“Un fantastico via vai” di Leonardo Pieraccioni

A due anni di distanza da Finalmente la felicità torna uno dei campioni di incassi della commedia in Italia, Leonardo Pieraccioni, con Un fantastico via vai.

Arnaldo Nardi (il cognome è un omaggio a Francesco, truccatore amico e collaboratore di Pieraccioni scomparso recentemente) ha una vita abitudinaria e tranquilla. È sposato con Anita e vive con le loro due gemelle in una villetta fuori Arezzo, lavora in banca, ogni mercoledì sera esce con i colleghi Giovannelli e Esposito per un karaoke o per andare dietro a una delle fiamme di Giovannelli, e nel tempo libero ripara vecchi giocattoli. Tutto sembra scorrere normalmente finché un equivoco con la moglie lo butta fuori di casa. Arnaldo ha l’occasione per ripartire all’inseguimento di quei vent’anni di cui ha improvvisamente iniziato a sentire la mancanza. Va a vivere con quattro studenti fuori sede e adegua la sua vita alla loro, divenendo consigliere e amico fino a capire che fare di sé.

È cresciuto, se non altro anagraficamente, Leonardo Pieraccioni, e la sua filmografia segue questa crescita nel personaggio che propone, passato con gli anni e i film da scapolone in caccia d’amore a uomo impegnato con diversi gradi di difficoltà, fino all’ultima esplosione della crisi di mezza età.

Sposato con figlie, Nardi si lascia sedurre solo per un istante dalla nostalgia delle avventure di giovinezza per capire che il suo posto è lì, in quella villetta, con le sue abitudini e i suoi giorni tutti uguali.

C’è di rassicurante nei film di Pieraccioni che ogni volta che ne vedi uno, qualunque esso sia, sai esattamente come andrà a finire. Ci prova, in questo caso con la collaborazione in scrittura di Paolo Genovese, a creare sussulti, ostacoli o intralci, ma non ci riesce. Vedi e già sai che sarà l’ennesimo, inevitabile lieto fine generale. Perché oltre alla sua relazione in crisi, Arnaldo Nardi risolve i problemi di tutti i personaggi che incontra, con la parola giusta al momento giusto.

Con un andamento moraleggiante da oratorio della domenica, Arnaldo esorta i suoi coinquilini a superare le loro paure per vivere appieno la loro età. Perché «a vent’anni si è stupidi davvero», come cantava un cantautore amico di Pieraccioni, ma con il consiglio giusto si può essere meno stupidi. E quindi la ragazza un po’ facile risolve i problemi di comunicazione, anche tecnici, con il padre e risolve se stessa, il ragazzo di colore trova il coraggio di presentarsi al padre razzista della ragazza, il padre razzista della ragazza capisce di essere lui, la bestia, mentre la coinquilina incinta trova il coraggio di dire ai genitori che è incinta, e il calciatore fallito che vuole essere chirurgo vince la sua paura del sangue facendola partorire e superando ogni altra paura, anche quella di dover amare due persone insieme. Tutto questo in una giostra di dialetti diversi, umbro, romano, catanese, varie toscanità, napoletano, per non far mancare niente a nessuno e non scontentare nessun pubblico. C’è questa abitudine di affidarsi ai regionalismi di ogni tipo per caratterizzare i personaggi che ormai da tempo ha rivelato il goffo tentativo di coprire difetti di scrittura, ma ci si continua a fare affidamento.

«Bisogna saper scegliere il tempo, non arrivarci per contrarietà», per continuare a riferirsi a quel cantante che ha fatto anche qualche film con Pieraccioni. Arnaldo capisce che non è più tempo di girare «con le tette al vento» e anziché continuare a rimpiangere il tempo che fu lo affida ai giovani.

Cresciuto come i suoi personaggi, Pieraccioni guarda al passato con nostalgica ironia (l’autocitazione da I laureati della fuga dal ristorante e dal conto da pagare, con finale leggermente differente), capendo che «solo chi ha vent’anni può farti capire che non ce li hai più», come chiarisce l’inevitabile voce fuori campo.

Farcito di un giovanilismo semplice che annulla i problemi e ogni tipo di dimensione drammatica della condizione giovanile contemporanea, Un fantastico via vai si affida a un repertorio rodato di riferimenti alla cultura popolare e cliché narrativi basati sulla contrapposizione giovane-anziano, maturo-inesperto, senza aggiungere nulla al già visto e al noto.

I fedelissimi Panariello e Ceccherini fanno il razzista e il padre assente, la nuova coppia Maurizio Battista-Marco Marzocca i colleghi. Cameo di Enzo Iachetti e Alessandro Benvenuti.

 

(Un fantastico via vai, di Leonardo Pieraccioni, 2013, commedia, 95’)

 

“L’importanza dei luoghi comuni” di Marcello Fois

Un duello. Niente di più. E ovviamente niente di meno. Con le boscaglie e i pugnali incagliati nel mezzo. Non serve che colino altre definizioni. Questa è l’essenza del nuovo romanzo di Marcello Fois, L’importanza dei luoghi comuni (Einaudi, 2013).

Una stanza grande quanto un conflitto. Quello perenne tra Alessandra e Marinella, più che sorelle, con addosso quarantotto anni gemellari senza alcuna distensione. Hanno condiviso un ventre, nove mesi d’affitto coatto e poi solo rancore.

Alessandra ruggisce da subito, è la metà forte, diretta, incrollabile. Ha imparato a imporsi, ad affermare le sue azioni e a tradurle in soluzioni. Eccelle a scuola, soffia sicurezza, sa cosa desidera e se la procaccia. Marinella è il suo opposto, il negativo fotografico. Incerta, fragile, incapace di decidere e di concretizzare. Alta e larga quanto il suo fallimento, intrappolata nei vortici, nelle centrifughe delle sue costruzioni, tanto da inciampare più di quanto riesca a stare in piedi, tanto da non «seguire le sue vocazioni», dimenandosi ancora tra prestiti e case non sue.

Il luogo (comune) di scontro è il decesso del padre, evaporato quando erano bambine e ricomparso di forza attraverso la sua assenza.

Stavolta senza appello. Lo spazio di quell’occasione è la casa dove sono state piccole, dove sono state assieme, dove quel padre era ancora di carne, dove si è specchiato senza guardare il corridoio.

Dove la morte costringe a confrontarsi con la vita. Così quelle sono pareti di un’arena.

