“In tempi di luce declinante” di Eugen Ruge

In tempi di luce declinante di Eugen Ruge (Mondadori, 2013) è un romanzo che mescola insieme politica, storia, vicende personali, idee, speranze e le conseguenti illusioni.

Un romanzo che racconta la storia di Wilhelm e sua moglie Charlotte, comunisti classe 1962 che tornano dal Messico per fondare il primo partito comunista nella Germania Democratica; due persone piene di idee e di voglia di fare, che credono nella grandezza del partito per il quale vivono e lottano, e ne seguono la luce splendente.

Poi c’è Kurt, uno dei loro figli, l’unico sopravvissuto ai gulag: è tornato dalla Russia in compagnia di una moglie che non riesce ad abituarsi alla grigia e severa Germania e una suocera particolarmente affezionata alle conserve fatte in casa e alla vodka. Nonostante abbia perso un po’ le speranze dei suoi genitori, Kurt è ancora in grado di sognare e si sforza di vedere un futuro che sia perlomeno sereno.

Alexander è il più giovane: figlio di Kurt, è gravemente malato e per questo decide di lasciare tutto e intraprendere un viaggio della memoria fino al Messico, dove erano stati i suoi nonni, e di fuggire nella Germania dell’Ovest subito dopo la caduta del muro. Ad Alexander, del sogno che aveva animato le coscienze dei nonni prima e di suo padre dopo, non rimangono altro che le briciole e una luce che, appunto, è in fase di declino.

La storia inizia con il festeggiamento dei novant’anni di Wilhelm, con la famiglia riunita attorno a un patriarca forte e dalla vita emozionante, quando si apprende la notizia della caduta del muro di Berlino e del fatto che Alexander non arriverà. Da qui si dispiega un racconto in cui i toni della narrazione cambiano di continuo e il tempo si distende nel corso di tre generazioni. Padri e figli raccontano le cose dal proprio punto di vista, diverso per età e mentalità, descrivendo al contempo il viaggio ideale e reale di una famiglia medio borghese a cavallo del secolo, un secolo che vibra sotto i colpi della guerra e dei suoi inevitabili cambiamenti.

Il mondo che ne viene fuori è un mondo in cui gli ideali nascono, crescono e muoiono senza trovare un terreno in cui affondare le proprie radici, perché Alexander ha ereditato poco o niente dello spirito combattivo e rivoluzionario dei suoi nonni. Ciò che gli resta da adulto è un padre demente e una famiglia che abbandona per scappare lontano, dove spera di ritrovare quella forza di vivere che si fonda sull’amore per una causa, una mentalità che la generazione a cui appartiene Alexander non può capire: ormai, non possono far altro che guardare il muro che cade e chiedersi da che parte andare, se restare o fuggire, come se fossero queste le uniche alternative per sopravvivere.

Con uno stile fresco che cattura tutte le sensazioni dell’animo umano, Eugen Ruge ci propone una storia che diventa un’istantanea in bilico tra passato e futuro in cui tutti noi possiamo trovare, anche oggi, il nostro posto: c’è ancora chi crede nel futuro e poi c’è la maggior parte di noi, che non ci crede più o scappa come Alexander, a cercare fortuna lontano da una parete che crolla e da una decadenza che ha poco a che vedere con la malattia.

L’autore si sofferma a raccontare i dubbi e le delusioni di un’Europa in cui il sole è sorto alto e brillante, ha riscaldato l’aria e infine si è ritirato. Ciò che rimane a noi giovani è la gloria del passato e un presente che sega le gambe a qualsiasi tipo di futuro: la definizione spicciola della “luce declinante” del titolo non è che questo.

(Eugen Ruge, In tempi di luce declinante, trad. di Claudio Groff, Mondadori, pp. 346, euro 21)

“Hedda Gabler” di Henrik Ibsen, regia di Antonio Calenda

La marziale e gelida figura del generale Gabler domina la scena dall’alto. Compare e scompare nel buio della parete dove è incorniciato e illuminato il suo ritratto, che sembra in qualche modo spiare e quasi condizionare le azioni, le parole, i gesti, gli sguardi dei personaggi sul proscenio. La figlia Hedda soprattutto, donna aristocratica, inquieta, falsa, sgarbata, cinica, a cui la superba attrice Manuela Mandracchia restituisce tutta l’articolazione di un personaggio dal fascino irresistibile ma terribilmente nichilista.

Hedda Gabler è uno dei grandi classici del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, in scena fino al 22 dicembre al Teatro Quirino di Roma nella trasposizione diretta dal regista Antonio Calenda, prodotta dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Compagnia Enfi Teatro.

Il personaggio di Hedda Gabler è certamente uno dei più difficili, febbrili e seduttivi tra le figure femminili dell’immaginario ibseniano, ben cosciente del proprio fascino eppure fragile nella sua intima insoddisfazione, ossessionata dal successo e rapita da un vortice di egoismo ed esiziale intransigenza.

Un ruolo certamente complesso ma fortemente contemporaneo, un testo che, scritto da Ibsen nel lontano 1890, risulta fortemente attuale. Manuela Mandracchia, uno dei nomi di spicco del mondo teatrale italiano, regala al personaggio una recitazione forte ma sensibile e profonda, una assimilazione che lascia scomparire la figura dell’attrice, permettendo al personaggio di venir fuori con tutte le sue idiosincrasie e contraddizioni.

Una donna indomita e istintiva, più Hedda Gabler, nel senso di figlia di un aristocratico generale, che signora Tesman, moglie del giovane studioso Jorgen, interpretato dal bravo Jacopo Venturiero. Per raggiungere libertà e indipendenza, la giovane Hedda non esita a servirsi cinicamente degli altri, sino a spingere al suicidio lo scrittore ed ex amante Eilert Løvborg anche vecchio amico di gioventù del marito.

Løvborg, interpretato dal bravo Massimo Nicolini, è l’alter ego maschile della complessità di temperamento e di carattere di Hedda. Genio e sregolatezza dedito all’alcol e alla vita libera e disordinata, lo scrittore riesce a scrivere, ispirato dalla sua giovanissima e ingenua compagna Thea (interpretata dalla ventiduenne trevigiana Federica Rossellini), un saggio che sembrerebbe avere tutte le potenzialità del capolavoro di una vita. Se non fosse che Løvborg, di ritorno da una delle sue scorribande notturne, smarrisce l’unica copia del manoscritto.

Ad aggiungere pepe a un dramma già a tratti ironico è la figura sorniona e seduttrice del giudice Brack, (un istrionico Luciano Roman) una sorta di consigliere di famiglia più che altro dedito a uno spassoso corteggiamento verso Hedda che si trasformerà in ricatto per un impertinente ménage à trois.

