“Non avere paura dei libri” di Christian Mascheroni

Un genitore è la persona nei cui occhi il bambino può rispecchiarsi e nel cui amore ritrovare se stesso e la sua storia: «Mia madre e mio padre sono i libri che avrei voluto scrivere, che avrei voluto leggere, nonostante gli errori di battitura, i refusi, le bruciature, gli angoli piegati. Sono i libri che riapro e rileggo, dai quali ottengo risposte, che mi suscitano nuove domande. Sono i libri che non ingialliscono col tempo e che del tempo conservano il profumo, lo spessore, la ruvidezza e la leggerezza, il peso e il volume, lo sguardo».

Così, a questa conclusione, Christian Mascheroni, autore televisivo e scrittore, giunge al termine del suo romanzo autobiografico Non avere paura dei libri (Hacca, 2013), un viaggio nel suo io più intimo e profondo, tramato e forgiato dalle letture fatte sin dall’infanzia. L’amore per tutti i libri, l’invito a non averne paura anche se non adatti alla sua età, è il lascito più prezioso ricevuto dai genitori, in particolare dalla madre Eva.

Ma Non avere paura dei libri è soprattutto una storia di dolore costellata di qualche parentesi di felicità. Nei libri il piccolo Christian si rifugiava quando la madre era talmente ubriaca da non reggersi in piedi per andare a insegnare tedesco alle scuole serali. Ai libri letti sono legati i ricordi, a volte caldi come una carezza, più spesso laceranti come un graffio inciso da unghie laccate di smalto rosso: «Mia madre Eva – la viennese colpevole di bere davanti al figlio; io – il bambino colpevole di non essere abbastanza da farla smettere. Ero tormentato da questa idea. Pensavo che se fossi stato un figlio più forte e amorevole, sarei stato in grado di salvarla».

Quando la paura dei demoni del passato non assaliva Eva, Christian aveva modo di godere momenti di sfrenate risate e di conversazioni stimolanti sui libri letti, momenti di grande complicità. Perché Eva era eccesso e misura, euforia e apatia, allegria e depressione. Eva era capace di ridere fino alle lacrime e un attimo dopo di mettere il broncio e piangere fino a non avere più lacrime. Ma nessuno, neppure l’amore discreto e silenzioso del marito pompiere Gino riusciva a sedare le fiamme dell’incendio che le divampava dentro. Un’eterna lotta di cui alla fine non rimaneva che la cenere dei mozziconi di sigaretta sulle pagine sparsa, bottiglie vuote seppellite sotto maglioni, pillole colorate lasciate nei posti più impensabili.

Quanto lontani erano allora quei giorni di sole e di mare quando il succo di anguria, trangugiato tra le risate, cadeva sui libri acquistati in vista della villeggiatura.

Nato nel 2011 come racconto a puntate sul blog di Chicca Gagliardo, «Ho un libro in testa», Non avere paura dei libri è un romanzo sofferto, dalla scrittura essenziale e vigorosa, e necessario per elaborare il lutto. Solo ora che la sua assenza è incolmabile, l’autore si rende conto di quanto il senso dato alla sua vita fosse dipendente e volto a compensare la dura esistenza della madre. Un amore viscerale non privo di scontri e rappacificazioni, distacchi e ritorni ma indissolubile e incancellabile.

Mascheroni sa indagare con semplicità e coinvolgimento gli stati d’animo, le fragilità proprie e dei suoi familiari, i fantasmi psicologici che si aggirano dentro le lezioni di tedesco, i natali e le pasque sempre uguali, le sbornie, il logorio dell’autoanalisi, quella sorta di delirio che lo porta a maledire la persona che più ha amato e che amerà per sempre oltre la vita e la morte, rammaricandosi di non essere stato per lei abbastanza.

(Christian Mascheroni, Non avere paura dei libri, Hacca, 2013, pp. 256, euro 14)

Pilot autunno/inverno 2013: una guida rapida

Bisogna ammettere che questi ultimi mesi sono stati pieni di novità, di grandi finali di stagione (qualcuno ancora è in lutto per Breaking Bad) e di nuove attese ripartenze (su tutti The Walking Dead): l’impressione generale però è che ben poche serie tv siano destinate a un futuro radioso e fecondo. Tralasciando gli ascolti che oscillano di continuo, di idee ce ne sono state tante ma poche sono state sviluppate in maniera intelligente, cosicché il risultato finale sembra improvvisato, o peggio, copiato da qualcos’altro.
Non tutto ovviamente è da buttare: Agents of S.H.I.E.L.D. (ABC) per esempio è partito bene – anche se ha iniziato un po’ a soffrire già nella seconda puntata –, ed è capace di alternare episodi piatti e noiosi ad altri abbastanza coinvolgenti e piacevoli. I fan della Marvel e dei supereroi in generale hanno sicuramente gradito il ritorno dell’agente Coulson a capo della nuova squadra dello Shield, incaricata di proteggere la città di New York dopo la devastante battaglia degli Avengers, anche se a tratti i personaggi sembrano male assortiti e le scene d’azione forzate.
Da non perdere, restando in tema supereroi, è The Tomorrow People, nuova serie del canale The CW che vede protagonisti un gruppo di ragazzi geneticamente modificati che sviluppano poteri straordinari e combattono contro l’Ultra, organizzazione mirata a farli fuori.
A soffrire molto quest’anno sono state senza dubbio le comedy: nessuna ha spiccato sulle altre, molte vanno avanti per inerzia con ascolti sempre più bassi e altre trovano la loro comfort zone nella mediocrità. L’unica che solleva un po’ il genere, anche se non propriamente ascrivibile alla categoria commedia è il Michael J. Fox Show (ABC). Il suo punto di forza – insieme al protagonista, ovviamente – è un tono leggero ma non necessariamente divertente nel senso proprio del termine: le situazioni narrate sono quelle di una famiglia moderna e genuina, i cui membri risultano simpatici e le situazioni non necessitano di arrampicarsi sugli specchi per risultare credibili.
Quest’anno però è chiaro che si è deciso di puntare molto sulle streghe, forse per augurarsi il successo di quelle storiche o crearne una versione più moderna: magari è questa l’ambizione di Witches of East End (Lifetime), nuova serie con protagoniste un gruppo di streghe belle e giovani, un po’ svampite e perseguitate da antiche maledizioni. Pur non essendo malvagia in sé, la storia risente delle influenze di trame tipicamente girlish come The Vampire Diaries e quindi trova largo consenso soprattutto nel pubblico femminile.
Perciò se volete una storia di streghe in cui al posto delle storie d’amore ci siano incesti, razzismo e sangue non temete, ce n’è anche per voi: American Horror Story non delude nemmeno quest’anno con il suo terzo capitolo, «Coven» (FX). Incentrata su una congrega di giovani streghe con a capo una Suprema (Jessica Lange) ossessionata dall’eterna giovinezza, «Coven» non risparmia proprio nulla e segue lo stesso filone di atrocità che ha contraddistinto «Asylum». Se siete di stomaco debole o avete un forte senso pudore girate alla larga da questa serie, senza dubbio una con la trama più estrema e politically incorrect degli ultimi anni. Un piccolo appunto sui personaggi: insieme al ritorno di alcuni protagonisti della prima stagione, ci sono tante novità (Kathy Bathes vi dice nulla?) e una voodoo queen che vi farà accapponare la pelle: assolutamente da non perdere.