E Fois intorno ai loro scambi edifica e spande una tensione ferina, a cui partecipa ogni tassello dell’ambiente: «Le donne si fissarono giocando al massacro silenzioso di stare a vedere chi per prima abbassasse gli occhi. Fino a quando tutti i rumori si spensero, come nelle fiabe africane, quando […] le vittime riposano. Quando i bipedi riprendono a calpestare la terra, armati, guardinghi, assassini, attenti ai fruscii, ai versi, ai richiami. In quelle albe ogni suono è come un’attesa». Nel teatro la scenografia non resta a guarnire i muri, si schiera in campo, innalza i toni e le temperature. È un attore, o meglio, un attante, un contrappunto, un controcanto.

E l’intera vicenda fluisce come una pièce con tanto di coro, un dialogo serrato in cui gli estremi si rovesciano, in cui Alessandra non è poi così invincibile e Marinella forse non così friabile. In cui in un attimo la rabbia deflagra, gli equilibri si frantumano per tornare al loro posto, in «un gorgo oscuro, schiumoso, nel borbottio del non detto», dove tutto può “gattopardianamente” cambiare a tal punto da non cambiare affatto.

Dove un’isola sbuca all’improvviso dal nulla acquoso per rituffarsi giù svanendo alla vista della gente. Come se niente fosse. Come quel padre non pronto a esserlo.

Fois ritrae il rapporto tra sorelle, il fluido costante di amore/odio che passeggia sopra e sotto pelle, come negli ultimi anni ha già fatto Jodi Picoult con La custode di mia sorella (Corbaccio, 2005) e come ci hanno raccontato, strette sul focus delle gemelle, Brunonia Barry in La lettrice bugiarda (Garzanti, 2009) e Cinzia Bomoll in Lei che nelle foto non sorrideva (Fazi, 2006).

Sorelle come volti di una stessa moneta, doppi di un unico dolore, disegnati con la raffinatezza consapevole e maestosa che Fois non lesina mai nelle sue storie. Schegge di «tristezza cremosa» e «ombre pluviali».

Seppur distante dall’incisività narrativa di Stirpe (Einaudi, 2009) o di Nel tempo di mezzo (Einaudi, 2012), L’importanza dei luoghi comuni offre nella sua brevità frantumi intensi, cocci che graffiano.

La coscienza di un sangue che è lo stesso per due esistenze distinte.

E che sporca i vestiti, anche se resta nelle vene.

(Marcello Fois, L’importanza dei luoghi comuni, Einaudi, 2013, pp. 152, euro 12,50)

“Oreste Baldini. Mediterraneum” ai Mercati di Traiano

Dal 23 novembre 2013 al 12 gennaio 2014 è possibile ammirare a Roma, presso i Mercati di Traiano le opere del poliedrico artista Oreste Baldini, nella mostra dal titolo Mediterraneum.

A un luogo incantato e intriso di antichità come i Fori Imperiali ben si addice il tema del ritorno alle origini nella figura del pesce, sviluppato nei materiali e nelle forme più variopinte.

L’intera esposizione, 46 lavori, si basa sulla rappresentazione di pesci in tipologie artistiche che vanno dalle tele ai mosaici, ai bronzi, alle ceramiche, agli oggetti di design.

Questa figura archetipica rappresenta prima di tutto la vita e la rinascita. L’abbondanza e il sostentamento, poiché si tratta di uno dei nutrimenti più antichi e naturali che conosciamo. Non ultima, l’ampia simbologia cristiana legata al pesce: «Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque […] Dio li benedisse: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari». (Genesi 1,21-22)

Pesci vitali, pieni di colori, circondati dal blu profondo degli oceani, racchiudono bagliori dorati di stelle. Eterni vigilanti – i pesci non hanno palpebre – con denti aguzzi e bocche aperte.  Lunghe code colorate su sfondi accesi, dipinti anche sulle ceramiche, a rappresentare l’abbondanza.

 

 

Grovigli di pesci in movimento, vortici che girano su se stessi, fanno pensare al flusso dell’esistenza, allo scorrere inarrestabile del tempo. All’umanità che affronta il quotidiano, alla calca delle metropoli. Temi biblici – nei mosaici dedicati a Giona – e mitologici – un meraviglioso pesce alato al centro di un bassorilievo in bronzo.

E ancora pesci in oggetti d’arte e fontane, lische che si trasformano in frecce, lunghe stele che sorreggono pesci dorati, sedie con spalliere di pesci che scorrono sinuosamente verso l’alto.

 

 

Questo abitante del mare viene idealizzato, a volte elevato, a volte quasi umanizzato nelle varie rappresentazioni. Come se, utilizzando le forme dell’arte contemporanea, si volesse tornare all’origine dei tempi, all’inizio della vita.

Il percorso, che si sviluppa in sei ambienti dei Mercati di Traiano, accompagna l’ospite in un viaggio verso il mare, o forse verso casa, o verso l’io più profondo.

La mostra risulta movimentata e piacevole, fantasiosa e multisensoriale. Grazie alla musica di sottofondo e a piccoli contenitori da cui lo spettatore può estrarre tessuti impregnati di aromi ispirati al Mediterraneo, si creano magiche sinestesie.

 

 

Materiali più primitivi, come i mattoncini dei mosaici – in onore al tradizionale mosaico romano – e la terracotta, danno vita a originali installazioni moderne.

Oreste Baldini è maestro della contaminazione, pittore e scultore. Oltre a numerose mostre internazionali, le sue opere sono esposte nei musei italiani e numerosi arredi sacri creati dall’artista ornano le nostre chiese. Profondo conoscitore del teatro contemporaneo, Baldini ha realizzato preziose scenografie per i più importanti teatri romani (dal Teatro dell’Orologio al Globe Theatre). È inoltre attore e doppiatore. Un artista a tutto tondo per una mostra interessante, avvolgente, altamente consigliata.

Oreste Baldini. Mediterraneum
Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali, Roma.
23 novembre 2013-12 gennaio 2014
Qui
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“Il libro dell’amore proibito” di Mario Desiati

Dopo Ternitti, Mario Desiati torna in libreria con Il libro dell’amore proibito (Mondadori, 2013). La storia è ambientata negli anni Novanta in Puglia,a Martina Franca, e il protagonista-narratore, Veleno, è un ragazzo appena quattordicenne che deve il suo soprannome a una tragica storia di avvelenamento verificatasi anni addietro nella sua famiglia, a opera di un suo progenitore. Francesco, questo il suo vero nome, è un ragazzo esile, timido e introverso, che frequenta le scuole medie e, come la maggior parte dei suoi compagni di classe, è affascinato dalle figure di due insegnanti molto diverse tra di loro: Barbara Tricarico, piacente ed elegante, e Donatella Telesca, giovane professoressa di Educazione Tecnica, alla mano e molto simile ai suoi alunni per il modo di vestire e parlare. Donatella si siede tra i banchi, parla con i ragazzi in maniera semplice e, soprattutto, li ascolta.

