“Neuland” di Eshkol Nevo

«Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati». Così appuntava Ryszard Kapuscinski, reporter e corrispondente di guerra polacco, nel suo romanzo autobiografico In viaggio con Erodoto (2007): un libro in cui il concetto di viaggio si lega strettamente a quello di memoria, individuale e collettiva, e in cui il contatto con terre sconosciute come l’India e la Cina trova il conforto delle tracce lasciate dal primo grande reportage della storia mondiale: Ἱστορίαι (Storie) di Erodoto.

Anche Neuland è la storia di un viaggio nello spazio e nella memoria, il viaggio di Dori e di Inbar che non si conoscono; partono da Gerusalemme per ragioni diverse attraverso due strade difficili, dissestate e separate, ma che si incontrano su una terrazza di Pisac, Perù, e iniziano a danzare insieme fino in Argentina, nei pressi di Buenos Aires, dove il padre di Dori è sparito, da qualche parte lì nei campi di soia.

Il vero scopo del viaggio di Dori è ritrovarlo anche con l’aiuto di un ecuadoregno bizzarro con degli occhiali da terrorista e grande esperto di donne, bevute e ricerche: Alfredo. Ma lungo la strada accade molto di più.

«E allora perché ti ho portato fin qui, Mister Dori? Perché il viaggio, amigo, fa due grandi cose: stimola l’appetito e stimola la memoria».

Mentre la strada si mostra nuda e nuova, una luce malinconia illumina il passato di Dori, la sua storia di nonamore con la moglie Roni, quell’unica volta in cui lei lo aveva chiamato “amore”, «come la parola isola, che compare una sola volta in tutta la Bibbia». La nonna Lili è seduta lontano sulla “sedia dei ricordi” e ripensa al suo viaggio per sfuggire ai nazisti dalla Polonia verso Eretz Isruel, la Terra Promessa agli ebrei. La mamma di Inbar è a Berlino «con il suo passato che ruggisce tutto il tempo, come una metropolitana, al di sotto del presente».

«Il tempo ti gocciola tra le dita» e se la ricerca nello spazio ha un principio e una fine, quella nella memoria non finisce mai. È una ricerca calma, lenta, come un sorso bollente che può tanto bruciare quanto dare piacere e tepore.

Neuland, romanzo tradotto dall’ebraico ed edito da Neri Pozza per la collana Bloom, è un libro denso, che arriva da lontano e che richiede tempo. È zeppo di immagini, voci, culture e rivela un grande impegno documentario i cui risultati sono inseriti in un intreccio narrativo misterioso, intrigante e inaspettato con l’intento di raccontare, in realtà, la storia di un viaggio molto più lungo: quello del popolo ebraico, che dura da migliaia di anni. 

«Ho viaggiato e viaggiato e sono morto e rinato e sono arrivato qui».


(Eshkol Nevo, Neuland, trad. di Ofra Bennet e Raffaella Scardi, Neri Pozza, 2012, pp. 637, euro 18)

Maria

Io pedalo, ma pedalo forte per davvero, specialmente quando c’ho paura o sono spaventato. Quella sera mi ricordo, ero sceso in paese con la mia bicicletta, senza fari, che a tagliare nel bosco era sempre un brutto affare, perché non ci vedevo niente, e prendevo delle tranvate della madonna sulla fronte e sulle orecchie. Ma c’era il coprifuoco e non si poteva uscire, figurati accendere il faro. Ma io dovevo andare in piazza, c’avevo l’appuntamento con la Maria, madonna quanto mi piaceva la Maria, però io a suo padre per niente. Mi diceva sempre: «Sei un contadino, magari comunista, e non sei nemmeno studiato!»
«Vero gli dicevo, però c’ho un gran bel pezzo di terra che arriva sino giù all’argine, dieci vacche, la Bianchi e anche una Gilera rossa, ferma, perché non trovo il pistone di ricambio, però ce l’ho, te cosa c’hai?»
Quando gli dicevo così, diventava una bestia, tutto rosso, sembrava un torello da monta, solo che io non volevo essere la vacca, così giravo i tacchi e lasciavo correre, anche perché quello li c’aveva due paia di manone che sembravano vanghe arrugginite.
Comunque quella sera, avevo detto alla Maria che ci saremmo visti alle nove dietro la canonica, e così mi sono messo a pedalare di bestia, anche se faceva un po’ freddo, ma per un suo bacio, non mi fregava niente. Si perché la Maria, non è una donna come le altre, lei mi ascolta quando parlo, e non mi dice sempre: «Sei un semo», come fanno quelle vecchie rugose e puzzolenti di naftalina che girano in paese, che nemmeno i loro uomini le vogliono più, sono come il letame, puzzano e attirano le mosche. La Maria invece è un fiore, piccola e con la faccia rosa, e ogni volta che la vedo, sin dai tempi della scuola, anche se ho fatto solo la prima, mi si alsa la pressione, non capisco più niente e a volte balbetto, ma è solo un po’ d’emosione, poi mi passa e sento solo quella roba nella pancia che borbotta, come la mia Gilera al minimo.
Appena arrivato verso il paese, ho visto che c’era ancora il bar aperto sul retro, così sono entrato e gli ho detto al Lucio: «Dai, fammi un bianchino che c’ho fretta e mi devo scaldare un po’».
«Ma lo sai che non posso, che se arrivano quelli della Milisia poi mi tartassano e magari mi rompono anche tutto il locale… dai Settimo… fai il bravo… vai a casa che è tardi!»
«Ma va là dai, è solo un bicchierino, porca miseria, c’ho qui la pancia che trema come una fodera senza cuscino dentro, e se non bevo poi balbetto… dai Lucio… falla mo corta va… e dammi quello schifo di vino che c’hai sotto al banco».
Tira e molla, mi versa ‘sto bianco, lo bevo velocemente e scappo fuori. Il Lucio mi smoccola dietro, come sempre non ho pagato, beh pazienza, metterà sul conto del papà di Maria, tanto quello è più bestia di me, e non se ne accorge nemmeno, con tutti i soldi che c’ha.
Finalmente arrivo dietro alla canonica, mancano ancora dieci minuti alle nove, la Maria non c’è, allora mi siedo per terra e mi faccio una cartina. Sono lì tutto impegnato con il mio tabacco, umido di sudore perché lo tengo sempre nei calsini, e chi ti arriva? Il padre della Maria! Porca miseria, e adesso? Faccio finta di niente, metto via tutto e spero che al buio non mi veda. Lo seguo mentre entra in canonica, ma cosa farà a quest’ora dal prete, sarà mica stato male qualcuno, vuoi vedere che ci ha scoperto e quel bischero mi ha chiuso in casa la Maria… lo ammasso se mi fa una cosa così… comincio a preoccuparmi.
Ascoltare non è bello lo so, però non stavo nella pelle, così ho appoggiato l’orecchio alla persiana, (che mi è anche entrata una bestia nell’orecchio, e mi fischia tutto) e mi sono messo ad ascoltare.
«Don Fausto, sono arrivati i tedeschi, si dice vogliano portarci via tutti perché siamo ebrei, cosa faccio io con la Maria e gli altri miei figli?»
«Stia tranquillo, vedrà che sarà la solita propaganda, ma non succede nulla, vada a casa ora e tranquillizzi la famiglia, io m’informo presso il Federale, e domani le farò sapere, buonanotte!», disse il parroco.
Sono lì che ascolto tutta ’sta discussione, quando a un certo punto arriva un casino di gente che grida dalla piazza, corro giù come un tanghero a manetta e del coprifuoco non mi interessa più niente.
Vedo la Maria e altra gente che viene strattonata sui camion, spinta e malmenata, mi monta il sangue alla testa e corro verso il camion, gridando a quel topo grigio in divisa: «Te mangia crauti cosa stai facendo alla mia donna?», ’sta bestia si mette a smoccolare una lingua che non si capisce un casso: «*Allmählich verschwinden, passiert nichts, raus, raus!»
«Ascolta animale, io non capisco un casso di cosa stai dicendo, ma te la Maria adesso la tiri giù dal camion, se no ti riempio di testate sui denti, e di sberloni sulle orecchie… e va che c’ho la mano pesante… hai capito, merda?»
Mentre urlavo, in tutto quel casino, una mano dietro la schiena mi strattona, mi giro e c’è il Don Fausto che mi grida: «Dai Settimo vieni via, lascia stare, li portano al comando di Reggio per un controllo e tra un’ora sono a casa».
«Lascia stare un casso, questi qui sono mica a posto, va che facce da scemi, sembrano vacche tarate!»
«Maria stai tranquilla, tra un’ora sei a casa, ci vediamo dopo», le grido dal marciapiede, mentre il Don mi porta via di peso, e le lacrime della Maria mi spaccano il cuore.
Mentre torniamo in canonica, guardo i camion che vanno giù, verso l’argine grande, poi solo polvere e buio. Porca miseria che rabbia che c’ho dentro, mi viene da piangere, ma resisto, mi metto le dita nel naso e me ne sto lì in canonica con un caffè alla cicoria ad aspettare.
«Ma Don Fausto», gli chiedo, «perché li hanno portati via?»
«Perché sono ebrei Settimo, e lo sai che i crucchi quelli non li vogliono».
«Ma cosa vuole dire ebreo? Ma porca miseria, è come se uno dei miei vitelli nascesse a Imola invece che a Reggio, cosa cambia, non è mica diverso, Padre me lo dica lei, cosa casso cambia?»
«Stai tranquillo Settimo, vedrai che torna la tua Maria».
A me il Don non me la conta giusta, corro sul retro della canonica e riprendo la mia bicicletta, e giù a pestare sui pedali verso l’argine grande, quanta polvere ho mangiato non ci vedevo niente, pedalavo e bestemmiavo, avevo paura!
Mentre arrivavo all’argine, ho sentito dei botti, come quando aprono la caccia d’autunno, ma saranno mica scemi da sparare al buio questi crucchi, non capisco. Arrivato all’argine mi guardo in giro, non c’è più nessuno, un silenzio che mi gela il sangue, allora comincio a gridare: «Maria? Maria dove sei?» Niente, solo un silenzio che non comprendo.
Sono rimasto lì tutta la notte e la mattina, e poi il giorno dopo, e il mese dopo, e così tutti i giorni negli ultimi vent’anni. Ogni giorno faccio tutta la strada dalla mia cascina, giù fino all’argine grande, e continuo a cercare Maria, a gridare il suo nome. Seguo il percorso dei fiori azzurri che mi guardano, e penso che siano i suoi occhi, e grido: «Maria, dai vieni fuori che ho aggiustato la Gilera, c’ha un pistone che con questo arriviamo al mare!» «Mariaaa, so che sei lì nascosta tra i fiori, non farmi arrabbiare, dai… esci!» «Mariaaaaa, casso, devo ancora darti il bacio della buonanotte!» «Mariaaaaaaaaaaaa…!!!!!»