Il regista di origini campane Antonio Calenda, nel riproporre questo classico di Ibsen, è andato sul sicuro con una squadra di attori professionalmente impeccabili. La scenografia è funzionale e semplice, e ha il suo tocco originale e geniale proprio nella sistemazione, al fondo del palcoscenico, del quadro con la figura del generale. Un elemento scenico che sembra sin dal primo accendersi delle luci sul palco, quasi voler suggerire agli spettatori il responsabile reale, l’artefice recondito della personalità irrisolta, in fondo insicura e quasi bipolare di Hedda. «Ibsen è capace di scavare nel pozzo nero dell’inconscio e di raccontare attraverso il suo teatro inquietudini di assoluta attualità» ha commentato il regista nella presentazione alla stampa dello spettacolo «Se da scienziato Freud esterna le proprie scoperte, Ibsen lo fa da artista. Depista, accenna, occulta, ma dalle pieghe del linguaggio» continua «dalle ombre interiori è facile intuire quanti fantasmi incestuosi padre-figlia popolino la scena, quanti drammi psicologici, quanto l’oscurità abbia da rivelare».
 


 


Hedda Gabbler di Henrik Ibsen
dal 17 al 22 dicembre al Teatro Quirino, Roma
con Manuela Mandracchia, Luciano Romane con Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza
regia Antonio Calenda
scene Pier Paolo Bisleri
musiche Germano Mazzocchetti
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e Compagnia Enfi Teatro 

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“effe – Periodico di Altre Narratività”: numero uno

Continua l’evoluzione del nostro periodico di Altre Narratività. Fresco di stampa, effe numero uno cambia aspetto: ridotto nel formato, ampliato nei contenuti, questo volume è il risultato della collaborazione tra FlaneríStudio Pilar e 42Linee.

Sei racconti inediti, sei autori diversi (Marco Lazzarotto, Alessandro Chiappanuvoli, Riccardo Romagnoli, Luigi Ippoliti, Alessio Belli e Luciano Funetta) si cimentano nell’interpretazione narrativa della distopia, il capovolgimento del reale.

Al collettivo degli illustratori (Patrizio Anastasi, Giulio Castagnaro, Andrea Chronopoulos, Alessandra De Cristofaro, Andrea Mongia e Giulia Tomai) l’incarico di accompagnare le parole degli autori con il proprio contributo creativo.

Effe è un esperimento nato dalla voglia di convogliare tutte le facce della creatività in una sola antologia, un prodotto indipendente, frutto della nostra passione per i racconti e per la ricerca di narrazioni inedite.

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero uno:

  • Utopie e processi degenerativi di Roberto Bioy Fälsher
  • «Adotta una telecamera di sorveglianza!» di Marco Lazzarotto
  • Lifenet di Alessandro Chiappanuvoli
  • I Troni di Saturno di Riccardo Romagnoli
  • Una volta mi chiamavano Ronald di Luigi Ippoliti
  • Non è un bel momento di Alessio Belli
  • Tahmer-Za, a cura di Luciano Funetta

 

Leggi in anteprima l’editoriale di Roberto Bioy Fälsher: Utopie e processi degenerativi

Qui è possibile acquistare online il volume e consultare l’elenco delle librerie in cui è distribuito.

Per maggiori informazioni: periodico.effe@42linee.it

minimum fax: a tu per tu con Martina Testa

Dopo un percorso esplorativo dietro le quarte e tra i Sotterranei di minimum fax, Flanerí conclude questo appuntamento mensile incontrando Martina Testa.

Da redattrice a figura di riferimento, il ruolo di Martina Testa è cresciuto insieme a minimum fax grazie alle abilità di traduttrice e alle competenze editoriali soprattutto nel campo della narrativa straniera: un lungo lavoro che ha impresso lineamenti sempre più riconoscibili al volto della casa editrice.

Sei la direttrice editoriale di minimum fax. Ci racconti in che cosa consiste il tuo lavoro?

Innanzitutto sono l’editor responsabile della narrativa straniera, che nel nostro caso è praticamente tutta in lingua inglese, proveniente perlopiù dagli Stati Uniti: in questo settore, mi occupo di leggere e valutare i testi che ci mandano in lettura le agenzie letterarie e, nel caso, di acquistarne i diritti; di commissionare le traduzioni (alcune, per bieco favoritismo, a me medesima), di rivederle (non tutte ma molte), di scrivere i testi di presentazione (schede per la promozione, risvolti e quarte di copertina). In quanto direttore editoriale, sovrintendo poi alla scelta dei testi di tutte le collane, esprimendo pareri sui progetti presentati dagli altri colleghi nelle loro aree di competenza, e coordinando il loro lavoro. Sovrintendo alla scelta dei titoli e delle copertine di ogni libro e lavoro a stretto contatto con gli altri editor e la redazione dando pareri su vari aspetti del lavoro editoriale (per questo libro serve una prefazione? a chi la assegniamo? in questo ci mettiamo un indice dei nomi? che ci scriviamo su questa fascetta promozionale? in che ordine mettiamo le collane nel catalogo novità?). Un mio compito molto importante è anche strutturare il piano editoriale, ossia decidere (tenendo conto delle esigenze di ciascun reparto della casa editrice) quali e quanti libri di ciascuna collana devono uscire quando. Collaboro inoltre con l’ufficio commerciale e con l’ufficio stampa in vari momenti della filiera del lavoro editoriale: per esempio quando si tratta di presentare le novità ai promotori, di lanciare una campagna promozionale, di organizzare il viaggio in Italia di un autore straniero, ecc., vengo interpellata e ragioniamo insieme sul da farsi. Poi c’è una parte diciamo di rappresentanza e di public relations: incontro autori, agenti letterari, editori stranieri, ogni tanto parlo a delle tavole rotonde e – last but not least – rispondo alle interviste come questa.

minimum fax lavora da anni a un progetto editoriale che si è rivelato vincente, tanto da affermarsi come modello nel panorama italiano anche in un momento di crisi editoriale. Di questi tempi, su quali aspetti avete puntato per mantenere vivo l’interesse verso le vostre proposte?