Nasce così un’attrazione irrefrenabile, imperdonabile, destinata a essere scoperta clamorosamente nello scandalo e interrotta con determinazione e violenza, nel tentativo di ristabilire il “corretto” ordine delle cose e dei ruoli: Veleno e i suoi compagni coinvolti nella vicenda verranno “reinseriti” con l’aiuto di assistenti sociali, mentre Donatella sarà punita con l’arresto. Inizia quindi per Francesco la sua lotta con il mondo degli adulti, mentre si alza il muro delle convenzioni, delle maldicenze e del giudizio della gente del posto,apparentemente insormontabile. Ma sarà proprio contro la morale comune che Veleno costruirà il suo futuro, con la sua legge che lascia libera ogni anima di incontrarne e amarne un’altra, senza pregiudizi o convenzioni.

Francesco saprà aspettare i lunghi anni che verranno e che lo separeranno dalla sua Donatella, accorgendosi con il tempo di essere circondato da amori impossibili, come quello eterno della nonna Comasia per il marito disperso in guerra o dell’amico Walter, paralizzato in seguito a un incidente in moto, e Azzurra, la ragazza più bella del paese.

Dopo la dolorosa e disperata giovinezza, un tentativo malriuscito di fuga per lo studente ancora minorenne e la professoressa, le scuole superiori, il tempo del servizio militare, costellato da episodi di nonnismo, e poi l’Università a Milano, sempre in attesa che Donatella esca dal carcere di Turi.

Un romanzo di dolore, pervaso dalla sfiducia nelle istituzioni e nella giustizia, caratterizzato piuttosto dalla consapevolezza e dalla rassegnazione che non c’è salvezza in una società provinciale, ancora troppo conformista e per alcuni versi maschilista. Una storia che risulta intrisa di frammenti taglienti e abbaglianti come i paesaggi del sud, Il libro dell’amore proibito è a tratti una melodia rapsodica ed emozionante che ruota sul tema dell’amore impossibile, ma che resiste alle barriere sociali, con folle fedeltà.

La scrittura di Desiati risulta ricca e discorsiva, mentre il linguaggio può definirsi intenso ed evocativo allo stesso tempo, atto a riprendere il gergo colloquiale degli adolescenti e a descrivere le memorie di una stagione apparentemente perduta: quella dell’amore. Le pagine cariche di poesia raccontano in modo coinvolgente la natura e il paesaggio di una terra cocente e dimenticata.


(Mario Desiati, Il libro dell’amore proibito, Mondadori, 2013, pp 197, euro 17,50)

“Fanfare” di Jonathan Wilson

Son passati più o meno due anni da quando Jonathan Wilson ha deciso di passare dall’altra parte del vetro acusticamente isolato, da quando si è un po’ annoiato di fare il produttore e ha deciso di imbracciare una chitarra e suonare, ché ci sarebbe stato spazio anche per lui. Dopo aver convinto critica, pubblico e me con Gentle Spirit,a distanza di due anni ci riprova con Fanfare (Downtown, 2013).

Torna l’accortezza estrema di Wilson e la sua attenzione ai dettagli. Tornano gli arrangiamenti e le orchestrazioni ricche, tornano i suoni direttamente dagli anni ’70. Il folk di Neil Young, la psichedelia dei Pink Floyd e il cantautorato lennoniano si mischiano in questa seconda opera da cui tutti si aspettavano molto. Eppure.

Eppure forse è proprio questo: tutti si aspettano tanto, quando sei Jonathan Wilson, e non bastano ammiccamenti a tutto il rock degli ultimi trent’anni e tanto tanto mestiere a sollevare questo disco che suona appunto come una fanfara: una celebrazione di genere, suonata bene, arrangiata alla grande, ma che manca della ruvidezza sognante dell’opera prima Gentle Spirit. Le parti migliori, a mio avviso, restano quelle più psichedeliche e oniriche: la sussurrata “Cecil Taylor” e il suo flicorno soprano che appare quasi di nascosto da una nebbia di arpeggi e vocalizzi (di Crosby e Nash poi, mica due che passavano di là); la successiva “Illumination”, interamente suonata e cantata da Wilson, ha una chiusa da funk lisergico; l’apparente ballata “Lovestrong” si perde negli assoli della parte centrale per poi tornare al tuo fianco, prenderti per mano, riaccompagnarti al tema principale; l’ultima traccia “All the Way Down” è una chiusura perfetta per un album forse un po’ troppo lungo che rischia la sindrome da “troppa-carne-al-fuoco” ma che si fa perdonare in momenti come questo.

La copertina, poi, si potrebbe dire un pelino presuntuosa: sono le mani di Adamo e di Dio nel celeberrimo affresco della cappella Sistina, ma molto più distanti, sullo sfondo di un cielo azzurro con qualche nuvola. L’immagine e la somiglianza all’Onnipotente tanto ricercate dal Buonarroti sono replicate in modo ambiguo: non mostrandosi i corpi, qual è la mano di Dio e quale quella dell’uomo? Se volessimo azzardare una metafora: qual è la mano del creatore, del produttore, e quale quella del musicista? In Fanfare i ruoli si mischiano senza confondersi, e questa è l’anima di Wilson.

Forse esaltato dal grande numero di musicisti e session men presenti nel suo disco (dai citati Crosby e Nash a Jackson Browne a Joshua Tillman) Wilson con Fanfare non riesce però a risultare leggero. Sarà l’ora e un quarto di riproduzione o l’idea del tentativo di fare un omaggio – un perfetto omaggio – a un ben preciso universo musicale che rendono il disco memorabile solo dopo diversi ascolti. Lascia con un po’ di amaro in bocca, con l’idea che il disco sia talmente pieno, arrangiato, perfetto, che qualcosa manchi e sia nascosto da tutti questi addobbi. Sarà per la prossima, Wilson.


(Jonathan Wilson, Fanfare, Downtown, 2013)

 

“Dieci dicembre” di George Saunders

Dieci dicembre (minimum fax, 2013) è l’ultima raccolta di racconti di George Saunders. Un mondo probabilmente meno iper reale dei suoi precedenti  –  basti ricordare “Il mio splendido nipotino” nella raccolta Il paese della persuasione (minimum fax, 2010). Infatti, le componenti che hanno sempre caratterizzato i luoghi dove Saunders ha ambientato le sue storie sono meno invasive, ci si sente meno oppressi dalle logiche che vedono l’uomo in continua balia delle scelte di queste iperboliche società, e di quale e dove sia il limite per l’uomo nell’atto di scegliere, quanto la scelta sia fondamentalmente indirizzata da forze materiali più grandi rispetto al singolo e quindi  quanto  possa risultare una tragica illusione.