La collana Tusitala di Nutrimenti

Nella classifica dei titoli più venduti da Nutrimenti, svetta Lettere d’amore di Enrico VIII ad Anna Bolena, curato e tradotto per la prima volta in Italia da Iolanda Plescia (2013). Un preludio allo scisma anglicano, rivissuto nell’intimità del sovrano, che Nutrimenti propone nella collana Tusitala, oggi attiva con 18 pubblicazioni.

Accanto ai saggi storici e artistici, fioriscono biografie, diari di viaggio che mescolano generi e grammatiche dimostrando come la qualità letteraria riesca a trasformare i limiti imposti dal canone in trampolini di lancio verso narrative meticce.

Com’è il caso di Avventura brasiliana di Peter Fleming, nato da un miscuglio di avventure e spy stories, romanzo umoristico e teatro di Shakespeare.

Lo spirito pioneristico caratterizza anche i Diari antartici di Robert F. Scott, Ernest Shackleton, Edward A. Wilson (2010), viaggiatori verso un luogo che è in realtà un punto geometrico, oltre ogni resistenza umana.

Il filo che collega i testi di Tusitala sta quindi nell’evocazione di un immaginario avventuroso e allo stesso tempo enigmatico: «Si tratta di di-vertere il lettore, non nel senso di divertirlo, ma di condurlo altrove», spiega Filippo Tuena, curatore della collana.

L’intento programmatico si annida nel titolo Tusitala, una parola samoana che vuol dire «scrittore di storie» e che il popolo attribuì a Robert Louis Stevenson durante la permanenza sull’isola. 

Così a inaugurare la collana, nell’ottobre del 2010, è proprio Il giardino dei versi di Stevenson, poesie per bambini tradotte da Raul Montanari, che l’autore firmò durante la stagione più prolifica della sua attività artistica. Il testo si arricchisce con i contributi di Paolo Muri, Raul Montanari e dello stesso Filippo Tuena. 

«Quando Nutrimenti mi ha chiesto d’impostare una nuova collana non avevo esperienza editoriale se non come autore. Così i primi titoli della collana Tusitala sono libri letti e amati quando ancora non immaginavo che avrei avuto l’opportunità di proporli al lettore italiano».  

Come notato da Cristiana Saporito nell’articolo di introduzione a Nutrimenti, il catalogo della casa editrice ha una struttura tripartita: narrativa, saggistica e mare. Nonostante la collana dedichi ampio spazio alla non-fiction, Tusitala fa parte della prima categoria perché è lo sguardo degli autori e dei curatori a conferire a ogni testo un carattere esplorativo che si addentra in territori lontani offrendo nuove rese narrative.

Rivolta a un pubblico di lettori forti e curiosi, la collana si sviluppa in un flusso dinamico di interventi critici e apparati iconografici che contribuiscono a tracciare un profilo realistico della narrazione. 

«Sono suggerimenti di un lettore più che proposte di un editore. La scelta dei testi risponde essenzialmente a un’esigenza “emotiva”: rintracciare libri che trasmettono la passione per l’avventura e la raccontano con uno stile originale ed evocativo».
 

Questi alcuni titoli che vi consigliamo:

– Tempesta di Roger Vercel (2013): Alice Volpi traduce per la prima volta in italiano il libro che Primo Levi lesse durante l’ultima notte ad Auschwitz.

– La stanza di Rodinsky di Ian Sinclair e Rachel Lichtenstein (2011): a metà tra un’opera letteraria e un’indagine poliziesca, cerca di risolvere il mistero sulla sparizione di Rodinsky.

– Liane de Pougy di Jean Chalon (2012): la biografia della donna più desiderata della Belle Epoque, modello a cui si ispirò Marcel Proust per  la figura di Odette de Crécy. 

“Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra” di John F. Szwed

La prima cosa da dire – davvero per niente scontata – è che il libro di John F. Szwed, Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra (minimum fax, 2013), è ben scritto: la storia dell’eccentrico musicista dell’Alabama è inserita in un tessuto storico e ambientale ricco e significativo. Soprattutto nella prima parte sono ben raccontati l’America dell’apartheid razziale, il clima sociale degli anni Venti, le vicende delle big band di neri che cercano un posto nel mondo e raramente vi riescono fuori dei confini musicali.

Sun Ra (1914-1993) è un nome d’arte, ovvio: niente di più comune di un afroamericano che decide di sbarazzarsi del nome d’origine – si tratta per lo più di inventarsene un’altra, di provenienza. E il nostro sull’argomento non è secondo a nessuno. Si attribuisce derivazioni astrali dichiarandosi nativo di Saturno (e a suo dire senza parenti, ma questo dipendeva dalle giornate e dalla simpatia degli intervistatori).

