemente con la mano e creare una sorta di oblò da cui scrutare la strada in attesa che l’aria entri in circolo.
Una di quelle sere che neanche la radio ti aiuta. Smanetti nervosamente sullo stereo cercando una frequenza che trasmetta il pezzo adatto a placare il turbamento interiore. Allungando le dita dell’altra mano setacci come un irriducibile segugio tutto l’Fm. Piuttosto che abbandonare la ricerca, lasci il volante e manovri delicatamente con un abile gioco di ginocchia.
Una di quelle sere in cui una paletta e un giubbotto catarifrangente squarciano il buio attorno alla carreggiata e impongono lo stop al posto di blocco. Le mani, prima impegnate in tutt’altro, tornano istintivamente nella consueta posizione 10-10 sullo sterzo. Mentre la macchina si arresta un groppo di saliva scende giù dalla bocca creando all’altezza delle corde vocali una contrazione fastidiosa ma utile a riportare la mente sulla stringente realtà. Davanti ai tutori dell’ordine è sempre importante mostrarsi ben attenti alla guida e, soprattutto, pensare positivo. D’altronde, si sa, colorare i pensieri d’arcobaleno quando ci si trova di fronte a un posto di blocco è indispensabile per evitare che i controlli evidenzino un tasso di negatività superiore a quello previsto dalla Legge.
In un passato non così lontano, infatti, numerose ricerche, acclarate da rinomati studiosi e edotti scienziati, avevano mostrato come il malumore fosse divenuto la fondamentale causa di incidenti stradali nel nostro Paese. Il disagio e il malcontento, ormai diffusi in modo capillare, ci avevano resi scontrosi, aggressivi e costantemente arrabbiati. L’irreversibile crisi economica, i tassi di disoccupazione crescenti, l’instabilità politica e il monopolio juventino sul campionato di serie A avevano generato un malessere che non sfociava più nelle piazze, nei bar, negli stadi o dal barbiere, ma direttamente nel traffico.
Il pensiero frenetico e ossessivo incessantemente rivolto ai mali del Paese turbava la guida e generava una catastrofica serie di incidenti. La rabbia impediva agli automobilisti di stare fermi: semafori rossi, code, lavori in corso, ogni rallentamento era un pretesto per arrivare allo scontro.
Migliorare la viabilità? Impossibile. Incentivare l’utilizzo dei mezzi pubblici? Fantascientifico.
Per questo lo Stato, non essendo in grado di educare al pensiero positivo, decise direttamente di imporlo. Era facile, bastava seguire la stessa procedura seguita con le cinture di sicurezza: una volta reso obbligatorio il loro utilizzo tutti iniziarono ad indossarle e pazienza se nessuno comprese a fondo la loro utilità.
Anzitutto si stabilì l’Imu, Indice Malessere Unico (nome ironicamente preso da una vecchia, odiata, tassa), che vietava di mettersi al volante con un tasso d’ira superiore al 40%. Una volta fermato, il conducente veniva accompagnato all’interno di un furgoncino dove un assistente della pattuglia gli avrebbe applicato uno strumento chiamato Cogitometro, una sorta di cardiofrequenzimetro che, cinto attorno al torace, avrebbe misurato in base ai batti cardiaci la percentuale di Imu. Una volta attivato lo strumento, un altro addetto avrebbe fatto passare davanti agli occhi dell’automobilista le prime pagine di quotidiani e periodici accuratamente selezionati in base ai criteri di tiratura, faziosità e irritabilità. A seguito di scrupolose analisi si scelsero la Repubblica, il Fatto Quotidiano, il Giornale, Libero e una rivista scandalistica a rotazione.
L’obiettivo era chiaro: colpire tutti, nessuno escluso. Il disagio di un automobilista di destra sarebbe esploso alla visione dei titoli dei primi due quotidiani, i nervi del dirimpettaio di sinistra sarebbero crollati di fronte alle colonne degli altri mentre gli sperperi e le frivolezze dei vip avrebbero mietuto vittime tra tutti gli altri irritabili d’Italia. Al termine del test il display del Cogitometro avrebbe emesso il verdetto: se l’Imu era inferiore al 40% si poteva riprendere la marcia, altrimenti sarebbe scattata la sanzione amministrativa e il fermo del veicolo.
Iniziò da quel momento un’ondata di controlli severi, durissimi, che tranquillizzarono in modo coatto un popolo irrequieto. Quella percentuale divenne un incubo che impose agli automobilisti di vivere ogni giorno come fosse un bel sogno. Costretti ai sorrisi forzati, si ammassarono sulle strade macchine guidate da soggetti cortesi e gentili, lobotomizzati da una Legge che li aveva obbligati ad appendere il grugno al chiodo. Per addolcire il passaggio della norma il governo approvò anche un alleggerimento delle sanzioni previste per l’assunzione di sostanze alcoliche alla guida: venne innalzato il limite di tolleranza e una campagna promossa dal Ministero della Salute ripeteva: «Alza il gomito, alza un sorriso!». Quello dell’automobilista infuriato divenne in breve tempo uno stereotipo superato: bastava un cicchettino prima di uscire e i rallentamenti in tangenziale divennero spensierati momenti di aggregazione.
Eppure, questa, è una di quelle sere in cui non si può stare sereni. L’ennesima lite aveva da poco sancito la definitiva rottura con Lei. C’era un altro di mezzo, è sicuro. Non si sa chi sia o cosa faccia, si sa solo che c’è, e tanto basta per averla portata a dire: «Giulio vai via. Io e te non abbiamo più niente da dirci».
E con una simile predisposizione mentale un posto di blocco è l’incontro meno piacevole che si possa fare.
«Buonasera. Favorisca la patente, scenda dal veicolo, entri nel nostro furgoncino e si tolga la maglietta in ordine da predisporre il controllo».
Le parole del tutore dell’ordine, fredde e distaccate come quelle di un boia che deve accompagnare il condannato al patibolo, spingono alla disperata ricerca nei meandri della memoria di qualche ricordo rivitalizzante che possa allontanare lo spettro del 40% e evitare così una condanna apparentemente già scritta.
Niente da fare. Il pensiero è sempre fisso su di Lei. Il rapporto era in crisi ormai da mesi, i discorsi erano fermi sul «come va?» o «giornata dura a lavoro?», mentre il sesso, oltre che sporadico, era anche freddo e insoddisfacente.
«Giulio Balca, si tolga la maglietta». La voce dell’assistente interrompe un pensiero che pur tormentandolo lo aveva quantomeno distolto dal disgusto che la visione di quelle pagine di giornale gli avrebbe provocato.
Inizia il test. Davanti agli occhi scorrono i titoli di la Repubblica, il Giornale, il Fatto Quotidiano e Libero. Fogli contraddittori, ogni facciata una verità diversa, tanti colpevoli, troppe contraddizioni, nessuna verità. La rabbia monta, le pulsazioni vorrebbero salire ma la mente si è ormai completamente abbandonata a Lei e la malinconia, quantomeno, allenta il battito.
Il controllo volge al termine, manca solo la rivista scandalistica. È fatta, pericolo scampato.
Davanti la copertina l’occhio cade su una foto nel taglio basso. La didascalia, ammiccante e pettegola, recita: «E lei chi è? Chi sarà la misteriosa ragazza abbracciata a Rocco di Amici?».
Un sussulto. Il cuore batte all’impazzata.
Quella «lei» è Lei!
Nelle vene il sangue bolle di stupore e sconcerto. Sul volto un’espressione inebetita e pietrificata nasconde il devastante scoramento interiore.
Il test finisce e, nell’attesa che il Cogitometro emetta la sentenza, l’assistente sfila il macchinario dal torace. Cornuto e multato: l’animo, svilito e distrutto, si rassegna a subire due letali pugnalate.
38.8%: il verdetto visualizzato sul display regala un sospiro di sollievo. Con l’ultimo residuo di forze la mano si solleva a riprendere quella patente così strenuamente difesa.
Mentre l’anta del furgoncino si chiude alle spalle, lo zelante tutore dell’ordine non dimentica di proferire il suo monito: «Signor Balca, oggi le è andata bene, ma la prossima volta, mi raccomando, pensi di meno».

