In Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, 2013) il giornalista, scrittore e speaker radiofonico Gianluca Nicoletti racconta il suo rapporto con il figlio autistico. Ci sono delle cose che sappiamo: sappiamo del diritto al silenzio e alla comunicazione, dell’autonomia, del rifugio delle nostre case, della necessità che i figli sopravvivano ai genitori, proseguendoli; sappiamo che noi, ai nostri figli, insegneremo delle cose e ce ne faremo insegnare altre e che il nostro autunno sarà compensato dalla loro primavera. Guai a sovvertire alcuna di queste regole naturali, ne deriverebbe uno squilibrio devastante.
Questo libro racconta la vita di un quattordicenne autistico attraverso le parole, l’esasperazione, lo sfinimento, l’amore e la rabbia di un padre. L’ultimo libro di Nicoletti ha il grande pregio di rinunciare sin dalle prime pagine a qualsiasi forma di buonismo, fede religiosa o spirito sacrificale: è crudo, fotografico. Ci proietta in un interno che non è bello da vedere, fatto di regole sovvertite, nel quale alla serenità di una carezza ricevuta senza chiedere altro in cambio si alternano problemi scomodi segnati dalla consapevolezza della non reversibilità.
In questo interno c’è il punto di vista di un padre, condannato alla non quiete, alla non serenità, al non tempo, fino all’annichilimento del non pensiero; un padre che ha un figlio la cui vita interiore può solamente immaginare, quasi alla cieca, la cui sopravvivenza costituisce non solo una speranza, come da regola, ma anche un dramma pratico. Poi c’è il punto di vista del ragazzino autistico, che in un’epoca consumata dalla comunicazione non sa, non può e non vuole comunicare; si muove nel suo universo che non coincide con il resto del mondo, muto, esprimendo le sue gioie con un alfabeto incodificabile e i suoi disagi con una violenza ingestibile.
Dopo, l’inquadratura si allarga: vediamo la protezione e insieme la gabbia della famiglia al completo, le urla nel cuore della notte, la paura, il valore delle piccole felicità, l’affetto e l’asfissia, la dipendenza bilaterale, l’impatto di una situazione definitiva su una relazione coniugale, un assetto sociale, uno spazio forzato. Nicoletti, con uno stile narrativo curato ed efficace, fa emergere senza fronzoli tutto quanto sia necessario mostrare di un universo inaccessibile che dovrebbe, e non può, trovare spazio al di fuori delle sue carceri protettive.
L’inadeguatezza della società, delle professionalità e delle strutture viene raccontata utilizzando una sola figura, questa sorta di adolescente gigante buono, come una figura assurda che si trova e si troverà sempre nel posto sbagliato; un adolescente che sarà un uomo con esigenze da uomo anche se continuerà ad amare Pimpa, e avrà voglia di essere autonomo e di fare l’amore e si ritroverà, un giorno, a fare i conti con l’inverno di chi ora lo sta proteggendo.
Il testo del giornalista non è un libro sull’autismo, ma un libro sull’autistico, scomodamente sincero, accessibile anche a chi non abbia mai avuto a che fare da vicino con questa patologia. Un libro che contiene in poche pagine, insieme, l’attaccamento e il soffocamento, il piacere dell’amore e la disperazione dell’annullamento e che racconta tutto con lucidità e durezza, offrendo al lettore una panoramica ingenerosa e necessaria della quotidianità permanente di un disabile e di chi fa parte della sua vita.
(Gianluca Nicoletti, Una notte ho sognato che parlavi, Mondadori, 2013, pp. 192, euro 16,50)
[Attenzione: questo articolo, per l’argomento trattato, può risultare scioccante per i lettori più sensibili.]
«Suche gut gebauten 18-30 jährigen zum Schlachten».
Nel marzo del 2001, Armin Meiwes viene contattato su internet. Qualcuno ha risposto al suo annuncio: «Cerco ragazzo ben fatto tra i 18 e i 30 anni per essere macellato». Firmato: «Il Maestro Macellaio». A rispondere è Bernd Jürgen Brandes: omosessuale, coprofago, autolesionista fino alla mutilazione, psichicamente deviato, spesso dedito alla prostituzione. Armin Meiwes invita a cena Bernd Jürgen Brandes. Gli somministra una massiccia dose di sonniferi, gli amputa il pene e lo cucina. Sempre in compagnia dell’ospite. Poi Meiwes lo accompagna in bagno e lo lascia morire dissanguato nella vasca. Disseziona e congela la parti del corpo per i futuri pasti. Da quel giorno di marzo, Armin Meiwes diventa «il Cannibale di Rotenburg an der Fulda». Ma non è appagato. Ha ancora fame. Mette un altro annuncio, simile al primo. Viene scoperto dalle forze dell’ordine. Arrestato e condannato in appello all’ergastolo per omicidio volontario. Non viene riconosciuta l’infermità mentale. Rtl, emittente televisiva tedesca, lo intervista in carcere. «La carne umana sa di maiale… ed è una bella sensazione sentire la vittima come parte di sé». Queste le parole del Cannibale di Rotenbug.
A tre anni di distanza, sui palchi di tutto il mondo, Till Lindemann, cantante e leader della band tedesca Rammstein, canta “Mein Teil”. Ovvero: la mia parte, il mio pezzo. Sul palco, davanti a migliaia di fan, è coperto di sangue. Ha un cappello da chef e un grembiule chiazzato di macchie e schizzi rossi. Il microfono è un coltello affilato. Lo sguardo e l’espressione sono folli e cruente. Till Lindemann è diventato per l’occasione il Maestro Macellaio, e “Mein Teil” è la canzone che parla delle gesta di Meiwes.
Per apprezzare fino in fondo la bellezza delle canzoni del gruppo tedesco, bisogna abbandonare i luoghi comuni. Le uscite superficiali dei media e le inutili polemiche da talk show mattutino. Quante volte avete sentito dire: «I Rammstein sono dei nazisti! Sono degli assassini: i ragazzi sentono la loro musica e fanno delle stragi!» e via dicendo? Parecchie volte. E va detto che i musicisti in questione non fanno nulla per respingere le polemiche: primo perché i fatti non sussistono, e secondo, perché è una magnifica pubblicità. È chiaro: una band industrial-metal non scrive di certo le solite canzoni d’amore. È elementare che l’impatto vocale del tedesco non sia dolce e melodico come l’inglese. Ma da qui a incolparli di questi crimini e peccati ce ne passa. Bisogna dire però che Till Lindemann è un personaggio estremo. Unico. Basta vedere le perfomance live per constatarlo: avvolto completamente nel fuoco, con un lanciafiamme in mano, o intento a battere forsennatamente con il pugno sulla gamba, a mimare il battito del fabbro. E su queste polemiche ci gioca, e pronuncia – con il suo timbro vocale caldo e profondo – le r e gli ach in maniera agghiacciante, ricordando le esclamazioni di un vecchio Führer della passata Germania. Va detto anche che se a livello musicale i Rammstein sono stati una miscela innovativa e magnifica di elettronica e metal, a livello testuale la cosa è più complessa.
Mr. Lindemann ha un dono particolare, forse ereditato dal padre poeta e dalla mamma scrittrice. Non si accontenta di domare, ipnotizzare e scatenare arene zeppe di persone. Vuole di più, e lo fa in maniera più velata e complessa. Scrivendo dei testi estremi, poetici quanto orrorifici, spiazzanti e sconcertanti.