Artista stravagante par excellence, poteva cambiarsi d’abito una mezza dozzina di volte durante un concerto – lo si vide molti anni fa in un concerto romano più vezzoso di Ornella Vanoni. Non per questo si può gettare discredito su un’arte musicale che meriterebbe invece di essere conosciuta senza necessariamente prenderne sul serio né l’edificio spettacolare (per quanto spesso così imponente da non poterne sottovalutare la pregnanza) né, ancor meno, le fantasie parafilosofiche (gli improbabili capricci sincretistici fra ufologia, cultura afro, storia egizia, mistica rosacrociana e altro ancora). Uomo di voraci e tangenziali letture, interprete avventuroso e improbabile filologo di testi sacri, curioso chiosatore di teorie oscillanti fra l’inverosimile, l’assurdo e il ridicolo, Sun Ra – come mostra senza nessuna acritica esaltazione il libro di Szwed – è stato però un musicista vero e non privo di genialità. Ha attraversato oltre mezzo secolo di modelli e stili musicali senza identificarsi con niente in particolare. Da giovane – pianista autodidatta e presto arrangiatore inquieto e mai scontato – subì l’influenza e il fascino di Duke Ellington e Fletcher Henderson, lambì il bebop con una sensibilità tutta culta non ignara della tradizione classico-romantica, intuì le possibilità delle sperimentazioni elettriche e si avvicinò via via al freejazz e alla musica modale. Fondò l’Arkestra, un gruppo che arrivò a contare anche una cinquantinadi elementi, pensato come una comunità totalizzante, una sorta di famiglia che fece dannare non pochi fra i musicisti che vi presero parte, sconcertati da quell’eccentrico omone capace già da giovane di lasciare di sasso anche i suoi amici neri, che mai avevano visto un pacifista così riluttante all’idea di andare in guerra da preferire la prigione.

In effetti, inutile tentare di classificare Il vegetariano, astemio, insonne e misogino Sun Ra che mentre negli anni Sessanta seduceva colonie di freak per le sue stranezze, trovava profondamente irrispettosa la condanna di Nixon seguita al Watergate, tanto che avrebbe successivamente votato Bush e considerato una sciagura l’eliminazione della Bibbia dalle scuole americane. Be’, scandalizzatevi quanto volete, Space is the place suona che è un piacere.

(John F. Szwed, Space is the place. La vita e la musica di Sun Ra, trad. di Michele Piumini, minimum fax, 2013, pp. 544, euro 18)

“TIR” di Alberto Fasulo

La storia sembra ripetersi. Dopo pochi mesi dalla vittoria storica di Sacro GRA di Gianfranco Rosi alla settantesima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, primo documentario, assieme a The Unknown Known, ammesso in concorso nella storia della manifestazione lagunare, al Festival Internazionale del Film di Roma il Marco Aurelio d’oro per il miglior film è andato a TIR, incrocio tra documentario e finzione al seguito di un autoarticolato lungo le autostrade italiane ed europee.

Primo lungometraggio di finzione di Alberto Fasulo, già autore del pluripremiato documentario Rumore bianco, TIR è interessante più per l’idea e le modalità di produzione che per la sua realizzazione.

Girato tutto intorno al tir del titolo al termine di cinque anni di ricerche e pre-produzione, il film di Fasulo è stato realizzato interamente sulla strada con il regista (anche direttore della fotografia e operatore di macchina) che ha vissuto in cabina con i protagonisti e due fonici. Branko Završan, attore sloveno già visto in No man’s land, ha guidato personalmente il camion dopo aver preso la patente ed essersi fatto assumere da una ditta di trasporti. La particolarità sta proprio in questo: il lavoro che svolge nel film è un lavoro vero, la sua interpretazione coincide con la vera attività e la vera vita di un camionista che viaggia per tutta Europa.

Dal sedile del passeggero seguiamo la storia di Branko, insegnante di Reijka che ha deciso di lasciare il suo lavoro in Croazia per farsi assumere da un’impresa di autotrasporti in Italia con una paga tre volte più alta. La famiglia non lo ha seguito, la moglie non capisce pienamente la sua scelta, continua ad aspettare che torni a casa, gli propone altri lavori, gli suggerisce di farsi riassumere a scuola. Non è che le condizioni siano le migliori. La sua vita è scandita da pasti consumati a bordo camion cucinati accanto agli pneumatici, docce calde fatte ogni cinque giorni o lavacri approssimativi con taniche che pendono dal rimorchio. Ritmi massacranti, pretese esagerate dei capi, tempi morti lancinanti e solitudine desolante sono la routine per Branko, a cui si aggiungono le incomprensioni con la moglie, le richieste del figlio e le rivendicazioni degli altri camionisti.

Per novanta minuti si segue Branko lungo le autostrade e i centri di consegna e carico merci. È convinto della sua scelta, il modo migliore per assistere la sua famiglia. Le telefonate di Branko con la famiglia, fatte di racconti e piccole gelosie, rinforzano la convinzione del camionista che quella del lavoro sia la scelta migliore. La lontananza da casa non è per lui condanna, ma gesto estremo di vicinanza, un sacrificio volontario e irreversibile per poter garantire il meglio ai suoi cari. Non la pensa come lui Maki (interpretato da Marijan Sestak, un vero camionista che interpreta il ruolo del camionista), il collega con cui divide il viaggio nella prima parte del film. Maki è stanco del suo lavoro, vuole tornare a casa, non vuole più essere sfruttato. Sono due modi diversi di vivere e intendere la scelta di un lavoro alienante e faticoso. Per Branko le ore infinite di guida, le pretese, la puzza dei maiali da trasportare, possono essere accettati. Maki non ce la fa più, preferisce qualcos’altro che possa definirsi normale.

A parte questo, però, c’è poco altro. L’istanza di realismo di cui il film si fa portatore non riesce a conciliarsi con il formato ibrido tra il documentario e il film vero e proprio adottato da Fasulo.