La gente mi guarda strano quando passo con la mia vecchia Gilera, perché urlo sempre, ma a me non me ne frega niente, tanto io lo so che la Maria è lì, e un giorno o l’altro salterà fuori dai fiori a darmi quel bacio che aspetto da vent’anni, e se non viene lei, ci vado io al fiume con la mia Gilera; «Eccomi Maria, sono qui, sono arrivato, ora possiamo baciarci!»

 

Questo racconto si è classificato primo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare, organizzato da Edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

“L’uomo che viaggiava con la peste” di Vincent Devannes

L’uomo che viaggiava con la peste (Neo Edizioni) è il feroce esordio dell’autore francese Vincent Devannes. Per capire meglio qual è la peste, quali sono lo scenario e il contesto in cui si muove il protagonista di questo libro occorre fare una premessa su una pagina di storia davvero controversa.

Operazione O.D.E.SS.A. Ovvero: Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen. Tradotto: Organizzazione degli ex-membri delle SS. Questo acronimo diventa famoso nel 1972, quando l’autore di best-seller Frederick Forsyth, con la consulenza di Simon Wiesenthal, sopravvissuto all’olocausto e successivamente conosciuto come il “Cacciatore di nazisti”, pubblica il thriller Dossier Odessa, poi divenuto omonimo film nel 1974.

Ma che cosa è l’Operazione Odessa? È il piano di fuga e salvataggio delle gerarchie naziste, pianificato dopo lo sbarco in Normandia, quando i più realisti membri realizzano l’imminente disfatta. Destinazione: Sud America. Lì trovarono rifugio personaggi del calibro di Martin Bormann – capo della cancelleria del NSDAP e braccio destro del Führer –, Heinrich Müller – capo della Gestapo –, Adolf Eichmann – tra i principali esecutori della Soluzione finale –, Erich Priebke, e l’“angelo bianco di Auschwitz”, il dottor Josef Mengele. E non tutti sono stati scovati dai servizi segreti americani e israeliani.

Tenendo presente tutto questo, Devannes dà vita a un romanzo nero e torvo che disegna un affresco marcio e violento di quella che era la Buones Aires degli anni ’50 invischiati nei loschi affari post bellici. E non solo.

Il protagonista inizialmente è anonimo. Spaesato e sballottato su una nave per immigrati. Ma già da subito capiamo che la colpa che lo opprime è terribile e insopportabile, sicuramente legata al conflitto mondiale concluso da poco. La ghigliottina di questo rimorso rimarrà puntata sul personaggio per tutto il libro, creando un’avvincente suspance. Appena accolto da un rappresentante del clero, verrà battezzato Albert Dallien. Finita la registrazione alcuni suoi agganci sul posto gli procureranno il peggior lavoro possibile da svolgere all’interno di un bordello gestito dalla mala polacca: praticare gli aborti alla prostitute rimaste incinta. Come un pugno nello stomaco, Devannes descrive con minuzia di particolari l’apprendistato di Dallien. Ma questo è solo l’inizio. Perché Dallien finirà per innamorarsi di una delle sue pazienti. E di pari passo conoscerà sempre più a fondo la vita e le abitudini dei cittadini che popolano le strade della città, aggiungendo quel tocco noir che rende il libro ancora più gradevole. Lentamente il passato e il motivo per cui il protagonista veniva soprannominato in Europa il “Cane di Châtellerault”, verranno a galla. Insieme alle amanti, i criminali e i controversi attori di quell’Argentina malata e corrotta, che fa da sfondo all’Operazione Odessa, di cui quest’opera rimarca in maniera vivida i colori e gli odori.

Così, L’uomo che viaggiava con la peste, è il classico romanzo che ti cattura e non ti fa scappare. Storia e fiction si fondono alla perfezione, e ogni personaggio brilla per spessore e impatto. Dallien su tutti: è un protagonista quasi muto, che non parla, che per capirlo devi vedere come agisce, ciò che fa. Le scelte che prende lo qualificano, nel bene e nel male. La prosa di Devannes è asciutta, tesa, forse in alcuni momenti troppo fredda, ma sicuramente perfetta per far calare il lettore nella palude umana del libro. Anche perché la peste del “Cane di Châtellerault” è la peste della Storia. È anche la nostra.

 

(Vincent Devannes, L’uomo che viaggiava con la peste, trad. di Camilla Diez, Neo Edizioni, 2012, pp. 192, euro 15)

“L’ultimo ballo di Charlot”: un’intervista sottosopra

Capita spesso ai lettori di interrogarsi sui retroscena che portano alla pubblicazione di un libro, sugli aneddoti che nasconde, sul percorso personale dell’autore. Meno spesso, forse, pensiamo che possa accadere il contrario, e invece… Eccoci di fronte a un’intervista al contrario: per una volta, è lo scrittore a riempire di domande il suo interlocutore, in fondo, chi può raccontare un libro meglio del lettore stesso? Fabio Stassi, autore di L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio, 2012), intervista Massimo Paradiso, il suo personal editor e lettore ideale.

 

F: Ciao Massimo.

M: Ciao Fabio.

F: Eccoci qui, nella stessa paninoteca dove ti raccontai, tre o quattro anni fa, la prima idea di questa storia e ti feci leggere le prime pagine.

M: Già.

F: Tu ti appassionasti subito, ti sembrarono buone, le mettesti immediatamente a fuoco e mi suggeristi subito alcune modifiche essenziali. Da allora sei stato il mio primo lettore, in quest’avventura: be’, volevo dirti che è bello avere un amico come editor.

M: È stato divertente anche per me.

F: Ho sempre pensato che i libri hanno a che fare con l’amicizia. Non mi ricordo tutti i libri che ho letto, ma di tutti mi ricordo chi me li ha indicati, chi me ne ha parlato, chi me li ha fatti incontrare. C’è una storia, e un legame per ciascuno. È questo supplemento di vita privata che si mischia con loro a renderli così significativi per ciascuno di noi.

M: Ne sono convinto anch’io.

F: Puoi figurarti, quindi, quanto sia importante, per me, quest’intreccio affettivo per le storie che scrivo, quanto mi aiuti parlarne e fare leggere le prime versioni solo a pochi occhi fidati, che mi conoscono e mi capiscono, e sanno forse anche meglio di me quello che vorrei riuscire a esprimere. Mi sento molto fortunato ad avere tre o quattro amici con cui discuto da anni su tutto. È per questo vorrei rovesciare quest’intervista.

M: In che modo?

F: Vorrei essere io a farti qualche domanda. Ho sempre sognato di intervistare un mio lettore. Alcuni sono troppo lontani, altri non li sento da un po’, e quelli che restano non li conosco. Ma qui davanti ho te, che questo libro lo hai visto nascere, e hai contribuito a cambiarlo con i tuoi consigli.

M: È un po’ strana, come intervista.

F: Anche il personaggio di Charlot lo era, un tipo tutto sottosopra, con le scarpe troppo grandi e i pantaloni troppo corti.

M: Ho capito, vuoi parlare della mancanza di proporzione, di quella particolare sospensione del sistema metrico lineare che hai adottato in questa narrazione.

F: Mi sembra un buon inizio, anche se non ho ben capito cosa vuoi dire.

M: Partiamo dalla citazione che apre il libro. È molto bella, e ha un senso che illumina tutto quello che viene dopo. Chaplin diceva di sé di essere un dorso, una schiena.

F: Chaplin era mancino, suonava il violino al contrario, in lui e nel suo personaggio tutto era storto.

M: Storto è l’aggettivo giusto. Uno dei temi di questa storia è la stortura. A un certo punto, un critico cinematografico accusa Chaplin di avere messo in scena nel film Il Circo la meschina imperfezione del mondo. Ti sei accorto che tutto il tuo libro, in fondo, è attraversato da personaggi fuori misura, nani, acrobate zoppe, donne cieche, tipografi monchi…? anche nelle tue storie precedenti ci sono figure simili: calciatori con una gamba più corta, musicista senza dita, cantanti mute…

F: Me ne sto rendendo conto solo adesso.