Ora, di cosa – e soprattutto come – si può parlare in una canzone, è un discorso complesso e profondo che non affronteremo qui. Ma basta vedere come ogni grande autore e musicista abbia scelto di muoversi nelle tematiche più difficili e scottanti, per farsi un’idea. Till Lindemann è proprio questo: un grande autore. Andate oltre l’aspra e tagliente lingua tedesca. Andate oltre l’impatto sonico forsennato dei Rammstein. Ascoltate “Mutter” e vi struggerete nell’ascoltare il pianto di un bambino senza la mamma. Ascoltate “Ohne Dich” e capirete cosa vuol dire soffrire veramente d’amore. Ascoltate “Rosenrot” è capirete cosa vuol dire assimilare la lezione di Goethe. Arrivate alle parole, sentitele, vivete la storia che vogliono raccontare. E vedrete come crollano le falsità e le polemiche.
Essendo un estremista, Lindemann oscilla tra poli opposti per tematiche e contenuti. Dai temi profondi, maturi e complessi trattati, a quelli più indicibili e vietati. Svariati e delicati i tabù affrontati dal cantante nei dischi: dall’incesto di “Tier”, al sesso estremo e perverso di “Bück dich” e “Rein raus”, all’omosessualità di “Mann gegen Mann”, al deviato rapporto tra fratello e sorella “Spiel mit mir”. Con “Mein Teil” del 2004, presente in Reise, Reise, si arriva all’apice. Visivo e testuale.
Se nei primi due dischi Herzeleid e Sehnsucht i testi erano estremi, espliciti e forti come uno schiaffo, con Mutter le cose cambiano. Il linguaggio si fa simbolico, ricercato. Le figure retoriche aumentano, le vicende assumono un’atmosfera più lugubre e tenebrosa. Lindemann, autore anche di libri di poesia, affila l’arma compositiva. Forte del riscontro unanime della sua scrittura – ipercritica e censurata dai bigotti, ma osannata dagli addetti ai lavori più attenti e critici, non solo musicali ma anche letterari – cerca tematiche ed eventi sempre più sconcertanti. Il testo della canzone trattata in questo articolo ne è la prova.
Oggi incontrerò un signore
Che mi ama da morire
Pezzi morbidi e anche duri
sono sul menu
Perché sei ciò che mangi
e voi sapete cos’è questo
È la mia parte – no
La mia parte – no
Questa è la mia parte – no
La mia parte – no
La lama smussata buona e giusta
Sanguino abbondantemente e mi sento male
Devo anche combattere con la perdita di sensi
continuo a mangiare con i crampi
È davvero così ben aromatizzato
e cosí piacevolmente fatto flambé
e cosí amorevolmente servito su porcellana
Con un buon vino
e una delicata luce di candela
Si mi prendo del tempo
Ci deve essere qualche cultura
Perché sei ciò che mangi
e voi sapete cos’è questo
È la mia parte – no
La mia parte – no
questa qui è la mia parte – no
Si è la mia parte – no
Un grido salirà al cielo
Si taglierà attraverso schiere di angeli
Dalla cima delle nubi cade carne di piume
sulla mia infanzia con grida
È la mia parte – no
La mia parte – no
questa qui è la mia parte – no
La mia parte – no
Per non parlare del video: un’antologia folle, simbolica e visionaria di tutte le devianze e le perversione umane, incarnate da ogni membro del gruppo. Il videoclip inizia proprio con le parole dell’annuncio di Meiwes. Lindemann entra in scena con un volto sconvolto e un dilatatore orale piantato in bocca. La voce è alterata, folle e ha lo stesso effetto di un coltello di ghiaccio piantato sulla schiena.
Canzoni che non sono per tutti. I Rammstein, (forse, ormai solamente in Italia), sono ancora circondati dai luoghi comuni. Pochi hanno avuto la briga di andare fino in fondo. E capire che a prescindere dallo shock e dall’impatto violento, certe parole e certi fatti, se non trattati solo per sconvolgere gratuitamente e per sensazionalismo, sono linfa della poesia al pari dell’amore, la vita e la sua rivale. Lindemann e la band proseguono su questa magnifica via. Lo dimostra la traccia presente nel loro ultimo capolavoro Liebe ist für alle da, “Wiener Blut”. Il brano parla del caso Fritzl. Ma ciò richiede un’altra BioSong.
(“Mein Teil”, Reise, Reise, Motor Music Records, 2004)
Ormai non provo neanche più a guardarmi allo specchio. È inutile. Non posso costringermi a farmi piacere quello che sono diventato. E soprattutto non posso farci niente. È da più di tre mesi ormai che vado avanti così. Prima pensavo di poterlo superare. Un problema come un altro, mi dicevo. Ora so che non è così. Giorno dopo giorno mi rendo conto che non posso uscirne. Prima di dormire, ogni giorno, faccio sempre la stessa promessa a me stesso. Prometto che non ci ricadrò. Prometto che stavolta ne sono fuori. Prometto che da domani si cambia. Poi mi sveglio e scopro che è ancora oggi, e che domani deve ancora venire. E ci ricasco. Questa è l’ultima volta, continuo a ripetermi.
Oggi però mi sento diverso. Mi è già successo di sentirmi così, ma stavolta potrebbe anche essere la volta buona. Ho già deciso: stasera non si beve.
Buffo… non è la prima volta che lo decido.
Comunque esco. Il vento è freddo, tanto che sembra tagliarmi pelle a ogni alito. Il cielo è nero, senza stelle. O forse ci sono. Io però non ne vedo. Sarà colpa dei lampioni… Cammino a passo svelto risalendo il viale dei negozi, che a quest’ora sono già chiusi. Qualcuno passa e mi guarda storto, ma non è certo una novità. Forse è perché ho addosso solo una giacca leggera, e il vento stasera è davvero gelido. Non importa. Non sono un tipo che soffre per il freddo.
Mi guardo un po’ intorno e annuso l’aria. Sento un odore familiare. Mi volto e vedo una morettina uscire da un pub affollato. Lei mi lancia un’occhiata obliqua. Io rispondo con lo stesso sguardo. Lei prosegue per la sua strada, e io rimango a fissare il pub e le sagome che si vedono dietro i vetri scuri.
Sento già la sete seccarmi la gola. Sarebbe così facile entrare e… No. Stasera non si beve. Stasera No.
Giro i tacchi e vado verso la stazione. Non dovrei. Lì è facile trovare da bere, trovarsi un vicolo buio dove nessuno rompe. Ci vado lo stesso. Girovagare vicino la stazione mi piaceva anche prima. Prima di avere sempre voglia di bere. Prima di cominciare a uscire la notte, e a dormire il giorno. Prima di cambiare.
Di sfuggita vedo una coppia salire su un taxi. C’è anche un bambino con loro. È strano come finisca sempre per pensare ai miei genitori durante la notte. Non li vedo da quando è successo. Meglio così. Loro non capirebbero. Non capisco nemmeno io cosa succede dentro di me, a volte. Guardo i muri della stazione. Sono grigi. È tutto grigio stasera.