A questo punto tipicamente l’editore o il direttore editoriale risponde in maniera molto decisa snocciolando la propria strategia, elencando una serie di punti di forza del piano editoriale recente e facendo previsioni ottimistiche per il futuro. Ma io preferisco essere sincera: la crisi del mercato editoriale ci disorienta, ci fa fare un sacco di domande a cui non sappiamo dare le risposte. In casa editrice parliamo molto, ci confrontiamo, mettiamo sul tavolo ipotesi e poi le smentiamo, qualcuno la vede in un modo, qualcuno in un’altra. Insomma: non abbiamo ricette pronte per garantirci che, anche in un periodo di contrazione di tutto il settore, i lettori continuino a comprare i nostri libri. Fin qui, abbiamo continuato a muoverci sulle linee che ci hanno sempre contraddistinto: la qualità e l’originalità della proposta (pubblicare libri che non siano la fotocopia di altri libri, che non si inseriscano in questo o quel trend, che non abbiano un punto di vista banale sul mondo, né siano scritti in maniera approssimativa e piatta); la cura redazionale, anche a scapito della convenienza economica (puntuali revisioni delle traduzioni, molto lavoro di editing, grande cura nelle scelte grafiche, alta qualità cartotecnica); un rapporto il più possibile diretto, capillare, aperto con i lettori (organizzazione di presentazioni e reading su tutto il territorio nazionale; partecipazione a fiere, festival, eventi; e sempre più, negli ultimi tempi, forte presenza online e interattività sui social network). Insomma, l’idea in cui continuiamo a credere è quella di pubblicare libri che ci entusiasmino, di realizzarli il meglio possibile, di accompagnarli con passione verso il lettore. Il mercato è in forte decrescita, e già quest’anno ne abbiamo fatto le spese: la nostra visione editoriale, alla quale fin qui siamo rimasti coerenti, continuerà a essere sostenibile o dovremo modificarla? Modificarla nei contenuti? Nelle modalità realizzative? Ancora non lo sappiamo: è una sfida delicatissima, quella di adeguarci a una realtà mutata senza snaturare la nostra identità, di cui siamo orgogliosi. Posso solo dire che io la prendo molto sul serio, e proprio perché la prendo sul serio non voglio far finta di avere la soluzione in tasca.

Oltre a essere direttrice editoriale, sei anche traduttrice di autori molto complessi. Le tue traduzioni sono note per la raffinatezza lessicale e l’eleganza della resa narrativa. Ci sono dei traduttori a cui ti ispiri? Quali sono i tuoi modelli di riferimento?

No, veramente non ho traduttori a cui mi ispiro e non ho modelli. Non ho seguito corsi di traduzione, non ho avuto insegnanti. Ma da quando ho cominciato, una quindicina di anni fa, ho avuto occasione di lavorare come revisore sul lavoro di traduttori che stimo, in molti casi più o meno miei coetanei, e il confronto con loro mi ha senz’altro aiutata a migliorare (con alcuni mi sento di dire che “siamo cresciuti insieme”, professionalmente parlando: Matteo Colombo, Federica Aceto, Adelaide Cioni…); così come mi hanno aiutata i redattori e i traduttori che si sono occupati della revisione del mio lavoro, e a cui devo molto.

Ho letto il tuo editoriale del settembre del 2008. L’incontro con David Foster Wallace che cosa ti ha lasciato? È un’esperienza che indirizza tuttora i tuoi percorsi?

Se intendi l’incontro con lui di persona, mi ha lasciato semplicemente il ricordo di un uomo gentile e affettuoso, e molto, molto intelligente. Sai quando si dice che uno non dovrebbe mai incontrare di persona i propri “miti”, perché si resta sempre delusi? A me non è quasi mai capitato di restare delusa nell’incontrare a tu per tu qualcuno che ammiravo, e Wallace non fa eccezione. Detto questo: aver conosciuto l’uomo David Foster Wallace non direi che mi ha “indirizzata” in nessun senso. Aver letto i suoi libri (vorrei precisare che ne ho letto qualcuno, non tutti: in Italia ci sono lettori e critici che senz’altro conoscono molto meglio di me la sua opera) invece ha senz’altro contribuito a formare il mio gusto letterario, e alcune delle sue idee sulla letteratura, e sulla cultura e la società contemporanea in genere, mi sembrano talmente condivisibili che costituiscono tuttora una parte fondamentale del mio modo di vedere il mondo. Mi riferisco soprattutto a un suo saggio intitolato «E unibus pluram», in Tennis, tv, trigonometria, tornado, ma anche ai suoi saggi sull’11 settembre e sul senatore McCain (in Considera l’aragosta), e alle cose che dice in alcune delle sue interviste (che ora sono raccolte in Un antidoto contro la solitudine). L’idea che la letteratura sia, appunto, un antidoto al solipsismo e alla solitudine, che l’ironia sia rivoluzionaria ma possa diventare conservatrice, che la cultura commerciale di massa rimuova morbosamente il dolore e somministri ossessivamente un certo tipo di piacere superficiale, che la propria “normalità” vada coltivata molto più del proprio ego… queste idee continuano, in un certo senso, a darmi la rotta. E i suoi reportage dalla crociera nei Caraibi e dalla fiera statale dell’Illinois e dalla campagna elettorale di McCain continuano a farmi ridere tantissimo quando mi capita di rileggerli. Pure questa è una bella eredità.

Grazie a Martina per la disponibilità. 

“The Shining Girls” di Lauren Beukes

«Nulla è riducibile all’infinito. Puoi scomporre un atomo, ma non puoi vaporizzarlo. La roba resta. Ti si attacca, persino quando si rompe. Come Humpty Dumpty. A un certo punto, devi raccogliere i pezzi. O andartene via. Senza voltarti a guardare».

Da un thriller ti aspetti una vittima, un colpevole e una trama che prima o poi te li serva su un vassoio.

È riduttivo, quindi, definire thriller il nuovo romanzo di Lauren Beukes, The Shining Girls (IlSaggiatore, 2013): il lettore appassionato del genere si troverà spesso a dover interpretare circostanze più che analizzare conseguenze a fatti reali, con l’aggravante del viaggio nel tempo, tema molto lontano dallo standard a cui è abituato.

Concedere a un serial killer claudicante, Harper Curtis, una Casa che funge da macabra macchina del tempo è il biglietto vincente per il delitto perfetto, se a questo aggiungiamo la particolarità che hanno le vittime designate di brillare, l’omicidio seriale diventa un capolavoro.

Non sappiamo in fondo chi è Harper Curtis, né perché la Casa esige da lui questi tributi umani, l’autrice ci impone un disegno già stabilito, la lista di shining girls esiste, il loro passato e il loro futuro non hanno più senso, moriranno. Sono già morte.

La trama è resa impalpabile dai continui e casuali salti temporali dal 1929 al 1993 che contraddistinguono ogni capitolo, come a voler rimarcare la totale inconsistenza del tempo, non importa a che epoca appartengono le donne, Harper sarà lì ad aspettarle, coltello alla mano.