M: Il tuo è un circo di creature segnate dalla mancanza.

F: È una bella definizione, ti ringrazio. Mi piacerebbe fosse davvero così: un po’ volevo scrivere sulla mancanza, ma senza dirlo.

M: È per questo che il centro, il diamante della tua storia, è proprio il circo. Il circo, visivamente, è mancanza e deformità, un posto per essere per chi possiede qualche curioso talento, ma che non trova un patto con il mondo, che con il mondo si sente spaventosamente inconciliabile. Il circo è anche disagio, sconcerto, turbamento. Partendo dal circo, tu hai potuto dilatare i confini della verosimiglianza. Quando uno entra là dentro, sotto quel tendone (tu citi quello dei fratelli Bastiani, di stelle fosforescenti, che hai incontrato in un libro di Sebald), puoi credere a tutto quello che ti si racconta. Accetti il fatto che quella pista di terriccio e di segatura sia abitata da donne cannone o da scheletri umani o da uomini con la faccia di un leone. A questo punto, se mi dici che il cinema è stato inventato per amore da un arlecchino nero che puliva la sabbia degli animali, io ti ascolto. Perché quello che mi stai raccontando è una storia di restituzione. Di quella restituzione dello stupore e della comprensione che ci rende il circo. Dopotutto, se ci sono persone segnate dalla mancanza, vuol dire che a loro qualcosa bisogna pur restituire.

F: È un’interpretazione molto nobile, e mi piace, naturalmente, ma sai bene che all’inizio credevo di essere alle prese solo con una favola strampalata per ragazzi… ad ogni modo, è bello vedere quante cose un lettore può ritrovare in quello che si scrive. A Torino, l’altra mattina, un signore gentile e intelligente mi ha detto che questa è una favola attraversata dal dolore e che la sua aspirazione è l’integrazione dell’ombra.

M: Una favola per adulti, sono d’accordo, quante volte ho dovuto ripetertelo? Charlot è l’ombra, il vagabondo che cammina sul lato sbagliato del marciapiede, la parte mancina delle cose. È un povero di spirito. Ma è l’unico personaggio che poteva portare a termine la missione che gli avevi affidato: consegnare una scatola magica alla donna a cui era destinata, salvare una goccia della sua bellezza dopo l’incidente che l’aveva tolta dal giro e offeso irrimediabilmente le sue gambe, rubare alla morte e al tempo una manciata di fotogrammi, scalfire la pelle e la pellicola del ricordo.

F: Perché dici che poteva riuscirci soltanto Charlot? Il primo protagonista che ho avuto in mente era un altro regista, Frank Capra, te l’ho raccontato. Capra era a me più vicino, perché siciliano, di Palermo. Mi sembrava adatto a raccontare una storia di fortuna, destino e migrazione, che si incrociasse anche con le storie della mia famiglia.

M: Non poteva funzionare. Charlot ha la forza di un archetipo universale. È un bambino pieno di vergogna, che assiste all’umiliazione pubblica di sua madre e all’oltraggio segreto della sua malattia mentale e da quando sua madre impazzisce è un orfano. È letterario perché somiglia a Davide Copperfield e agli altri personaggi di Dickens. Gli orfani sono gli eroi delle favole. E se tu volevi scrivere una favola sul cinema, come hai fatto, potevi imbastirla soltanto con lui. C’è sempre un solo personaggio giusto per ogni storia. In più, l’umanità di Charlot è terribilmente contemporanea, scandalosa e sovversiva.

F: A proposito della vergogna…

M: Un sentimento violento e sleale, come la nostalgia.

F: Un sentimento che mette in moto le vicende umane. La vergogna si coniuga con lo specchio e con molte altre cose. Ma volevo dirti che in un altro incontro, a Siracusa, un ebreo ortodosso con i cernecchi, il cappello, il cappotto scuro, mi ha detto che nell’ebraismo la vergogna riguarda l’omicidio e il sangue. E che anche quando si arrossisce, si sparge del sangue.

M: È un’immagine molto forte. Ma, a parte lo specchio, la vergogna riguarda pure la scrittura. Scrivere non è forse un modo per attraversarla?

F: Anche recitare.

M: Charlot è un personaggio di una disperata timidezza.

F: Perché parli sempre di Charlot, e non di Chaplin?

M: Tu li hai sovrapposti. Non ti stancare mai di sottolineare che non hai scritto una biografia, ma un romanzo, perché potrebbero fraintenderti in molti. Non ti conoscono, non sanno quello che c’è dietro. Il tuo è un romanzo che ha il vecchio e il giovane Charlot come protagonista. Tu giochi con le maschere, prima che con le persone vere. Fai dire a un’infermiera che Charlot unisce il clown bianco e l’augusto in una sola figura. La cornice biografica è solo un ingranaggio, serve a tenere tutto in piedi. Un trucco, come nei circhi. Ma la storia che corre alla ricerca di una verità intima, interna e coerente, è tutta di fantasia. In fondo, me lo hai detto tu che hai studiato storia, da ragazzo, ma per tradirla.

F: La storia era la mia passione.

M: Ma la verità storica non ti interessa più. È un’altra verità che insegui. Questa ricerca è data anche dal ritmo delle tue storie, dal movimento picaresco, dalla metafora assoluta del viaggio. Ogni restituzione, del resto, ha bisogno di un viaggio.

F: Dimmi la verità, credi che non avrei dovuto mescolare finzione e verità al punto da confonderle entrambi?

M: Tutt’altro. Il romanzo lo fa da sempre, è la sua incoscienza, e la sua forza. Una scommessa. Bisogna avere molta fiducia nella parola, certo, nella scrittura.

F: Mi dici, se vuoi, qual è la scena che ti è rimasta più in testa?

M: Più che una scena, è un gesto. Mi ha colpito quello che fa la tua vecchia armena quando accompagna Chaplin in un cimitero e posa un bastone per terra, vicino a una lapide. Tra tutte le restituzioni che racconti, questa è quella che, nella sua illusione, mi sembra la più riuscita. Come se davvero dopo la morte ci fosse ancora da camminare. E quell’armena si preoccupasse di come avrebbe potuto farlo la sua amica, con la sua gamba zoppa. È davvero un gesto di grande pietà, da parte sua.

F: Una domanda per una risposta franca: credi che la mia scrittura sia inamidata o perbenista?

M: Una domanda difficile, e non posso marginalizzare un po’ di sana cattiveria. Inamidata non direi, piuttosto morbida. Sì, la tua è una scrittura morbida, molto ricercata nel suono, negli accostamenti tra le parole. Nei primissimi testi c’era appena dell’amido, ma erano i giorni in cui cesellavi il tuo stile, era più una fase evolutiva di ricerca piuttosto che una fase statica di autocompiacenza linguistica. Sul perbenismo, sono completamente in disaccordo. Tu sai quanto il mio occhio per la letteratura ami scenari foschi e viva di ombre e distopie, quindi il puzzo di perbenismo lo sento da chilometri. No, non c’è perbenismo, il tuo pugno scrive quello che la tua mente pensa e i tuoi pensieri risentono della tua umanità, ma rientra tutto nella tua scrittura morbida e certosina, raffinata. Il problema che ti ho sempre sottolineato è che il velluto nero di contrasto alla perla si vede poco: la perla è sovraesposta, manca l’effetto contrasto e taluni possono credere che sia una lingua semplice, ma solo perché hai alzato l’asticella. Ma leggendo i nuovissimi lavori, ancora inediti, hai iniziato a calibrare meglio raffinatezza e un giusto sporcare. I lettori apprezzeranno.

F: Oddio, mi hai mandato ko.

M: Sei tu il fan di Balbetta Groogan.

F: C’è altro che ti è piaciuto?

M: La scelta della lettera come mezzo narrativo. È una lettera di Chaplin anziano al figlio troppo giovane, e credo che sia un mezzo antico e al tempo stesso, nel nostro tempo elettronico, modernissimo. È una tecnica di grande forza narrativa, fa esplodere l’identificazione del lettore, perché chi legge diventa senza diaframmi il destinatario. Poi è bello che sia proprio una lettera il motore per una storia on the road. E mi piace la linea d’ombra su cui fai muovere Charlot.

F: In che senso?

M: In questo libro Charlot non appartiene mai alla luce e mai all’ombra, si muove su un confine o fa parte di entrambe. C’è questa costruzione polare dell’identità del protagonista che è molto realistica, perché l’identità, che si costruisce nei primi anni di vita, è un processo di opposte polarità. L’ho trovato molto giusto: il sorriso e il ridicolo sono luce e ombra insieme, come lo sono la timidezza e il porsi davanti alla cinepresa, l’enorme successo e questa irrequietezza che dopo i mille mestieri si riversa all’interno e sul piano sentimentale dell’abbandono: unica restituzione mancata nel tuo Charlot. E anche questo è assai realistico. Altra linea d’ombra è l’uso della vera biografia con quella inventata, intesa come linea dell’ambiguità: l’abuso della realtà per creare finzioni. Ma forse questa cosa piace a me, sempre per la mia predilezione per ciò che è scuro e opaco.

F: Non pensi che tutto questo sia troppo sentimentale, ingenuo o infantile?