Mi gira la testa. O forse è solo noia. Ma ho voglia di bere. Dopo che bevi sembra tutto migliore. Più divertente, più vivo. Quando bevo sento molto meglio il mio corpo, e con lui anche quello che c’è intorno. Stasera non sento niente. La vista è offuscata. Non sento neanche più il vento sulla pelle. E poi non sento il mio cuore battere.
Se bevessi sarebbe diverso. Basterebbe qualche sorso. Qualche sorso e sarei felice, in pace. Ma stasera non si beve. L’ho promesso.
Ma a chi poi?
Mi gira ancora la testa. Mi appoggio a uno dei tanti muri grigi della stazione. Non è poi tanto bello come posto. La ricordavo più colorata. Strano, però, mi piaceva la stazione. Ora no. Almeno non se non bevo.
Mi avvio, forse verso casa. Fa tutto schifo. Fa freddo. Fa freddo e schifo. La cosa peggiore è che so che basterebbe poco per farmi stare meglio. Giusto un sorso. Sento il rumore di un paio di tacchi dietro di me. Mi giro. C’è la moretta di prima, quella uscita da quel pub. Ha una bottiglia di vodka in mano, e a giudicare dalla sua andatura ne ha già bevuto un bel po’.
Appena mi vede, la morettina si ferma a guardarmi. «Vuoi un sorso?» mi dice, e dondola la bottiglia.
La guardo per un attimo. È carina. Non proprio bella, ma carina. Ha un cappotto rosso che le scende fino alle ginocchia e un berretto di lana bianca intonato ai guanti. Non ha la sciarpa. Ha il collo affusolato, pallido per il freddo. Si vede qualche vena bluastra sotto la pelle chiara. Mi piacciono le ragazze che non mettono la sciarpa.
«Volentieri» sussurro, e subito mi sento in colpa. Questa è l’ultima volta, continuo a ripetermi.
«Vieni. Mettiamoci comodi» dice la morettina. Imbocca una via laterale. Le vado dietro e la trovo seduta su una gradinata. «Dai, bevi» mi dice.
Non voglio farlo. Mentre mi siedo penso già a come mi sentirò dopo, a quanto mi farà stare male. Ma intanto sento una voglia dentro che mi trascina e non oppongo resistenza.
Sono seduto accanto alla moretta. Non la guardo neanche negli occhi e la bacio. Lei mi lascia fare. Dalla bocca mi sposto lentamente al suo collo. Ha un buon sapore. Qualcosa mi dice di non farlo, ma è qualcosa di troppo debole e confuso per fermarmi. Solo il ricordo di quella che era una coscienza. Non so fermarmi, e non so se lo voglio. So solo che ora voglio bere. Comincio a succhiarle il collo e il corpo comincia ad agire da solo. Questa è l’ultima volta, continuo a ripetermi.
Finalmente bevo, e ne gusto tutto il sapore. Caldo. Denso. E mentre i miei canini si conficcano sempre di più nel collo della morettina, sento il suo sangue scivolarmi nella gola e sulle mani. E sento la sua paura vibrare, mentre il suo corpo si muove sotto il mio. E sento le sue urla mischiarsi al mio ansimare, mentre la voce le muore in gola. E sento il suo cuore rallentare il ritmo, mentre il mio batte all’impazzata.
Questa è l’ultima volta, continuo a mentirmi.
«Robi sta facendo l’amore con Laura […] Enrico parcheggia la macchina incazzato e pieno di voglie […] Fabio Poggi è sdraiato a letto e guarda un film sul suo computer […] Nicola dorme nel suo letto matrimoniale vuoto per metà […] Lupo guida verso casa sotto l’effetto di alcol, coca e violenza […] Ferro nonostante il servizio a Piacenza, la fatica e il freddo ha un’ospite a casa […] Marione è andato a dormire dopo la corsa serale […] Lisca rientra a casa a piedi, un po’ bevuto […] Lollo è con Clara in un pub […] Ale dorme e sogna».
Istantanee di vita quotidiana in una fredda notte di gennaio a Genova. Destini che si intrecceranno nel volgere di poche ore. Esistenze che cambieranno per sempre. Eppure basterebbe così poco e gli eventi prenderebbero un’altra piega. Enrico finalmente coronerebbe la sua notte di sesso tanto desiderata, Marione non si troverebbe di fronte ad una scelta crudele, Lisca non sarebbe sotto i ferri tra la vita e la morte, Fabio Poggi non metterebbe a rischio il suo matrimonio e Ferro e Ale il loro posto di lavoro. Ma qui non stiamo parlando di individui qualsiasi. Qui stiamo parlando di persone «a viso coperto», di celerini e di ultrà, di uomini che convivono con l’adrenalina. Due mondi contrapposti eppure così simili. Individui che si esaltano nella lotta, nel corpo a corpo. Neanche le persone vicine riescono a capirli davvero fino in fondo. A volte persino loro hanno mille dubbi. Del resto i celerini in fin dei conti sono «quelli che picchiano la gente». Anche il sovrintendente Nicola, col tempo, sembra essersene convinto e rassegnato. Si sforza di definirsi «professionista della sicurezza». Ma ormai sa che «si tratta solo di accettarlo e smetterla con le seghe mentali». E così Elisa, la ragazza di Gianluca. Neppure lei capisce perché il suo uomo lo faccia: «Voi siete solo delle pedine, non sapete nemmeno perché ci andate, vi mettono lì vi dicono quello che dovete fare e poi andate a prendere o dare le botte, senza capirci nulla». Anche Ale, un ultrà ha dubbi. Si sente in colpa: «Non si può rischiare la vita per un cazzo di striscione». E pazienza se nel gruppo hanno accettato il fatto che le cose possano andare male a prescindere. «A prescindere da cosa? Dalla vita? Dalla logica? Dall’essere adulti? Dal fatto che queste sono solo cazzate?». Eppure qualcosa lo spinge a non fermarsi.
Riccardo Gazzaniga, 36 anni, è un poliziotto anche se a guardarlo, con i suoi due orecchini e quella barba da studente universitario fuoricorso, non lo si direbbe mai. Men che meno si sarebbe portati a pensare che sia un sovrintendente del Reparto Mobile di Genova Bolzaneto (nome che dopo i fatti del G8 del 2001 mette i brividi solo a sentirlo pronunciare). Con i suoi uomini era presente il 12 ottobre 2010 (ma non a Genova nel 2001) quando, durante la partita di Calcio fra Italia e Serbia a Marassi, a causa dei disordini causati dagli ultrà della squadra ospite, è stato interrotto l’incontro e ci sono stati scontri con le forze dell’ordine. Insomma, è un «celerino che picchia la gente».
Fortunatamente però Gazzaniga si dimostra essere, grazie al suo romanzo di esordio A viso coperto (Einaudi Stile Libero, 2013), anche un eccellente scrittore. Vincitore del Premio Calvino 2012, A viso coperto tiene infatti il lettore inchiodato dall’inizio alla fine grazie a un ritmo serrato e a una trama avvincente che intreccia le vite di celerini e ultrà in una fredda settimana di gennaio a Genova. Scontri violenti, dialoghi crudi. Ma anche una storia di amicizia e solidarietà di gruppo. E di scelte difficili. «E se ti chiedessero di un collega? Se per salvarti dovessi accusare un collega cosa faresti?».