Viene da sé pensare, dunque, che i crimini commessi restino impuniti, ma ciò che rende umano anche l’omicida più impassibile è l’errore e Harper lo commette, lasciando in vita Kirby Mazrachi che non si darà pace finché non troverà l’artefice della sua quasi morte: «Devi essere tu a tagliare per lasciare che il dolore dell’intimo esca. Farti tagliare da qualcun altro è come barare».

In quasi settant’anni di nomi cancellati, Chicago rimane l’unica costante che li lega tutti, dall’era post-Depressione alla seconda guerra mondiale, dagli insubordinati anni Ottanta alle scene del punk e del teatro alternativo degli anni Novanta, la città si modella su se stessa cambiando aspetto e anima innumerevoli volte e creando immancabilmente uno scenario ucronico e senza scampo.

Ogni vittima ha avuto una vita depredata, smaterializzata, ma che vale la pena di essere raccontata e ogni vita è la tappa di un rito più grande che resta incompiuto: la Beukes non condiziona l’immaginazione del lettore, ma gli offre più possibilità.

È doveroso sottolineare che l’autrice sudafricana, nominata dal Guardian tra le migliori giovani scrittrici di fantascienza, sia riuscita a confezionare una storia definita dal maestro Stephen King «geniale» e che Leonardo Di Caprio ne ha già acquisito i diritti per farne un film con la sua casa di produzione Appian Way.

Best seller in Sudafrica e Gran Bretagna, pubblicato in Italia da IlSaggiatore, The Shining Girls è un libro più che mai attuale, che contestualizza il tema del femminicidio e riflette e fa riflettere sul male

(Lauren Beukes, The Shining Girls, trad. di Seba Pezzani, IlSaggiatore, 2013, pp. 462, euro 16,50)

Dalle serie sotto l’albero a uno sguardo al nuovo anno

A meno di dieci giorni da Natale le ferie sono ormai a un passo. Come le serie televisive americane anche noi di Flanerí siamo pronti per la nostra pausa di mid-season, non prima però di lasciarvi qualche consiglio per la visione e un primo sguardo a cosa ha da offrirci il 2014.

Partiamo dalle note più o meno dolenti: da settembre a oggi non è sembrata troppo convincente la schiera dei nuovi show del 2013. Le sensazioni più positive arrivano dai casi di The Blacklist o dalle streghe di American Horror Story: Coven, da tenere comunque d’occhio fino a fine stagione per ulteriori aggiornamenti.

Se sarete alla ricerca di una boccata d’aria fresca durante qualche noioso pomeriggio a casa coi parenti, la soluzione è sicuramente quella di recuperare The Michael J. Fox Show. Ne abbiamo già accennato nei mesi scorsi, ma va ribadito il successo della serie di Michael J. Fox, una commedia classica, poco fuori dagli schemi, e forse proprio per questo efficace. A ciò si aggiunge un attore che ha saputo fare della sua malattia (il Parkinson) non solo un “compagno” ma addirittura un pretesto per facile auto-ironia.

Se invece si è in cerca di emozioni completamente diverse, da novembre è approdata su Sky The Americans: un’intrigante tuffo negli anni Ottanta e nel pieno della guerra fredda vissuta dal punto di vista di due agenti del KGB infiltrati in America. Uno show da non lasciarsi sfuggire di cui ci occuperemo meglio dopo le feste per stuzzicare ancora di più la vostra curiosità.

Le più grandi aspettative vanno riposte però soprattutto nel prossimo anno. Si spera veramente che la nostra pazienza da spettatori possa essere adeguatamente ripagata. Per me il primo pensiero va sempre e comunque a Crossbones, la serie NBC su Barbanera con protagonista John Malkovich. Dopo oltre un anno e mezzo di spasmodica attesa a ottobre sono iniziate finalmente le riprese dello show che sembra ormai pronto a svelarsi. Di qualche altro nome vi avevamo parlato già a settembre presentando la nuova stagione americana, adesso è il momento di dare uno sguardo a quanto abbiamo lasciato in sospeso. Come per esempio Intelligence, uno dei lavori di punta della CBS, con Josh Holloway (il Sawyer di Lost) nei panni di Gabriel Vaughn, un agente segreto con un microchip impiantato nel cervello in grado di connetterlo a qualsiasi rete di informazione sulla Terra per permettergli di difendere gli Stati Uniti. L’attesa per capire le effettive potenzialità dello show non sarà lunga, l’episodio pilota è infatti previsto per il 7 gennaio.

Neanche una settimana dopo sarà d’obbligo sintonizzarsi su HBO per la premiere di True Detective e le indagini (attraverso diverse linee temporali)  di due detective che sono sulle tracce di un serial killer in Louisiana da diciassette lunghi anni. Nel cast diversi nomi d’eccezione come Matthew McConaughey e Woody Harrelson non fanno altro che aumentare le aspettative attorno a questo progetto.

Altri nomi li avete già letti da settembre a oggi, di qualcuno ancora si sa troppo poco (come ad esempio della trasposizione televisiva di Fargo che sembra prevista per un generico 2014). All’appello mancano le grandi serie rinnovate per nuove stagioni come Utopia, Les revenantsSherlock o la seconda parte della quarta stagione di The Walking Dead, solo per citarne alcuni. Se invece come me vi siete innamorati di Black Mirror preparatevi a soffrire e incrociare le dita: Charlie Brooker ha confermato di avere diverse idee in cantiere ma di non essere ancora stato contattato ufficialmente per programmare una terza stagione. Speriamo le prossime news siano positive.

In ogni caso se qualcosa vi è sfuggito, se i nomi sono davvero troppi da ricordare, se volete di più su tutta la programmazione americana e non solo restate sintonizzati, perché “LaSerie” di Flanerí è già pronta per il 2014 e non si farà sfuggire niente. 

“Albert Camus. Una vita per la verità” di Virgil Tanase

L’avere a che fare con un pensatore come Camus, uno degli autori più importanti del Novecento, richiede il confrontarsi con la ricerca della verità, come suggerisce del resto il sottotitolo del libro di Virgil Tanase, aggiunto all’edizione italiana e assente in quella originale: Una vita per la verità. È appropriato richiamare il concetto di verità per quanto riguarda la vita e l’opera di Albert Camus poiché esso rappresenta, quando è “autentico”, un’istanza scomoda e spesso latitante nella storia del pensiero. Con ciò intendo dire che la verità, più che difficilmente raggiungibile è decisamente spesso scomoda, inaspettata e a volte sconvolgente. Nondimeno lo stesso Camus, nel Mito di Sisifo, afferma: «Cercare ciò che è vero, non significa cercare ciò che è desiderabile». Al di là dell’ideologia politica, delle prese di posizioni irrevocabili, dello stereotipo del pensatore engagé, la vita di Albert Camus è caratterizzata dalla ricerca instancabile della coerenza, all’insegna dell’onestà politica e intellettuale.

