“Verrà il giorno” di Gabriela Adameşteanu

«Chi è Letitia Branea?» 

Per ben due volte (tre volte nel corso della narrazione a scandire le tre parti del libro), la protagonista di Verrà il giorno, romanzo di formazione di Gabriela Adameşteanu, uscito nel 1975 in Romania ma pubblicato per la prima volta in Italia in versione non censurata solo ora da Cavallo di Ferro, sentirà riecheggiare nello stanzone della casa dello studente e rimbombare nelle proprie orecchie questa domanda.

La risposta non potrà che essere un naturale movimento verso il destino, perché è proprio quando il percorso sembra già segnato e procedere per una linea inesorabilmente rettilinea che cominciano a palesarsi in lontananza le prime curve.

Letitia è una ragazza che si sente diversa dalle sue compagne e animata dal bisogno di trovare una propria identità eppure allo stesso tempo rassegnata a lasciar trascorrere i giorni convinta «che niente di eccezionale le sarebbe capitato».

Alla monotonia di un’esistenza sempre uguale a se stessa, che la giovane sperimenta durante l’infanzia nel claustrofobico ambiente della cittadina rumena dove vive con una madre precocemente invecchiata e il malinconico e passivo zio Ion, costretti a dormire in tre in una stessa camera, Letitia cerca di sottrarsi nel timore di doversi aspettare in futuro «le stesse ore senza fine delle sere di provincia».

Il desiderio di evasione e la possibilità che si presenta di essere ammessa all’università di Bucarest si scontrano tuttavia con la paura. Siamo infatti negli anni ’60, agli albori della dittatura di Ceauşescu, un regime non meno vessatorio e censorio di quello staliniano. Il padre di Letitia è stato arrestato, forse è in prigione o forse ai lavori forzati. La madre però si è preventivamente separata proprio per non coinvolgere l’intera famiglia nella condanna.

C’è però lo zio Ion, dal quale la ragazza pensa di aver ereditato la tara di una vita inconcludente e priva di slanci, che da professore universitario si è ritrovato un bel giorno, per motivi che saranno spiegati in seguito, retrocesso a insegnante del liceo locale: «Nel corso di tutta la mia infanzia l’ho conosciuto così, compilava schede su cartoncini, al tavolo della sala da pranzo, li sistemava con cura in buste ingiallite, agitando meccanicamente il ginocchio e tirando boccate dalla sigaretta con aria assente».

Paralizzata di fronte all’ignoto totale del futuro e inchiodata da un passato di colpe famigliari, Letitia vive come un tempo sospeso fatto di giorni che precipitano velocemente come i piccoli e indistinguibili granelli di sabbia di una inesorabile clessidra. Un brivido sostanziato di sentimenti restii percorre tutta la sua giovinezza influenzandone anche l’educazione sentimentale, a partire dal rapporto con Petru Arcan, giovane intellettuale opportunista.

La scommessa sarà riuscire a vincere quella distanza dalla quale fino ad allora Letitia ha guardato il suo mondo. Solo così potrà ottenere quel riscatto che in qualche modo deve a se stessa e all’amato zio.

La prosa esatta e raffinata della Adameşteanu sostiene e dà geometria a una trama che si avvita su se stessa all’inizio, per poi proseguire su un binario lineare nell’ultima parte, trasformando le osservazioni di Letitia sulla sua vita e quella degli altri in un’attesa: «Per molto tempo avevo creduto che nella vita non mi sarebbe accaduto niente di straordinario, ogni giorno sembrava ripetersi sempre uguale, eppure molte cose erano successe».
 

(Gabriela Adameşteanu, Verrà il giorno, trad. di Celestina Fanella, Cavallo di Ferro, 2012, pp. 384, euro 18,00)

[Autofocus] Sulla strada del cinema beat

Giovedì 11 ottobre esce nelle sale italiane On the Road, trasposizione cinematografica per la regia di Walter Salles del romanzo di Jack Kerouac Sulla strada (riedito da Mondadori nella collana Numeri Primi).

Il rapporto tra il capolavoro della letteratura beatnik e il cinema è lungo e travagliato. Sin dall’anno della sua prima pubblicazione negli Stati Uniti nel 1957, Kerouac iniziò a immaginare una versione di celluloide delle avventure di Sal Paradise, alter ego dell’autore, e compagni. L’idea era chiara: sarebbe stato lui stesso a curare la sceneggiatura, comprimendo e riorganizzando la trama del libro in un viaggio unico, andata e ritorno, da New York al Messico, passando per Frisco, Denver, New Orleans. Questo è quello che si apprende da una lunga lettera che lo scrittore di Lowell inviò a Marlon Brando nel 1957 e ritrovata solo nel 2005. Il sogno di Kerouac era che l’attore di Fronte del Porto e de Il Selvaggio interpretasse il ruolo di Dean Moriarty, il compagno di viaggio del protagonista, mentre a vestire i panni di Paradise sarebbe stato Kerouac stesso, per espressa volontà della Warner Bros.