Lunedì 8 aprile 2013 ore 19. Mentre scrivo queste righe i Tg All News passano un’ultim’ora: a Roma, prima del derby, sono in corso scontri tra ultrà delle opposte tifoserie e le forze dell’ordine hanno iniziato a caricare i violenti. Alzo il volume e fisso le immagini. Vedo i volti coperti dei celerini e degli ultrà e per un attimo, dietro quei caschi blu e quelle sciarpe, immagino Fabio, Nicola, Lupo, Ale, Marione e tutti gli altri. Chi sa se qualche esistenza staserà cambierà per sempre.
(Riccardo Gazzaniga, A viso coperto, Einaudi Stile Libero, 2013, pp. 544, euro 19)
Voglio dirlo semplicemente. Proprio mentre scrivo i nomi cambiano e la psichiatria si veste in modi sempre più accattivanti, sempre più alla moda, sempre più asfissianti. Proprio mentre scrivo ci sono persone che soffrono dietro una porta chiusa a chiave, ci sono contenzioni, ci sono luoghi esattamente identici a quelli che prima definivamo manicomi. Ma c’è ancora una maggiore complessità. Il discorso della psichiatria si è spostato, come il discorso del potere, e bisogna rincorrerlo per comprenderlo e criticarlo, forse proprio nella sua sostanziale irraggiungibilità. Il discorso della psichiatria, quel discorso di violenza che Muri – prima e dopo Basaglia vorrebbe mettere all’angolo, si è spostato già.
I manicomi semplicemente erano espressione di un mondo in cui poteva rimanere qualcuno che fosse ai margini dello sfruttamento. Vessato sì, ma non sfruttato. Invece c’era bisogno di consumare e consumarsi. Tutti, dal primo all’ultimo. Bisognava infiltrare il concetto di “disturbo psichiatrico” ovunque, fino a renderlo quasi gradevole. E ci si è riusciti. Chi oggi non si definisce “un po’ pazzo”? Chi non avrebbe bisogno di una psicoterapia? Chi, tra i progressisti e non solo, non sarebbe d’accordo nel dire che la normalità non esiste? Ebbene prima si combatteva per abbattere i muri tra pazzi e normali. Oggi siamo tutti disturbati, tutti nel grande mercato della psicoterapia e della psicofarmacologia. Le belle vecchie parole sono state usate da un punto di vista che non vedevamo. L’abbattimento dei muri manicomiali e del limite tra normalità e follia è stato funzionale allo sfruttamento economico in senso psichiatrico della popolazione tutta. I “muri mentali”, quelli dello spettacolo di Renato Sarti, sono sì saltati e noi abbiamo gioito, sì. Ma semplicemente non poteva più esistere una sacca di pazzi non consumatori, non consumati dalla produzione, solo chiusi e picchiati. Per questo anche la chiusura dei manicomi andava bene. Li si accettano anche i compromessi violenti, pazienti chiusi a chiave e legati a un letto, basta che consumino e quindi producano. Per questo oggi i manicomi sono altrove. Non abbiamo la fortuna di combattere contro un mostro di pietra e muri facilmente identificabili, anche quelli mentali. Tutto è impalpabile. La vittoria di ieri di Basaglia è divenuta la sconfitta di oggi. Tutto è uguale al suo contrario.
In questo clima, perché questa è la psichiatria attuale, si mette in scena uno spettacolo come Muri, storia di un’infermiera che si imbatte in Basaglia e nella messa in discussione della società post ’68. L’infermiera muta il suo modo di lavorare e di vivere le relazioni sociali. L’infermiera invecchia e continua a fare volontariato in ambito psichiatrico. Ah, bisogna abbattere i muri, i muri mentali. Garbate e credibili, le parole di Giulia Lazzarini camminano in mezzo al pubblico e narrano un racconto che ha il sapore della favola dal lieto fine. Solo ogni tanto, per fortuna, si intravede qualche crepa. Per il resto si respira l’aria di un’ingenua vittoria dei buoni. Come se il problema fosse abbattere i muri, mentali o meno. Sul malato forse si abbatte un conflitto che si svolge altrove, il malato psichiatrico è solo materia che stride mentre è schiacciata dalla pressa che lavora. E quella pressa, quel potere, ha saputo trovare tanti altri luoghi e modi per esplicarsi. E forse c’è qualcosa anche oltre questa spiegazione, qualcosa nella follia che è folle tentare di afferrare, ma si può solo far circolare. Non si capisce poi come una narrazione di questo tipo possa colpire a fondo, se si considera anche la staticità totale della messa in scena. Un leggio che in parte copre il volto dell’attrice, luci pressoché immutabili, voce narrante dal tono invariabile, brevi elementi sonori che forniscono una partitura smaccata e prevedibile. Sarebbe anche interessante come testimonianza storica psichiatrica di tipo documentaristico. Il problema è che invece ci troviamo a teatro e per fare teatro non bastano un leggio e un palcoscenico, per questo di Muri personalmente apprezzo solo il buon proposito di narrare una storia talora dimenticata.
Muri – prima e dopo Basaglia testo e regia di Renato Sarti con Giulia Lazzarini musiche Carlo Boccadoro scene Carlo Sala
Prossime date:
dal 9 al 14 aprile– Galleria Toledo – Napoli
dal 16 al 21 aprile – Teatro Franco Parenti – Milano
Presentato a Venezia alla Ventisettesima Settimana della Critica, La città ideale segna l’ambizioso ma interessante esordio dietro la macchina da presa di Luigi Lo Cascio dopo varie regie teatrali.
L’architetto Michele Grassadonia è un ambientalista convinto ai limiti del fanatismo. Si è trasferito a Siena dalla natia Palermo molti anni fa, convinto che il borgo del Palio fosse la città ideale, il luogo adatto per vivere, costruito e mantenuto sul progetto medievale di accessibilità a misura d’uomo. Il suo rigore ecologista lo ha portato all’esperimento estremo di vivere per un anno senza luce elettrica e acqua corrente, cercando di essere autosufficiente raccogliendo la pioggia in secchi e accumulando l’energia attraverso rudimentali dinamo collegate a cyclette. Un giorno il suo capo lo costringe a prendere la macchina per portare la sua amante a una festa in cui sarà presente anche la moglie. Grassadonia resiste, ha rinunciato alle macchine per non inquinare, poi si lascia convincere da un’auto elettrica. Mentre guida sotto la forte pioggia per raggiungere casa della donna, l’architetto si trova coinvolto in una serie di confuse coincidenze che lo faranno finire indagato per l’omicidio colposo di un noto imprenditore locale, da lui stesso trovato e soccorso privo di conoscenza a bordo strada, forse a seguito di un incidente, in una via nota per le frequentazioni a luci rosse.