M: Penso che tu avessi una voglia infantile di rivedere Charlot in movimento. Ma che non ci sia niente di ingenuo in questi temi: la sfida con la morte, la mancanza, la restituzione, l’ombra, la migrazione, la fortuna, il destino, e questo andare a vedere se uno ha qualche talento, da qualche parte, ed eventualmente metterlo alla prova… Bolaño diceva che il suo terreno era il patetico. E Chaplin sosteneva che non bisogna avere paura di essere ridicoli.

F: Ma aggiungeva che si fa ridere solo se ridicoli lo si è davvero.
Continuerei ad ascoltarti a lungo. Quasi mi ci fai credere, a tutto quello che dici.

M: Lo hai scritto tu.

F: Ora forse appartiene più a te e agli altri lettori che a me. Ti ringrazio davvero, amico mio.

M: Grazie a te. Siamo pazzi.

F: Grazie per la tua follia.

“About Caravaggio. Visioni & illusioni contemporanee” a Frascati

Dipinti, video, stampe, opere fotografiche e installazioni di venticinque tra artisti e collettivi di artisti contemporanei, compongono l’offerta espositiva della mostra ospitata a Frascati nelle Scuderie Aldobrandini fino al 7 aprile 2013 e costruita attorno al tema della reinterpretazione iconografica e stilistica della pittura di Michelangelo Merisi. L’esposizione, curata da Anna Imponente e promossa dalla Soprintendenza per i beni storici artistici ed etnoantropologici in collaborazione con il Comune di Frascati, nasce con l’intenzione di presentare allo spettatore un percorso di lettura dell’opera del maestro lombardo, che guardi alla ricezione di essa nella coscienza collettiva, figurativa e culturale, odierna, attraverso lo sguardo di artisti che ne ripropongono temi, singole figure, approcci stilistici e ideologici, le cui opere sono poste in dialogo con la produzione caravaggesca, tramite la proiezione, nel centro delle sale al piano terra, delle opere maggiori dell’immortale artista.

Due dei più celebri dipinti de maestro, il “Bacchino malato” e il “Narciso”, sono oggetto di citazioni più o meno puntuali, da parte di Vik Muniz, Marco Perego, Elina Brotherus e Matt Collishaw, che nelle proprie opere approcciano diversamente alle pitture, accogliendo chi il senso intimo delle pitture, declinato in forme e contesti moderni, chi la sola figura o addirittura la sola sagoma, rielaborate, riutilizzate, ma pur sempre chiaramente evocative dei potenti archetipi seicenteschi.

Le fattezze maschili interpretate da Caravaggio ispirano la fotografia acquarellata di Luigi Ontani, che riproduce l’artista stesso nelle vesti del “Ragazzo con cesto di frutta”, replicandone con sensualità la spalla nuda, il capo leggermente reclinato e la tattilità dei frutti tenuti tra le mani; dello stesso Ontani è proposta anche “S. Paolo folgorato fortunato d’après Caravaggio”, che lo vede disteso in terra nell’atto di recitare il ruolo del santo, in un contesto figurativo essenziale, privo del cavallo a cui si allude solamente, ma investito dalla fedele, drammatica luce dell’opera caravaggesca.
 


Il corpo virile, l’esasperazione dell’intensità luministica, la tragicità del movimento sono protagonisti di un breve video del duo italiano Masbedo, fruibile all’interno di una cabina, allo stesso modo della clip di Bill Viola, proiettata in uno spazio posto specularmente, e incentrata sullo sguardo, il volto, le linee femminili, che appiano e scompaiono oltre una barriera d’acqua in un silenzio solenne, carico di tensione. Il video, tratto dalla celebre serie delle “Transfigurations”dell’artista statunitense, era già stato proposto in relazione all’opera caravaggesca nel contesto dell’esposizione Incontri con Caravaggio, presso il Museo di Capodimonte tra il 2010 e il 2011, in ragione del pathos e del doloroso realismo che pervade l’espressività e la gestualità dell’umanità di Viola, quanto i personaggi cui dà vita il pittore seicentesco. Altri volti di donne, affiorano come demoni dalle opere fotografiche di Matteo Sanna, a reinterpretare “Giuditta e Oloferne” e “Davide con la testa di Golia”, in totale assenza di spazio, di qualunque cenno a una dimensione reale, umana.
 


Rimanda, invece, ai dipinti di Caravaggio aventi per soggetto il dio Bacco e, nell’ambientazione, ai quadri di genere di tutto il consistente filone caravaggista che ne seguì, il quadro di Gregorio Sciltian che ritrae il dio Bacco in una bettola dell’Italia degli anni ’30, popolata da giovani avventori caratterizzati come se fossero tifosi di calcio; si tratta di una delle poche opere riferibili al Ventesimo secolo in esposizione, tra le quali spicca anche “Stiratrice e ragazzo di Caravaggio”di Guttuso che trasporta nel suo olio su tela, il fanciullo con la camicia bianca che Caravaggio dipinge alla sinistra dell’aguzzino nel “Martirio di S. Matteo”.
 


All’interesse sconveniente del Merisi per una realtà umana cruda, tutt’altro che composta, vera, descritta sin nel dettaglio dei piedi sporchi, riporta il pensiero e l’opera fotografica di Marco Basilè che ritrae un nano e un fastoso transgender, ma anche quella scioccante di Andres Serrano, tratta dalla controversa serie The Morgue, che nel ritrarre l’umano, si spinge sino alla morte. Di questo ultimo artista è esposta anche l’opera ispirata alla produzione sacra seicentesca, reinterpretata qui, inoltre, da David LaChapelle e dal collettivo russo AES+F; a tale filone artistico rimanda, per tonalità coloristica e solennità espressiva, anche la performance di Venessa Beecroft, qui testimoniata da una riproduzione fotografica.

Accennano alla natura morta della celeberrima “Canestra di frutta”, silente testimone della vanità terrena, tra gli altri, l’onirica riproduzione fotografica di Luciano Ventrone e quella più intima e fugace di Dino Pedriali, la stampa di Elisa Strinna che riproduce il celebre dipinto aggiungendo un solo elemento di variazione in tre versioni successive e l’installazione di Hermann Nitsch, posta a tracciare un fil rouge visivamente immediato con l’opera di Caravaggio, nel centro di un ambiente dedicato all’estrema esperienza sensoriale dal nome “Cuba 2012”.

Nel cuore dell’esposizione, l’opera di Michelangelo Pistoletto: uno specchio su cui è posta la serigrafia di un cameraman e difronte al quale sarà sistemato dall’8 gennaio al 3 marzo il “S. Giovanni Battista”della Galleria Corsini, sembra quasi una metafora della mostra stessa nell’offrire allo spettatore la possibilità di osservare chi a sua volta osserva, interiorizza, riprende, avendo chiaro anche davanti a sé, l’oggetto dello sguardo altrui.

L’esperienza culturale qui proposta non potrà non soddisfare coloro che vogliano guardare alle opere di Caravaggio da trenta diverse angolazioni, che siano disposti a reinterpretarle, comprenderle nuovamente e magari anche a permettere che l’imperitura fama del pittore lombardo li avvicini a realtà artistiche cronologicamente più vicine, ma spesso non del tutto note.
 

Artisti: Gregorio Sciltian, Renato Guttuso, Luciano Ventrone, Zhang Wei Guang, Jannis Kounellis, Radu Dragomirescu, Vik Muniz, Renato Meneghetti, Marco Perego, Christelle Familiari, Bill Viola, Masbedo, AES+F, David LaChapelle, Dino Pedriali, Andres Serrano, Matt Collishaw, Elina Brotherus, Luigi Ontani, Vanessa Beecroft, Matteo Basilé, Elisa Strinna, Matteo Sanna, Hermann Nitsch, Michelangelo Pistoletto.

 

About Caravaggio. Visioni & illusioni contemporanee.
Scuderie Aldobrandini, Frascati.
1 dicembre 2012- 7 aprile 2013.
Biglietto: 7 euro, ridotto 5 euro, scolaresche 3 euro.
Orario: lunedì- venerdì 10-18, sabato e domenica 10-19.

laNuovafrontiera: nuove latitudini letterarie

L’avventura è già sveglia molto prima di partire. Cominciando a guardare. Sapendo che l’obiettivo è al di là, spostando il limite, degli occhi, del pensiero, tratteggiando geografie a ridosso. Di ciò che ancora non conosciamo. La storia di questa casa editrice, la terza a cui facciamo visita, si schiude nel suo nome, per rilanciarsi altrove. È laNuovafrontiera, fondata e diretta a Roma da Lorenzo Ribaldi.

Il progetto iniziale risale al 1999 ed è rivolto al target dei più piccoli, a coloro che da sempre sono chiamati ad abitare il confine e a riplasmarlo ogni giorno, a suon di sogni e centimetri. Nel 2002, però, l’attenzione si estende, vira altrove e pensa a un pubblico adulto. Diventa quello il nuovo traguardo, ma non solo. Perché la missione assunta dalla casa editrice, secondo le stesse affermazioni del suo direttore editoriale, è quella di «esplorare globalmente gli autori e le letterature di lingua spagnola e portoghese». “Esplorare” appunto, nel senso incessante di una scoperta. Come un gioco concentrico che dentro una terra sente l’eco di altre infinite, che aspettano carta, mani, lettori.