Con il suo film, Kerouac si poneva il non poco ambizioso obiettivo di rivoluzionare il cinema, conferendogli quella «spontaneità» al di fuori del preconcetto della «situazione» che gli era mancata fino a quel momento.

Il progetto, però, naufragò prima ancora di uscire dal porto: Brando non rispose mai alla lettera, la Warner Bros perse in fretta l’interesse e si smise di parlarne per un lungo periodo.

Fu solo nel 1979, dopo che Francis Ford Coppola acquistò i diritti del libro per la sua casa di produzione, che si iniziò a parlare di nuovo di una versione cinematografica. Il primo regista contattato fu Jean-Luc Godard, ma il progetto si perse in fretta. Fu poi la volta, anni dopo, di Gus Van Sant, con Brad Pitt chiamato a interpretare il ruolo di Moriarty. Sembrava fosse ormai tutto pronto, tanto che Barry Gifford, sceneggiatore di Cuore Selvaggio di David Lynch, assunto per buttare giù il copione, dichiarò, a inizio anni novanta, che ormai il film era «cosa fatta». Ancora una volta, invece, le riprese si arenarono ancora prima di iniziare.

Arriviamo così al Sundance Film Festival del 2004, in cui Walter Salles, dopo aver presentato I diari della motocicletta, viene raggiunto da Roman Coppola, figlio di Francis e presidente della casa di produzione di famiglia, l’America Zoetrope, che gli propone la regia del film. Salles accetta, ma prima di concentrarsi sul progetto decide di dedicarsi a un lungo lavoro documentario attraverso gli Stati Uniti sulle tracce di Kerouac, come già aveva fatto con Che Guevara prima di mettersi al lavoro sui suoi diari. Durante il viaggio durato quasi sei anni, Salles ha avuto modo di incontrare i protagonisti del romanzo e i loro figli, di intervistare musicisti e artisti che in varia maniera sono stati influenzati dalla Beat Generation, di visitare il luoghi del romanzo e della vita di Kerouac.

Per preparare il film, poi, Salles mette su un Beatnik camp vicino Montreal dove chiama a raccolta gli interpreti, da Kristen Stewart a Viggo Mortensen, per un ritiro preparatorio di tre settimane a base di musica e lunghe conversazioni sulla letteratura beat.

Presentato in concorso durante la sessantacinquesima edizione del festival di Cannes, il film di Salles è ora chiamato alla prova del pubblico. La resa di un mostro sacro della letteratura internazionale come è il libro di Kerouac è impresa ardua e rischiosa che ha pochi precedenti.

A parte i falliti tentativi di trasposizione di Sulla strada, manca un’interrelazione diretta tra letteratura beat e cinema. Lasciando in un angolo l’influenza implicita che lo spirito degli anni’40 e ’50 narrato da Kerouac e dagli altri autori dell’epoca ha avuto sulla produzione della cosiddetta New Hollywood, da Easy Rider in poi, i tentativi di raccontare apertamente su schermo i testi e i personaggi di quella grande rivoluzione letteraria sono rari e confusi.

Nel 1959 Kerouac sceneggiò Pull My Daisy, film breve, di cui fu anche voce narrante, per la regia di Robert Frank e Alfred Leslie. Il cortometraggio può essere ritenuto l’unico autentico esperimento di cinema beat. Prendendo il titolo da un poema composto negli anni ’40 dallo stesso Kerouac, Ginsberg e Neal Cassady, ma ispirandosi per la trama al terzo atto del dramma, sempre di Kerouac, The Beat Generation, il film muove dall’incontro a cena tra un ferroviere e un vescovo che assumerà mano a mano connotati surreali con le incursioni degli amici bohémien del macchinista. Partendo da un copione minimo, gli interpreti, tra i quali i poeti Allen Ginsberg e Gregory Corso e l’artista David Amram, si lasciano andare al flusso dell’improvvisazione con un linguaggio più simile a «quello della pittura o del collage che a quello della regia cinematografica» (Jim Jarmusch).