Il percorso che ci conduce sulle tracce della verità è naturalmente tortuoso e pieno di dubbi, ed è infatti il dubbio il motore, la spinta insita, per la ricerca della verità. Un dubbio da cui Camus sarà sempre tormentato e che lo renderà costantemente insicuro circa le sue vocazioni di scrittore e di pensatore. Camus infatti considera la gloria e il successo a lui riconosciuti come immeritati: perfino il premio Nobel per la letteratura non riuscirà a scalfire le riserve sulla propria vocazione.

Con uno stile a volte telegrafico e talora narrativo, Virgil Tanase ci restituisce l’immagine di un uomo che per tutta la vita non ha mai accettato il compromesso, che non ha temuto di rimanere isolato ed emarginato da una folta schiera di intellettuali faziosi: «So che per un uomo libero non c’è altro futuro che l’esilio o la rivolta sterile». E libero Camus lo era veramente, ma a caro prezzo poiché era immischiato suo malgrado in una situazione politica in cui chi non aveva il coraggio di portare avanti le proprie convinzioni era costretto a cambiarle per poter vivere.

La rivolta di Camus, lungi dal degradarsi divenendo rivoluzione, si innesta più che altro sulla ricerca di senso, basata sulla convinzione antimarxista che l’individuo non può essere ridotto a una funzione da agente economico all’interno della lotta di classe. Lo scrittore algerino si rifiuta inoltre di «situare la sua salvezza [dell’individuo] in un progresso che si soddisfa di beni materiali senza porsi domande sul senso dell’esistenza». Una presa di posizione, questa, che lo rendeva nemico sia dei partigiani della libera impresa che dei comunisti, in quanto la posta in gioco tra queste due fazioni consisteva nei beni materiali. Per Camus invece vi è qualcosa di più importante e che trascende la mera conservazione della specie o la comodità e il benessere materiale dell’individuo: la sua insistenza sulla ricerca di un senso dell’esistenza restituisce all’uomo la sua dignità di essere, al di là di tutte le ideologie politiche che tentano di farne un ingranaggio nel processo rivoluzionario che, nella visione del pensatore algerino, porterà soltanto a nuove forme istituzionalizzate di oppressione.


(Virgil Tanase, Albert Camus. Una vita per la verità, trad. di Alessandro Bresolin, Castelvecchi, 2013, pp. 284, euro 22)

“Carlo Saraceni. Un Veneziano tra Roma e l’Europa” a Palazzo Venezia

Palazzo Venezia ospita, dal 29 novembre 2013 al 2 marzo 2014, la prima mostra monografica del maestro secentesco Carlo Saraceni, detto Veneziano, dal titolo Carlo Saraceni. Un Veneziano tra Roma e l’Europa.

Dopo circa due anni di studi e pianificazione, vengono per la prima volta raccolte, con prestiti nazionali e internazionali – Venere e Marte provengono dalla collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid, il Paradiso dal Metropolitan Museum of Art di New York – le opere di questo pittore di nascita veneziana (1579/1620) che trascorse a Roma gli anni più intensi della sua carriera.

Giunse nella capitale intorno al 1598, un periodo di grande fervore per le arti dovuto alla prossimità con l’anno santo del 1600. Testimonianze storiche dell’epoca raccontano, infatti, che proprio in quegli anni la città divenne la capitale artistica dell’Europa, sia per tradizione consolidata, che per la presenza di migliaia tra pittori e scultori. Saraceni rimase in città per una ventina d’anni lasciando opere ammirevoli. Si pensi agli affreschi della Sala Regia del palazzo del Quirinale. Divenne ben presto il migliore seguace di Caravaggio, di cui ammirò le opere e lo stile di vita

Nelle tele del Veneziano è riconoscibile l’elemento principale della pittura caravaggesca: il contrasto luce/ombra. Eppure tutto ciò che in Caravaggio è dramma e potenza, si trasforma nelle opere dell’ammiratore-discepolo in poesia e sentimento. I contrasti sono ammorbiditi. Lo si nota nei soggetti scelti dal Saraceni: vedute agresti, scene mitologiche, atmosfere concilianti. Lo stile del Saraceni contiene, inoltre, influssi nordeuropei come il gusto per i paesaggi e la presenza della natura attorno alle figure. Non uno sperimentatore, dunque, ma un artista con una calibratura classica molto riconoscibile. Capace di rielaborare gli insegnamenti caravaggeschi con un tocco personale, con l’intento di cercare una convergenza tra le diverse scholae di quel tempo, pur mantenendo la sua aderenza alla pittura veneziana.

Ne è esempio l’immagine scelta come icona della mostra: Venere e Marte, databile nei primi anni del ’600 e ispirata all’opera di Orazio. Le figure protagoniste, con coloriti differenti, sono distese su bianche e morbide lenzuola. L’immagine contiene la gamma cromatica tipica della scuola veneziana, nota per il suo tonalismo, ovvero una particolare accensione di colori. Ne risulta una scena morbida quanto languida nella fusione perfetta tra i soggetti e l’ambiente circostante. Marte si denuda anche del suo ruolo, sparpagliando per terra le armi e con esse si divertono dispettosi i putti. Fa da sfondo un antico palazzo impreziosito da statue, stucchi e decorazioni, rimandi a elementi architettonici dell’arte classica.
 


La splendida pala d’altare del Transito della Vergine (1610 circa) è un esempio di pittura devozionale. Al pittore, infatti, vennero spesso affidati incarichi pubblici e commissionati lavori dalle famiglie più aristocratiche della città (come gli Aldobrandini e i Borghese). La storia di questo capolavoro che si trova a Roma, nella chiesa di Santa Maria della Scala è molto curiosa: inizialmente l’opera era stata affidata al Caravaggio; tuttavia, l’eccessivo realismo della scena e la posizione esangue di Maria (con un braccio abbandonato e i piedi scoperti) furono giudicati dissacranti. Si disse addirittura che la modella era stata una prostituta. Quindi la commissione passò al Saraceni. Anch’egli fece diverse prove e arricchì la prima austera versione della Madonna in atto di preghiera, con i cori angelici, i fiori e gli strumenti musicali che vediamo oggi nella parte superiore del quadro. Inoltre, sullo sfondo, a sinistra della figura centrale, scorgiamo appena due figure in penombra, quasi escluse dalla scena. In esse si può ipotizzare un autoritratto del Veneziano (probabilmente l’uomo che guarda al pubblico) e di un suo aiutante (l’altro con i baffetti). La preziosa Morte della Vergine di Caravaggio, invece, dopo essere stata acquistata dal Duca di Mantova, rivenduta e passata persino da Luigi XIV, si trova oggi al Louvre.
 