Guarda più alle sue esperienze a teatro e all’interesse per la letteratura che al cinema Luigi Lo Cascio nella sua opera prima. Kafka (già portato in scena con il monologo Nella tana) è il riferimento più importante, quasi ingombrante. La città ideale attinge da Il processo, pur modificandone il presupposto di partenza della conoscenza dell’imputazione da parte del protagonista, per analizzare il rapporto, spesso antitetico piuttosto che coincidente, tra Verità e Giustizia, tra Verità interiore e Verità esteriore. Il Grassadonia di Lo Cascio, anche autore di soggetto e sceneggiatura, è afflitto dal dubbio atroce di essere realmente colpevole dell'omicidio, si batte per esporre la propria verità a giudici e autorità più interessati alla forma e alle sfumature delle parole che a quello che realmente c’è da dire. Da comune cittadino animato da ingenuo idealismo si trova a confronto con la rappresentazione della Verità propria di un’istruttoria penale, con quel delicato equilibrio di silenzi e affermazioni che sono l’arte degli avvocati. Solo, isolato, Grassadonia si rintana nella sua cantina dopo aver subaffittato casa ad una studentessa ricca e bella che tiene tutte le luci accese e gli invade il sonno in sequenze oniriche che creano più confusione che tensione. La città ideale non gli appartiene più. Sente più forte l’identità – ancora Kafka – che come una catena lo tira verso casa a cercare risposte.
Luigi Lo Cascio si affida soprattutto agli attori, per lo più esordienti (inclusa la madre, nel film e nella vita, Aida Burruano), piuttosto che a trovate registiche: molti primi piani, troppi su se stesso, qualche spazio di sperimentazione nelle scene di sogno ridondanti, per il resto semplicità. L’attenzione è concentrata soprattutto nella scrittura: più che sull’intreccio, pieno di sottotrame accennate e non debitamente sviluppate, sulla costruzione di tensione attraverso la riflessione che finisce gradualmente per tingere la storia di giallo rivelandone, però, le debolezze. Alla base c’è un’indagine, ma nessuno indaga a parte il protagonista. La ricerca di una verità che sia anche solo giudiziaria non è neanche accennata ma data immediatamente per scontata mostrando incongruenze, forse ingenuità, nella sceneggiatura (non si cercano testimoni nelle case vicino all’incidente, per dire).
Concentrandosi soprattutto sulla dimensione interiore, La città ideale vuole essere un thriller morale, un’indagine sulla coscienza dell’individuo chiamata alla prova con qualcosa di esterno e più grande come la Giustizia. Un obiettivo non semplice, non centrato, ma a cui Lo Cascio si avvicina con stile.
(La città ideale, di Luigi Lo Cascio, 2012, thriller, 105’)
Una lettera può cambiare molte cose. È vero, quando si spalma sul foglio, il mutamento è già avvenuto. Ma quel piccolo altare di carta non solo lo formalizza. Lo consacra. Lo battezza in quell’attimo. Perché per chi legge, tutto accade solo quando gli occhi hanno asciugato ogni riga.Ed è con una lettera, vergata il 15 marzo 1958, che comincia questa storia. Nata già prima nel polso del mittente.
Il destinatario è William Faulkner, che apprende così dal suo amico Alberto Mondadori la volontà di realizzare «una sua vecchia aspirazione». Una casa editrice, «che si chiamerà il Sagittario» (denominazione ben presto sostituita con la suggestione simbolica de Il Saggiatore di Galileo Galilei) e che ospiterà al suo interno «opere di narrativa e di saggistica, nonché opere teatrali e poetiche, scelte con criterio di estremo rigore e firmate esclusivamente da autori di primissimo piano». Non sarà l’unica missiva ad annunciare la missione. E non sarà quello di Faulkner il solo nome ingombrante a maneggiare la notizia. Dopo di lui verranno coinvolti anche Giuseppe Ungaretti e Jean Paul Sartre. L’avventura è grande, è un bosco di alte intenzioni e un salto oltre il riparo del passato.
Alberto sta abbandonando la già mastodontica azienda paterna, non certo per ingratitudine o mancanza d’affetto, ma perché troppo spesso le sue idee, i suoi interessi culturali «si sono spezzati contro determinate esigenze». Ha bisogno del suo segno intorno ad un progetto. E soprattutto ha bisogno di calore e fiducia, della spinta di chi crede in lui per «condurre in porto la sua navicella». C’è tutto il peso di un’esperienza vitale, di uno slancio “esistenzial-professionale” verso lo scopo, apertamente dichiarato nel primo catalogo, di «soddisfare nel medesimo tempo le richieste e i gusti di un pubblico intellettualmente moderno, e di fornire un contributo alla ricerca di un terreno originale sul quale provvedere allo sviluppo dei vivi fermenti che si vanno individuando nella cultura italiana».
Siamo alle porte degli anni ’60. Il Paese cresce, il Paese si dilata, forse sta già ingrassando di troppe illusioni. E l’analfabetismo resta comunque un mostro placido e diffuso, un letto di paludi da bonificare in fretta. Obbligando gli uomini di cultura a costruire «quella squadra consorziata di lavoro intellettuale che possa rappresentare un punto d’incontro e di sintesi delle diverse espressioni artistiche, scientifiche e filosofiche». Un obiettivo illuminista e sprovincializzante quello de ilSaggiatore, che vuole dialogare con il quotidiano, interrogare la realtà, come testimonia la collana saggistica Uomo e mito, prima panoramica editoriale organica e strutturata di archeologia, etnologia, mitologia, preistoria e storia delle religioni, comunque sempre ricondotta alla riflessione sulla cultura contemporanea. O come dimostrano magistralmente le collane La Cultura, creata con la finalità di fornire strumenti per leggere e comprendere, e La Biblioteca della Silerchie, aperta da Lettera sul matrimonio di Thomas Mann e poi popolata da altri autori straordinari, come Umberto Saba, Giacomo Noventa e Georges Bernanos.
E la costellazioni di saggisti e scrittori è davvero infinita, annoverando nel corso delle stagioni Noam Chomsky, Claude Lévi-Strauss, Ernesto De Martino, Carlos Fuentes e Jonathan Lethem.
Durante gli anni le evoluzioni sono numerose. Sorgono altre collane come Nuovi Saggi, affacciatasi nel ’96 per intrecciare al suo interno inchieste giornalistiche, temi storici e studi di critica; alcune vengono rinnovate già nei primi anni ’80, come La Biblioteca delle Silerchie, semplificata in Le Silerchie. Nuova Serie e La Cultura, modificata nel disegno e nella veste grafica e poi divisa nel tempo in diverse sezioni.
Ci sono date che sanciscono uno scatto decisivo. Nel 1993 ilSaggiatore, dopo alcuni passaggi di proprietà, torna all’indipendenza, con la famiglia Formenton come unico azionista. Il suo Presidente ancora in carica, Luca Formenton, nipote di Arnoldo Mondadori, riveste pienamente il ruolo di «editore protagonista», capace di imprimere alla propria casa editrice un «indirizzo consapevole», cercando sempre di mediare tra passato e presente, senza rinnegare né le proprie origini né una politica editoriale più incline al consumo.
Nel 2008 ilSaggiatore conquista il mezzo secolo e nel soffiare sulla torta conserva ancora l’intensità del suo compito e soprattutto l’idea del libro non come verità definita ma come strumento di conoscenza.
Attualmente, il catalogo consta delle seguenti collane:
– La Cultura, dove escono libri come Il cigno nero di Nassim Taleb, Patria 1978-2008 di Enrico Deaglio, Il sarto di Ulm di Lucio Magri o La guerra bianca di Mark Thompson.
– Infrarossi/ Pamphlet, con libri di denuncia come La scomparsa dei fatti di Marco Travaglio.
– Opere e libri, volumi illustrati, spesso di musica, come Kind of Blue di Ashley Kahn.
– Narrativa, con romanzi d’autore come quelli di Monica Ali, Jonatham Lethem, Carlos Fuentes e recentemente Bill Clegg e Filippo Tuena.