L’anno successivo la Metro Goldwyn Mayer acquisì i diritti per The Subterreans, romanzo del 1958 dello stesso Kerouac. La vicenda, imperniata sulla relazione tra un giovane scrittore e Mardou Fox, una donna afroamericana, venne indebolita in riscrittura sin dalle premesse, trasformando il personaggio di Mardou in una giovane francese, per suscitare minor clamore tra il pubblico della middle-class statunitense. Il film che ne seguì, La nostra vita comincia di notte, per la regia di Ranald MacDougall, fu fortemente criticato da Ginsberg per la resa scialba e inespressiva dei personaggi.

Negli anni ’60, la MGM realizzò alcuni film ispirati velatamente alla cultura beatnik ma non direttamente collegati alla corrente letteraria, come The Beat Generation di Charles F. Haas.

Nel 1980 John Byrum realizza Heart Beat, ispirandosi all’autobiografia di Caroline Cassady e al triangolo che lei, interpretata da Sissy Spacek, Neal Cassady/Nick Nolte e Jack Kerouac/John Heard intrattennero sul finire degli anni ’50. Allen Ginsberg rifiutò che venisse utilizzato il suo nome nel film ritenendolo una cattiva rappresentazione dell’epoca, mentre William Burroughs ebbe modo di lodare la pellicola scrivendo su Rolling Stone di essere «tornato a respirare la stessa atmosfera del passato» dopo una visita sul set.

A parte una serie di documentari, tra i quali The Beat Generation: An American Dream (1987)in cui i protagonisti dell’epoca, da Ginsberg a Ferlinghetti, ricordano la nascita della movimento, bisognerà attendere fino al 1991 prima che qualcuno torni a confrontarsi con un classico beat. Il pasto nudo di David Cronenberg rappresenta, infatti, l’ultimo, e anche il primo, grande incontro tra cinema e letteratura beat prima del film di Salles. Partendo dal romanzo di William S. Burroughs, da molti ritenuto infilmabile per il suo alternare deliri e allucinazioni da droghe in un susseguirsi di frasi e periodi senza apparente correlazioni logiche, Cronenberg mette in scena una lettura più ampia della vita e dell’opera dello scrittore muovendosi in equilibrio tra ironia, satira politica e fantascienza.

Nel 1997 esce, poi, L’ultima volta che mi sono suicidato, di Stephen Kay, mediocre ricostruzione di un amore di Neal Cassady basata su una lettere inviata a Kerouac.

Nel 1999 Chuck Workman realizza The Source, mockumentary in cui si raccolgono ricordi e confessioni di Kerouac, Ginsberg e Burroughs attraverso immagini di repertorio e filmati privati. A interpretare i tre autori, in alcuni spezzoni basati su documentazione non filmata, sono, rispettivamente, Johnny Depp, John Turturro e Dennis Hopper.

Vicino a The Source, anche se appartenente a tutti gli effetti al genere della fiction, è il recente The Howl – Il grido (2010) in cui Rob Epstein e Jeffrey Friedman ricostruiscono il processo per oscenità intentato contro la City Lights di Lawrence Ferlinghetti per la pubblicazione di Howl and Other Poems, raccolta a firma di Allen Ginsberg in cui si narrano vicende di droghe e di sesso sia eterosessuale che omosessuale. Nel film, suddiviso in quattro sequenze alternate – la prima lettura di Howl nel 1955, alla Six Gallery di San Francisco; il processo; la poesia recitata in voice over su animazioni digitali a cura di Eric Drooker; un’intervista a casa del poeta –, il Ginsberg interpretato da James Franco ricostruisce i primi anni della Beat Generation, il suo incontro con Neal Cassady e Jack Kerouac e quei tempi in cui loro non erano nient’altro che un gruppo di scrittori in cerca di un editore.

Nel 2013 si vedrà invece sullo schermo un altro classico di Kerouac. Dopo On the Road, infatti, lo scorso 23 settembre è uscito on-line il primo trailer ufficiale di Big Sur per la regia di Micheal Polish, tratto dal romanzo omonimo del 1962, in cui Jean-Marc Barr interpreta lo scrittore nei suoi giorni trascorsi nella costa centrale della California per sfuggire alla celebrità di Sulla strada.

“Storie da dentro” di Franca Berti e Claudio Fabbrici

Non nascono sempre “dentro” le storie che vogliamo raccontare? Quando il “dentro” però non è solo metafora o immagine di pulsioni nascoste, di sentimenti innominabili cui vogliamo dar voce, ma rappresenta la condizione reale ed effettiva, quella di un carcerato, allora il tentativo dell’autobiografia assume significati inaspettati, da scrutare con attenzione.