“Città aperta” di Teju Cole

Personalmente non ho mai amato i paragoni. Sarà per un retaggio scolastico o magari perché il paragonato finisce il più delle volte per deludere le aspettative. Così quando ho letto la quarta di copertina di Città aperta (Einaudi, 2013) di Teju Cole, in cui si dice che la prosa di questo autore «ricorda quella di W.G. Sebald e J.M. Coetzee», ho avuto la tentazione forte di rimettere il libro al suo posto. E se non fosse stato per la curiosità che ho per gli incipit di sicuro lo avrei abbandonato.

«E così quando lo scorso autunno avevo cominciato a fare le mie passeggiate serali, mi ero reso conto che Morningside Heights è un buon punto di partenza per esplorare la città. […] Poco prima che iniziassero quei vagabondaggi, avevo preso l’abitudine di osservare il passaggio degli uccelli migratori da casa mia, e ora mi chiedo se ci fosse un nesso».

Per fortuna invece l’incipit funziona eccome. La prima pagina, inoltre, offre subito una serie di esempi di quello che sarà l’andamento della narrazione: attraverso l’utilizzo di forme verbali come «mi ero reso conto», «mi chiedo», «immaginavo» e «contemplavo», Cole introduce immediatamente il lettore nel flusso pulsante delle riflessioni e delle divagazioni del protagonista Julius, un giovane di madre tedesca e padre nigeriano emigrato negli Stati Uniti, alter ego dello scrittore. Queste riflessioni e divagazioni, a volte semplici a volte molto complesse, ma sempre scaturite da impulsi quotidiani fortuiti che diventano detonatori mentali, sono favorite dalla particolare curiosità del narratore che, camminando per le strade di New York – ma anche di Bruxelles, in cerca della nonna materna –, si lascia trafiggere da incontri e visioni metropolitane. Ogni cosa può essere uno spunto, ogni dialogo improvvisato può generare una serie inanellata di pensieri. Così, per esempio, l’incontro con Farouq, un giovane del Marocco che lavora in un internet café di Bruxelles, porta a una discussione sulla Palestina e sull’eccessiva fedeltà alla propria sofferenza e al martirio; o le visite che Julius fa a un suo vecchio insegnante ormai ridotto in fin di vita, fanno sì che il protagonista comprenda l’importanza della dignità nell’atto del morire, arrivando quasi a giustificare il suicidio in tarda età.

Città aperta non è una guida alternativa di New York come qualcuno l’ha definita, con troppa superficialità. La metropoli non è altro che il punto di partenza reale da cui Julius/Cole inizia il suo percorso mentale. Il narratore non descrive la città, ma trae da essa gli spunti per parlare d’altro. E a tal proposito uno dei temi centrali del libro riguarda la questione identitaria e il fallimento dei concetti americani di melting pot e di cultural mosaic. La riflessione di Juliu/Cole si incentra sul terribile distacco che persiste tra l’Occidente, bianco e culturalmente predominante, e le etnie che a esso si affacciano speranzose o che da esso sono state prima ingurgitate e poi emarginate. Una riflessione che può sembrare a tratti vittimistica e fine a se stessa – l’episodio in cui l’autore va a teatro e si rammarica d’essere l’unico nero in sala ne è l’esempio estremo – ma che rivela in realtà il fallimento di una certa mentalità occidentale fintamente progressista, incapace di comprendere alla radice le esigenze di una società in evoluzione. Julius stesso sembra essere contagiato da questa mentalità: infatti non le si ribella, si limita a subirla consapevolmente, diventandone quasi complice. E per questo infastidisce, al punto da rimanere quasi un estraneo per il lettore che giunge al termine della narrazione, nonostante la profondità di alcune sue riflessioni.

Per tornare alla quarta su citata, Città aperta di Teju Cole è sicuramente «uno dei migliori libri dell’anno» – anche se Sebald e Coetzee rimangono dei modelli non raggiunti più che eguagliati –, ma lo è per la fluidità della sua prosa, per la bellezza di alcuni ragionamenti nati dal nulla – meraviglioso il racconto conclusivo in cui torna il riferimento agli uccelli migratori –, per quel senso di vaghezza ivi epresso che solo il passeggiatore solitario sa cogliere e quindi raccontare. Un buon esordio dunque, che non ha bisogno di scomodi paragoni.


(Teju Cole, Città aperta, trad. di Gioia Guerzoni, Einaudi, 2013, pp. 271, euro 17,50)

“The Counselor – Il procuratore” di Ridley Scott

C’era grande attesa per l’esordio come sceneggiatore dello scrittore statunitense Cormac McCarthy dopo il successo dei precedenti adattamenti dei suoi romanzi, Non è un paese per vecchi su tutti. La regia di Ridley Scott, il cast pieno di grandi nomi sembravano presagi positivi per The Counselor – Il procuratore (discutibile, o quanto meno bizzarra, la scelta del sottotitolo italiano, visto che counselor vuol dire a tutti gli effetti “avvocato” nel sistema giuridico statunitense, e che di procuratori, nel film, non se ne vedono), eppure qualcosa non funziona.