– Tascabili, con le sezioni “Narrativa”, “Poesia” e “Saggi”.
– SuperTascabili, con le sezioni “Saggi” e “Narrativa”.
Dal 2010, la casa editrice si schiude anche all’universo digitale, pubblicando ebook e vantando anche un proprio eStore. Il sito si presenta snello e semplice, con la suddivisione dei testi non per collane, ma per argomenti.
A questo punto, scremare una marea imponente di trame e volumi e fornirvi solo cinque titoli sembra davvero un’operazione impossibile. Eppure, forse proprio per questo, ci piace provare e segnalare quei nomi e quei testi in cui siamo inciampati con più entusiasmo.
– Tristi tropici, di Claude Lévi-Strauss. Molto più di un diario di viaggio. Un tesoro antropologico, una lente sull’Amazzonia e sull’occhio estraneo che la scruta. Trattato senza tempo di “mondologia”.
– Richard Yates, di Tao Lin. Una delle voci contemporanee più innovative e interessanti del panorama letterario internazionale, che in Italia non fa ancora il giusto rumore. Romanzo sul potere ipnotico della noia e sulle vite congelate nella tecnologia.
– Rebecca la prima moglie, di Daphne Du Maurier. Un capolavoro d’ossessione. La carne di un’ombra che porta una donna alla follia. Indiscusso.
– Capitano Alatriste, di Arturo Perez Reverte. Spadaccino e veterano di battaglie, avventuriero e piratesco al centro di un complotto in piena Inquisizione. Diamante del romanzo storico.
– La fortezza della solitudine, di Jonatham Lethem. Una famiglia di bianchi trapiantata nella Brooklyn anni ’70. Disagi ed esclusioni, droghe e tremori. Affresco autobiografico innescato di bellezza.
La sua missione illuminista continua, soprattutto in tempi così poco luminosi, in cui leggere è ancora un rimedio alla miopia.
Sul fondo del mare c’è una vita leggera (Bompiani, 2012) è il titolo del quinto romanzo di Lucrezia Lerro, scrittrice e poetessa italiana originaria di Omignano in provincia di Salerno. Ancora una volta, il paesaggio che fa da sfondo alla narrazione è un paesino del sud, dalla mentalità ristretta, dove gli abitanti sparlano di tutto e tutti per ingannare il tempo e dove «la gente non lavora, non guadagna e non compra».
La scelta della prima persona catapulta da subito il lettore nel turbinio di parole e idee che volteggiano, senza sosta, nella mente di Piero, soprannominato “Cibicotti” dai compaesani per via di un cartello che il padre aveva affisso fuori al suo ristorante.
Piero viene condotto dal suo sproloquio sulle spiagge di Palira facendo rifiorire, sotto un caldo sole estivo, il ricordo delle ragazze milanesi in vacanza, delle belle giornate trascorse in compagnia di suo fratello, per poi lasciare il passo alla malinconia che accompagna il periodo delle feste natalizie per chi non ha nulla di cui gioire. Piero non ha regali da fare né da ricevere. Lui odia il Natale, lo considera il giorno più brutto dell’anno, eppure vuole rubare il presepe fatto in parrocchia per portarlo a casa e far piacere a sua moglie, la sua Bella.
Piero, a più riprese, regala al lettore frammenti di sé definendosi come quello che non può rendere felice nessuno perché non sa cosa sia la felicità, lui che va in giro per casa con le mutande in testa o che parla da solo ad alta voce per farsi compagnia, lui che vive di dettagli, di particolari che gli riempiono la mente mentre sogna «una vita senza spazi da riempire, da passare con le donne sulla Litoranea di Salerno».
Piero non riesce a vivere con serenità. Troppo tempo libero, troppi pensieri.
Piero è stato saccheggiato, depredato della sua innocenza. Le radici del suo male sono da ricercare all’interno della sua famiglia, dalla quale, fatta eccezione per il fratello, sente di aver ricevuto «solo un carico di merda».
«È tutto vero… È vera anche mia mamma, la stronza, che mi vorrebbe ancora spogliare come faceva quando ero piccolo».
Il personaggio di Piero fa trasparire il percorso formativo dell’autrice, laureata in Psicologia e Scienze dell’Educazione.
Piero non ha chiaro cosa gli succede, ma è consapevole di avere dei pensieri fissi, di avere una cosa dentro che non potrà mai cambiare. Nel suo soliloquio semina sintomi, attribuisce la responsabilità del suo malessere al rapporto con la madre, quella prima donna che dopo averlo generato lo ha svuotato, danneggiandolo a vita.
«Io mescolo sempre tutto e non so bene quello che è successo davvero e quello che invece è solo nella mia testa». Di fronte a questa esclamazione ogni dubbio diventa lecito.
Sul fondo del mare c’è una vita leggera è una lettura scorrevole, anche se a tratti ridondante e contaminata da qualche forzatura nella costruzione del personaggio.
(Lucrezia Lerro, Sul fondo del mare c’è una vita leggera, Bompiani, 2012, pp. 108, euro 16)
Si è soliti dire che si apprezza quanto di buono si è avuto soltanto dopo averlo perso. E con altrettanta frequenza capita di raccogliere i frutti del proprio lavoro e il successo sperato solo dopo aver esalato l’ultimo respiro. Anche nel mondo delle serie televisive questo non è impossibile, e la dimostrazione la dobbiamo a Joss Whedon. Firefly è uno dei più fulgidi esempi di successo “postumo” per una serie.
Lo sceneggiatore e già produttore di Buffy (regista anche lo scorso anno del film The Avengers) ha tentato l’azzardo nel mondo della fantascienza con un progetto fresco e originale. L’universo del suo show è lontano da quello classico di Star Trek o Star Wars, e si avvicina molto di più a un Far West intergalattico di pseudo cow boy in viaggio con le loro astronavi che si incontrano nei bar o nei sobborghi dei pianeti di periferia per risolvere i loro loschi fini all’ombra dell’Alleanza, il governo centrale in grado di riunire molti pianeti sotto la stessa bandiera dopo una sanguinosa guerra civile.
Proprio durante le ultime fasi della battaglia conosciamo Malcom Reynolds e la sua compagna di avventure Zoe, due soldati in lotta contro l’unificazione dei pianeti ridotti a una vita da commercianti sulla loro nave da trasporto dopo la sconfitta subita. Ma per un ex sergente furbo e intraprendente una vita da facchino non è abbastanza: l’istinto di sopravvivenza, un pizzico di sprezzo del pericolo e la consapevolezza di non poter sbarcare il lunario nei modi più tradizionali porteranno Mal e il resto dell’equipaggio faccia a faccia con datori di lavoro poco raccomandabili e incarichi poco puliti.
Non si può nascondere fino a ora la presenza di qualche cliché qua e là, non però così ingombrante da rendere addirittura banale e scontata la serie; anzi, gli intermezzi comici e il rapporto tra i protagonisti sulla nave sapranno intrattenere senza noia. Tutto questo sicuramente è stato merito anche del cast scelto per Firefly: riunire tutti gli attori presenti nel 2013 sarebbe veramente difficile. Per quanto poco efficace possa risultare un piccolo elenco in questo caso è obbligatorio anche per rendere giustizia a Nathan Fillion (già incontrato nei panni di Richard Castle), Gina Torres (presente negli ultimi due Matrix), Morena Baccarin (protagonista nel remake di Visitors) e Summer Glau. E la lista sarebbe ancora più lunga.