Un’analisi che necessita dello sguardo scientifico-psicologico di esperti come Franca Berti e Claudio Fabbrici, ideatori e curatori di Storie da dentro – Racconti di vita e malavita (Memori Edizioni, 2012).

Un progetto in cui si vuole dare la possibilità ai detenuti (in questo caso rinchiusi nella casa circondariale di Bolzano) di raccontare la propria storia, di trarre fuori da sé un vissuto reso ancor più intricato dai risvolti della condizione detentiva. Perché, come spiegano i saggi degli esperti presenti nel libro (C. Fabbrici, M. Palma, F. Berti, G.L. Barbieri, M. Carlotto), le questioni in gioco in queste interviste biografiche fanno della complessità psicologica la cifra distintiva. Basti pensare che la “penna” del detenuto si muove fra il “dentro” del carcere e del proprio io e il “fuori” dell’ambiente esterno e dell’esplicazione del racconto; fra la verità espressa in vari modi e la menzogna che assume molto spesso la dimensione del meccanismo di difesa, dell’autoaccettazione; fra il dolore e il pentimento per gli errori commessi e la giustificazione per cui forse non avrei potuto fare diversamente.

In alcuni casi il ricordo è talmente arduo che la confusione sembra prevalere, in altri la lucidità mostrata è a tratti sorprendente e per questo più dolorosa. Come nel caso del detenuto Quequeg: la sua è una descrizione struggente, un’ammissione tranciante: «Brutta bestia l’alcool, non c’è niente e nessuno che mi faccia più paura, è un nemico senza dignità… Lo odio». Alcool e droga sono spesso compagne inseparabili delle tante storie presentate; più che corollario, causa/effetto di quasi tutti i drammi vissuti.

È superfluo sottolineare l’utilità di una lettura del genere, basta affrontarla con un atteggiamento scevro da qualsiasi pregiudizio. Sovraffollamento, suicidi, rassegnazione rappresentano realtà impellenti e ormai sopra il livello di guardia, ma non sufficienti da sole a spiegare l’importanza del racconto autobiografico in tale contesto. Il punto centrale è che ognuno ha la propria storia e una specificità che deve essere preservata dal rischio di omologazione; rischio a cui le sbarre danno purtroppo una concretezza quotidiana. La convinzione è che solo rivalutando l’unicità del soggetto si può davvero tentare una seria riabilitazione per il “fuori”. Certo, le condizioni ambientali hanno un’importanza decisiva, ma il lavoro sul recupero della persona ha la precedenza in ogni caso. Perché al di là di dietrologie o manifesti politici, rimane l’esistenza di una persona che deve avere l’effettiva possibilità di riscattarsi.
 

(Franca Berti  Claudio Fabbrici, Storie da dentro – Racconti di vita e malavita, Memori Edizioni, 2012, pp. 140, euro 15)

“Love This Giant” di David Byrne & St. Vincent

Il termine stile acquisisce la connotazione semantica a noi nota nel XV secolo, quando si definisce quale forma costante dell’arte di un individuo che si configura in determinate qualità o caratteristiche estetiche. Per ascoltare e comprendere a pieno la parabola artistica di David Byrne occorre invece recuperare l’accezione latina del termine, in uso nell’Europa pre-rinascimentale, la quale indicava, più che le qualità esterne dell’opera d’arte, un metodo d’azione antropologicamente determinato. L’attenzione si sposta così dagli esiti formali-musicali all’approccio artistico che li determina ed è in questo senso che lo stile byrniano diventa estremamente interessante: le realizzazioni concrete della sua musica sono infatti state le più disparate, dalla new wave dei Talking Heads alle sperimentazioni etnico-elettroniche con Brian Eno (My Life in the Bush of Ghosts, Sire/EG, 1981), dalle colonne sonore con Ryuichi Sakamoto (The Last Emperor, soundtrack, 1988) alle musiche per balletti (The Catherine Wheel, Sire Records, 1981) e Fatboy Slim (Here Lies Love, Nonesuch, 2010). Quest’eterogeneità di fonti e fini vengono legati insieme, accompagnati e alimentati, da un habitus mentale, una costante disposizione d’animo, che si può ricondurre a un inesauribile bisogno di studio, curiosità e ricerca sonora. Lo stile di David Byrne diventa così una visione del mondo, un modo di agire, espressione di un pensiero molteplice, che chiama a sé, in quest’ultimo Love This Giant (4AD, 2012), Annie Clark, in arte St. Vincent, nuova stellina del firmamento rock a stelle e strisce.