 


La storia di Giuditta è un tema ricorrente nella pittura caravaggesca e anche Saraceni la ritrasse in diverse tele. In Giuditta con la testa di Oloferne (1615 circa) si ammira uno splendido gioco di luce. È un’opera della maturità, le cui ombre esaltano i personaggi: la protagonista con espressione trionfante, quasi spavalda, domina la scena; la serva incredula e sottomessa si copre la bocca con un lembo del telo in cui rinchiuderanno per sempre la testa del “cattivo”, per metà in ombra.

Una candela illumina il centro del quadro e un’altra fonte di luce si trova a destra, sullo sfondo. Nel dipinto cosiddetto «a lume di notte», Saraceni subì l’influenza del pittore e disegnatore tedesco Adam Elsheimer che in quegli anni si trovava a Roma. Il risultato è di sublime maestria.
 


La stessa abilità nel creare buio e luce la troviamo nel Diluvio universale (1616).

Una miriade di personaggi si agita in preda alla paura sotto a un cielo intensamente nero e spaventoso, rischiarato qua e là dal bagliore dei lampi. Segni di una terribile tempesta che si sta per abbattere sul creato. In questa notte infernale spicca la vastità scenica. Si passa drammaticamente dal primo piano in luce sulla sinistra – una donna morente con i bambini accanto e l’anziana in preghiera – alla penombra che scende in un secondo piano – disperati su imbarcazioni varie – alle case sulle colline, ancora più in fondo. Elementi simbolici emergono dalla confusione. Non c’è salvezza per chi si attacca alle cose terrene – come gli individui aggrappati a botti di legno e altri oggetti galleggianti. A destra un elegante cavaliere di spalle si distingue appena. Forse l’autore stesso. Quest’olio appare per la prima volta al pubblico, dopo il ritrovamento in un convento di clausura in provincia di Napoli.



Il percorso espositivo, curato dalla nota studiosa del ’400 romano Maria Giulia Aurigemma, prosegue e appassiona con circa 70 opere sapientemente sistemate in 8 sale.

 

Carlo Saraceni. Un Veneziano tra Roma e l’Europa.
Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, Roma.
Dal 29 novembre 2013 al 2 marzo 2014
Qui ulteriori informazioni.

“I sogni segreti di Walter Mitty” di Ben Stiller

Sorprendente ritorno alla regia di Ben Stiller, a cinque anni di distanza dal successo di Tropic Thunder, che produce e interpreta I sogni segreti di Walter Mitty, tratto dal racconto breve dell’umorista James Thurber.

Walter Mitty è il responsabile dell’archivio negativi della storica rivista Life. Non ha una grande vita sociale, si perde appresso alla propria immaginazione in cui si figura inarrestabile eroe per la collega Cheryl, suo segreto amore con cui non riesce neanche a parlare e cerca di conquistare attraverso un sito di appuntamenti. Quando la rivista viene acquisita da un nuovo gruppo si prospetta il passaggio della testata in digitale e il posto di Walter, e di molti altri, inizia a diventare traballante. Rimane da mandare in edicola un ultimo numero della rivista. Per la prima pagina il leggendario fotografo Sean O’Connell ha inviato a Mitty quello che ritiene essere il suo scatto migliore, «la quintessenza», rigorosamente in analogico, ma Walter non sa dove sia finito il negativo, il numero venticinque del rullino, da sviluppare. Per riuscire a trovarlo dovrà partire per un viaggio sulle tracce del fotoreporter, affrontando finalmente la vita al di fuori della redazione e dalla sua fantasia.

Nella cultura statunitense, Walter Mitty è diventato sinonimo di sognatore sin dai tempi del testo di Thurber (1943) e della prima trasposizione cinematografica, Sogni proibiti (1947), con Danny Kaye. La “sindrome di Walter Mitty” colpisce chiunque sogni a occhi aperti, si perda appresso a fantasie più o meno improbabili alienandosi dal mondo. Ne hanno sofferto molti personaggi della cultura popolare, da Snoopy a J.D. della serie televisiva Scrubs, fornendo anche ispirazione al film italiano Sogni mostruosamente proibiti (1982), diretto da Neri Parenti e interpretato da Paolo Villaggio. Per Ennio Flaiano, Walter Mitty è «il personaggio più notevole del nostro tempo», (scriveva nel 1949), colui che ha «disceso l’ultimo scalino della degradazione romantica e non ha altro conforto, che di vedersi vivere: però sotto altre spoglie e in ben altre circostanze che non siano quelle della sua mediocre esistenza».

Si diceva, sorprendente il film di Stiller, perché dopo i successi ottenuti come autore e attore comico, senza timore di scivolare nel demenziale, con I sogni segreti di Walter Mitty conferisce al proprio cinema una vena appunto romantica nel descrivere la vita di un sognatore in controtendenza rispetto alla mentalità dominante. Circostanze distributive autorizzano a un confronto con un film apparentemente lontano come Still Life di Uberto Pasolini. Entrambi i film vedono un protagonista solitario e mite che perde il proprio lavoro in quanto espressione di un’idea diversa di concepire il tempo, prima ancora che la professione, visto non come elemento da porre in rapporto col denaro ma come sinonimo di cura e attenzione. Mitty e il John May di Pasolini amano la loro professione e a essa si dedicano incuranti di ogni idea di profitto, prendendosi il tempo necessario per fare il lavoro al meglio, lontani e alieni dalla logica cannibalistica del consumo immediato e destinato all’oblio che vogliono invece imporre i loro capi.

Intendiamoci, il film di Stiller rimane quello che è, cioè una commedia hollywoodiana destinata al grande consumo con il suo bagaglio di buoni sentimenti e moralismi di facile presa, ma riesce a dire qualcosa con un linguaggio sincero in ricordo dei tempi della tecnologia (qui è la fotografia, ma si può vedere per estensione anche come riferimento al cinema) analogica ormai quasi completamente soppiantata dal digitale e dalla sua frenetica velocità.

La direzione della fotografia di Stuart Dryburgh esalta gli splendidi paesaggi (Groenlandia, Islanda, Afghanistan, Himalaya) in cui si muove Walter Mitty alla ricerca del negativo perduto.