Eppure tutto questo non ha impedito alla Fox di cancellare la serie dopo l’ultimo episodio della prima stagione, andato in onda nel lontano dicembre del 2002, gettando nello sconforto tanti affezionati fan innamorati dello show. Nonostante alcune critiche poco positive, per molti Joss Whedon ha creato un capolavoro nel suo genere, destinato a rimanere nell’Olimpo della fantascienza. Tutto questo amore ha creato un vero e proprio movimento dei fan dopo la triste notizia della prematura scomparsa di Firefly: i loro sforzi hanno portato all’uscita di un cofanetto in DVD, il cui inaspettato successo ha portato addirittura alla produzione del film Serenity (pensate, il nome richiama quello della nave spaziale su cui viaggiano i protagonisti, perché la Fox detiene i diritti del nome dello show) per chiudere quanto lasciato in sospeso dopo i 14 episodi visti in televisione.
Come spesso succede soltanto la “morte” ci permette di dare il giusto risalto a quanto in vita non è riuscito a trovare la gloria agognata. Almeno questa volta ci siamo potuti gustare il lieto fine.
Il modo migliore affinché un ricordo non venga inghiottito dal buco nero del tempo è raccontarlo. È una tecnica tanto elementare quanto efficace. Raccontare il proprio passato significa perciò prolungarlo nel tempo, traslocarlo da uno spazio a un altro, dalla dimensione dell’allora a quella di un oggi profondamente mutato.
Mentre Salazar dormiva (Cavallo di Ferro, 2013) di Domingos Amaral è la lunga rievocazione di un’epoca epica e fatale del secolo scorso. Tutto un mondo ormai sepolto riemerge a Lisbona in una calda e umida giornata di giugno del 1995 nei ricordi di Jack Gil Mascarenhas, un ottantacinquenne di padre inglese e madre portoghese, che torna dopo cinquant’anni a Lisbona in occasione del matrimonio del suo caro nipote Paul.
La Lisbona anni Novanta fa così da specchio alla Lisbona dei terribili anni Quaranta, una città ambigua, avvolta in un’atmosfera fatta di luci e ombre, sorniona e intrigante. Sono gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Il Portogallo era già da qualche anno sotto il giogo della dittatura di Antonio de Oliveira Salazar. Dopo l’instabilità politica, con gravi ripercussioni economiche, attraversata dalla nazione portoghese nei primi anni del Novecento e una breve parentesi repubblicana, nel 1932 infatti Salazar era stato nominato Presidente del Consiglio, assumendo di fatto, con il varo della nuova Costituzione, pieni poteri e il controllo totale dello Stato. È il fascismo portoghese, l’Estado Novo,analogo e ispirato a quello di Mussolini in Italia. Allo scoppio della guerra Salazar scelse per il Portogallo la via della neutralità, anche se vicino ideologicamente alle forze dell’Asse (alla morte di Hitler Salazar proclamerà tre giorni di lutto nazionale), rendendo di fatto Lisbona una sorta di zona franca dove da tutta Europa potevano trovare asilo rifugiati politici, perseguitati, ebrei e spie. La città si riempie così di personalità stravaganti, potenti miliardari accompagnati da donne mozzafiato e una fervida vita notturna agita le strade della capitale portoghese e i suoi alberghi di lusso. Uno in particolare, l’Hotel de Aviz, diventa il centro di incontri, ricevimenti privati e intrighi. I portoghesi da parte loro palesano ben presto una evidente divisione fra filotedeschi e la storica lealtà all’Inghilterra.
È in questa realtà di sospetto e intense passioni, portate al loro parossistico consumarsi dal diffuso sentore di precarietà, che Jack Gil visse la sua appassionante avventura da agente dell’MI6 (Military Intelligence, sezione 6). Una spia per conto degli inglesi in piena regola che insieme al fraterno amico Michael ha il compito di scovare e smantellare la ramificata e ben organizzata rete di spionaggio dei nazisti. E tutto avviene a Lisbona con la compiacenza apparentemente disinteressata del dittatore: «Salazar sapeva tutto. Non dormiva nemmeno mentre stava dormendo…».
Bastano queste poche righe per non sciupare il gusto di un racconto che, nel suo andirivieni tra presente e passato, ci parla di amori sconvolgenti gli argini di una passione che in stato di eccitazione la normalità stenta a contenere (Mary, Alice, Anika), ci parla di amicizia, di inseguimenti e depistaggi. Una storia resa ancora più intensa dalla malinconica e nostalgica narrazione, a volte rotta dell’emozione, in prima persona di un nonno al suo giovane nipote neo sposo, restituendogli momenti di straordinaria vitalità. C’è la guerra, ma c’è anche il parallelo versante del cuore in questa rievocazione di quegli anni lontani e quasi fantasmatici.
In un ideale passaggio di testimone di generazione in generazione, Domingos Amaral, per bocca di Jack Gil, introduce il lettore in un’epoca, osservata da una prospettiva quasi inedita e comunque poco conosciuta, in cui la vita era tanto un bene fragile da difendere quanto vissuta veramente e pienamente. E il suo ricordo fa ancora impallidire e tremare.
(Domingos Amaral, Mentre Salazar dormiva. Memorie di una spia a Lisbona, trad. di Rosaria De Marco, Cavallo di Ferro, 2013, pp. 402, euro 16)
È probabile che quella di vite “parallele” non sia nulla più di una illusione letteraria, a partire dal primo che mostrò di nutrirla, come non ignorano molti degli attuali studenti di liceo (e come seppe anche Shakespeare, che ne sfruttò la robusta scaltrezza di dialoghista e sceneggiatoreavant lettre), Plutarco. Ma se lo storico antico in realtà, scovando simmetrie e rispondenze fra la biografia di molti dei più riveriti “spiriti magni” di Roma e quella di altrettanti fra queigraeculiche i detentori dell’impero non facevano mistero di snobbare, nutriva soprattutto l’ambizione di affermare la pari dignità della sua gente, l’ultima, più interessante reincarnazione di quell’antico fantasma letterario,Bert e il Mago, di Fabrizio Pasanisi (Nutrimenti, 2013), mette appunto “in parallelo” la vicenda umana e letteraria (più la prima, forse, che la seconda: Pasanisi sembra fermarsi quasi sulla soglia, di ogni opera che nomina, come avesse pudore di aggiungere le sue alle tante parole già scritte su di esse) di due scrittori della stessa lingua, della stessa cultura, dello stesso popolo: Thomas Mann e Bertolt Brecht.
Diversi per età e, se non per estrazione sociale, certo per il modo, perfino caparbio, di scegliersi il proprio posizionamento entro la società (soddisfatto, aulicamente “borghese” il primo, provocatorio e aggressivamenteengagéa sinistra, il secondo), diversi anche nel modo di vivere il rapporto con l’altro sesso (scrupolosamente e, verrebbe da dire, manzonianamente monogamico e patriarcale, pur con dichiarati ma ben padroneggiati fondi di omoerotismo, il primo, impudentemente imbrigliato in continue impazienze adulterine, e di estroverso maschilismo, il secondo), i due scrittori lo sono certamente soprattutto nel campo delle scelte stilistiche: quanto il primo è fluente, analitico, compiaciuto del suo stesso narrare, tanto asciutto, scarno, tutto linee forti e marcate, il secondo. E poi, i generi: il primo è, quasi esclusivamente (non fosse il poco fortunatohapaxdiFiorenza), romanziere, narratore; l’altro, se non per la trascrizione prosastica deiTre soldie i postumiAffari del signor Giulio Cesare(ancora Plutarco, dunque!), fu e si sentì con più dedizione scrittore di parole destinate a esser dette, vissute in scena.