Un dialogo artistico inter-generazionale – del 1952 lui, del 1982 lei – che in tre anni di lavoro ha prodotto dodici tracce sinuose e magistralmente costruite. L’oggetto indagato stavolta è la brass band, elemento di non secondaria importanza nell’evoluzione della musica statunitense caduto un po’ nel dimenticatoio ai giorni d’oggi. Un esperimento decisamente interessante, soprattutto perché condotto con mano esperta, d’artigiano d’altri tempi, che non si accontenta di una semplice rivisitazione degli ottoni, ma ne re-inventa il ruolo all’interno del panorama musicale contemporaneo esplorandone tutte le possibilità. Centrale è infatti l’interazione ritmica, melodica e armonica che la nutrita sezione di fiati intesse con architetture musicali pop, un pop raffinatissimo e di un’eleganza sopraffina, che fa uso di elettronica impercettibile e strutture allo stesso tempo agevoli e variopinte. Riducendo all’osso si può concepire quest’album come un’interazione tetraedrica tra le voci di David Byrne e Annie Clark, l’universo pop e la brass band.

Si può così sentire quest’orchestrina di tromboni, sassofoni, trombe e corni francesi esibirsi sui percorsi sincopati tipicamente funky di “Who”, primo singolo estratto – non perdetevi assolutamente i balletti robotici e scattosi di un Byrne in gran forma nel videoclip –, oppure soffermarsi, tra pensose sfumature e trame interne, mentre culla la soffice voce di Annie Clark in “Ice Age”. La scrittura dei fiati è sicura, fluida e recita con contrappuntistica precisione la parte di co-protagonista assoluta di molti brani, senza mai perdere il piacere/bisogno di lanciare semi sperimentali qua e là. Il disco scivola via tra richiami ritmici à-là Talking Heads (“Weekend in the Dust”) e finti gospel vellutati, che si aprono tra bassi pulsanti, batterie trip hop e canto etereo (“I Am an Ape”). La conclusione è d’alta classe: una tenera ballata dal futuro (“Outside of Space & Time”) si sviluppa su un canto morbido, scivolando lenta tra trasparenti inserti elettronici e tessiture di fiati, passioni leggere e ricordi gentili.

I debiti, le influenze e i rimandi presenti in questo disco riflettono i multiformi interessi di un genio camaleontico, divorato da una curiosità senza limiti e da una dedizione impareggiabile nello studio delle capacità espressive della musica. Facendo una rapida ricognizione sulla sua radio online – il consiglio per tutti gli amanti della musica è di visitarla periodicamente, ne vale veramente la pena – ci si rende conto, ascoltando la selezione di settembre dedicata all’uscita del disco (Brassy! Love This Giant influences and inspirations), di quanti siano gli artisti e i generi ai quali Byrne si è rifatto per la composizione del disco: si va dalla bossa nova di Caetano Veloso al funk di Bustin Loose nella versione tutta fiati dei francesi CQMD, fino alla nostrana Orchestra di Piazza Vittorio.

Per concludere, un disco ottimo, accessibile e innovativo al tempo stesso, che mentre descrive l’attualità di una brass band in un contesto moderno recupera nella stessa modernità metropolitana lo spunto per le sue liriche. Stavolta Byrne non si distacca da un suo metodo collaudato: trarre dalle nevrosi metropolitane l’ispirazione creativa per descriverle, de-potenziandole e innalzandole ad atto artistico. «The threat of natural disaster promises emotional epiphany», si legge nelle note: «Urban apocalypse gives way to a garden party».

Senza nulla togliere all’ottima prova di Annie Clark, che oltre a esprimere una splendida vocalità risulta co-autrice in ben dieci brani, ancora una volta risulta chiaro chi è il gigante da amare.
 

“La scomparsa di Lauren Armstrong” di Gaia Manzini

«Vigliacca. Che poi è un modo arrabbiato di dire nostalgica: assalita dalla nostalgia di gesti mai fatti. Rispondere no, non mi va, invece di usare la sua passività muta, in cui tutto scivola via, relazioni e parole, come accessori residuali».