Si inizia a tutta velocità, con una moto sportiva che taglia il confine tra Messico e Stati Uniti, poi un camion di rifiuti viene caricato di droga in uno scomparto segreto, mentre Javier Bardem e Cameron Diaz osservano i loro ghepardi cacciare lepri nelle piane texane. Nel frattempo, Penélope Cruz e Michael Fassbender, il counselor del titolo, sono a letto tra le lenzuola bianche a scambiarsi frasi di amore carnale. Si amano, lui la vuole sposare e per questo vola ad Amsterdam per comprarle un diamante. Non basta, vuole garantirle una vita di ricchezze enormi, per questo si accorda con Bardem, suo socio e amico, per collaborare con i cartelli messicani per la distribuzione della droga caricata sul camion. Valore complessivo: più di venti milioni di dollari. Il loro intermediario è Brad Pitt, che conosce gente oltre confine e a differenza di Fassbender è abituato a trattare questo genere di affari. Tutto sembra andare, poi però qualcuno si mette in mezzo, riesce ad appropriarsi del camion. Il cartello recupera il carico ma vuole comunque vendetta su Bardem, Pitt e The Counselor.

L’apparente solidità della trama di raggiri non riesce a svilupparsi in maniera coerente e tesa. Questo è il limite più grande di The Counselor. È evidente, o quanto meno è lecito supporlo, che la grande capacità di scrittura di McCarthy si ferma alla forma romanzo e non riesce a passare direttamente sul grande schermo senza la mediazione di sceneggiatori esperti.

I consueti temi della scrittura mccartiana sono presenti ed evidenti sin dall’ambientazione texana e dalle scene di caccia, preludio alla spietatezza dei personaggi. «Il cacciatore uccide sempre per giocare», diceva il Buffalo Bill degregoriano. Qui non è tanto la caccia in sé a essere un gioco, ma l’omicidio e la morte entrano a far parte di un sistema basato su un codice preciso in cui a torto equivale violenza, a inadempienza brutalità.

I dialoghi sono pieni di considerazioni alte sul senso del male, della vita, della morale e su come l’amore possa condizionare le scelte. Ogni parola o scambio dei primi venti minuti fornisce un indizio su quello che sarà lo sviluppo successivo, se non della trama, almeno del senso che McCarthy vuole dare ai fatti. Ciò che emerge, e vale oltre il film ponendosi come lettura simbolica e universale, è una visione spietata dell’uomo e delle sue azioni a cui nessuna autorità superiore è in grado di opporsi, né la polizia, praticamente assente in tutto il film, né la chiesa, chiamata dalla Malinka di Cameron Diaz ad ascoltare in confessione una vita di perdizioni sessuali che costringono il prete alla fuga.

Il livello fin troppo alto della scrittura non riesce a legarsi a personaggi che sono poco più che abbozzati, totalmente privi di complessità e struttura psicologica, sostanzialmente piatti. La caratterizzazione fisica quasi caricaturale di Bardem e Diaz (capelli sparati di gel e abbronzatura arancio per lui, tatuaggio maculato e unghie metalliche per lei, a rimarcare lo spirito predatorio, qualora fosse necessario) è isolata e finisce per risultare solo grottesca, così come l’incomprensibile racconto autoerotico di Malinka con cui Bardem intrattiene Fassbender. La magniloquenza delle riflessioni stona nella bocca dei personaggi e non si concilia con la trama che poco ha di originale e che non riesce ad essere coesa, serrata, ma che finisce piuttosto per sfilacciarsi in incoerenze e approssimazioni.

Continuando il suo percorso tra i vari generi, Ridley Scott non riesce a fornire a McCarthy quel bagaglio di esperienza in grado di correggere la scrittura, lasciando anzi libero sfogo alla verbosità in piena, finendo, come già accaduto in forme diverse con il deludente, per usare un eufemismo, Prometheus, per essere schiacciato dalla sceneggiatura.

(The Counselor – Il procuratore, di Ridley Scott, 2013, thriller, 120’)

“Memorie di un cane giallo e altri racconti” di O. Henry

Memorie di un cane giallo e altri racconti di O. Henry, ripubblicato da Adelphi nel 2013, dopo la prima edizione nella Piccola Biblioteca Adelphi del 1980, è una raccolta di racconti con personaggi spuri, un piccolo esercito di esseri corruttibili, irregolari e fuggiaschi, al di là del bene e del male, in grado di far oscillare con delicata nonchalance i miti dell’America produttiva.

Rivendicando il più delle volte la possibilità di godersi una felicità fatta di piccoli piaceri, i personaggi pagano il rovescio del sogno americano, e quando sembrano inseguirlo, non si crucciano di rivelarne le ambiguità: il perdigiorno Soapy de “Lo sbirro e l’inno”, rifiutando la logica dalla filantropia, perché mangiare la manna statale vuol dire infliggersi l’umiliazione di spirito di gratificare le intenzioni del sistema, ambisce alla prigione, presentandosi in un ristorante dichiarando che alcun «rapporto intercorre fra la sua persona e la più trascurabile moneta»; Tildy che scambia le avances di un cliente alticcio per una dichiarazione sentimentale; il cane giallo che cita Kipling per giustificare la propria vivace biografia e i buffi coniugi del racconto “Il dono dei Magi”.

Henry coglie bene l’America animata da intraprendenza e desiderio di riscatto sociale, concentrandosi sulle preoccupazioni imposte, amate o no, le ambiguità dell’essere catturati dal sogno americano, complici di piccole truffe, e a propria volta truffati.

Attraverso modesti artifici che richiedendo la complicità disimpegnata del lettore, Henry rivela le intenzioni comiche e l’innocua caricatura delle sue pose intellettuali: «Era un giorno di marzo. Non cominciate, in nessun caso, un racconto a questo modo. Non è possibile immaginare inizio peggiore. È privo di fantasia, piatto, arido, e con tutta probabilità serve solo a menar il can per l’aia»; «Quel signore che annunciò che il mondo era un’ostrica che egli avrebbe aperto con una spada, fece più impressione di quanta non ne meritasse. Non è difficile aprire un’ostrica con una spada. Ma avete mai visto nessuno provarsi ad aprire la terrestre bivalve con l’aiuto di una macchina da scrivere? Vi aspettereste di vedergliene aprire una dozzina, e crude, a quel modo?». Nella povertà materiale dei suoi personaggi, O. Henry valorizza le atmosfere, con una lente che ingrandisce le stanze dove sono deposti strumenti musicali, si ascoltano i monologhi di megere e lo sgnaulo di un gatto, le forcine «quei discreti, impersonali amici della donna, femminili di genere, di modo infinito, di tempo indifferente». Oggetti che dimostrano l’estrazione umile di persone che ambiscono alla realizzazione borghese soffrendo per il fallimento. Spettacoli di scarpe di cuoio, di pesci, il consacrato desiderio di godersi il poco di denaro ozioso racimolato da Mark e il suo amico in miniera, una specie selvaggia galleria di personaggi tragicomici che tenta con amabile goffaggine di essere felice e fiera del proprio ozio, gaia di aver compreso il segreto per compiere piccole truffe senza rischiare di rovinarsi una credibilità.