Girato negli spazi ristrettissimi della cabina, giocando con i riflessi dei retrovisori e la ridottissima profondità di campo, TIR vorrebbe essere un ritratto di un lavoro duro e alienante, che spinge sempre più lontani da casa e dagli affetti. A tratti ci riesce, ma per lo più TIR appare come un film lento e ripetitivo, sempre a rischio di cadere nella retorica del duro lavoro e della sua scarsa considerazione

(TIR, di Alberto Fasulo, 2013, drammatico, 90’)

“Quando si spengono le luci” di Erika Mann

In dieci racconti, la scrittrice Erika Mann si sofferma a descrivere ciò che spesso viene facilmente uniformato al delirio nazista, entrando così nelle storie del popolo tedesco, che non sempre silente e complice aveva assistito all’avanzata nazista. Quando si spengono le luci. Storie del Terzo Reich (Il Saggiatore, 2013) è un importante affresco storico e sociale riguardante sconfitti e carnefici della Germania, alle prese con i preparativi di un’imminente guerra totale.

Erika, figlia del Nobel Thomas Mann, in dieci storie analizza con lucidità lo stato psichico di un’intera nazione, esaminando con metodo ed esperienza diretta l’evoluzione di certi personaggi, schiacciati dalla statolatria imperante, sovvertitrice d’ogni libertà.

Le reazioni variano, e tra i dieci percorsi differenti, l’unico trait d’union è una certa consapevolezza di una tragedia ormai avviata, e compiuta, che si sarebbe potuto in qualche modo combattere, e quindi probabilmente evitare o ridimensionare.

Ci si sofferma dunque sulla passività con cui il piccolo borghese, trasportato da un eccitante pensiero nazionalista, si sia lasciato soggiogare in tutto e per tutto, salvo poi rendersene conto, ormai tardi.

Nel primo racconto c’è tutto il presagio di un’imminente sciagura, e il conseguente appello a coloro che in Europa e nel mondo, ancora non si rendevano conto della tragedia. Lo straniero, che si ritrova solo nella città svuotata dal discorso di Hitler, che acclama a sé folle oceaniche, è l’emblema di una strana quiete che puzza di tempesta.

Si distinguono inoltre le storie del professor Habermann e della lezione sull’insubordinazione e la protesta, che apertamente e incurante di ogni conseguenza, impartisce ai suoi allievi; o di come la giovane scrittrice racconti l’amore tragico di due giovani amanti, paragonati a nient’altro che forza lavoro, e di una segretaria innamorata del suo direttore, che scoprendola ebrea accantona in un istante l’amore ricambiatole in silenzio sino alla fatale rivelazione. E poi ancora l’eroico poliziotto Deiglmeyer, o il prete incarcerato che muove accuse alla sua chiesa, fin troppo accondiscendente, proprio come il popolino tedesco.

Si arriva così all’ultimo racconto, senza dubbio il più interessato alle vicende personali della famiglia Mann. Ci si prepara così alla fuga, all’addio faticoso e affaticato verso l’Inghilterra e da lì per gli Stati Uniti d’America; amaro destino per tutta una generazione di intellettuali tedeschi, che preferirono spostarsi altrove per manifesta incapacità di tener testa al delirio collettivo.

Erika Mann ci racconta che non tutti i tedeschi furono nazisti, ma quanti in silenzio, per quieto vivere, lasciarono correre, immolando la propria libertà.

«Perché, si chiedevano allora, perché seguiamo con cieca ubbidienza un destino chiamato Adolf Hitler? Perché noi tutti ubbidiamo?», domanda a sé stesso il piccolo industriale Huber, «Siccome però la risposta mancava, gli abitanti della nostra città, per il momento, continuavano a ubbidire»; risposta alquanto semplice, che tutt’oggi, a certe masse impecorite, ancora manca.

(Erika Mann, Quando si spengono le luci. Storie del Terzo Reich, trad. di Agnese Greco, Il Saggiatore, 2013, pp. 267, euro 19,50)

“Marina Bellezza” di Silvia Avallone

Con il suo nuovo romanzo, Marina Bellezza (Rizzoli, 2013), Silvia Avallone ha voluto porre l’attenzione sulla provincia biellese, proponendoci una possibile alternativa alla lotta per il successo che si consuma nelle grandi città come Roma e Milano. Con i lanifici dismessi, i grandi magazzini dozzinali e tristi, i ristoranti chiusi, la Valle Cervo descritta dalla scrittrice è come un far west abbandonato che ben rappresenta la decadenza dell’Italia intera.

Silvia Avallone – che abbiamo conosciuto in occasione dell’incontro con blogger e riviste online organizzato dalla casa editrice Rizzoli – ha destato il nostro interesse parlandoci di ritorno e di recupero di ciò che i nostri genitori hanno abbandonato. È proprio in questi luoghi legati alla sua infanzia che l’autrice del best seller Acciaio decide di ambientare le vicende di Marina – la bellissima protagonista che canta con una voce celestiale e vuole a tutti i costi diventare famosa – e del suo eterno innamorato Andrea, sognatore e perennemente in lotta con la sua famiglia.

Il protagonista maschile del romanzo, Andrea Caucino, è appunto un giovane che decide di tirarsi fuori dalla competizione per il successo per dedicarsi all’allevamento di mucche nella cascina appartenuta a suo nonno. Eppure chi resta, in questo romanzo, non sembra veleggiare verso la felicità. Marina fa di tutto per approdare a Milano e Andrea ha scelto una vita da margaro più per dispetto nei confronti di suo padre e per paura di affrontare le difficoltà che per trovare una soluzione alternativa agli attuali problemi giovanili.

Non si tratta dunque di una storia in cui un giovane di oggi si possa rispecchiare, non offre un esempio di reazione o di svolta, anzi, tutto è abbastanza statico e nulla sembra cambiare davvero. In effetti, da un libro che non brilla particolarmente per le sue scelte linguistiche ci si aspetterebbe per contrappeso un ritmo più avvincente e una maggiore capacità di intrattenere che invece non ravviva le oltre 500 pagine del romanzo.

Anche la relazione tra i due personaggi, che l’autrice vorrebbe come «l’amore al tempo dei nostri nonni», lascia a desiderare e mal si adatta ai nostri tempi. Marina è una ragazza spregiudicata, sicura di sé e non certo raffinata, si sente a suo agio su qualunque palcoscenico e non disdegna di usare il suo corpo per attirare i favori del pubblico. Andrea, però, non la accetta per quella che è, non la incoraggia, non la aiuta e cerca disperatamente di cambiarla e di rinchiuderla. Marina, d’altro canto, non approva la scelta del suo compagno, lo abbandona nel momento del bisogno, lo fa soffrire.