Shirley MacLaine interpreta la madre di Ben Stiller, Sean Penn gioca con se stesso nei panni di Sean O’Connell.

Di grande impatto l’immagine che si rivela dal famigerato negativo venticinque una volta sviluppato.

(I sogni segreti di Walter Mitty, di Ben Stiller, 2013, commedia, 114’)

“Ne vale la pena” di Carlo Mazzerbo con Gregorio Catalano

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Sembra che Carlo Mazzerbo, da trent’anni nell’amministrazione carceraria, abbia preso alla lettera, nel corso della sua carriera, l’articolo 27 della Costituzione. O almeno è la conclusione alla quale si giunge leggendo il suo Ne vale la pena. Gorgona, una storia di detenzione, lavoro e riscatto (Nutrimenti, 2013) scritto assieme al giornalista Gregorio Catalano. Un libro dallo stile semplice (forse fin troppo), che racconta il tentativo riuscito di gestione rivoluzionaria di un penitenziario.

«Oggi la popolazione carceraria è di 65.891 unità, con ventimila eccedenze», racconta l’autore nelle pagine iniziali del libro, «I sottoposti a misure alternative, affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare e semilibertà sono circa diciottomila, quelli in attesa di giudizio venticinquemila, i condannati quarantamila. Ebbene, appena il tredici per cento lavora, il resto trascorre venti ore in cella senza poter svolgere alcuna attività». Questa la premessa del saggio, dalla quale l’autore parte per fare una rapida carrellata su quanto ha trovato nelle carceri italiane nei primi anni della sua carriera; istituti dove è «difficile ricordare un nome, perdi il filo logico di quello che fai, cerchi di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali in un contesto precario, violento, con il sovraffollamento e le disfunzioni che complicano tutto, nemmeno il tempo di stabilire rapporti umani minimi».

Un inizio di carriera brutale che trova la svolta nell’assegnazione alla prigione di Gorgona, la più piccola isola dell’Arcipelago toscano. Una realtà che gli permetterà di mettere in pratica la sua idea di penitenziario: «un luogo dove le sbarre vengono chiuse solo di notte, i contatti umani sono impegnativi e che offre opportunità di lavoro nelle quali credo con convinzione». Una prigione dove i detenuti lavorano, preparandosi per il ritorno nella società. Nelle pagine centrali del libro il lettore potrà scoprire tutte le iniziative realizzate da Mazzerbo tra il 1989 e il 2004 tese a far socializzare, coinvolgere e quindi responsabilizzare la popolazione della casa di reclusione. Esperienze come il “Tg Galeotto” – telegiornale realizzato dai detenuti che racconta la realtà carceraria –, o la squadra di canottaggio che riesce a gareggiare perfino nelle gare livornesi. Ma non solo. Nascono esperienze difficili da accostare all’immaginario comune del carcere. Un esempio è l’acquacoltura – la produzione di pesci in ambienti confinati e controllati dall’uomo – che, oltre a fare degli utili, offre «una possibilità di lavoro diversa ai detenuti, da spendere una volta liberi».

L’idea di Mazzerbo si basa su un equilibrio delicato. Da una parte una selezione attenta delle domande di trasferimento a Gorgona: «Accogliamo detenuti con condanne pesanti, ma solo quelli con un fine pena non superiore ai dieci anni, insomma chi […] abbia una prospettiva non lontanissima di vita all’esterno. Perché se sai che di dover marcire in cella per quasi tutto il resto dei tuoi giorni, a che serve lavorare?». Dall’altra una concezione del rapporto carcerati-carcerieri che prende la forma della “vigilanza dinamica”: «Bisogna cercare di comprendere la personalità del detenuto, i suoi punti deboli, la sua indole, questo non solo per indirizzarlo nel reparto più adatto ma anche per gettare le basi del trattamento, che poi l’équipe dovrà correggere nel tempo per adeguarlo ai progressi e alle eventuali battute d’arresto».

Nel momento in cui una di queste condizioni venga violata, come si leggerà nel libro, il sistema crolla. Nonostante, questo, però, Mazzerbo è convinto che la strada che ha seguito gestendo il carcere di Gorgona sia stata quella giusta: «Certo, questo richiede molto più dell’applicazione di leggi e regolamenti, ma è indispensabile metterci passione vera, amore per quei luoghi, il mondo che li abita, e per gli obiettivi che insieme ci prefiggiamo. Senza coinvolgimento, quelle che viviamo come opportunità si trasformerebbero in problemi insormontabili. Sostengo da sempre, andando spesso contro corrente, che Gorgona non solo non vada chiusa ma che possa e debba essere presa a modello. E ne resto convinto. Perché non moltiplicare l’esperienza, creare anche in altri istituti occasioni di lavoro, di studio e di formazione? È un problema di volontà politica, prima ancora che di costi».

(Carlo Mazzerbo con Gregorio Catalano, Ne vale la pena. Gorgona, una storia di detenzione, lavoro e riscatto, Nutrimenti, 2013, pp. 192, euro 16) 

“Mondovisione” di Luciano Ligabue

Prima c’erano stati i post su Facebook. Indizi messi qua e là sui temi, poi le foto con i titoli delle tracce seguiti da quiz e indovinelli. Infine il lancio in radio de “Il sale della terra” per introdurre il nuovo disco. Tutto questo ha scatenato la curiosità dei fan e ne ha aumentato le attese. Così finalmente il 26 novembre Luciano Ligabue è tornato con un disco di inediti, Mondovisione, a tre anni di distanza da Arrivederci, mostro!

E l’attesa è stata ripagata dai successi. Mondovisione, il decimo disco di inediti di Ligabue, infatti, da subito ha scalato le classifiche e si mantiene in alto: è l’album con le più alte vendite digitali, quello più venduto nel 2013 ed è già certificato disco di platino; tutto questo è un record se consideriamo che è uscito da soli venti giorni. Ligabue non ha evidentemente deluso le aspettative dei suoi fan. Si guarda la copertina, si vede un mondo accartocciato come fosse una pallina di carta e si pensa un po’ al logo della Universal, un po’ a Carosello. Capiamo subito che si tratta di un disco in cui Ligabue canta, come suggerisce il titolo, la sua particolare visione del mondo e anche un po’ la sua nostalgia per qualche momento del passato. È un lavoro diverso già dalla produzione, affidata stavolta a Luciano Luisi, che dal 2008 è anche il tastierista della band che accompagna Ligabue.