Scomparire è facile soltanto per chi scompare; per chi rimane, la vita inevitabilmente cambia. L’esistenza della giovane doppiatrice Eva Loi è dovuta alla pura Fortuna – all’età di adolescente è rimasta l’unica superstite di un incidente aereo. La sua vita, adombrata da sensi di colpa non verbalizzati, procede anonima all’ombra di un rapporto amoroso poco felice con un fidanzato che a modo suo trova anche lui una via per evitare la realtà: ogni mese si inventa un nuovo hobby, tra giochi con spada laser e parkour, o escursioni che finiscono regolarmente con qualche arto ingessato; un fidanzato che viene scoperto da Eva mentre si masturba «come un adolescente […] davanti a dei fumetti». Anche il rapporto di Eva con Ella, sua madre, non è risparmiato da segreti, sentimenti e rimorsi repressi, fatto di comunicazioni difficili. Esiste tuttavia un posto dove Eva si sente nascosta, protetta e, la cosa più importante, sola e invisibile, dove riesce ad annulare se stessa senza ferire nessuno; è la sala di registrazione dove lavora – con la sua voce, infatti, dà vita a una grande star hollywoodiana, Lauren Armstrong.

Quando una mattina viene a sapere dal telegiornale che l’attrice americana scompare nel nulla, senza lasciare tracce di sé, Eva ne rimane terrorizzata perchè si trova – all’improvviso e completante impreparata – a dover affrontare la propria vita «senza corpo e senza volto».

La scomparsa di Lauren Armstrong, di Gaia Manzini è un romanzo che fa riflettere sul tema dell’esistere e dell’apparire e si snoda fra tre storie che parlano delle vite di tre donne: Eva, Ella, e Lauren Armstrong. Tre donne diverse che, ognuna a modo suo, scompaiono perché hanno deciso che la loro vita ha bisogno di una svolta.

Vent’anni prima della scomparsa della Armstrong, Ella, la madre di Eva, si trova in stazione per prendere il treno che l’avrebbe riportata da suo marito, e rimane affascinata da una completa sconosciuta che, salendo sul treno, perde il suo biglietto. Senza pensarci troppo, decide di seguire la donna, trovando un pretesto perfetto per dare retta alla voce che le ronza in testa da quando è uscita di casa quella mattina: scappare, partire per un paese sconosciuto. Ignora quella parte di sé che tenta di richiamarla all’ordine, e sale dunque sul treno per Berlino. Era il turbulento anno 1989, in cui anche la vita di Ella è cambiata drasticamente, tanto che vent’anni dopo si trova a fare i conti con sua figlia sul suo passato.

Chi non ha desiderato almeno una volta nella propria vita di progettare una fuga, reale o immaginaria? Ci si dimentica però, inconsciamente o meno, che ogni scomparsa comporta delle responsabilità che, per quanto scomode siano, diventano prima o poi l’ordine del giorno.

Eva Loi – che ha scelto un mestiere che le permette di scomparire quotidianamente, ma in una maniera tollerata, lecita – finisce per trovarsi, contro la sua volontà, ad affrontare le conseguenze delle fughe: di quella di sua madre, di quella della donna che le ha permesso di dare una apparenza fisica forte, sicura alla propria irresolutezza e, alla fine, di affrontare la sua stessa fuga.
 

(Gaia Manzini, La scomparsa di Lauren Armstrong, Fandango Libri, 2012, pp. 314, euro 15)

I Beatles in tre libri fondamentali

E così sono passati già cinquant’anni da quando quel venerdì 5 ottobre del 1962 comparve nei negozi di dischi il primo 45 giri dei Beatles: Love me do – P.S. I love you. Non arrivò mai al primo posto in classifica (circostanza che in futuro si sarebbe ripetuta pochissime altre volte) e le vendite rimasero soprattutto concentrate nella zona di Liverpool (la loro città). Negli Stati Uniti perché giungesse l’eco del “fenomeno Beatles” bisognerà addirittura aspettare i primi mesi del 1964. Tuttavia la musica popolare di lì a qualche mese, sotto la spinta di questi quattro ragazzi inglesi, non sarebbe più stata la stessa. E anche la grigia e ordinata società post bellica in pochi anni avrebbe lasciato il posto a una nuova generazione di giovani brillanti, anticonformisti e ribelli pronti a rivoluzionare il contesto sociale proprio come i Beatles stavano sconvolgendo i canoni musicali. In questo senso i quattro rimarranno sempre indissolubilmente legati al loro tempo. La loro musica ha attraversato generazioni e generazioni, è tutt’oggi conosciuta e apprezzata (forse anche più degli anni ’70 caratterizzati dall’hard rocke dalpunk e degli anni ’80, così lontani dalla purezza del suono beatlesiano ) ma è difficile, se non impossibile, scindere la loro opera dal decennio che li ha visti a lavoro. Hanno influenzato stili, musica e politica e a loro volta essi stessi hanno trovato ispirazione grazie a molti degli esponenti musicali, artistici e letterali degli anni ’60. Non si possono non amare i Beatles se si amano gli anni ’60 e viceversa. Per questo motivo la loro opera va contestualizzata. I loro progressi tecnici, i loro stili di vita, le loro stesse idee politiche, vanno letti alla luce dei cambiamenti che contemporaneamente stavano avvenendo nella società così come di quei cambiamenti, almeno di alcuni di essi, dobbiamo dare il merito ai Fab Four.