Addirittura, in alcuni punti, il romanzo sembra sfiorare il maschilismo o, quanto meno, una visione retrograda di genere e dei rapporti di coppia: «era come ogni uomo immagina che debba essere la madre dei suoi figli, una creatura concepita apposta per allattare, per cullare, per riscaldare e proteggere un altro corpo».

I personaggi principali, comunque, hanno il pregio di essere ben caratterizzati e abbastanza credibili, sebbene sopra le righe.

È forse vero – come dice la stessa Avallone – che «la letteratura non offre soluzioni» e riconosciamo all’autrice il merito di aver posto l’attenzione sulle tipiche questioni della nostra era post crisi, tuttavia questo romanzo non raggiunge pienamente l’obiettivo di offrire al giovane lettore immedesimazione e neanche un puro intrattenimento.

(Silvia Avallone, Marina Bellezza, Rizzoli, 2013, pp. 528, euro 18,50)

“Later… When The TV Turns To Static” di Glasvegas

Ancora la dannata televisione: dopo Big TV dei White Lies, ora tocca al Later… When The TV Turn To Static dei Glasvegas. Fin dalla copertina, un ronzio, un'interferenza catodica, una distorsione mediatica attraversa il ritorno degli scozzesi dopo Euphoric /// Heartbreak \ del 2011.

Che dire dei Glasvegas a chi non li conosce?

Esordio di platino con l’omonimo album che ha fatto conoscere al panorama indie rock un gruppo unico: base ritmica possente trascinata dal basso di Paul Donoghue, chitarre calibrate su distorsioni simil-U2 e la trascinante voce di James Allan. Per non parlare dei lori testi. Infatti, la caratteristica che colpisce subito dei Glasvegas è la loro intensità, il pathos genuino e la vocazione melodrammatica. Basta prendere la prima traccia dell’esordio “Flowers & Football Tops” (in cui si parla della straziante fine di Kriss Donald dal punto di vista del padre) o gli ormai classici “Daddy’s Gone” e “Geraldine”.

Ora però, giunti alla prova del terzo disco (brillantemente superata dai White Lies) i Glasvegas fanno di questa intensità l’aspetto più controverso. Ovvero: si prendono troppo sul serio, a discapito della musica e dello loro evoluzione discografica.

Later… When The TV Turn To Static permette l’ascolto dei pezzi-tipo dei Glasvegas, ma anche il loro lato negativo: brani caduti nel melenso. “Youngblood”, “All I Want Is My Baby”, “If” hanno la carica e la potenza tipica del loro sound e molto probabilmente una canzone bella come “Magazine” non l’avevano mai fatta. Purtroppo però momenti come “Choices” e “Neon Bedroom” rischiano di togliere troppo presto l’entusiasmo. Da questo punto di vista “I’d Rather Be Dead (Than Be With You)” è il capolavoro: solo pianoforte e voce (sempre più alla Bono) per una brano che squarcia il cuore. Se tutto l’album avesse avuto il perfetto equilibrio di questa canzone,  Later… When The TV Turn To Static sarebbe già acclamato come pietra miliare. Ma così non è, e ci accontentiamo – per il momento – di un disco in cui i Glasvegas rifanno semplicemente i Glasvegas: cercando di riproporre un secondo esordio, più che tentare uno stacco e un’evoluzione. Sicuramente un buon lavoro: ma manca quel lampo d’ispirazione che ha reso i quattro di Glasgow la voce più intensa dell’indie rock.
 

“La produzione di meraviglia”: a tu per tu con Gianluigi Ricuperati

Gianluigi Ricuperati (1977) ha alle spalle un buon repertorio di romanzi: ha curato nel 2007 Viet Now – La memoria è vuota (Bollati Boringhieri), nel 2009 La tua vita in 30 comode rate (Laterza), nel 2011 Il mio impero è nell’aria (minimum fax). Nel suo ultimo romanzo, La produzione di meraviglia (Mondadori, 2013), Remì e Ione si cercano nel mondo virtuale della rete, e nell’incontro vivranno un percorso di reciproca scoperta. Due personaggi che raccontano il presente storico italiano con il realismo aperto e non disperato che Ricuperati propone per comprenderlo.


Quali sono i principali interessi che si riversano dentro la tua scrittura? Ne La produzione di meraviglia, ho avuto la positiva sensazione che tu sia stato in grado di raggiungere una prolifica commistione di linguaggi, dando a immagine e testi due ruoli autonomi e interdipendenti.

Mi interessano le arti visive e la letteratura, l’architettura e il design, l’ingegneria, la moda, certi modi di raccontare la scienza contemporanea, certi angoli con cui si interpreta la geopolitica. Mi interessano anche la finanza e l’economia, e soprattutto mi interessa capire come costruire oggetti solidi in un tempo strano, ambiguo e paradossale – ma piuttosto eccitante.


La predisposizione per la non-fiction e per l’osservazione della realtà è di sicuro uno dei cardini della tua poetica. Da dove deriva l’esigenza di parlare della situazione contingente? Potremmo dire che il presente storico italiano è un’ambientazione che ti è congeniale e che sfrutti per giungere a temi sempiterni?

Direi che il mondo è interessante. È un periodo interessante per essere vivi, nonostante le lamentele infinite – talvolta giustificate, talvolta no – di alcune voci che si sentono con cadenza quotidiana. A me interessa ciò che è reale. Ciò che è reale è paradossale, nel primo quarto di luna del Ventunesimo Secolo. E l’Italia è il paradiso realistico del paradosso.


Tornando al tuo ultimo romanzo, mi ha molto colpito l’accostamento scelto nel titolo, dove a un atto che rimanda a una sfera concreta ed economica, “produzione”, si contrappone la meraviglia che ha una sfumatura metafisica. La meraviglia è idea pura, la produzione svela il lavoro di fatica e controllo verso la materia. Credi che il protagonista maschile, Remì, proprio in virtù della sua menomazione riesca a esprimere l’essenza della realtà in maniera più intuitiva e a produrre in maniera spontanea meraviglia?