Ciò che si rivela interessante è la solennità fittizia del linguaggio, che scivola nell’iperbole e nella leggerezza estrema, svagata, senza dare definitive conferme sulle opinioni dell’autore verso i propri personaggi, così da restare nel dubbio di aver assistito a un piccolo circo con momenti illuminanti, come il gioco di corteggiamento forzoso di due coniugi che litigano per un dollaro, ma continuano a volersi bene nel “Nuzio di primavera”.


(O. Henry, Memorie di un cane giallo e altri racconti, a cura di Giorgio Manganelli, Adelphi, 2013, pp. 406, euro 14)

Dopo la partenza


Autostrade, strade e straducole, verdi e ruggine, si srotolavano fra monti di terra e sassi nell’oro della fine quotidiana. Una testa di gigante accesa sbucava dall’orizzonte per ingoiare l’isola-balena che volava riflessa nell’azzurro di un cielo acqueo. Celeste tanto grande da sostituire il mondo, almeno per il tempo della visione, per un attimo, per sempre. Fiammate inviolavano altopiani aridi, mistici, esotici. Torte di mattoni rosa e stucchi bianchi e riccioli di burro e fronzoli architettonici fronteggiavano muraglie grigie e guglie appuntite e merli di pietra.
E lui non si accorgeva di niente, guidava.
Teneva il volante nella maniera corretta, le mani sulle dieci e dieci. Velocità costante. Geometrico incedere nel traffico. La strada intanto andava, avanti.
C’era stata un’invasione di nebbia qualche giorno prima, in paese. «Non è nebbia, sono nuvole» gli avevano spiegato. C’era stata un’invasione di nuvole qualche giorno prima, in paese. La realtà era diventata un foglio di carta bianca tutto da scrivere. O da leggere. I contorni del mondo, sfocati. I confini, sfocati. I limiti, sfocati.
«Vado a fare una passeggiata» aveva annunciato.
«Attento a non perderti» gli avevano risposto.

Aveva scelto una strada in salita, così le gambe si abituavano subito al peggio e il sudore, premio della fatica, non tardava a palesarsi. E così si era arrampicato tra le case affacciate sulla strada, poi tra quelle nascoste, poi tra quelle rintanate ancora più dietro, poi anche quelle erano sparite, così come erano comparse, nella nebbia. Nelle nuvole. E poi i primi cespugli, i prati, la luna accesa, su, ingigantita dal filtro di nebbia. Di nuvole. E poi gli alberi. E i fruscii della vita, fra le foglie, e colpetti improvvisi di cose che cadevano, sbattevano, venivano lanciate, respiravano. Lui e le sue gambe andavano, lanciate in una direzione sempre definitiva, per ora, decisa dall’interesse del momento. Dallo stato d’animo. Dall’intuizione. Dal caso. E sotto gli alberi faceva sempre più buio, solo qualche lama di luce diafana riusciva a tagliare l’intrico dei rami per cadere fino a terra, nelle nuvole, nel bosco. Su di lui che camminava e sudava, aggiungendo vapore al vapore. Le nuvole sono vapore? La nebbia sì. O no?
Era così facile sparire, dimenticarsi di tutto l’apparato pensante e camminare punto e basta, animale fra animali, nuvola nella nebbia, o insomma, nebbia nella nuvola o nuvola fra le nuvole o quel che è. Dimenticarsi delle parole, perché non si può mai davvero descrivere qualcosa come veramente lo si vive. A nessuno, nemmeno a se stessi. Parola è parabola. Parabola è favola. Favola è menzogna. Parola è menzogna. Parlare è mentire. Non si può tradurre il pensiero in parola. Mai precisamente. Solo per approssimazioni più o meno buone.
«Tra quello che penso e quello che dico c’è di mezzo un luna park» aveva detto qualcuno, una volta, da qualche parte.
Non si può mai essere certi di che cosa una parola possa significare per qualcun altro. Si può provare, si può scommettere e certo, Buongiorno non ha molte sfumature di significato o utilizzo, è un augurio. Forse. Dipende. È una parola con cui si può star tranquilli, comunque. Ma Famiglia o Senso o Sovranità o Aspirazione sono parole troppo ampie per essere riempite ogni volta del loro intero significato. E così capita che per due persone la stessa parola significhi due cose diverse. Perché ogni testa pensante, poi parlante, sceglie il pezzettino di significato che le somiglia di più e lo usa. Pretendendo, ingenuamente, involontariamente, innocentemente, che sia quello e solo quello il significato intero della parola.
Illusioni.
Non come le nuvole.
«Respiro nuvole» aveva pensato.
Poi si era fermato dove stava, si era accucciato e aveva infilato le mani nella terra bagnata, sotto il muschio e il sottobosco. Aveva lasciato lì i suoi pensieri. Poi aveva ricominciato a camminare.
L’istrice lo sapeva, lo sapeva e basta. Era spuntato dalla verzura a bordo strada, un mostricino col muso da topo e una coda di spine. Immobile lo aveva osservato avvicinarsi, immobile lo aveva osservato allontanarsi. Non aveva usato parole, neanche una. Poi un salto nella notte ed era sparito, assorbito dalle sue cose, che senza bisogno di pensare doveva fare. Fare. Come camminare. O come tutto il resto. Tranne pensare. Pensare non è fare. Parlare è fare? Da un certo innegabile punto di vista sì, ma lui credeva di no. Camminava.
Qualcosa gli veniva incontro, qualcosa che veniva da su e andava verso giù. Non era un istrice. Era qualcos’altro. Era qualcuno. Qualcuno che si fermò di fianco a lui, nel momento in cui chi sale supera chi scende e viceversa. Una scossa, la respirazione che cambia, il cuore che salta qualche battito. Il silenzio. Le nuvole. Il bosco. Il muschio umido. Si toccano, prima le mani. Lentamente. Poi si avvicinano. Il calore di un altro corpo, di due corpi, di un corpo di due. La vita nella pelle, linea di confine fra il dentro e il fuori, tra due fuori e due dentro. Curiosità mai paga di qualcuno che non sia lui, il solito se stesso, ma un altro, che viene dalle nuvole. L’alito fresco del bosco bagnato, la terra addosso, fra i vestiti inutili, cercare degli occhi. Trovarli. Aprirli e chiuderli, vederli e vedersi.
Fare l’amore è fare.
E lui non si accorgeva di niente, guidava.