Così, oggi, cinquant’anni dopo il loro debutto, per chi volesse avvicinarsi per la prima volta al quartetto o per chi fosse interessato ad approfondire un aspetto finora poco conosciuto della loro storia, consiglio la lettura di tre libri a mio giudizio indispensabili per avere una visone quanto più completa possibile della loro vita, delle canzoni e di come queste ultime siano state create giorno per giorno nello studio di registrazione – tutto questo mentre fuori, il mondo stava cambiando.

Il primo testo che consiglio di leggere è Shout! La vera storia dei Beatles, di Philip Norman, edito da Mondadori. Scritto come se fosse un vero e proprio romanzo, narra le vite di Lennon, McCartney, Harrison e Starr dalla loro adolescenza negli anni ’40 e ’50 sino allo scioglimento del gruppo avvenuto nel 1970. Molto accurato nei particolari, si legge che è un piacere. In particolare dedica un ampio spazio ai primi anni del quartetto, quando ancora la fama era lontana (un periodo spesso trascurato in molti testi), così come si sofferma ampiamente sui tristi mesi finali che portarono quattro ragazzi cresciuti insieme a riuscire a fatica a stare nelle stessa stanza senza discutere. Unica pecca è un nemmeno troppo velato astio dell’autore nei confronti di Paul McCartney. Spesso non manca infatti di rimarcare lati sgradevoli dell’uomo (certamente presenti) così come alcuni difetti delle sue composizioni mentre invece è decisamente più incline a perdonare l’egocentrismo di Lennon e a soprassedere su alcuni suoi eccessi. Nonostante ciò rimane un’irrinunciabile lettura per quanti non siano ancora a conoscenza della storia dei Fab Four senza trascurare che, presenti sullo sfondo, vi sono continui riferimenti al contesto storico, sociale e politico.

Venuti a conoscenza delle vite dei quattro, è il momento di addentrarci “dentro” la loro opera e ritengo che nessun testo possa svolgere tale compito meglio di The Beatles. L’opera completa, di Ian Macdonald, anch’esso pubblicato da Mondadori. Dopo un iniziale capitolo dedicato al decennio (in particolare all’influenza delle droghe psichedeliche e dei movimenti di protesta), l’autore passa ad analizzare ognuna delle 211 canzoni pubblicate dal gruppo. Di ogni brano vengono fornite le indicazioni indispensabili: stesura, esecuzione vocale, significato del testo, impiego degli strumenti, data di pubblicazione). Tanto più è importante la canzone quanto più spazio viene a essa dedicato (in media si va dalla mezza pagina alle quattro/cinque). Essendo stato vicedirettore del New Musica Express, l’autore non lesina un giudizio personale e dunque, per definizione suscettibile di critica, su ogni brano. Netto per esempio il suo parere sulla bellissima “While My Guitar Gently Weeps” di Harrison, definita invece «una rischiosa impresa nell’idioma heavy», aggiungendo addirittura che il brano «trasuda una minacciosa presunzione che diventa rapidamente fastidiosa». Anche in questo caso però, come per Shout, non si può non parlare di una lettura obbligata nonché interessantissima grazie anche a un ampio glossario finale (che consiglio di leggere però prima di tutto il resto) di termini tecnici specialistici (arpeggio, distorsore, riff, effetto wha e molti altri ancora).