Sì. A me piacciono i personaggi con disabilità. Mi piace Benji, dell’Urlo e il furore. Mi piacciono certi narratori della O’Connor, diversamente disabili. Mi piace anche perché è una tradizione, ma non totalmente sfruttata, nel canone occidentale. Creature che non camminano ma corrono, creature che non corrono ma strisciano: creature che strisciando, misurano la bellezza e la disastrosa poesia dell’essere qui e ora. Ma come dice Chiara Schiaffino, un’autrice televisiva molto brava, Remì non produce solo meraviglia ma anche realtà.


Il nucleo essenziale di questo romanzo si schiude attorno alle attenzioni che Remì dedica a Ione, la donna che ha vissuto nello stesso condominio di Milano. Sono personaggi per certi versi complementari, ma hanno in comune una radicata solitudine. Ione sembra una persona allegra e sicura di sé, sebbene in realtà nasconda una forte mancanza di senso esistenziale, Remì si sottopone alla disciplina estenuante e ossessiva del poker (Texas Hold’em) annullando la sua vita affettiva in un isolamento senza via di uscita. Remì fabbrica carte personali da quanto è molto piccolo: sono esse a salvarlo dalla sua incapacità di parlare. Credi che queste caratteristiche siano sufficienti per definire Remì un personaggio positivo, che riesce pure a mettere in salvo Ione?

La parola “meraviglia” contiene la parola “Remì”. La parola “produzione” contiene la parola “ione”. Lo ione è una particella. I remi sono un modo di produrre energia, e movimento. La parola fluviale e la parola disseccata sono necessariamente complementari. E concordo: è una storia di salvezza.


Il ricorso alle carte come linguaggio alternativo al dialogo apre le possibilità a un ampio uso delle immagini anche nella scrittura. Il testo riecheggia l’incontro che lo scrittore francese André Breton narra in Nadja, anche nel suo caso lo stile era volutamente rapido e con un tocco scientifico. Vedi anche tu assonanze con il regalo di meraviglia che lo scrittore fa al lettore che sospende la propria incredulità di fronte alla suggestione onirica?

Sì, questo è il tema del rapporto tra discipline, che è un interesse ossessivo e ormai centrale nella mia diciamo “ricerca”, o attività. I punti di riferimento sono John Berger, Lawrence Weschler, Hans Ulrich Obrist, Rem Koolhaas, Ute Meta Bauer, e tanti altri. Aspirerei a un mondo intellettuale in cui l’apertura verso altre discipline non è la negazione della propria disciplina, esattamente come una serie di eccezioni non negano la forza di una regola, ma la corroborano. L’importante è contrapporre all’insignificanza la meraviglia.


Le parole compaiono nelle conversazione virtuali fra Remì e Ione. Prendendo in esame questo rapporto scritto, pensi che la scrittura, anche se composta di bit, invece che di inchiostro, fortifichi e amplifichi il messaggio delle parole? Ho visto che hai curato il blog “Il mio nome è legione” e dunque vorrei sapere: qual è il tuo rapporto con la scrittura in rete?

Sì. A me piace il fatto che gli umani in questo momento storico non facciano altro che dialogare, in chat, con altri umani. Lo vedi in metropolitana, al ristorante, per strada, purtroppo in automobile, e incantevolmente in treno. È un viluppo di parole che tiene fragilmente insieme le vite individuali, donando loro una certa stupidità che rimane, ma pure una certa bellezza.


Infine vorrei sapere da dove nasce il bisogno di scrivere e se credi che allo scrittore spetti più il compito di produrre meraviglia, non inteso solo come stupore sensazionalista ed estemporaneo, ma come desiderio di schiudere segreti molto intimi dei moti dell’animo, o che la scrittura si accompagni con l’esercizio assiduo dell’osservazione del reale? Come le due istanze dialogano fra loro?

A me piacerebbe che gli scrittori, in generale, provassero a dimenticare il Novecento che è in loro, e provassero ad abbracciare questo orrido ultrarapido insieme di fenomeni paradossali e accessibili che chiamiamo “tempo presente”, qui e ora. Non so come dirlo altrimenti: non è che non ci siano cose contro cui lottare, ecc. Ma lavorando, ognuno le cambia per sé. Non ci sarebbe bisogno di megafoni del cambiamento se tutti vivessero il proprio cumulo di ore come occasioni per cambiare sempre un poco, tutti i giorni. Non amo la retorica della lamentela.


Grazie, Gianluigi.

 

 

(Gianluigi Ricuperati, La produzione di meraviglia, Mondadori, 2013, pp. 180, euro 18)

[RomaFF8] Giorno 8: “Tir”, “Volantin Cortao” e “Another Me”

Ultimo film italiano in Concorso ufficiale, Tir, primo lungometraggio di finzione di Alberto Fasulo, già autore del pluripremiato documentario Rumore bianco, è interessante più per l’idea e le modalità di produzione che per la sua realizzazione.

Girato tutto intorno al tir del titolo, il film di Fasulo è stato realizzato interamente sulla strada con il regista (anche direttore della fotografia e operatore di macchina) che ha vissuto in cabina con i protagonisti e due fonici. Branko Zavr šan, già visto in No man’s land, ha guidato personalmente il camion dopo aver preso la patente ed essersi fatto assumere da una ditta di trasporti. La particolarità sta proprio in questo: il lavoro che svolge è un lavoro vero, la vera attività e la vera vita di un camionista che viaggia per tutta Europa.

A parte questo, però, c’è poco altro. L’istanza di realismo di cui il film si fa portatore non riesce a conciliarsi con il formato ibrido tra il documentario e il film vero e proprio adottato da Fasulo. Per novanta minuti si seguono Branko e il suo copilota Maki (camionista vero che recita il ruolo del camionista) lungo le autostrade e i centri di consegna e carico merci. Nel frattempo ci sono le loro telefonate a casa, i loro pasti a bordo camion, le loro considerazioni sul mestiere. Branko ha lasciato la Croazia e il suo lavoro di insegnante per guadagnare di più e mandare più soldi a casa. È convinto della sua scelta, il modo migliore per assistere la sua famiglia. Maki odia il lavoro, invece, e non aspetta altro che un pretesto per mollarlo.