E spuntano costellazioni di autori straordinari, in Italia per nulla o poco noti, latitudini letterarie prima completamente ignorate, a cui accostarsi con curiosità vorace e incantata, come chi attende l’India e poi trova l’America. Si comincia con In via del tutto eccezionale dello spagnolo Felipe Benítez Reyes, premio Nadal nel 2007, e si prosegue con scrittori del calibro di José Luis Peixoto e della chicana Sandra Cisneros. Innaffiando un immaginario itinerante, fatto di suggestioni continue e rinnovate, da quello postcoloniale dei romanzieri africani al bacino culturale sudamericano.

Le frontiere sono create non solo per delimitare, ma anche per segnare fin dove ci si può spingere, fino a che punto si può camminare e dove invece bisogna saltare, proiettarsi oltre, scommettendo anche sull’aria.

E l’aggettivo “Nuova”, inserito in grassetto nel corsivo delle altre due parole, è lì per sottolinearlo.

Il catalogo, che annovera una settantina di titoli, si compone di quattro collane.

Liberamente, la prima a essere realizzata e a delineare la svolta editoriale. Definita appunto “collana madre”, si caratterizza con il meglio della narrativa contemporanea di area iberica: romanzi dalla Spagna e dal Portogallo, ma anche dall’Africa lusofona e dallo sterminato continente latinoamericano, con un’affilata attenzione agli autori chicanos degli Stati Uniti. È impreziosita da prestigiose note introduttive, come quelle di Andrea Camilleri, Dacia Maraini, José Saramago e Antonio Muñoz Molina. Tra gli autori più interessanti spiccano Justo Navarro, Raúl Argemí, Paulina Chiziane e José Eduardo Agualusa; Il basilisco, una collana nata con l’intento di riscoprire e valorizzare autori classici delle letterature iberiche come Silvina Ocampo, Julio Ramón Ribeyro e Mercè Rodoreda, poco conosciuti in Italia o dimenticati tra le pagine di libri ormai fuori catalogo; Saggi, con studi linguistici e letterari sulla cultura iberica; Cronache di frontiera, dedicata al giornalismo d’inchiesta e alle crónicas latinoamericane, un progetto che vi racconteremo nel dettaglio nella seconda puntata di questo speciale. A queste di aggiungono Otra vez, che ripubblica i successi in formato tascabile e 10×10, collana celebrativa del decimo anniversario della casa editrice, festeggiato proprio quest’anno.

La prima frontiera, quella riservata ai più giovani, ora è diventata un marchio a sé, laNuovafrontiera Junior, inglobando il catalogo per bambini e ragazzi de laNuovafrontiera e indirizzandosi soprattutto su pop-up e sugli albi illustrati. Da segnalare La battaglia del sole di Jeanette Winterson. Altro filone del catalogo junior è quello della filosofia classica spiegata ai bambini, condotta con i libri di Emiliano Di Marco e con le avventure del suo Platone bambino.

I viaggi, però, si espandono ovunque, anche nello spazio liquefatto della rete e il blog lineadifrontiera.com serve a stabilire avamposti, creare aree di dibattito, offrire altre finestre alla letteratura spagnola e portoghese, pubblicando racconti e alimentando voci.

Ora, come sapete, sta a noi il piacere di indicare quei titoli che lungo la “frontiera”, hanno saputo parlarci di più.

La piazza del diamante di Mercè Rodoreda. La tragedia della guerra civile filtrata dal cuore di una donna e della sua poesia. L’incontro sbagliato e la storia che presenta il conto. Del sangue e della parola. Grande successo di critica e di pubblico, titolo della consacrazione per la casa editrice.

Nessuno sguardo di José Luis Peixoto, libro d’esordio dell’autore portoghese dotato di un’enorme tensione lirica. Lo scrittore è stato pubblicato anche da Einaudi con Il cimitero dei pianoforti.

Le voci del fiume di Jaume Cabré, vicenda di una morte devastante durante il regime franchista e del segreto che la attanaglia. Raffinato sartoriale tessuto narrativo, costruito da un autore capace di incastrare personaggi e sentimenti.

Questi i primi passi, ma il percorso sul filo delle frontiere non nasce per chiudersi. A voi il piacere di esplorarlo.


Per ulteriori informazioni:
http://www.lanuovafrontiera.it/

“Moonrise Kingdom” di Wes Anderson

Torna Wes Anderson dopo il cartoon The fantastic Mr. Fox con Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore.

Nel 1965 in un’isola del New England la sveglia del campo scout “Khaki” di Master Ward (Edward Norton) è turbata da un’assenza. Sam Shaluski non risponde all’appello mattutino. Nella sua tenda viene trovato un buco coperto da una mappa e una lettera di dimissioni da scout. Dal magazzino sono spariti una canoa e altra attrezzatura. Lo sceriffo Sharp (Bruce Willis), incaricato del caso, si troverà a dover cercare anche la giovane Suzy Bishop, scomparsa da casa poche ore dopo.

Un flashback ci informa che i due ragazzini si sono conosciuti l’estate precedente durante una rappresentazione parrocchiale del Noye’s Fludde di Britten in cui la bambina interpretava un corvo. Si sono innamorati, hanno iniziato a scambiarsi lettere e a pianificare una fuga d’amore.

Fuggono dal piccolo mondo in cui non si ritrovano lungo un antico sentiero dei nativi americani. Sam, orfano non dichiarato, non ha mai legato con nessuno, tantomeno con i genitori adottivi che lo hanno in affidamento da poco tempo. Fiero della sua cultura scout, non si è integrato nel campo di Master Ward dove ammette senza problemi di essere impopolare tra gli altri ragazzini. Suzy soffre una famiglia fredda e distante in cui la madre chiama i figli per cena con un megafono e il padre passa le sue giornate in soffitta o a tagliar legna. Legge libri fantastici e litiga con le sue compagne di classe e con i professori scatenando una rabbia che non sa da dove giunga.

Sono entrambi “emotivamente disturbati” ed è proprio questo disagio esistenziale ad accomunarli da subito e a spingerli verso la fuga. Finalmente hanno trovato qualcuno in cui riconoscersi, con cui edificare una sorta di normalità domestica fatta di letture davanti al fuoco fumando la pipa in una riproposizione post-infantile di un quotidiano da televisione. L’ordine adulto del campo e della famiglia li strapperanno dal loro nuovo mondo mentre il cielo minaccia una tempesta biblica.

Giunto al suo settimo lungometraggio Wes Anderson sembra sfidare i suoi detrattori proponendo alcuni temi classici della sua filmografia (la preadolescenza come momento costitutivo della persona, la solitudine, l’incomunicabilità) con la consueta messa in scena attenta alle geometrie ortogonali della macchina da presa, fatta di carrellate lente e colori saturi che hanno suscitato in alcuni, dopo Il treno per il Darjeeling, il sospetto di uno sterile manierismo formale declinante verso una ripetitività inappellabile. La sfida, o il gioco, di Anderson ha la sua arma segreta nella dichiarazione d’intenti che apre Moonrise kingdom: il disco didattico che i tre fratelli di Suzy ascoltano, nel quale viene illustrata la struttura della “Variazione e fuga su un tema di Henry Purcell” di Benjamin Britten, in cui il tema orchestrale portante viene scomposto nelle varie macro-sezioni strumentali (legni, ottoni, archi e percussioni) che eseguono ognuna una variazione sulla melodia principale per poi ricongiungersi in un finale collettivo. Così come l’opera di Britten, il film di Anderson inizia con una frammentazione delle unità esistenti (il campo scout, la famiglia di Suzy) per arrivare a una ricongiunzione finale, che culmina proprio con la riproposizione del disco, nel quale hanno finalmente spazio gli elementi solisti nel contesto orchestrale (l’ottavino prima, poi l’oboe e così via). In una visione metacinematografica, sono i singoli elementi della composizione filmica di Anderson – la simmetria registica, i cromatismi, la recitazione a tratti straniante e sotto tono – a declinare variazioni della melodia principale e a ristrutturarsi nella composizione finale.

Moonrise Kingdom non è, però, una semplice variazione sul tema Anderson. Ha un andamento quasi sinfonico, per rimanere in ambito musicale, in cui stili e registri si scambiano gradualmente con una fluidità e una compiutezza maggiore di altre prove del regista texano. Forse consapevole di una maturità raggiunta, Anderson si lascia andare ad azzardi scenici che in altre epoche avrebbero garantito il veto della censura, come la battaglia nei boschi tra scout e fuggitivi, con tanto di coltellate e cane abbattuto da una freccia (sembra quasi la caccia all’uomo di Rambo, il primo, quello vero), seppur mondata della violenza dello scontro, o l’approccio fisico preadolescenziale (che ricorda invece Laguna blu,sempre il primo, quello vero, anche se qui il discorso è diverso) tra i due protagonisti in riva al mare, che, pur culminando in un bacio alla francese, ha tutte le caratteristiche della scena d’amore adulta, inclusa la centralità del talamo, anche se in questo caso è una branda in una tenda.

Anderson si muove con cinefila ironia tra i vari generi, dal bellico al sentimentale al catastrofico, adattando i colori più che le riprese al mutare del ritmo della narrazione (il blu della tempesta finale, quasi un livido bianco e nero da film muto).