Eppure almeno un drammatico, grande punto di contatto fra questi due uomini di lettere così antitetici, esiste, ed è da esso che parte, e su esso che si gioca, la felice scommessa di Pasanisi: la vicenda umana dell’esilio, della patria abbandonata e poi vista, da lontano, dal disagio di un’altra cultura in cui, nonostante gli applausi, non si riesce mai a sentirsi veramente a casa propria, sprofondare in vertici di barbarie forse mai ancora toccati dall’umanità; con il conseguente dovere di dare alla propria arte l’icastico nitore della testimonianza, a futura memoria. Poi, di nuovo il divergere dei destini: Mann che “non può” più tornare nella sua terra, Brecht che invece sceglie, anche a prezzo di acquiescenze (i ritocchi alLucullo,per riallinearlo al Partito…) che gli calcano in viso un po’ della maschera del suo Galileo, la sola parte di Germania che le sue convinzioni gli concedevano.
Tutto questo ha, nel bel libro di Pasanisi, non la pesantezza mutriosa dell’erudizione che cataloga ogni sassolino raccolto per via, e infittisce le note a piè pagina; ha, invece, l’elegante cadenza del narratore, il tocco forte e lieve del romanzo di buona lega: come nell’ampio dialogo, al centro del libro (in simmetria con l’incontro di Adrian e il Maligno?), fra i due scrittori in una sera d’esilio, riguardo alle ragioni profonde dell’essere, e dello scrivere, di ciascuno di loro.
Chiuso il libro, e senza avvertirne pesantezza nonostante la manniana abbondanza di pagine, finiamo per sentire i due esseri umani, anche più di quanto non avessimo già sentito attraverso le loro parole i due scrittori, dei nostri “vicini”, uomini che ci piace avere al nostro fianco.
(Fabrizio Pasanisi,Bert e il Mago, Nutrimenti, 2013, pp. 528, euro 22)
Dopo la personale di Miss Tic, la Wunderkammern ospita un altro noto street artist del panorama francese, C215, pseudonimo di Christian Guémy.
Il suo percorso artistico inizia nel 2006 per le strade francesi e ben presto si espande in altre città come Londra, Nuova Delhi, Los Angeles, Barcellona e New York. Questa visibilità lo rende da subito popolare e nel 2008 avviene la sua consacrazione al Cans Festival di Londra, invitato direttamente da Banksy. Attento al particolare e all’espressione umana, i suoi stencil sono esercizi di precisione.
Il suo percorso artistico nasce dallo studio e dalla ricerca; si laurea in storia e teoria dell’architettura ottenendo un dottorato di ricerca. I suoi stencil passano dal monocromo al colore. Come si evolve il suo percorso artistico di ricerca, così anche i suoi soggetti: dalla riproduzione minuziosa di gatti ai ritratti umani, come possiamo vedere in mostra.
Questi ritratti si basano sull’emotività e cercano di cogliere gli aspetti più segreti e nascosti dell’animo umano: la sua ricerca e la relativa composizione si basano soprattutto sulla rappresentazione della gente comune e del loro vissuto quotidiano. Le sue opere nascono su strada e per strada, ed essendo inserite nel contesto urbano lo rappresentano in modo eccellente, riuscendo a cogliere la verità di quel luogo. Un altro dei suoi modelli è Ernest Pignon-Ernest, pioniere della Urban Art, nato nel 1942 a Nizza, e da lui riprende la fusione dell’arte classica nell’apparato urbano.
La mostra si intitola Mea Culpa ed è visitabile fino al 24 maggio: questo nome riflette sul concetto cristiano dell’ammissione di colpa, ovvero sull’assunzione di responsabilità da parte del mondo ecclesiastico davanti agli errori commessi nel corso della storia, e riprende una delle preghiere recitate durante l’eucarestia, l’atto di colpa.
Il curatore, Giuseppe Ottavianelli, ha deciso di dividere la mostra in zone tematiche, anche se il titolo sembra essere esplicato solo in un’opera, quasi nascosta, “Meine Schuld”, la mia colpa, appunto.
La prima parte è un chiaro ed evidente omaggio a Caravaggio e riproduce alcuni dei quadri simbolo della sua produzione. All’ingresso, sulla grande parete a destra, “Davide e Golia” rappresenta la forza bruta e l’arroganza che vengono sconfitti dall’astuzia e dal coraggio. Un’altra scelta dedicata al maestro è “Giuditta che taglia la testa a Oloferne”, tragica rappresentazione della vittoria del più debole sul più forte, ripresa dalla tradizione giudaico-cristiana. I supporti che l’artista usa sono innumerevoli, dai più classici, muro e tele, ai più bizzarri, come assi di legno riciclate, cabine della posta e delle lettere, lamine d’acciaio, vecchi contenitori di pellicole filmiche e, per non farsi mancare nulla, un pallone da calcio usato.
Di seguito ci troviamo di fronte a opere dai soggetti cristiani: Madonne e Cristi ritratti ironicamente su barili di benzina vuoti. La cura del particolare è visibile nella serie dei volti umani, raffigurati in tonalità molto chiare in contrasto con i supporti scurissimi.
Nel seminterrato troviamo “La Mala Educación”, situata nell’ultima stanzetta, costruita da pannelli di vetro coloratissimi retroilluminati, dove su ognuno vi è raffigurato un volto di bambino delle favelas. La loro costruzione, pensata in modo verticale e a vetri, ci ricorda una vetrata gotica di una cattedrale.
Nascosti nei vari cunicoli ci fanno l’occhiolino altri ritratti e una stanzetta. Questa rappresenta una stanza d’artista, un working process, in cui troviamo il lettering di “Mea Culpa” e di “Mea Culpa Maxima” poggiati su un tavolo, opera di un giovane ragazzo romano di nome Rocco, che li ha utilizzati per decorare la vetrata della galleria con il nome della mostra, creati come gesto di amicizia e di legame tra amici e colleghi.
Ritornando al piano terra troviamo una piccola collezione di opere, dedicata al cinema italiano neorealista, con la raffigurazione di alcuni film celebri come Roma città aperta, Ossessione, Anni difficili e Habemus Papam, che ci aiutano a tornare al tema conduttore della mostra, che, possiamo dire, era stato un po’ trascurato.
La mostra vorrebbe sferrare un attacco all’istruzione ecclesiastica, ma forse oltre al dittico “Meine Schuld” in cui troviamo raffigurati Adolf Hitler e Papa Pio XII, che omise la tragica verità dell’Olocausto, non troviamo altri indizi.
Mea Culpa di C215
23 marzo – 24 maggio 2013
Wunderkammern, via Gabrio Serbelloni 124, Roma
Per ulteriori informazioni visitare il sito: www.wunderkammern.net
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