Girato negli spazi ristrettissimi della cabina, giocando con i riflessi dei retrovisori e la ridottissima profondità di campo, Tir vorrebbe essere un ritratto di un lavoro duro e alienante, che spinge sempre più lontani da casa e dagli affetti. Riesce a essere, invece, solo un film lento e ripetitivo, sempre a rischio di cadere nella retorica del duro lavoro e della sua scarsa considerazione.

 

 

Un delizioso lungometraggio, Volantin Cortao, dei poco più che ventenni registi cileni Annibal Jofré e Diego Ayala, è stato presentato in Concorso all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, 2013. Un ritratto giovane e fresco del Cile e del suo tessuto sociale, tra ipocrisie, povertà e modernità sempre più fagocitante. Il film racconta la storia di Paulina (l’incantevole attrice Loreto Velasquez) tra paure e ambizioni, ma soprattutto insoddisfazioni per un qualche cosa che ancora non riesce bene a comprendere e definire, che rendono la sua quotidianità monotona e insensata. Lavora presso una struttura statale dedita al reinserimento giovanile, nel quartiere di La Cisterna, a Santiago del Cile. Un centro che si erge su una linea immaginaria di confine tra il mondo borghese e benestante a cui Paulina appartiene e quelle favelas della periferia da cui tanto è attratta. Proprio qui, Paulina incontra Manuel (René Miranda), delinquente costretto a frequentare il centro giovanile per una ipotetica, ma molto incerta, riabilitazione. Manuel, di fatto, viene a rompere la monotonia e la routine di Paulina. Dapprima la scoperta di un’amicizia, un po’ fredda, che lentamente riesce ad annullare le distanze. Rapidamente i sentimenti sbocciano nitidi e intensi, dando la possibilità ai due giovani amanti di farsi forza per affrontare il mondo circostante.

Un film giovane, fatto e recitato da giovani, Volantin Cortao, capace di conquistare una platea ampia. Il lungometraggio di Jofré e Ayala offre delicati spunti di riflessione, definendo un ottimo spaccato della società cilena, poi non così distante dalla realtà di casa nostra. Telecamera in mano, alle volte esitante, ma sempre delicata e mai invasiva, i due registi hanno saputo magnificamente riprendere gli sguardi appassionati e timidi di due giovani alle prese con i veri dubbi e gli ostacoli che la vita interpone con la felicità stessa.

 

 

L’ultimo film a partecipare in Concorso ufficiale è, senza dubbio, il più insignificante tra tutti i titoli selezionati per questa ottava edizione. Per ridurre il giudizio a una sola parola non si potrebbe andare molto distanti da imbarazzante. Perché Another Me di Isabel Coixet non riesce a essere nulla. Nasce come thriller paranormale declinato in chiave scolastico/adolescenziale, si sviluppa come riflessione sul tema del doppio per morire infine come il più banale dei film dell’orrore.

La protagonista, Fay, è una ragazzina che ha visto la sua normalità quotidiana devastata dalla malattia del padre, una sclerosi multipla diagnosticata mentre erano tutti insieme in vacanza. Da quel momento sono cambiate molte cose. La madre ha iniziato a passare sempre meno tempo in casa, probabilmente dietro a un altro uomo, Fay ha iniziato a sentirsi osservata, seguita, mentre incubi in cui vedeva se stessa fuori dal suo corpo hanno iniziato a rovinarle le notti. Sembra che qualcuno si spacci per lei, forse è Monica, una compagna del corso di teatro gelosa del ruolo di Lady Macbeth.

Il modo in cui si sviluppa la trama è di una banalità sconfortante. Prova un po’ a fare Il cigno nero, Isabel Coixet, che si scrive anche la sceneggiatura, ma non ci si avvicina neanche, annaspando tra idee confuse, ripetitive e totalmente sprovviste di originalità. Nei momenti in cui vorrebbe creare tensione prevale il ridicolo, il superficiale, l’incongruo. Eppure Coixet era stata autrice di titoli apprezzati, come La vita segreta dele parole o Lezioni d’amore. Con Another Me si rassegna a un teen movie da brividino pomeridiano in multisala, niente di più.

Un repertorio di ovvietà e frasi fatte nella sceneggiatura penalizza un cast in teoria di buon livello (Rhys Ifans, Jonathan Rhys Meyers, Geraldine Chaplin, Claire Forlani e Sophie Turner, tra i protagonisti di Game of Thrones). La domanda che bisogna farsi è come mai un film del genere sia stato preso in considerazione per una rassegna cinematografica.

 

“Il sole dei morenti” di Jean-Claude Izzo

Dolore, emarginazione, ma anche speranza. Questi i temi su cui ruota Il sole dei morenti di Jean-Claude Izzo (Edizioni E/O, 2000): il viaggio da Parigi verso Marsiglia di un uomo, Rico, che ha perso tutto e si ritrova relegato ai margini della vita e della strada, in mezzo all’indifferenza e alla disperazione. Durante il suo cammino Rico incontrerà altre persone che si aggirano per le strade innevate, proprio nella stagione più temuta dai barboni, quella dei «morenti», quegli «esseri che possiamo incrociare ogni giorno per strada», scrive l’autore, «Esseri di cui perfino lo sguardo ci è insopportabile», ognuno con la sua storia e il suo tentativo di sopravvivere a un destino che sembra il più delle volte sopraffarci.

Un microcosmo che spazia dai ricordi dei giorni più sereni di un uomo normale, trascorsi in famiglia, all’improvviso naufragio della propria vita, scaturito dall’abbandono da parte delle persone più care, che porta al desiderio di un ultimo tentativo di ritrovare Léa, l'amore della giovinezza. Il viaggio – che potrebbe essere definito della speranza ma anche della massima disperazione – che Rico decide di fare dopo la morte di un suo amico di strada è l’occasione per compiere un percorso introspettivo. A livello metaforico assume quindi il senso di un vero e proprio tuffo nel passato recente del protagonista, da cui nasce l’esigenza di raggiungere un luogo in cui morire, nella maniera più dolce possibile.