Di fondo, comunque, rimane la visione distopico-fantascientifica propriamente a là Saunders (soprattutto nello splendido “Fuga dell’aracnotesta”, in cui vengono sperimentati su pazienti farmaci capaci di alterare gli stati d’animo in maniera, oggi, esagerata e che poi saranno immessi sul mercato) e persevera soprattutto il modo di trattare il mondo, l’uso dell’ironia un po’ alla Donald Barthelme, un po’ alla David Foster Wallace (meno rispetto allo scrittore morto suicida nel 2008, vista la tendenza massimalista).

I mostri della società moderna, della sovraesposizione della pubblicità, del marketing, del profitto fanno spazio a un’analisi più vicina alle piccole cose della vita, alla quotidianità, alle insulse vittorie quotidiane che in realtà sono degli squarci d’amore nella propria vita e in quella degli altri. Da questo punto di vista, “Dieci dicembre” è un racconto superlativo, dall’architettura perfetta paragonabile a quella di “Un giorno ideale per i pesci banana” di Salinger.

Traspare, rispetto alle precedenti raccolte, una visione del futuro dell’individuo meno buia. Le apocalissi tecnologiche del passato  vengono sostituite da un sentimento quasi salvifico che deriva dall’essere umano, una speranza, anche minima, per i personaggi e quindi per tutti quanti di poter cambiare ciò che si ha attorno. L’uomo, nel suo infinitesimale stato di essere minuscolo, può stravolgere le cose.

Saunders è fortemente ispirato dalla realtà statunitense. Tuttavia, parlarne come di uno scrittore eccessivamente insulare (ma questa è una critica rivolta spesso agli autori americani), pare fuoriluogo e oggi privo di giustificazioni. In una società globalizzata è impensabile non ritrovare certe dinamiche, non impressionarsi di come l’autore riesca a immaginare in quale modo tutto possa evolvere (o involvere), i tipi di strade che potrà intraprendere: molti aspetti culturali d’oltreoceano sono, sono diventati e diventeranno palesemente nostri. Saunders parla a tutti e di tutti.

Dieci dicembre è un’opera di una potenza inaudita. Saunders è il cantore di una società imperfetta, erede della grande tradizione letteraria americana.

Saunders è un miscuglio sensazionale di Ernest Hemingway e David Foster Wallace, e in Dieci dicembre dimostra di poter reggere il confronto con i grandi del Novecento.

Saunders è ciò di cui abbiamo bisogno.

(George Saunders, Dieci dicembre, trad. di Cristiana Mennella, minimum fax, 2013, pp. 222, euro 15)

Dimmi solo di sì

Ogni volta che mio padre le passava accanto, mia madre gli sputava fra i piedi. Sempre.
Tutte le volte lei faceva lo stesso gesto: inarcava leggermente la testa all’indietro e poi sputava rumorosamente per terra, nei paraggi. Entrambi rimanevano in completo silenzio e non si scambiavano il minimo sguardo.
All’impiedi o da seduta, anche se lui era dietro di lei o camminava a passo svelto, mia madre era disposta a girarsi in qualunque direzione pur di non mancare quell’appuntamento e fargli arrivare lo sputo quanto più vicino possibile.
Se c’è una cosa che mia madre mi ha insegnato è quella di non perdere mai una buona occasione.
«E se un giorno di questi ti invitassi ad uscire?» Lo dissi così, di getto, alla commessa mora che era seduta sul pavimento, appoggiata con la schiena al bancone della gioielleria. Lei mi guardò e non rispose. Era sconvolta, aveva i capelli sciolti e il tailleur sgualcito. Si tamponava il naso sanguinante con un fazzoletto di carta. Mimmo, appena eravamo entrati, le aveva dato un colpo con il calcio della pistola per allontanarla. Nonostante tutto io la trovavo bellissima e se l’avessi vista in qualunque altra occasione, non solo durante la rapina che stavamo facendo, comunque non sarei riuscito a levarmela dalla testa.
La mora continuò a stare in silenzio. Mi resi conto che in certi momenti è difficile dare una risposta a un rapinatore. Capii anche che avrebbe voluto mandarmi affanculo, ma aveva troppa paura per farlo e già il gesto di alzare lo sguardo, probabilmente, era proprio per evitare qualche reazione da parte mia. Ci provai lo stesso, hai visto mai fosse stata una di quelle che si eccita con i cattivi, una di quelle che scrive le lettere ai serial killer in carcere. Invece no, lei era una donna normalissima che probabilmente cercava o aveva un fidanzato normalissimo e per la quale io ero solo un criminale. Un patetico criminale, per giunta.
Già avevo immaginato quanto sarebbe stato bello portarla a mangiare da Mimì al Belvedere, che sì, era un po’ caro ma dopo la rapina non sarebbe stato un problema. Poi a ballare e poi a casa mia a fare l’amore fino alla mattina dopo.
Io sono fatto così, quando mi immagino qualcosa vado fino in fondo, senza trascurare nessun dettaglio, penso perfino ai nei sulla schiena che avrebbe avuto. Per inciso: sarebbero stati dei bellissimi nei.
Quando Mimmo mi aveva detto che c’era questo colpo che richiedeva poca tattica, che i gioielli era praticamente questione di andarli a prendere e portarseli a casa, nemmeno questa, di occasione, mi ero fatto scappare. Grazie, mamma.
Mimmo adesso era morto. Steso per terra con un litro di sangue che gli usciva dal petto, a circa un metro dal proprietario della gioielleria, disteso anche lui sul pavimento, stecchito da un proiettile che gli aveva perforato il collo. Accadde tutto nei due secondi in cui mi sono voltato per vedere se qualcuno da fuori si avvicinava al negozio. Il proprietario aveva attivato il sistema d’allarme che chiama la Polizia e blocca la cassaforte, Mimmo gli puntò la pistola al volto e lui rispose tirando fuori la sua. Nessuno di noi due immaginava che ne avesse una.
Io volevo solo scappare, ma la maniglia della porta sembrava girare a vuoto. Quando urlai alla commessa di aprire, lei fra le lacrime mi disse che non ci riusciva perché quel cazzo di allarme aveva fatto impallare anche l’impianto elettrico. Eravamo bloccati. Io, la ragazza e i due cadaveri. Lei si lasciò andare strisciando con la schiena sul bancone.
Dopo pochi secondi una volante con i lampeggianti accesi frenò sgommando davanti all’entrata. Due agenti scesero e puntarono le pistole.
Saranno passati una decina di minuti nei quali io non riuscivo a fare nulla se non a guardare i poliziotti e a fargli vedere che tenevo la pistola in direzione della ragazza. Mi dicevano di posare l’arma e di non fare niente e io per tutta risposta andai vicino al mio amore, le presi il volto e le avvicinai la canna della calibro nove cinese.
A mezza bocca le sussurrai «Sta’ calma. Tutto quello che voglio è andare via di qua. Vedrai che non succede niente, hai capito?», con uno sforzo mi rispose di sì. «Brava», feci, Ti amo, avrei voluto aggiungere.
Ecco, mi arrabbiai perché questa cosa non potevo dirgliela. Dovetti frenarmi per non far uscire quelle parole. Io vedevo già felicità, famiglia, bimbi e viaggi insieme, ma coi ti amo ci devi andare davvero piano. È per un ti amo al momento sbagliato alla persona sbagliata che mio padre si è guadagnato le sputazzate vita natural durante.
Quasi venti minuti a camminare per il negozio, con gli agenti in divisa blu che guardavano da fuori e io che giravo con il braccio continuamente teso verso la ragazza, come a tenere un cane al guinzaglio. No, certo che non sei un cane, amore mio, era per far capire.
Mi rivolsi ai poliziotti fuori. Dissi che volevo andarmene e che avrei portato con me la ragazza. Era la mia intenzione, in ogni senso, quindi riuscii a dirlo senza esitazione, credibile quanto bastava. Dettai le regole: aprire senza fare scherzi, lasciarmi andare mentre io fuggivo via. Avrei usato senza problemi la ragazza come scudo. Cominciai a inveire senza senso contro di loro, così, per aggiungere un po’ di spessore al discorso.
Quando notai che uno degli agenti distoglieva lo sguardo da me per rivolgerlo alle mie spalle, ebbi la visione della stronzata che avevo appena fatto senza rendermene conto.
Mi voltai e la vidi, lanciata verso di me, un’espressione decisamente incazzata. Mi colpì al volto con la lampada argento 925, fusto a torciglione e paralume in vetro temperato. Me la ricordavo bene perché tutte le volte che facevamo un giro di perlustrazione in gioielleria, mi fermavo a leggere i cartoncini vicino alla roba esposta. Restavo inchiodato alla vetrina all’angolo perché da lì potevo vedere meglio lei, appunto, e non riuscivo a concentrarmi sulla posizione delle telecamere e degli allarmi.
Mi sei piaciuta: coraggiosa e violenta al momento giusto, cucciola mia.
Mentre crollavo al suolo non ero triste, ma sereno. Per certi versi sapevo che sarebbe stato giusto così. Il rumore dei vetri in frantumi, il volto sfocato di Mimmo, senza vita. Persi completamente i sensi.
A quella tenera ragazza, ormai compagna della mia vita, che aveva appena tentato di fracassarmi il cranio, mi sarebbe piaciuto dire che non sapeva cosa si stava perdendo.