“Piccola storia del corpo” di Paolo Di Paolo

C’è qualcosa di borgesiano, nelle prime due parti di Piccola storia del corpo (Giulio Perrone Editore, 2013), il nuovo libro che Paolo Di Paolo divide con Alma Gattinoni e Giorgio Marchini; borgesiano, intendo, nel senso di quel possibile, sognato, «libro fatto di libri» che il gran vecchio bonaerense dalle pupille omericamente spente avrebbe di sicuro apprezzato. E, certo, più che degli umbratili, e un po’ cimiteriali spazi della Biblioteca di Babele, questo libro ha il sapore di una ben diversa, vitale capacità di coinvolgere, con i suoi richiami alle realtà corporee, quasi l’odorato, il tatto di chi legge; o più ancora, forse, la vista, con il suo apparato di foto, invitante per quanto monocromo (e giustamente, si direbbe: data per scontata la irriproducibilità dell’opera d’arte, le immagini si limitano a porsi come ausilii mnemonici a chi sfoglia le pagine).

Tuttavia già tracciando, nella prima parte, un itinerario ideale, svelto e allo stesso tempo brillante, fra i diversi atteggiamenti con cui l’uomo moderno si è posto nei confronti di questo suo silenzioso quanto ingombrante compagno di viaggio terreno (dell’altro, poco che se ne sappia, è certo almeno di no…), Di Paolo non fa che muoversi, spigliato, efficace, e con raffinata arte della citazione, fra altrettanti libri – tutti ottimamente richiamati, peraltro, nelle impeccabili note –, che se ne sono fatti espressione: si trattasse di intellettualistiche sublimazioni rinascimentali come quelle del Vesalio o di ingolosite celebrazionià la Zola, giù fino alla più moderna, sartriana nausée di fronte alla sua materiale meschinità.

Ma è nella seconda parte, in cui si restringe al solo ambito della creazione letteraria, che Di Paolo trasforma la sua indagine, un tantino notomistica, fra denti, capelli, organi sessuali ed estremità femminili o maschili che siano, in una felice scoperta: il corpo come “personaggio”.

Perché è il suo farsi significato, all’interno di una narrazione, quello che mettono in luce queste pagine: e non solo nelle fisionomie, quando vengono ritratte – magari con la «devozione alle cose» di Carlo Levi, pittore –, ma anche nei messaggi che esso manda, con la spudorata invadenza dei suoi appetiti, degli afrori dei suoi liquidi organici – le molte eiaculazioni di Moravia –, dei fetori delle sue secrezioni, in Savinio. Ed è il più delle volte a contatto col proprio corpo, che l’autore, quasi sempre come «personaggio che dice io», scopre la sua fallibilità, la sua difettività creaturale, che sia lo zoppicare di Zeno, la dolorante introspezione del protagonista di Debendetti, lo scendere nella malattia e nella sofferenza, verso l’ultima linea in Tabucchi o in Gina Lagorio. Ma molto più ampia di quanto possa far pensare questa sbrigativa rassegna di nomi è, nel libro, la scelta degli autori citati: che disegna un arco ricchissimo di evoluzione, da un certo preziosismo formale primo-Novecento, in Anna Banti o Landolfi (e l’immortale pezzo di bravura della gola squarciata di Liliana, in Gadda!), fino alle brutali semplificazioni lessicali e sintattiche degli ultimi decenni del Novecento, e del primo del secolo nuovo.

Infine, la terza parte, come si diceva opera di Alma Gattinoni e Giorgio Marchini: quella in cui dalla parola e dalla narrazione il corpo passa a farsi pretesto del colore, del segno. L’arte figurativa è, da sempre, molto più abituata della letteratura, alla presenza del corpo: tanto più, alla contemplazione – ora dolcemente, sensualmente idoleggiante, ora perfino aggressivamente dirompente di ogni perbenistica imposizione del pudore – della nudità di esso, femminile di preferenza, benché non manchino riferimenti a una virilità ora nostalgica di pagane floridezze (Colacicchi), quando non addirittura (Riefensthal) mitizzatrice di prevaricanti primavere hitleriane, ora (Bacon, Lucian Freud) tramutata in dolente cifra esistenziale.

In un rapido scorcio, assistiamo così al farsi del corpo, nell’età del realismo ottocentesco, richiamo quasi scandaloso agli aspetti meno accademici della sua realtà (e di quelli della società, nei suoi strati meno comme-il-faut); quindi, al volgere del Novecento, vittima straziata delle lacerazioni tremende del primo conflitto mondiale. Poi, ancora, ridursi a Urschrei di linee e colori nella pittura espressionista (Dix, Kirchner, Grosz, Kokoshka), farsi regno della più trionfale astrazione compositiva del Surrealismo. E scendere, infine, nell’ultimo Novecento, alle via via più audaci esperienze di un’avanguardia sempre spasmodicamente tesa a spiazzare le aspettative di chi guarda, ad assumere la pura, materica oggettività della sua presenza carnale, del gesto (Abramovič, Pane).

In definitiva, da tre diversi punti di vista, ma tutti ugualmente avvincenti, una carrellata di pungente originalità, da cui si esce più consapevoli – e più innamorati, insieme – della fragilità di questo nostro pugnello di vita.


(Paolo Di Paolo, Piccola storia del corpo, Giulio Perrone Editore, 2013, pp. 310, euro 16)

“Orchidee” di Pippo Delbono

Pippo Delbono, autore, attore e regista per il cinema e il teatro, porta in scena sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma Orchidee, un’elegia funebre che è anche una – per utilizzare una definizione di cui chi scrive non può prendersi il merito – emozionante «denuncia privata».

Fingendosi lo speaker del teatro, Delbono introduce il suo spettacolo chiedendo gentilmente agli spettatori di spegnere i loro cellulari. Non c’è niente da filmare e niente da fotografare in teatro, tutto quello che c’era da filmare e fotografare lo ha già filmato e fotografato lui per raccontare, attraverso l’occhio della fotocamera del cellulare, un mondo particolare: il nostro così come si vede attraverso la lente del dolore della morte di un genitore.