Si diceva, o almeno così si era interpretato dalle parole dello stesso Ligabue, che questo sarebbe stato un disco politicizzato. Così, per fortuna, non è stato. Non c’è politica nelle 14 tracce di Mondovisione (12 brani e 2 strumentali); c’è rabbia per i tempi bui, c’è indignazione per un Paese lasciato lì a sopravvivere, ci sono rimpianti di cose sfuggite, ricordi di affetti, di amori; c’è, e non manca mai nel Ligabue più tosto di ieri e in quello più soft di oggi, quel piccolo tocco di speranza che serve a guardare meglio verso il futuro. Insomma, nonostante il cambio di look, i temi sono quelli di sempre. Quello che c’è di diverso in Mondovisione è più che altro, oltre alle contaminazioni elettroniche venute meno, un adeguamento ai gusti giovanili del momento: purtroppo, ci si è allontanati da quella superlativa commistione di generi e ritmi che era stata Arrivederci, mostro! con il suo rock, il pop, le sue ballate.

Troviamo indignazione accompagnata da atmosfere rock nelle tracce “Il sale della terra” e “Il muro del suono”«dove il capitano che fa l’inchino e gli avvocati che alzano il calice al cielo» sono evidenti richiami all’attualità. Brani scritti, come ha detto lo stesso Ligabue, «contro chi succhia denaro, potere e fiducia al prossimo». Ci sono poi le riflessioni personali e quelle sull’amore: così nel brano più pop “Siamo chi siamo”, con il suono di un bouzouki introduttivo, dove si citano Dante e Carducci; così anche ne “Il volume delle tue bugie”, canzone più classica che abbraccia ritmi folk e racconta della visione d’amore che cambia dopo una delusione.

C’è il Ligabue delle ballate in “La neve se ne frega”, brano che ricorda palesemente uno dei romanzi di Ligabue che porta lo stesso titolo e in “Tu sei lei”, secondo singolo andato in radio, un classico brano d’amore, decisamente commerciale. “Capo Spartivento” e “Il suono, il brutto e il cattivo” sono i due brani strumentali messi lì nei punti giusti «per dare respiro all’ascolto», come ha detto il cantautore emiliano. Il primo ha il nome del posto in Sardegna in cui Ligabue ha gettato le basi per il disco insieme alla band; il secondo richiama i suoni western.

“Nati per vivere (adesso e qui)” e “Con la scusa del rock’n’roll” sono brani rock decisamente ritmici, positivi e leggeri. “La terra trema, amore mio” e “Per sempre”sono due canzoni d’amore. La prima, molto personale, scritta dopo il terremoto in Emilia, è un brano lento che, dopo il dolore della distruzione, guarda al futuro e al coraggio di ricominciare. La seconda, con i suoi giochi di ritmo e il suo breve assolo di chitarra, abbraccia l’amore puro, soprattutto quello familiare che ci portiamo sempre dentro. Anche “Ciò che rimane di noi” è una canzone molto personale, dai toni forti e decisi, sul dolore dopo un amore finito, su quello che rimane. Il disco si chiude con l’arrangiamento complesso e ben riuscito di “Sono sempre i sogni a dare forma al mondo”, testo positivo e di speranza.

È un album molto attuale Mondovisione, dal punto di vista musicale, nei generi e nei temi; ma forse, dopo Arrivederci, mostro!, si poteva fare di più.


(Luciano Ligabue, Mondovisione, Zoo Aperto, 2013)
 

“Scritti di impegno incivile” di Ugo Cornia

Per lo spazio che occupano, per il come lo occupano, i 41 testi raccolti da Ugo Cornia sotto la definizione, non priva di una divertita perfidia, Scritti di impegno incivile (Quodlibet, 2013) accampano a prima vista filiazioni abbastanza dirette dalla veneranda pratica letteraria novecentesca dell’elzeviro; a immergervisi dentro da lettori, però, ci si rende poi conto che il loro antecedente è sensibilmente più antico, e, insieme, molto meno diafano e formalistico, di quello appena ricordato: è, con tutto il suo addentellato di carnalità terragna e di “indecenza” espressiva, il popolano sboccato e sardonico le cui pasquinate s’incaricava di far quadrare, entro aulici stampi da sonetto, Giuseppe Gioacchino Belli.

Belliana (del Belli che intesseva interi componimenti coi soli sinonimi della “cosa” e del “coso” meno nominabili e più nominati fra quanti ce ne regala il Buon Dio) è sicuramente la solenne sfacciataggine plebea con cui Cornia ama chiamare, e richiamare, pezzo dopo pezzo, pagina dopo pagina (con il compiacimento che si provava, da bambini, a dire a voce alta le parolacce così tanto vietate dalla nostra buona mamma, a forza di schiaffoni) tutti gli usi più naturali del “coso” medesimo: quello urinario, certo, ma ancora più quello – per restare al lessico corniano – «sfrizzolico», su cui anzi si imbastiscono spigliate variazioni, da quella, per così dire, contributiva che calcola quanto si gioverebbe il PIL di una imposizione sul commercio sessuale infraconiugale, a quella che ne prospetta l’applicazione, per il bene della Patria, al corpus vile della «culona», come con soave buon gusto viriloide ebbe a definire il nostro beneamato Mister B. la bestia nera del popolo ellenico, altresì nota come Frau Merkel.

Ma dove la vitalità sulfurea di questi graffianti non-elzeviri si apprezza al meglio, è nel meccanismo che praticamente tutti fanno entrare in funzione, in presenza degli aspetti sempre negativi, frustranti, che la cronaca di questi ultimi due anni, come del resto di qualunque altro di quelli precedenti, a memoria d’uomo, si è incaricata di buttarci fra i piedi: che si tratti del divieto di transito ai ciclisti o di neutrini sfuggenti e riafferrati, ecco scattare il gioco, paradossale, irriverente, felicemente creativo, del ribaltamento fantastico, la proposta, il più delle volte swiftiana, con cui la mente si riappropria dei suoi diritti sul mondo, e sembra perfino volerne prendere in parola l’assurdo e applicarlo fino alle estreme conseguenze, finché scoppi come un pallone gonfio di liquidi escrementizi.

Sicché in questi brevi, lucianeschi saggi di uno stralunato mezzo-punto, la parola riafferma la sua miracolosa facoltà di riscatto (come in certi personaggi di Aristofane, Lisistrata che convince le donne di Atene e di Sparta a fare quel particolare sciopero, finché i maschi allupati si arrendano a firmare la pace…) dal brutale scontro con la realtà, e la pagina stampata diventa la lente, saporosamente deformante, attraverso cui dà gusto guardarla, la realtà: tanto che – magari, con l’amaro in bocca – se ne ride.


(Ugo Cornia, Scritti di impegno incivile, Quodlibet, 2013, pp. 168, euro 14)