Questo racconto si è classificato primo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (seconda edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

“Jim Morrison. Vita, morte e leggenda” di Stephen Davis

Rockstar, poeta, icona sexy, bevitore incallito e ingrassato con la barba incolta, pericoloso ribelle per le autorità americane, esule a Parigi. Tutto questo è stato Jim Morrison in soli cinque anni di ribalta. Una meteora in fondo. Proprio come Janis Joplin, Jimy Hendrix e Brian Jones. Stelle che si sono spente troppo presto, a distanza di pochi mesi uno dall’altro e tutti a ventisette anni. Già, questo numero maledetto, 27. Anni dopo, molti anni dopo, nel 1994, sarà il portavoce della “generazione x”, Kurt Cobain, a morire giovane. E anche lui a ventisette anni perché, come ha lasciato scritto il giorno del suicidio, citando una canzone di Neil Young, «è meglio bruciare che spengersi lentamente». E forse, nessuno più di Jim Morrison ha spinto sull’acceleratore della vita. E si è bruciato troppo presto.

Jim Morrison. Vita, morte, leggenda di Stephen Davis (Mondadori, 2006) è l’avvincente e accurata storia di questo novello Rimbaud, simbolo della generazione ribelle degli anni Sessanta. «We want the world and we want it now», ha scritto Jim. Amante dei poeti beat, di Nietzsche così come dei film di James Dean Gioventù Bruciata e Il gigante, si iscrive alla UCLA, la prestigiosa scuola di cinema in California dove ha come compagno di studi quel Francis Ford Coppola che nel ’79 userà l’epica “The End” dei Doors per la scena iniziale del suo capolavoro sulla guerra Apocalypse Now. È la musica dei Beach Boys – in particolare i loro primi tre dischi (Surfin’Usa, Surfer Girl e Little Deuce Coupe)a spingere Morrison verso la West Coast. Il giovane studente di cinema però non è un ragazzo come gli altri. Figlio di un militare, è costretto sin da bambino a seguire i continui spostamenti della famiglia dimostrandosi già in giovane età una persona fuori dall’ordinario, un adolescente su cui nessuno riesce a esercitare un controllo.

Jim descriverà anni dopo se stesso da ragazzo come una piaga aperta con un impulso a mandare all’aria ogni situazione. Nel tempo purtroppo questa condizione non muta e lo stesso accadrà anche alla scuola di cinema e pochi anni dopo persino con i Doors. Una band in perenne balia della psiche del suo leader. Soprattutto durante le esibizioni dal vivo. Perché Jim, fedele al motto del suo idolo Rimbaud, è sempre rimasto convinto sino alla fine dei suoi giorni che il vero poeta (e lui più che cantante rock si è sempre sentito un poeta), è colui che ruba il fuoco, colui che sconvolge continuamente i propri sensi.

Gli ultimi mesi della sua breve vita, un Morrison esausto, li passa a Parigi, lontano dalla fama, cercando la pace interiore e probabilmente anche la salvezza. Seppur lontano da Los Angeles, i demoni prendono di nuovo il sopravvento. Un giorno, nel giugno del 1971, mentre passeggia nei pressi di Montmartre, chiede all’amico che è con lui cosa sia quell’ampia collina verde che attraversa tutta la città. Si tratta di Pere-Lachaise, il grande cimitero di Parigi. Risale all’epoca di Napoleone e vi sono seppelliti illustri cittadini come Chopin, Balzac, Oscar Wilde, Edith Piaf. Jim vuole immediatamente visitarlo. Rimane così affascinato dai monumenti dei grandi artisti, dalle tombe fiorite della borghesia del XIX secolo e dallo spettrale silenzio, sebbene il cimitero si trovi in mezzo alla città, che esprime il desiderio di essere seppellito lì alla sua morte. Meno di un mese dopo, quella verde collina sarà la sua casa.

Sulla lapide è affissa una grossa targa di bronzo con l’iscrizione greca «KATA TON ΔAIMONA EAYTOY»: Fedele al suo spirito.