Alla sapienza registica si somma una scrittura, in coppia con Roman Coppola, capace di mostrare senza esporre, di far riflettere senza riflettere. Come per la centralità tematica della solitudine, ad esempio, unica forza, oltre alla purezza dell’infanzia, capace di avvicinare gli adulti, soprattutto lo sceriffo Sharp, ai fuggitivi, che si contrappone all’ottusità rigorosa dell’organizzazione e della collettività, concretizzata nell’aggressività iniziale degli scout, più un corpo paramilitare che un’associazione ricreativa, e nella come sempre algida Tilda Swinton, signorina Servizi Sociali che vuole portare Sam via dall’isola.

Il risultato finale è un film semplice e complesso allo stesso tempo, fruibile come puro intrattenimento ma pronto ad aprirsi a letture di vario grado, con un cast al di sopra della media (menzione per Willis e Norton) in cui i due esordienti protagonisti Jared Gilman e Kara Hayward si stagliano come consumati veterani.
 

(Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, regia di Wes Anderson, 2012, drammatico, 94’)

“Prima di scomparire” di Xabi Molia

In Francia, un’epidemia che trasforma le persone in bestie assetate di sangue mette in ginocchio la civiltà. 

Questo lo scenario su cui si apre Prima di scomparire di Xabi Molia (L’orma, 2012). Già visto, già sentito? Forse. Forse non così.

È con abilità cinematografica, con montaggio ejzenstejniano, che Molia, sorpresa della nuova letteratura francese e docente di cinema all’università di Poitiers, ci mostra da subito la distruzione del simbolo del positivismo: la Tour Eiffel è spezzata, e con essa il concetto della superiorità dell’uomo sulla natura. Parigi è dilaniata dall’epidemia; la Francia, politicamente dissestata ma in mano a un uomo dalla forte personalità, Joseph Bel, è insinuata da gruppi di sinistra ultra radicale che si annidano nei sotterranei delle città, pronti a colpire. Gli ultimi sopravvissuti vivono insieme nelle aree messe al sicuro delle città.

In primo piano c’è la storia di Antoine Kaplan, medico dell’Individuazione, ovvero la sezione che ha il compito di diagnosticare l’epidemia nei pazienti sospetti; la moglie Hélène, famosa fumettista con cui ha un rapporto difficile, è scomparsa.

Mentre aspetta le risposte della polizia, Antoine trova e legge un misterioso libro clandestino, Il progetto umano, che incita con logica spietata e toni profetici all’accettazione e acceleramento del processo di estinzione della specie umana: di fronte all’enormità della natura che si evolve, alla mutazione in atto, l’epidemia determinerà la fine dell’uomo, ma non la fine del mondo. Un fatto naturale, quasi logico: non c’è inizio senza fine. La natura segue le sue leggi, l’uomo non è che una creatura come le altre, pronta a cedere il passo agli esseri superiori, i mutati.

Di conseguenza l’umanità si aggrappa a se stessa: fioriscono letterati e filosofi, i rapporti umani si solidificano e tutto è pervaso da una frenetica voglia di vivere. Antoine Kaplan, da parte sua, si aggrappa al suo amore per Hélène, tanto da assegnare il caso a due detective distinti, fino alla scoperta della verità sulla moglie, che trasformerà il corso degli eventi in una vera e metaforica discesa negli abissi da parte di Antoine.

Il romanzo è narrato alternando la terza persona alla prima di Antoine, dallo sguardo razionale e analitico ma che alle volte risulta meno incisiva nei momenti concitati.

I riferimenti alla storia contemporanea sono numerosi: l’epidemia si trasmette per via sessuale e compare in Francia da un momento all’altro, senza motivo apparente; le persone del gruppo sanguigno AB (come lo stesso Antoine), statisticamente più soggetti alla mutazione, sono stati ghettizzati e internati preventivamente, alle volte sommariamente uccisi. Lo stesso tentativo di occupazione militare americano in Francia ricorda per certi versi l’occupazione dei paesi del Medio Oriente.

Prima di scomparire, quinto romanzo nella produzione di Molia ma primo a essere tradotto in italiano, oltre ad avere una struttura e una trama solide,è l’ennesima prova che la letteratura contemporanea non è fatta solo di storie, ma di macchine narrative che svelano significati e temi più profondi, celati sotto gli eventi più insignificanti o apocalittici.
 

(Xabi Molia, Prima di scomparire, trad. di Stefano Lazzarin, L’Orma editore, 2012, pp. 352, euro 14,50)

[BioSong] “Climbing up the Walls” dei Radiohead

Canzoni come colonne sonore per film dell’orrore. Musica per menti deviate e psicotiche. Accordi come confessioni di un killer.

Quando un gruppo vive lo stato di grazia, può permettersi tutto, anche di andare oltre i confini stabiliti, le convenzioni e gli stereotipi, sia musicali che testuali, e comporre delle canzoni uniche, senza paragoni. È quello che hanno fatto i Radiohead ai tempi di OK Computer. Con “Climbing up the Walls”.

Capita che lo stato di grazia arrivi sempre dopo i periodi più tesi, dove il peggio e la fine mostrano tutti i tratti della loro forma. 1993: il successo di “Creep” aveva fatto capire fin dall’esordio quanto fosse oscura e malata l’altra faccia della medaglia. L’idea d’essere sempre etichettati come «la band che ha fatto quel successone di Creep» da una parte opprimeva i Radiohead, ma dall’altra, gli dava la sicurezza per lavorare a tutt’altri brani. 1995: le session di The Bends, nonostante lo splendore del risultato finale, ancora mostravano i segni, riportando a galla gli echi dello scioglimento e della crisi isterica. Fare un album così sorprendente al secondo tentativo richiedeva un conto da pagare altrettanto alto. Fortunatamente la band inglese – seguendo l’esempio dei maestri dichiarati R.E.M. e Pixies – non è mai stata solo l’aggregazione di cinque musicisti. I Radiohead sono soprattutto degli amici, uniti e coesi nonostante le divergenze, capaci sempre di mettere il lato umano prima di ogni cosa. Caricandosi così il peso del loro status e stringendo i denti, hanno dettato al fedele produttore e ingegnere acustico Nigel Grondich le condizioni per non ricadere negli stessi errori durante le registrazioni del nuovo album.

1997. Non più qualcosa di statico e ripetitivo, ma la possibilità di trasformare lo studio di registrazione in un laboratorio, dove poter miscelare Pink Floyd e Morricone, Aphex Twin con i Beatles. I cinque di Oxford, caustici e ironici come sempre, scelsero proprio un brano chiamato “No Surprise” per inaugurare le session.

A tutt’oggi, quel lavoro svolto in studio dai Radiohead è considerato lo spartiacque della musica del terzo millennio. Una linea di confine superata solo da Kid A. Se OK Computer è diventato uno dei più grandi e famosi dischi della storia della musica – tra Mercury Prize e live leggendari a Glastonbury – è anche grazie a questo: la serenità, la maturità e la consapevolezza dei propri mezzi finalmente acquisita da parte della band. Sul disco – uscito il 16 giugno 1997 in Gran Bretagna e il 1 luglio in America – è stato detto, si dice, e si dirà ancora molto, vista la singola e intrinseca bellezza delle tracce che lo compongono. Tra queste però ce ne è una, affascinante e terrificante allo stesso tempo, che merita d’esser raccontata.

“Climbing up the Walls” a livello strumentale è una delle gemme di OK Computer. Non c’è uno strumento il cui utilizzo non abbia portato a esiti inediti e stupefacenti. Registrata in presa diretta nell’autunno del ‘96 nella St Catherine’s Court, la canzone concentra su di sé il meglio del gruppo in sala di registrazione: radio a transistor, saturazione del mixer, delay, filtri vocali, sintetizzatori e archi. Va detto che nello scorrere dell’album c’erano stati dei presagi sinistri: l’indelebile finale di “Karma Police” – ottenuto da un geniale Ed O’Brien alle prese tra feedback e scansione di delay – ma specialmente, dall’agghiacciante monologo bionico di “Fitter Happier”. Queste due sono solo l’anteprima della lugubre atmosfera alla John Carpenter che con “Climbing up the Walls” prenderà il sopravvento. Dalla batteria equalizzata di Phil Selway, al basso suonato con un sintetizzatore Novation Bass Station da Colin Greenwood, al rumore bianco della sezione di sedici archi del finale, e i riff sconvolgenti di Jonny Greenwood, la canzone è uno dei capolavori assoluti dei Radiohead, mai citato a sufficienza.

Anche perché questa atmosfera carica di inquietudine e follia combacia alla perfezione con il testo più malato e opprimente mai scritto da Thom Yorke. Le situazioni familiari tragiche descritte in alcuni momenti di Pablo Honey, qui degenerano in versi terrificanti e sanguinari, pieni di indefinibile inquietudine. Questa tragica e claustrofobica situazione casalinga, tra giocattoli chiusi in cantina e punteruoli nel ghiaccio, attraversa le orecchie e il cuore dell’ascoltatore come una lama. E l’idea del protagonista annidato dentro il cranio della vittima, che scala pareti e invita a quindici colpi nella nuca e nella mente, sono la scena dark per eccellenza della produzione testuale di Yorke, al pari solo del «cut the kids in half» di “Morning Bell” su Kid A/Amnesiac. A proposito di situazione familiari raccapriccianti.