La morte di un genitore espone i nervi, anche quelli che si era convinti di non avere, e rende ogni evento un fatto storico, una vicenda aliena, una sfumatura della nausea. Il mondo in cui non vive più il proprio genitore «fa schifo».

E allora vale tutto: una carrellata di personaggi felliniani che ballano, due uomini calvi e nudi che si abbracciano per un lungo momento di straziante bellezza, l’opera censurata, l’Africa, Romeo e Giulietta, Čhecov, i Deep Purple ed Enzo Avitabile. È emozione pura, difficile da seguire se si approccia in maniera logica, sono immagini e ricordi che trovano senso nel ricordo della madre. Delbono non nasconde niente: balla, urla, si fa venire il fiatone e suda, ci accompagna nella sua infanzia, ci rende partecipi del più grande dolore del mondo capace di mondare dal peccato della banalità anche le parentesi didascaliche, la retorica e i luoghi comuni.

Uno spettacolo sulla morte e sulla vita che, nonostante tutto, continua piena di parole, di musica, di gente, di assurdità e bellezza. Da vedere, afferrando al volo la coda della tournée italiana – le prossime tappe infatti sono fissate in terra di Francia – magari approfittando della rassegna Il cinema di Pippo Delbono, dal 7 al 22 gennaio, organizzata dal Nuovo Cinema Aquila, in sinergia con il Teatro di Roma, per ripercorrere le opere cinematografiche realizzate dal 2003 al 2011 come Guerra, Grido, La Paura, Amore Carne fino al più recente Sangue.
 


Orchidee
di Pippo Delbono
e con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella


Prossime date:
Roma – Teatro Argentina dal 7 al 19 gennaio 2014
Caen – Théâtre d’Hérouville 23 e 24 gennaio 2014
Parigi – Théâtre du Rond Point dal 29 gennaio al 16 febbraio 2014
Tolosa – TNT dal 19 febbraio al 22 febbraio 2014
Prato – Fabbricone dal 28 marzo al 30 marzo 2014

Fazi Editore: una strada destinata a raccontare

Laureato a Roma in Economia, trasvolato a Manchester e poi a Londra, dove affina strumenti e conoscenze. Cooptato dall’Economist come giornalista economico, avvia la sua scalata all’interno dell’azienda fino a diventarne Vice Presidente. Ma questa non è la biografia di un uomo. È quella di un progetto, affacciato tra i binari di una carriera ormai spedita. Elido Fazi era lanciato altrove, ma il suo percorso non poteva arrestarsi a nervature di numeri e bilanci.

Era una strada destinata a raccontare. A nutrire i muscoli di altre avventure. Nel 1994 l’incontro con un gruppo di scrittori tra cui Emanuele Trevi, Sandro Veronesi, Filippo La Porta e Valentino Zeichen battezzò la comparsa di una casa editrice, chiamata come il suo fondatore. Le prime scelte cadono su L’Arte poetica di Orazio e La caduta di Iperione di John Keats, di cui lo stesso Fazi realizza la traduzione.

L’accuratezza delle selezioni e dell’attività redazionale non tardano a procurare frutti. Il successo si accresce e con esso il corpo della Fazi, i suoi quartieri di organi e collane. Ai classici si affianca la narrativa del Novecento in lingua inglese, tra cui spiccano Un anno terribile e A ovest di Roma di John Fante, confluiti nella collana Le strade.

Ecco quindi il menu delle collane principali:

– Le strade, nata nel ’97 e inizialmente imperniata su sentieri anglosassoni, sulle tracce di Robert McLiam Wilson, Gore Vidal e James Lloyd Carr e poi intenta a “curiosare” su autori spagnoli, tedeschi, olandesi e giapponesi.

– Le porte, classe 1995, dedita alla riproposizione dei classici tra cui Henry James, Thomas Hardy e Gustave Flaubert per poi accogliere anche identità più contemporanee come Leonard Gardner e Boris Pahor.

Le terre, incentrata sulla saggistica e valorizzata da testi di Jacques Attali e Matthew Fox.

Le vele, dove soffia la voce degli esordienti, come gli italiani Christian Frascella e Nadia Malanima.

– Lain, con il focus puntato sul fantasy per giovani e adulti, su cui giganteggia tra tutti il clamoroso successo della serie di Twilight di Stephanie Meyer. Ma non mancano altri nomi accattivanti per il grande pubblico, come Melissa Marr e Charlaine Harris.

– Campo dei Fiori, nata a giugno del 2010 e diretta da Elido Fazi e Vito Mancuso. Tavolo di confronti e riflessioni interreligiosi.

Nella foresta di titoli a disposizione, è piacevole davvero imbattersi nell’imbarazzo delle “nomination”.


Di seguito, quindi, i cinque prescelti:

– La via del tabacco di Erskine Caldwell, impreziosito dalla prefazione di John Lansdale. Ritorno in libreria di un episodio capitale della letteratura del Novecento. Cantore ruvido della miseria contadina. Abbrutimento acre e desolato di un mondo avaro e senza riscatto.

– Stoner di John Williams. Dissotterrato dopo cinquant’anni di silenzio editoriale, capolavoro ormai riconosciuto del grigiore quotidiano. Personaggio antinarrativo scaraventato in primo piano da una scrittura di prepotente bellezza.

L’assenza di Jonathan Carroll, vertigine risucchiante di un grande scrittore contemporaneo. Un amore in cui irrompe un baratro a divorare ogni certezza.

Quello che rimane di Paula Fox. Una normalità apparente sfregiata da un evento innocuo. Genialità di un meccanismo letterario travolgente, in grado di incantare autori come Jonathan Franzen e David Foster Wallace.

Privati abissi di Gianfranco Calligarich. Intrappolato nelle maglie di un casinò a cui immola i suoi inverni, un giocatore si rivela incapace di fare altro che avvitarsi su se stesso, rievocando tutte le sue perdite. Non fatte soltanto di fiches.

A voi perciò il turno di perdervi ancora, nella distesa chiamata Fazi, finché un libro non sarà pronto a ripescarvi.

“The Young Doctor’s Notebook”, la seconda stagione

[Questo articolo contiene spoiler su una serie ancora inedita in Italia]

Chissà chi sarà stato più felice tra Jon Hamm, Daniel Radcliffe o la (più o meno) nutrita schiera di fan alla notizia del ritorno del dottor Bomgard in televisione. Un anno fa lo avevamo lasciato in piena crisi, costretto a fare i conti con una dipendenza da morfina sempre più incontrollabile. Sky Arts ha reso felici tutti gli appassionati regalandoci verso la fine del 2013 la seconda stagione di A Young Doctor’s Notebook, il suo più grande successo a detta degli stessi dirigenti del canale.