(Stephen Davis, Jim Morrison. Vita, morte, leggenda, trad. di R. Bertoncelli, F. Zanetti, I. Castiglione, Mondadori, 2006, pp. 565, euro 11)

Elle

Stamattina mi sono svegliata. Erano le sei. Ho bevuto un bicchiere di latte e mangiato dei biscotti. Tu eri morto. Ma io non lo sapevo. Poi sono uscita.
La luce era quella titubante delle mattine che non vogliono esplodere. Ho alzato le spalle, e pensavo: sarà una giornata sommessa, di quelle in cui non succede nulla. E infatti scivolava via tutto così, come un tempo non prezioso.
Una giornata come tante.
Invece sarebbe rimasta unica. Perché esiste un solo giorno in cui tu sei morto.
Non mi preoccupavo di niente stamattina, perché non lo sapevo. E poi l’ho saputo.
Ma come cazzo hai fatto a morire, ti ho urlato dentro, dai smettila e guarda piuttosto che giornata. Guardavo anch’io, in quella luce diventata all’improvviso preziosa. Quando ne vedrai più una così? E poi dicono che non ci sono più le stagioni. Questo cos’è se non un perfetto giorno d’autunno, che non fa né freddo né caldo, con l’odore del mare che fa esitare, e io infatti esito e ti chiamo e tu mi dici ma quale lavoro, passa a prendermi va’… E io faccio inversione, di marcia e programma.
Ci siamo appollaiati su uno scoglio, coi piedi nell’acqua e lo sguardo dritto.
E in quel tepore leggero e frizzante gli anni in più appassiscono e sbocciano di nuovo gli altri, quelli che hanno un senso d’immenso.
E poi le mail, quante, quante ne abbiamo scritte. Mi raccontavi di C. che nel mio immaginario era una donna bellissima, e forse lo era davvero, non so, non te l’ho mai chiesto, per pudore, perché la storia stava per finire. E tu avevi lo sguardo fosco, col sopracciglio alzato e la bocca amara. E quindi non potevo chiederti: e allora com’è C.? Scherzando, come facevamo sempre, anche con le cose serie, soprattutto con quelle. Che poi tu la guardavi già con un occhio solo ’sta storia qua; l’altro chissà cosa stava mettendo a fuoco.
Avevi un’aria sconsolata il pomeriggio in cui ti ho visto la prima volta.
Lo spettacolo era alla fine, sono entrata al buio. Avevo sbagliato orario e ancora non capisco come sia successo. L’avevo guardato migliaia di volte, luogo e ora. Ero partita anche con un certo anticipo.
Tu passeggiavi per la platea, come un’anima dannata; come se ti rodesse qualcosa. Scontento. Al buio. E pensavo che fosse per lo spettacolo, magari qualcosa era andato storto, e allora ho guardato l’attrice, alle battute finali, ritenendola responsabile del tuo malumore. Ma poi mi hai detto che l’attrice era bravissima e non c’entrava nulla. «Devo parlare con C.», mi hai detto alla fine dello spettacolo.
Mi sei sempre sembrato bello. Non so se gli altri se ne accorgevano.
Ma per me era così evidente… Anni dopo, quando ti ho visto di nuovo in un altro luogo e in un un’altra ora, e stavolta non ero in ritardo perché ci siamo incontrati per caso, volevo dirtelo. L. sei bello! Tu mi avresti guardata col tuo sorriso ombroso e la bellezza di quell’istante l’avrei conservata sempre. Invece ti ho detto: «Fammi una dedica va’». E così quel momento è pieno di te, chino sul foglio a sbirciarmi e a scrivere la dedica.
E solo ora mi accorgo che il nostro nome comincia con la stessa elle. Che potrebbe apparire una cosa così, e invece mi sembra importante.
Dico il tuo nome e il mio, con la stessa elle. Magnifico!
Ho sempre avuto un problema con le parole. Ricordo che da bambina mi sembrava che non dicessero nulla che avesse senso, senno, nesso. Anche se usavo quelle giuste, parole esatte. Così un giorno ho smesso di parlare.
Ma poi tutto quel silenzio… Mi è venuto il dubbio di averlo dentro.
Allora ho deciso di giocare con parole storte, squilibrate, rotte. E poi di mescolarle a quelle dritte, equilibrate, intere.
Finché ho sentito il polso.
Nonsense, limiti, confini, sfumature.
E potevo dire di pensieri storti con parole dritte, di emozioni incerte con parole ferme, e di altre cose che avevano un significato ma, di soppiatto, anche un altro. Insomma potevo nasconderci quello che volevo nelle parole, senza che nessuno se ne accorgesse.
Un giorno ti ho scritto, dopo aver letto un tuo racconto e alla fine una tua breve biografia e una raccomandazione: non mandatemi manoscritti o altro per pareri, consigli, editing. Non ho tempo.
Bene, ho pensato, se le parole non hanno solo il senso che appare…
E ti ho mandato un racconto.
La cosa incredibile L. non è che tu mi abbia risposto, non è neanche che mi abbia proposto un tema per un altro racconto e chiesto di dirti qualcosa di me. No, la cosa incredibile è che tu hai letto i pensieri nascosti nel racconto, hai sentito le mie emozioni in incognito, hai stanato il significato vero di parole travestite, truccate, camuffate. Hai svelato il mio gioco, così… come un prestigiatore incallito.
E quando ti dicevo che ti immaginavo alla scrivania a scrivere, mi rispondevi immagini bene. Mi piaceva saperti lì a scrivere, era così rassicurante.
Ecco, L., tu riuscivi a rassicurarmi, solo pensandoti.
«Sono stato poche volte sott’acqua», mi hai detto, «da ragazzo per toccare il culo alle coetanee, poi ci sono tornato per scrivere una storia…»
E ora ogni volta che vado sott’acqua, penso a te, alle tue donne, alla tue storie, a quando mi hai detto: ti sfido.
Bene, ti sfido anch’io L. Mi tuffo… Incontriamoci.


Questo racconto si è classificato secondo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare (seconda edizione), organizzato da edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

minimum fax: dal fax a Raymond Carver

Tutto nacque da una rivista, quando molti di quelli che staranno leggendo probabilmente duellavano con le parentesi graffe di un’espressione lunga l’intera lavagna.

Tutto nacque nel ’93, quando Marco Cassini e Daniele Di Gennaro gestivano alcuni corsi di scrittura presso l’Associazione romana Essere o non essere. Internet ancora non faceva da postino e la sola navigazione possibile non lasciava certo asciutti. La modalità selezionata per diffondere la rivista agli abbonati fu quella del fax e da qui il suo battesimo come minimum fax.