 

I am the key to the lock in your house,
That keeps your toys in the basement
And if you get too far inside,
You’ll only see my reflection
It’s always best when the light is off,
I am the pick in the ice
Do not cry out or hit the alarm,
We’re friends till we die

And either way you turn,
I’ll be there, open up your skull
I’ll be there, climbing up the walls

It’s always best when the light is off,
It’s always better on the outside
Fifteen blows to the back of my head,
Fifteen blows to your mind
So tuck the kids in safe tonight,
Shut the eyes in the cupboard
So not cry out or hit the alarm,
You’ll get the loneliest feeling

That either way you turn,
I’ll be there, open up your skull
I’ll be there, climbing up the walls

Climb up the walls. climb up the walls

 

Il testo parla chiaro. L’urlo di Yorke prima che le chitarre impazziscano ancora di più. Abituato a dipingere scenari apocalittici, qui il leader sembra voler andare oltre e delineare senza troppi giri un contesto di ossessione e orrore puro. Ci sarebbe da chiedersi cosa abbia spinto la band ad arrivare a questi livelli di follia, ma come abbiamo detto prima, quando ci si trova nelle stato di grazia ci si può permettere di tutto. E certi capolavori vengono da soli. E fanno paura come pochi. In tutti i sensi.
 

“Niente è cruciale” di Pablo Gutiérrez

Pablo Gutiérrez è oggi riconosciuto tra i migliori romanzieri ispanici del panorama contemporaneo. Questa definizione alle volte sembra una semplice esagerazione editoriale, un endorsement volto a vendere più copie piuttosto che a valutare con oggettività un autore o un’autrice. Ebbene, Niente è cruciale (Gran Vía, 2012) ci fa capire che no, non è questo il caso.

Il romanzo conquista per almeno due ragioni: la prima è che tratta di due storie di disagio, quelle dei suoi protagonisti, e le storie di disagio spesso fanno presa sui lettori, perché si identificano con i personaggi e con le loro sofferenze, perché riconoscono al loro interno un passato da dimenticare o un presente da cui scappare o perché, semplicemente, in tutti noi risiede un interesse di fondo per tutto ciò che è, in certo qual modo, morboso. La seconda è che si tratta di un mix perfettamente riuscito di richiami a stili letterari passati e a successi letterari recenti, che non si limita – si badi bene – a una copiatura del “già letto”, ma a una rielaborazione in una chiave nuova e funzionale. Mark Haddon, con il suo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, è uno di questi richiami. Nessuno dei personaggi che appaiono in Niente è cruciale è chiamato per nome, nemmeno i protagonisti, Lecu e Magui, meri soprannomi; conosciamo gli uomini e le donne del libro attraverso le loro caratteristiche fisiche o caratteriali, come se leggessimo le parole di un bambino che non riesce a cogliere del tutto la realtà che lo circonda – ed ecco Haddon –: il Sig. Alto e Verboso, la Prima e la Seconda Sig.ra Gentile, Mondolecu e via discorrendo. La narrazione è un insieme di flussi di pensieri e rincorrersi di parole interrotti solo da un cambio improvviso di narratore, sulle prime quasi impercettibile, ma che si rende palese ai nostri occhi quando ormai è troppo tardi, quando l’inarrestabile loquela dei personaggi ci ha ormai cambiato le carte in tavola, imponendoci di fermarci un istante e fare il punto della situazione.

Il libro non finisce mai di stupirci: da racconto si trasforma in scenografia, Gutiérrez si improvvisa regista e dirige il suo film di carta stampata facendoci immaginare – con una certa efficacia – le scene come le deve avere immaginate lui: nei punti in cui è più forte il pathos narrativo, non possiamo fare a meno di provare sensazioni più intense grazie all’improvvisa comparsa di diciture come «carrellata»o «ripresa dall’alto»che, lungi dal creare straniamento, completano il testo, appaiono completamente naturali, “necessarie” perché la narrazione vada avanti. Se a tutti gli elementi descritti finora uniamo uno stile eccellente, che unisce profondità interessanti a volgarità degne di un film da seconda serata, un linguaggio fluido, ben tradotto, allora possiamo davvero riconoscere di avere fra le mani un romanzo che ha superato le nostre aspettative, che ha reso partecipativa la nostra lettura.

Al di là dello stile, poi, se è vero che le storie di “disagio” hanno presa sui lettori, quella di Lecu e Magui avrà probabilmente un certo successo tra di loro: Lecu è figlio di due tossici, vive in una specie di discarica – immaginiamoci i circondari di un qualsiasi magazzino Ikea in una qualsiasi periferia italiana – e viene allontanato dalla famiglia dai servizi sociali per essere cresciuto da alcuni membri di una setta religiosa che, pur affezionandoglisi, non sanno o non possono dargli ciò di cui ha bisogno, mentre Magui viene da una realtà distinta, un piccolo paesino che le sta stretto, dove si sa tutto di tutti e dove la figlia di un uomo che ha abbandonato la famiglia per un altro uomo e di una madre che, col tempo, perde ogni interesse per lei, non può sopravvivere, proprio come non può sopravvivere alla marmaglia che la addita come donnaccia quando si affida a una propria morale durante la scoperta dei piaceri del sesso.

Ciò che accomuna i due protagonisti, al di là della vita frustrante, è che nulla li può salvare, tranne loro stessi: «Ciascuno […] cerca il suo modo per non lasciarsi mangiare dai vermi». La famiglia di Lecu viene salvata dalle droghe e preparata a riaccoglierlo, ma lui non riesce a sopportare questa versione 2.0 della sua vita e la fugge. Magui riesce a ottenere un’autonomia dalla madre, sempre più assente, e dal suo nuovo compagno, che ne catalizza ogni attenzione, ma deve scappare da questo ambiente comunque opprimente per potersi liberare dal peso di una vita insostenibile.

«Il corso quotidiano dei pensieri [è sempre diretto] verso il futuro, anche se il futuro è un loculo, un qualcuno che rimarrà senza di te», afferma Gutiérrez, e così i nostri personaggi si ritrovano soli, si devono organizzare e sopravvivere in piena autonomia, e questo fanno, sostenendosi l’uno con l’altra e trovando, insieme, un genere di libertà che fa presagire finalmente un lieve barlume di luce in fondo ai loro personalissimi tunnel.


(Pablo Gutiérrez, Niente è cruciale, trad. di Anna Mioni, Gran Vía, 2012, pp. 207, euro 15)