Quando viene ritrovato e portato via il corpo dell’amico Titì, Rico decide di lasciare la capitale francese e partire per il caldo sud. Se la sua vita ormai non ha più senso e deve proprio finire, sceglie almeno di morire al sole. Nel suo viaggio si imbatterà in altre persone sconfortate e abbandonate come lui, persone che seppur seguendo percorsi di vita diversi tra di loro si ritrovano sulla strada a fare i conti con l’esclusione dalla società o, peggio ancora, con l’indifferenza da parte di chi è estraneo a questa tragica condizione umana. E sono gli stessi «colleghi di strada» a reagire in maniera diversa al proprio destino: si alternano solidarietà e amicizia, ma addirittura meschinità e cattiveria, suscitate forse anche semplicemente dalla paura di perdere perfino quel poco che si ha. La crudeltà, soprattutto psicologica, dell’ambiente in cui si svolgono i fatti, condizioni climatiche comprese, rispecchiano il vero animo dei vari protagonisti. Un animo il più delle volte ormai privo di sogni, sommerso dalle ansietà e dalla rassegnazione, e dunque sull'orlo di spegnersi piano piano, raffreddandosi fino alla morte.

Il sole dei morenti è un’opera estemporanea nella bibliografia di Jean-Claude Izzo, solitamente impegnato nel genere noir, che rappresenta un’esasperazione delle logiche di una realtà crudele e una struggente esplorazione della capacità annientatrice dell’assenza di amore. La storia di chi ha provato la felicità, l’ha vissuta, e poi l’ha persa, ma continua a conservarne il ricordo e, soprattutto, il desiderio. Poiché «bisogna tenere a mente il colore della propria ferita per farlo risplendere al sole», nuovamente.


(Jean-Claude Izzo, Il sole dei morenti, trad. di Franca Doriguzzi, Edizioni E/O, 2000, pp. 234, euro 8)

“Il testamento Disney” di Paolo Zanotti

A qualche mese dalla scomparsa dell’autore Paolo Zanotti la casa editrice Ponte Alle Grazie pubblica Il testamento Disney.

La trama, narrata in prima persona dal protagonista come una storia del suo recente passato, è semplice: un gruppo di amici un po’ bizzarri (anche se la parola giusta forse sarebbe disadattati) di Genova si riunisce per perdere tempo in attesa della «trentennificazione», o meglio per evitarla; si vedono a casa di quello che sembra il loro capo spirituale (che tiene e scrive anche una sorta di testo sacro, il «Quaderno per il futuro montaggio») e si danno dei nomi che hanno a che fare con l’universo del fumetto Disney. Gastone, Paperetta, Eta Beta, Pluto e il personaggio principale, Paperoga vivono la loro «stuntown», la città-controfigura delle grandi città, scappando dalle responsabilità.

L’ingranaggio che fa muovere tutto il romanzo è la ricomparsa di Zenobia – alias Anna, in passato ragazza di Paperoga – che dopo oltre dieci anni di sparizione totale riappare nei panni di una zingara da leggenda metropolitana, una zingara che rapisce i bambini. Da quel momento in poi le leggende metropolitane cominciano a essere riportate dai giornali come messaggi per il gruppo stesso, che cerca di tenerne conto e di inseguire l’ombra fantasmatica di Zenobia, presentendo uno stretto collegamento tra la sua ricomparsa e i fatti assurdi che iniziano ad accadere. E Zenobia comincia a riaffiorare anche dal passato, con dei videomontaggi di vecchi programmi televisivi in cui è giustapposto il suo viso a quello effettivo, che Eta Beta il guru mostra a un Paperoga sempre più disturbato.

Il protagonista perde il senno dividendo idealmente il romanzo in due parti: da un lato la ricerca metodica e quasi sensata della zingara Zenobia e dall’altro le visioni di un Paperoga sempre più paranoico, che decide addirittura di vivere una vita da senzatetto di cui presto perde le redini, confondendo i giorni tra loro e perdendo completamente il filo dell’esistenza. A terminare la visione, il sogno, Zanotti fa intervenire la cruda realtà, più spietata di qualsiasi leggenda.

Il manoscritto, completato più di dieci anni fa, venne rifiutato da diverse case editrici per uscire solo quest’anno. La premessa è necessaria per inquadrare il tempo di scrittura de Il testamento Disney, per molti versi uno dei tanti figli letterari degli anni Novanta.

Lo si nota dal collocamento degli oggetti, dalle marche in bella vista; da subito ripresenta i non-luoghi tipici (ad esempio Anna viene rivista per la prima volta nel parcheggio di un supermercato), lievemente increspati da luoghi e oggetti personali o familiari – o che ambiscono a esserlo – come l’isola «non segnata su nessuna mappa» di melvilliana memoria o il pupazzo dell’ammorbidente Coccolino, visti con gli occhi nostalgici di chi ha vissuto il cambiamento, la perdita di senso. Il padre morto di Paperoga è la cicatrice indelebile nel passato che rende il romanzo quello che è, trasforma i luoghi dei ricordi in non-luoghi qualunque.

Ricorrono i personaggi e i programmi televisivi, come Chi l’ha visto, a cui si erano rivolti per ritrovare Anna dieci anni prima, o i documentari sugli animali, che avviluppano la mente del narratore che analizza il mondo proprio come farebbe Super Quark. Fa la sua apparizione un linguaggio informatico fuori contesto, con espressioni come l’«esecuzione automatica» di un’azione, l’«esplora risorse» di sé stessi, una vita data «in shareware».

Il titolo del libro fa riferimento anch’esso a una leggenda metropolitana, quella sulla presunta volontà postuma di Walt Disney di essere ibernato. Come gli abitanti dei fumetti anche quelli di Il testamento Disney parlano con onomatopee quali «sgrunt», «puff pant» e simili. Più in generale, il linguaggio è incalzante e lo sguardo sul mondo ironico.

Il romanzo di Zanotti stupisce per brillantezza e originalità; viene spesso da chiedersi (quando tiri il fiato e riesci a chiuderlo per un po’) perché non sia stato pubblicato prima. Non perché sia un libro di quelli che chiamano necessari, ma per la dolcezza della prosa, il piacere della lettura, lo sguardo delicato sulle cose; poi si ritorna a leggerlo, come rapiti.

(Paolo Zanotti, Il testamento Disney, Ponte alle Grazie, 2013, pp. 317, euro 16)