C’era ancora molta carne al fuoco da poter portare sul piccolo schermo, e cosi è stato. Imprescindibile il confronto con una prima stagione sorprendente, visto il rischio di non regalare qualcosa di nuovo “accontentandosi” di regalare agli spettatori le performance di Hamm e Radcliffe. Questa volta c’è molto di più. Amore e sentimenti più profondi prendono il sopravvento su libertine passioni tenute nascoste. Il rapporto tra il giovane e il vecchio dottore si farà sempre più intenso nel bene e nel male, come è giusto che sia dopo l’inizio di quella discesa nel vortice della dipendenza che il Bomgard in erba comincia a malapena a scorgere mentre il suo personale fantasma dal futuro ha già vissuto con le tremende conseguenze del caso.

Ruolo molto più ingombrante rispetto alla prima stagione ha sicuramente la rivoluzione russa, ormai non più ai margini della serie ma causa scatenante di eventi che lasceranno il segno sull’ospedale e su tutti i protagonisti. Proprio il conflitto tra bolscevichi e Armata Bianca trasformerà i problemi del dottore in veri e propri drammi, fino a un picco finale ricco di tensione e persino drammatico, lasciandosi (almeno per un momento) alle spalle la solita vena comica sempre piacevole e ben curata.

Il cambio di regia non ha minimamente intaccato la qualità della serie, mantenendo un filo diretto con quanto già raccontato nella prima stagione. A Young Doctor’s Notebook è riuscito nell’impresa (non sempre così facile) di non rinunciare ai suoi punti di forza introducendo novità importanti e ben inserite all’interno dello show. I nuovi ingressi come Natasha, di cui preferisco non parlare per lasciare a tutti il piacere di scoprirla poco a poco nel corso della seconda stagione, sono una piacevolissima novità rispetto al cast iniziale. Anche e soprattutto grazie a loro la storia ha potuto virare verso una nuova piega meritevole solo di piacevole apprezzamento.

Anche questa volta siamo in alto mare in merito a news su ulteriori rinnovi, comunque probabili data la passione degli spettatori nei confronti della serie. Questa seconda stagione ha oltretutto confermato che A Young Doctor’s Notebook ha ancora qualcosa (forse molto?) da dare oltre a questi otto episodi, Sky Arts non deve privarci del piacere di scoprirlo.
 

“Chi resta deve capire” di Cristina Lio

Cristina Lio, figlia di madre disabile e padre obiettore di coscienza, è cresciuta nella comunità di accoglienza a cui si sono uniti i suoi genitori. Da questa esperienza nasce il romanzo Chi resta deve capire (Edizioni E/O, 2013), che racconta l’adolescenza di una ragazzina nata e cresciuta in una comunità calabrese degli anni Ottanta.

Il romanzo mostra quindi due realtà. Da un lato c’è la realtà oggettiva, che oggi non esiste quasi più, di una struttura concepita solamente per la condivisione, senza fini di assistenza sociosanitaria, in cui più persone scelgono di gestire un luogo che possa accogliere tossicodipendenti e persone affette da handicap. Un luogo in cui convivono gli individui più disparati e ciascuno di essi ha un ruolo che permette di portare avanti la comunità, in un girotondo di inservienti, tossicodipendenti, disabili, obiettori di coscienza, preti. E bambini.

È di una poco più che bambina la seconda realtà del libro, la realtà soggettiva di un’undicenne che ha sempre vissuto in comunità, identificandola con la sua famiglia. Il centro d’accoglienza viene raccontato proprio attraverso gli occhi di questa ragazzina e dei suoi rapporti con le persone che la circondano. Scopriamo così le sue lunghe giornate trascorse in solitudine, la sua difficoltà di spiegare ai coetanei che quella è la sua realtà. Ma soprattutto incontriamo una vita che si sviluppa e matura in un contesto diverso dal solito, fra carrozzelle e tossici iniziati alla disintossicazione, in una famiglia nella quale spesso i membri vanno via per non tornare più, perduti o recuperati, restituendo l’adolescente al suo stato di solitudine.

Chi resta deve capire è un romanzo quasi elementare, che prende in prestito il linguaggio della giovanissima protagonista e non ha molto da offrire sul piano linguistico. Ma è anche una testimonianza importante, che non può non incuriosire mano a mano che si scoprono le dinamiche di questa comunità calabrese, e dà l’impressione di vedere il grande refettorio durante l’ora dei pasti, il furgone con cui si fa la spesa, quell’Alfredo sulla sedia a rotelle che appare alla ragazzina come una sorta di grande saggio, gli sforzi del prete, le difficoltà dei tossicodipendenti. Peccato che di calabrese, in effetti, ci sia molto poco. Pare più uno sguardo su una realtà universale e passata, quando ancora i cellulari non c’erano e l’isolamento poteva essere effettivo, totalizzante, e il silenzio rimaneva silenzio. Soprattutto, con tutti i limiti del caso, è palese che molte esperienze narrate siano frutto dell’esperienza vissuta davvero dall’autrice che, per questo, conclude la narrazione senza mai peccare di irrealismo.

(Cristina Lio, Chi resta deve capire, E/O, 2013, pp. 192, euro 16)

“L’anno del coniglio” di Tuomas Kyrö

Il clandestino Vatanescu e il suo coniglio scalano la vetta del successo in Finlandia: da uno status di irregolari (anche il coniglio, a modo suo) a una delle massime cariche politiche finlandesi. Non si sa mai che cosa aspettarsi dalla vita, sembra dirci L’anno del coniglio di Tuomas Kyrö (Iperborea, 2013).

Attingendo a piene mani dalla realtà, Kyrö narra le difficoltà di un giovane rumeno che lascia la famiglia in cerca di una vita migliore e con in mente il ben più modesto obiettivo di regalare al proprio figlio un paio di scarpe coi tacchetti, perché possa giocare a calcio come un vero atleta. Non sa certamente di andare incontro allo sfruttamento di Jegor Kugar, l’ex agente del KGB che l’ha aiutato a espatriare e che gestisce il racket dei mendicanti di Helsinki. Altrettanto certamente, non ha idea che il piccolo coniglio che salva, mosso da pura pietà, diventerà il suo migliore amico e lo aiuterà a cambiare vita. Sono le scelte avventate, a volte, a cambiare le cose.