Italiano anulare

Roma, rione Monti. Daniele esce fuori dal locale per intervallare la sua terza birra con una robusta sigaretta. Dopo il primo poderoso tiro presta tutta la sua attenzione alle parole di un ragazzo con la barba che lì, vicino a lui, intrattiene una sparuta platea di annuenti uditori.
«Mi piace il vino. E la musica. Sai, l’indie alternativo, gli Arcade Fire, Bon Iver, ma ovviamente non dimentico le basi, Joy Division, The Smiths, insomma mica quella roba commerciale come i Coldplay. Sì, vado al cinema e al MACRO, chiaramente anche la mente ha bisogno di stimoli, di emozioni, di proteine. No, non ce l’ho Facebook, ho Twitter. Quella è la vera piazza sociale. È la nuova Utopia: tutti uguali, tutti dello stesso rango, senza distinzioni. Pensa che una volta ho anche dialogato con Travaglio. E poi scrivo. Collaboro con due testate online e una web radio. La rete va sfruttata. Internet non è solo pornografia, internet è circolazione e condivisione di idee, giuste o sbagliate che siano. E ovviamente non bisogna dimenticare la politica. È il momento di svegliarsi, qua è tutto finito! La sinistra non c’è più, cos’è? Chi è? È in una crisi identitaria irreversibile. E la colpa è anche nostra. Questa crisi e questa classe politica ce la siamo meritate! Siamo come bambini che non vogliono fare i compiti e hanno mamme consenzienti pronte a firmare la giustificazione. E pensa che una volta fischiavamo Berlinguer».
Silenzio. Teste basse e scoraggiate. Dal gruppetto si alza qualche sospiro e un: «Già, hai proprio ragione». Il ragazzo si tocca la barba con un movimento dal basso verso l’alto e viceversa e chiude il discorso con un laconico: «Mi dispiace ma è proprio così».
Daniele è uno di quelli che generalmente si fa gli affari suoi. Scruta in silenzio, ascolta e fuma appoggiato a qualsiasi cosa possa sostenere il suo indolente bacino. Questa volta però no. Sarà che lui Twitter non ce l’ha o che le giustificazioni non se le faceva firmare dalla mamma e si prendeva il due con discreta signorilità, ma mentre il gruppetto rientra nel locale, dà un tiro alla sigaretta, si fa incontro al ragazzo, lo intercetta garbatamente in prossimità dell’uscio, e puntando timidamente il dito in alto (proprio come faceva a scuola per dire alla professoressa che il capitolo su Hegel non l’aveva neanche letto) gli chiede: «Senti scusa posso rubarti cinque minuti?»
«Certamente». La risposta del ragazzo è confortante, anche se accompagnata da un’inevitabile espressione di perplessità e dal conseguente balzo verso l’alto delle sopracciglia.
«Ecco, io ho la sensazione di averti già sentito da altre parti, in tutte le parti. Io ho bisogno di sapere chi sei».
«Sì, può essere, ma tu invece chi saresti?»
«Io sono Daniele, un Daniele qualsiasi».
«Ah, ho capito chi sei. Io infatti non ti ho mai sentito, ti ho solo visto. Stai sempre fuori dai miei gruppetti, non dici niente e mi guardi come se li stessi annegando con una marea di cazzate. Alla fine ce l’hai fatta a chiedermi chi sono. Ti do due minuti però, che dentro mi aspettano».
Daniele carica e tira il colpo di sigaretta, emette un sospiro e inizia il suo serratissimo interrogatorio.
«Ecco, ho sentito che parlavi di vino. Quale mi consiglieresti?»
«Bianco o rosso, alla fine è uguale. Sai, una volta bevevo birra. Chiara doppio malto. Poi mi hanno detto che gonfia ed è pure di destra e allora ho smesso».
«Chiaramente. Piuttosto, complimenti per i gusti musicali, sono molto ricercati!»
«E certo. Qua per rimediare il numero di telefono di una non bastano neanche più Battiato e i Verdena».
«Logico. Invece, a proposito di cinema quale film hai visto di recente?»
«Bella addormentata di Bellocchio. Un capolavoro, doveva vincere il Festival di Venezia. Finalmente si è mosso qualcosa nel panorama di un cinema italiano che… meglio lasciar perdere».
«Ma hai capito perché alla fine la madre della ragazza in coma fa togliere gli specchi?»
«Quali specchi?»
«Niente, niente. Ovviamente non ho potuto fare a meno di sentire che hai avuto un dialogo su Twitter con Travaglio, che vi siete scritti?»
«Io gli ho chiesto se era davvero il suo account, lui mi ha risposto di sì, io gli ho scritto: “Grazie, grande!” e lui mi ha inviato uno smile. Di quelli con l’emoticon che fa l’occhiolino eh!»
«Beh davvero importante. Un’altra cosa che mi ha colpito è che scrivi. Più precisamente di cosa?»
«Faccio recensioni. Di libri, film, cd, mostre, tutto ciò che è arte, insomma. Oh, non sai quanto si rimorchia alle anteprime. Poi con la web radio una vera svolta. Pieno così».
«E la sinistra?»
«Ormai è andata. Non c’è credibilità. Bersani è troppo casareccio, è uno zio più che un politico. Per quanto riguarda Renzi, dai su, il gradimento di Berlusconi è argomento più che sufficiente per delegittimarlo».
«E Vendola?»
«Come direbbe Christian De Sica, Vendola è moderno. Fai il serio: qua c’è il Vaticano!»
«Scusa ma tu chi sei?»
«Sono l’italiano anulare».
«Prego?»
«Sono l’evoluzione dell’italiano medio. È che a un certo punto ho capito che era giunto il momento di divincolarsi, sforzarsi un po’ di più, e bam! Sono nato. Io so poco di tutto. Mi informo ma non arrivo mai in profondità: poco tempo, troppe cose da fare, mi basta sapere chi sono i buoni e chi i cattivi, per il resto ci metto in mezzo un paio di congiuntivi e condizionali e il gioco è fatto. Sono Anulare come il Grande Raccordo che circonda questa città. Io alla realtà ci giro intorno ma non entro mai in profondità. Ti ricordi quando a scuola dicevano: “Studia il minimo indispensabile e non si impegna?”, ecco, sono io. Io il sei lo prendo sempre e non mi interessa arrivare a sette. Do un vago contenuto alla banalità e proprio per questo mi faccio ascoltare. A differenza tua, io risplendo nella luce che si è creata nell’ombra di assenza di aspettative che l’italiano medio ha creato».
«Ma scusa e come sai dei fischi a Berlinguer?»
«Ho visto un documentario su History Channel. C’era Craxi, c’era Verona, c’erano questi che lo fischiavano, poi ricordo poco».
«Ma, scusa, una cosa la sai bene?»
«Sì, che Conte è un gran paraculo. Aveva detto che avrebbe fatto giocare la Juve con il 4-2-4, ma alla fine ha vinto lo Scudetto con un 3-5-2 provinciale e catenacciaro».
«Già, hai proprio ragione».
«Mi dispiace ma è proprio così».
Il ragazzo si tocca la barba con un movimento dal basso verso l’alto e viceversa.
Daniele cicca e torna a bere. Ché la birra si riscalda.


Questo racconto si è classificato secondo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare, organizzato da Edizioni Memori in collaborazione con Flanerí.

“Io venìa pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari

«La Luna, caro fratello, è quanto di più lontano e insieme di più vicino c’è all’uomo».

La bellezza della natura, rappresentata dall’astro notturno che con la sua luce lattiginosa nutre e addolcisce le sofferenze dell’umanità dolente, acquista un significato diverso nell’ottica del soggetto contemplante che ne subisce al tempo stesso il fascino e l’esclusione, l’altera indifferenza alle sorti mortali. 

Così la dipingeva muta, immobile nella sua gelida chiarità, Madre e matrigna, il grande poeta Giacomo Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: lì il pastore fa domande sul senso della vita a cui nessuno darà risposta, certificando la vanità del tutto, la rottura dell’armonia universale e la fine delle illusioni e speranze giovanili. È il pessimismo cosmico.

Se il sentire leopardiano incontra ancora oggi l’irrequieta sensibilità moderna con cui si legge la realtà, non può che destare grande interesse vedere il quattordicenne Giacomo agire come personaggio in un romanzo. È quello che ha fatto Michele Mari, filologo, collezionista di oggetti d’infanzia (biglie, figurine, pupazzi e tappi, feticci a cui trasferire buona parte della propria emotività) e cultore di fantascienza e fumetti, che, giocando con la letteratura, frustra nel lettore la bulimia di trama creando un apocrifo leopardiano. Poco importa l’intreccio anche se ci sono dei misteri e dei delitti. Ciò che resta è una scena, un pensiero, un’atmosfera.

Le sue sono storie antiche con la parvenza dell’eternità. Così in Io venia pien d’angoscia a rimirarti, romanzo pubblicato una ventina di anni fa da Longanesi (1990), quindi da Marsilio (1998) e ripubblicato ora da Cavallo di Ferro, un borgo selvaggio viene agitato nelle notti di luna piena dalla presenza di un lupo che nessuno ha mai visto. Ne è colpita in particolare la casa del conte Monaldo, la belva ha ucciso un garzone, promesso sposo di Teresa Fattorini, la figlia del fattore (la Silvia del celebre canto), e delle pecore, facendo imbestialire i cani.

In questo ambiente angusto e claustrofobico, tiranneggiato dalla severa e bigotta madre Adelaide, trascorre le sue giornate di studio «matto e disperatissimo», Tardegardo Giacomo Leopardi. Ce lo racconta il fratello Orazio Carlo sotto forma di diario. Anzi Orazio Carlo trascura i suoi di studi per sorvegliare il fratello e cercare di indagare, insieme alla sorellina Pilla (Paolina), l’angoscia che sembra turbare il giovane erudito, la stessa angoscia del verso di“Alla luna” messo a titolo del romanzo stesso, che nella poesia veniva mitigata dalla luce rischiarante del satellite naturale terrestre: «O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l’anno, sovra questo colle / ove venia pien d’angoscia a rimirarti: / e tu pendevi allor su quella selva / siccome or fai, che tutta la rischiari».

In particolare Mari per bocca di Orazio ci narra come sublimare il lato oscuro, la follia che ci abita e che quotidianamente ci sforziamo di tenere a bada con la ragione, la bestia o demone nascosto in ciascuno di noi in geniale creazione, affrontando così il tema letterario del doppio che ha il suo archetipo in Lo strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde. L’attrazione di Tardegardo per l’astro rimane inspiegabile, è forse suggestionato dalla ambiguità stessa della luna dai due volti, ora Diana, ora Persefone. Sotto tale influenza, il geniale ragazzino è inoltre tutto preso dalla stesura di un saggio sulle false credenze degli antichi e per questo trascorre ore intere nella famosa biblioteca paterna, intervallandole ora da brevi passeggiate in cerca d’ispirazione al suo caro colle con la siepe dell’infinito del borghetto natio, ora, strano ma vero, a esercizi ginnici nelle scuderie del palazzo. Il ragazzo è dibattuto fra la ricerca dell’«arido vero» e la legittimità di farne oggetto di poesia: «Or questo io voglio scoprire nel mio Saggio sopra gli errori popolari degli Antichi, questo io debbo, imparare a riconoscere il vero che si cela nel bello, e sceverando bello da bello nutrir me e i miei lettori della sapienza antica, che le paure ed i mali dell’uomo cristallizzò in favoloso sistema».

Non solo, ma Mari condisce la storia romanzata della famiglia del poeta di Recanati di un’atmosfera goticheggiante alla Edgar Allan Poe: un antenato, tale Sigismondo, di cui sopravvive un cupo ritratto in salotto, sembra fosse addirittura un licantropo, come scopre Orazio nelle carte della biblioteca del pedante e passatista Padre. Attraverso riscontri biografici, linguistici e filologici, Mari riesce a riprodurre tutte le specifiche stilistiche dell’italiano ottocentesco che fanno del romanzo un colto divertissement. Anche a un incallito cultore di Leopardi sfuggiranno tutte le svariate citazione dal poeta, autore effettivamente di un Saggio sopra gli errori popolari e di un Dialogo della Terra e della Luna.

Con una spiazzante invenzione metaromanzesca e aggirando le possibili preoccupazioni del biografo a vantaggio del romanziere, Mari muove un Leopardi che ulula alla luna e che forse solo la poesia salverà: «La poesia, quella che salvò in gioventù Torquato, forse salverà anche me…»
 

(Michele Mari, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, Cavallo di Ferro, 2012, pp.140, euro 12,90)