Le idee non scarseggiavano affatto, rendendo il nuovo progetto un sottobosco di energie. E di rubriche. Da Ipse dixit (autorecensioni fulminee e fulminanti) a Mosaix, (frammenti di letteratura comica), passando per Faxtotum, (tom tom ante litteram per rintracciare premi e appuntamenti letterari) e contemplando anche un laboratorio di scrittura a puntate, in cui campeggiavano nomi come Dacia Maraini, Maria Luisa Spaziani, Dino Verde e Stanislao Nievo. Non ci vuole molto perché l’iniziativa pizzichi l’interesse di altri autori tra cui Raffaele La Capria, Sandro Veronesi e Goffredo Fofi, con il quale Cassini e Di Gennaro collaboreranno in seguito nella rivista Lo straniero.

Il passaggio ufficiale a casa editrice avvenne un anno dopo, con la costituzione delle prime due collane: Filigrana, con saggi sulla teoria delle scrittura e Macchine da scrivere, importatrice in esclusiva degli storici libri-intervista della Paris Review.

Del ’95 è la collana Sotterranei, il documento d’identità di minimum fax.

Dichiarazione programmatica del suo percorso di ricerca e d’evoluzione continua, un’indagine avventurosa sullo scenario della letteratura americana contemporanea.

Un tragitto di voci come quelle di David Foster Wallace, Jonathan Lethem, Rick Moody e Dave Eggers, fiutate dall’attuale direttore editoriale Martina Testa. E che ora non sono più una promessa.

E poi arrivò Raymond Carver, che in realtà esisteva già da tempo, imprimendo tante pagine ma poca memoria in quell’Italia degli anni Novanta. E con lui, col suo minimalismo limpido e impietoso, minimum fax trovò il suo uomo, la sua necessaria consacrazione editoriale. I suoi testi vennero letteralmente dissotterrati, molti ritradotti e altri pubblicati per la prima volta, confluendo in una collana ad hoc, I libri di Carver.


Il catalogo è ricchissimo, non arrestandosi alla letteratura, ma attraversando campi multipli dell’arte, dal cinema alla musica alla critica.
Le collane principali sono:
– Sotterranei, sentiero sanguigno di romanzi, racconti, poesie, reportage narrativi tra cui spiccano titoli di autrici come Jennifer Egan, Mary McCarthy, Aimee Bender.

– Nichel, affiorata nel 2000 e curata dall’editor Nicola Lagioia. Dedicata agli scrittori italiani, emergenti o già noti, come Tommaso Pincio, Domenico Starnone, Alessio Torino, Giorgio Vasta, Paolo Cognetti ed Elena Stancanelli.

– Indi, sotto l’egida di Christian Raimo, è una collana di saggistica brillante e accurata, con scritti di Tomaso Montanari, Massimo Recalcati e Angela Davis.

– Filigrana, itinerariodi saggi sulla scrittura e sui suoi grandi maestri.

– minimum fax cinema, sceneggiature, saggi, interviste, panoramica sui dintorni e gli umori del grande schermo.

– I Quindici, ventaglio di titoli che hanno scandito i primi quindici anni di minimum fax

– Fuori Catalogo, libri significativi ormai non più agguantabili in libreria

– Beat, acronimo di Biblioteca Editori Associati di Tascabili, in cui convergono anche Neri Pozza e La Nuova Frontiera.

– minimum classics, carrellata di classici contemporanei tra cui testi di John Barth e Flannery O’ Connor

Generata da una costola di minimu fax è Sur, casa editrice indipendente incentrata sulla letteratura latinoamericana di qualità, con una scuderia di autori come Julio Cortázar, Josè Donoso ed Ernesto Sabato.


Attualmente il paesaggio minimum fax, come racconta il suo articolatissimo sito, è una realtà florida e popolosa, dove oltre alla casa editrice abitano Emme Effe, laboratorio permanente di formazione culturale; minimum fax media, casa di produzione cine-tv; libreria minimum fax, incastonata nel cuore di Trastevere e minimum fax live, associazione e polmone culturale per promuovere eventi e iniziative di genere vario e contaminato.

Facile intuire che individuare solo cinque titoli in un firmamento editoriale tutt’altro che “minimum” sia alquanto arduo, ma questo forse rende il gioco più avvincente.
Ecco quindi la nostra selezione:

Una cosa divertente che non farò mai più, di David Foster Wallace; dissacrante reportage dell’opulenza americana che galleggia a bordo di una nave da crociera.

– Confessioni di un sicario dell’economia, di John Perkins, autobiografia trascinante come un romanzo e ritmata come un’inchiesta di un ex professionista del crimine economico.

– Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, di Raymond Carver, introvabile per anni e dissepolto da minimum fax, raccolta di diciassette schegge narrative, purissime e affilate.

– I racconti dei vedovi neri, diIsaac Asimov, dodici esercizi di logica, marchingegni rompicapo azionati da un maggiordomo impeccabile come lo stile dell’autore.

– La banda delle casse da morto, di Nick Laird, romanzo vorticoso e scatenato in cui appena cinque giorni dissestano la sicurezza alto borghese del protagonista, eletto da Fahrenheit libro dell’anno per la sezione narrativa straniera.


Ma questa ovviamente è solo una sbirciata. E per tenersi aggiornati di sicuro non serve più il fax.

“Blue Jasmine” di Woody Allen

Jasmine aveva una vita ideale. Sposata con un ricco agente finanziario di New York, godeva del suo appartamento a Park Avenue, delle sue ville al mare e in campagna, della mondanità falsa ma elegante che la circondava. Era un mondo perfetto, senza sussulti, che crolla quando il marito si rivela essere un truffatore che spendeva il denaro degli altri per il suo impero di bugie senza strutture. Finisce tutto molto più in fretta di come era stato costruito. Da un giorno all’altro Jasmine si ritrova col marito in prigione e senza più un soldi in tasca. Il giorno dopo il marito si impicca in carcere. A Jasmine non rimane che salire su un aereo (senza più un dollaro, ma comunque in prima classe e con set completo di valigie firmato) per raggiungere la sorella a San Francisco e ripartire da lì. È esaurita, Jasmine, i nervi hanno ceduto, parla da sola, o con interlocutori casuali a cui racconta senza freni tutti i suoi più recenti drammi, e la sorella la accoglie per questo, pur sapendo che tra loro sono molte di più le differenze che le somiglianze e che la distanza sociale che il tempo ha scavato tra di loro è nettamente più forte dell’affetto.

Se si tralascia Basta che funzioni, girato nel 2009 ma basato su una sceneggiatura rimasta congelata dagli anni Settanta, era dal 2004 di Melinda e Melinda che Woody Allen non ambientava uno dei suoi film negli Stati Uniti. Per questo nuovo debutto nel cinema statunitense, dopo le esperienze maturate in giro per l’Europa con episodi più o meno fortunati, decide di partire da due presupposti nuovi per il suo cinema abituale: gira solo in parte a New York, lasciando che il centro della nuova vita di Jasmine sia San Francisco, e soprattutto rinuncia all’abituale arteficio narrativo dell’alter ego in cui il pubblico possa riconoscere il personaggio simbolo di Woody Allen stesso, il nevrotico nervoso che ha sempre contraddistinto le sue commedie romantiche.