Il romanzo è scorrevole, è un susseguirsi di avventure attraverso le quali Vatanescu riuscirà a liberarsi dal giogo di Kugar, ma non dei preconcetti della società: un immigrato è un immigrato, a prescindere dalla sua bontà d’animo. Se poi è irregolare, Dio ci scampi, è il fuori casta per antonomasia. La burocrazia, i benpensanti, i filantropi, gli ambientalisti, i politici: tutti a un certo punto hanno un ruolo (o, per meglio dire, si intromettono) nella vita del protagonista, ognuno per ragioni e fini diversi e ognuno con risultati diversi, ma nessuno di loro riesce a cambiare la personalità o gli obiettivi di Vatanescu. Il nostro eroe è e rimane un puro di cuore e il suo desiderio di comprare le scarpe coi tacchetti al figlio è ciò che davvero lo aiuta a resistere alle situazioni più critiche, a prescindere da quanti lo sbattano fuori dai negozi in cui entra e da quante porte gli vengono sbattute in faccia.

Fino al raggiungimento di un sofferto happy ending, da elogiare perché non scade nel ridicolo o nel banale, la storia del povero clandestino e del piccolo coniglio ha del tragico e dipinge una società che ha perso innumerevoli valori, da quelli dell’accoglienza a quelli della comprensione e dell’onestà. Il racconto avrebbe dei toni grigi e sarebbe tutt’altro che leggero, non fosse per la narrazione frizzante e accattivante data da Kyrö, uno scrittore versatile che sa fare breccia nel pubblico e che si ispira per contenuti e caratterizzazione dei protagonisti, omaggiandolo, all’ormai classico L’anno della lepre di Arto Paasilinna (Iperborea, 1994).

Ancora una volta, la letteratura del Nord Europa si rivela intrigante e appassionante. A dispetto di chi la ritiene di nicchia, sembra ergersi per qualità al di sopra di numerosi best seller europei che sono commercializzati e venduti come novità, ma che spesso deludono, cadendo in luoghi comuni e narrazioni tutt’altro che intriganti.

(Tuomas Kyrö, L’anno del coniglio, trad. di Nicola Rainò, Iperborea, 2013, pp. 338, euro 16,50)

“Il capitale umano” di Paolo Virzì

Tecnicamente, in gergo finanziario, con “capitale umano” si intende la capacità di guadagno di ogni individuo visto come il valore attuale degli stipendi futuri al netto dei consumi futuri. Le assicurazioni sulla vita corrispondono un premio in denaro basato sulla stima di perdita, in termini di capitale umano, del defunto. Con un’estensione approssimativa, si può dire che con capitale umano si indica quanto vale economicamente una persona, quanta ricchezza potrebbe produrre negli anni. Qual è il valore della vita di un quarantenne cameriere di catering che tornando a casa nel freddo della notte provinciale lombarda finisce in un fosso colpito da un fuori strada? Il valore della vita cambia a seconda di chi sia a portarla via? È l’interrogativo, indiretto, su cui si fonda Il capitale umano, nuovo film di Paolo Virzì che per la prima volta si spinge verso nord e lontano dalla commedia per avventurarsi in un thriller sfumato di dramma finanziario.

Intorno all’incidente ruotano le vite di due famiglie, gli Ossola e i Bernaschi. Dino Ossola è un’immobiliarista che sogna di fare il grande salto in società. Sfrutta l’amicizia di sua figlia Serena con il compagno di scuola Massimiliano per entrare nel fondo di investimento, ad alto rischio e alta rendita, gestito dal padre del ragazzo, Giovanni Bernaschi, broker tra i più importanti della borsa milanese che gestisce solo capitali superiori al mezzo milione di euro. Per entrare in affari, Dino mente e si indebita senza pudore. Licenzia il personale, riduce l’attività alle spese minime e aspetta che Giovanni lo chiami ancora per giocare a tennis nel campo privato della sua villa che sovrasta il paese. Non sa che sua figlia ha lasciato da tempo Massimiliano, si illude di essere amico stimato dei Bernaschi, continuando a sognare una vita al di sopra della sua possibilità. È solo con le sue illusioni, come gli altri protagonisti, gli adolescenti schiacciati dall’attesa sociale dei genitori, la moglie di Giovanni, Carla, con il suo sogno di aprire un teatro per rilanciare la cultura e il suo stesso passato nel paese mentre galleggia senza scopo ogni giorno. Solo Roberta, la compagna di Dino, psicologa e incinta, sembra mantenere un equilibrio di intenzione e direzione.

Suddiviso in quattro capitoli – tre legati al punto di vista di singoli personaggi, Dino, Carla e Serena, l’ultimo di riepilogo e conclusione – Il capitale umano si muove su due piani temporali che si intrecciano, il primo estivo, nel momento del primo incontro tra Dino e Giovanni, il secondo invernale, dalla festa della scuola dei ragazzi da cui ha origine l’incidente fino alle successive indagini. È, sul piano tecnico, il miglior film di Paolo Virzì per la regia giunta alla piena consapevolezza di mezzi e invenzioni e per il considerevole lavoro di montaggio di Cecilia Zanuso. È, probabilmente, il miglior film in assoluto del regista toscano, perfetto equilibrio di tensione, indagine, indignazione sociale, dramma e momenti di commedia. Concorrono tutte le parti a fare di Il capitale umano un film da ricordare, a partire dalla sceneggiatura curata da Virzì con Francesco Bruno e Francesco Piccolo, sulla base del romanzo omonimo di Stephen Amidon, con un gran lavoro di adattamento nel trasferire la vicenda dal Connecticut alla Brianza. Ma sono soprattutto gli interpreti ad animare Il capitale umano, Fabrizio Bentivoglio come viscido e spregevole Ossola, Gifuni nei panni del brianzolo Bernaschi, Valeria Bruni Tedeschi a dare aristocratica fragilità a Carla, la solida Roberta di Valeria Golino, i giovani guidati dall’esordiente Matilde Gioli e gli attori nei ruoli di contorno, Luigi Lo Cascio, Gigio Alberti, Bebo Storti.

Accomunato più volte alla tradizione della commedia all’italiana, Virzì questa volta si rifa maggiormente al cinema statunitense ma continua a guardare all’Italia della crisi (economica, morale, come volete vederla) cambiando registro e punto di vista, non più dal basso dei call center di Tutta la vita davanti o della precarietà di Tutti i santi giorni, ma dall’alto del ceto della finanza, senza più nessuna punta di dolcezza nella sua osservazione, lasciando trasparire tutta l’amarezza di fronte agli uomini che hanno scommesso sulla rovina del paese e hanno vinto.

(Il capitale umano, di Paolo Virzì, 2013, thriller, 109’)