La novità di Blue Jasmine nella filmografia alleniana è proprio nel personaggio protagonista, una donna, già altre volte al centro della storia sin dal titolo (si pensi al più celebre e celebrato tra tutti i suoi film, quell’Annie Hall diventato in Italia Io e Annie, o Alice, o il più recente Vicky Cristina Barcellona), ma mai come in questo caso, eccezion fatta forse per il personaggio di Gena Rowlands in Un’altra donna, dettagliato e approfondito.

La Jasmine a cui Cate Blanchett presta superbamente corpo, voce e spirito, è un personaggio carico di sfaccettature e contraddizioni, fragilità e arroganze, probabilmente il miglior personaggio femminile mai scritto da Allen nella sua infinita carriera, tra i suoi migliori personaggi in assoluto. Falso sin dal nome inventato, scelto per dare un tocco di esotismo rispetto al più comune Janet, il personaggio di Cate Blanchett vive proiettato in un mondo di finzione e apparenza, di ipocrisia sociale propria di quel mondo dell’alta borghesia statunitense verso cui Allen si è mostrato già più volte sprezzante. Non c’è ottimismo di redenzione verso facili lieti fini: il potere e il denaro corrompono lo spirito ancor più che i costumi, abituano a uno stile di vita che porta a disprezzare il semplice alla ricerca di una patina più lucente, che rende incapaci di guardare all’essenza delle cose. La disperazione per il crollo gerarchico di Jasmine, il suo esaurimento, non è legato alla scoperta della delinquenza finanziaria del marito, ma alla perdita della condizione sociale, all’imbarazzo derivante dal diventare oggetto dell’osservazione e dello scherno altrui.

Per il resto c’è poco da dire: Allen continua a sapere dove mettere la macchina da presa, come far recitare i propri attori (oltre alla straordinaria Cate Blanchett vanno citati almeno il laido Alec Baldwin e la sorella Sally Hawkins), a saper descrivere con accuratezza di dettagli differenti strati sociali. Rispetto alle grandi glorie del passato, mancano complessità di letture ulteriori, le battute fulminanti e i riferimenti abituali alla psicanalisi o al cinema svedese in grado di fornire le consuete, rassicuranti coordinate allo spettatore, ma Blue Jasmine ha il non comune pregio di raccontare un dramma senza drammatizzarlo, empatizzando con la protagonista senza rinunciare a mostrarne tutti i limiti.

 

(Blue Jasmine, di Woody Allen, 2013, commedia, 98’)

 

“Bloodsong” di Allen Ginsberg

«Un’amicizia. Una passione. Un omicidio. L’alba della Beat Generation».

È riassunto così, sulla quarta di copertina, Bloodsong di Allen Ginsberg (ilSaggiatore, 2013). Per questo libro il curatore James Grauerholz ha selezionato alcune pagine dai diari di Ginsberg e dalla sua corrispondenza tra il 1943 e il 1945, anni in cui nacque l’amicizia tra lo stesso Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs e Lucien Carr, presso la Columbia University di New York.

Quest’amicizia diede vita al Circolo dei Libertini, e ai prodromi di quello che verrà poi battezzato Movimento Beat, il primo vero movimento di controcultura negli Stati Uniti del XX secolo: temi onnipresenti nei dialoghi e nelle pagine riportate da Ginsberg sono il rifiuto dalla cultura borghese moderna, le nuove idee anticonformiste e bohemien rispetto ad arte, letteratura, vita, la sperimentazione di droghe e di una sessualità alternativa.

Ma quelli raccontati non sono solo i mesi dell’amicizia, delle notti brave e della New Vision artistica; il vero protagonista, a volte in primo piano, a volte sottinteso, è l’omicidio di David Kammerer, per mano di Carr. Kammerer viene descritto come un uomo maturo, follemente infatuato di Carr, sempre presente eppure mai veramente parte del gruppo; Carr invece è il cardine intorno a cui tutto e tutti ruotano, genio sregolato, carismatico e auto-distruttivo. Un novello Rimbaud. Il fascino da lui esercitato su Ginsberg è palese in ogni singola pagina del libro.

Non è un segreto ciò che accadde quella sera di agosto del 1944: Kammerer esagerò per l’ennesima volta con le solite avances nei confronti di Carr; questi lo respinse malamente, e Kammerer quindi lo aggredì; in preda al panico, Carr per difendersi finì per accoltellarlo. L’omicidio ebbe serie ripercussioni nei lavori dei diversi membri del gruppo: La città e la metropoli e Vanità di Duluoz di Kerouac sembrano esserne entrambi, a modo loro, una rivisitazione. E Kerouac e Burroughs, insieme, raccontarono gli eventi che portarono all’omicidio nel romanzo E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, pubblicato per la prima volta solo nel 2008, scomparsi ormai tutti i protagonisti della vicenda.

L’omicidio di Kammerer colpì ovviamente anche Ginsberg che tentò di trarne un romanzo, Bloodsong appunto, ma non lo portò mai a termine. Eppure le poche pagine che lo compongono risultano essere, nella loro crudezza descrittiva, la parte più avvincente del libro.

Oltre all’incompiuto romanzo, da cui prende il nome, questo volume raccoglie anche alcuni brani tratti da The Book of Martyrdom and Artifice: First Journals and Poems, 1937-1952 (Da Capo Press, 2006), ossia il diario di Ginsberg: dialoghi concitati con Carr e Kerouac si alternano a deliranti descrizioni oniriche, a poesie, a lettere, a elucubrazioni spesso confuse e prolisse su arte, cultura, conformismo, suicidio. Questa parte risulta per il lettore la più ostica, sia a livello stilistico che contenutistico, e in più di un’occasione si ha l’impressione che la scelta dei brani pubblicati sia stata poco efficace: si salta dalla descrizione di un sogno, a una poesia, dall’elenco di diverse droghe e dei loro effetti, alla fedele riproduzione di un dialogo sul tema arte/artista. In definitiva, si è portati a chiedersi se le pagine di diario non pubblicate non avrebbero permesso un trait d’union più efficace tra una pagina e l’altra, e concesso quindi una maggiore comprensione dei pensieri del giovane Ginsberg e dei suoi compagni.


(Allen Ginsberg, Bloodsong, trad. di Monica Martignoni, ilSaggiatore, 2013, pp. 160, euro 15)