Una volta conclusi questi due libri, il lettore potrà ormai dirsi un esperto dei Beatles. Rimane però, per il vero appassionato, un’unica curiosità: come lavoravano i quattro all’interno dello studio di registrazione? Come hanno preso forma alcune delle più belle canzoni del ventesimo secolo? A questa domanda potrà rispondere Beatles – 8 anni ad Abbey Road, di Mark Lewisohn, pubblicato da Arcana. Si tratta di un resoconto completo di tutte le giornate passate in studio dal gruppo, dal 6 giugno 1962 all’8 maggio del 1970. Giorno per giorno scopriamo come i tecnici del suono e il produttore George Martin hanno aiutato i quattro a creare suoni che all’epoca parevano irrealizzabili; quando John Lennon chiedeva che la sua voce assomigliasse a quella del Dalai Lama che espediente hanno usato? E quando Mccartney richiese che in Sergeant Pepper si sentissero i rumori del circo a quali sonorità sono ricorsi? Come erano le prime versioni delle canzoni a noi note? Infine, l’8 agosto del 1969, il giorno in cui i Beatles hanno attraversato le strisce pedonali di Abbey Road per una delle più celebri copertine della musica rock, che brano hanno registrato? Arricchito da una intervista dell’autore con Paul Mccartney, questo libro è sicuramente un diario prezioso per tutti gli amanti del gruppo. Impossibile non leggerlo con passione e curiosità.

Bene, adesso sapete proprio tutto, non rimane che chiudere facebook, spegnere Iphone e Ipad e mettere sullo stereo l’opera completa…. Meglio se in vinile!

“Antinoo, il fascino della bellezza” a Tivoli – Villa Adriana

«Nelle ore di insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala, mi fermavo davanti i simulacri di Antinoo. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra».

Pare davvero di vederlo l’imperatore Adriano (rappresentato nei suoi tormenti da Marguerite Yorcenar e assurto a mito letterario), aggirarsi nella dimora di Tivoli ora che le statue del suo Antinoo sono tornate “a casa”. Eccolo soffermarsi tra le forme di marmo vive, carnose ed eteree insieme, per ritrovare la sublime bellezza del fanciullo tanto amato e prematuramente perso. Sguardo malizioso e malinconico insieme, bocca carnosa e imbronciata, capelli ricci, corpo morbido e sensuale, Antinoo, incontrato per caso durante uno dei tanti viaggi, colpisce subito Adriano che lo prende con sé e da quel momento diventano inseparabili. Il giovane schiavo gli è a fianco per sette anni, lo segue ovunque come un fedele animale d’insuperabile bellezza: «Quel bel levriero, ansioso di carezze e di ordini, si distese sulla mia vita», racconta ancora l’Adriano di Marguerite Yorcenar.

Antinoo morì nel 130 d.C. in circostanza misteriose, mai chiarite: forse un suicidio per propiziare attraverso il suo sacrificio lunga vita al suo imperatore, oppure annegò nel Nilo durante un viaggio in Egitto sempre al seguito di Adriano. Le fonti storiche a disposizione non consentono di dipanare il mistero. Al favorito dell’imperatore per la prima volta la Soprintendenza per i Beni archeologici del Lazio, ha dedicato una mostra allestita nell’Antiquarium della Villa, mostra visitabile fino al 4 novembre. Antinoo, il fascino della bellezza presenta oltre 50 reperti: sculture, rilievi, busti e statue ma anche monili e monete che testimoniano la passione amorosa dell’imperatore per l’angelico efebo. Per superare l’atroce dolore della perdita, Adriano avviò da subito un culto senza precedenti paragonando il giovane a Osiride, divinizzazione che competeva solo ai faraoni. Per lui fece costruire nella villa un sepolcro-tempio, scoperto nel corso di campagne di scavo realizzate dalla Soprintendenza dal 2002 al 2005.

L’esposizione si articola in quattro sezioni. La prima affronta l’iconografia di Adriano e Antinoo; la seconda racconta la deificazione del giovane bitinio. La terza illustra le recenti scoperte archeologiche che hanno portato alla luce l’Antineion, i resti della tomba-tempio. L’ultima parte espositiva si concentra sulla fortuna di Antinoo nei secoli, facendoci scoprire che a c’è persino una costellazione che porta il suo nome.

«Quasi non esiste collezione storica italiana ed europea, ove, per diverse vicende, non siano pervenute nel tempo opere provenienti dalla stessa Villa Adriana o da altri siti sparsi nel mondo romano (in particolare Italia e Grecia) che ci tramandano le fattezze di Antinoo», si legge nel catalogo Electa. Tanta ricchezza iconografica meriterebbe un museo a sé. La forza seduttiva e fascinatrice del giovinetto, infatti, ha attraversato indenne il tempo; la sua effigie ha ispirato ritratti in marmo, come il busto del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa in cui viene riadattata in senso cristiano, o in bronzo come la scultura di Guglielmo Della Porta, in mostra, proveniente dagli appartamenti storici del Palazzo Reale di Napoli, ed è stata anche riprodotta in numerose pubblicazioni antiche, da Winckelmann a Penna fino a diventare icona della cultura omosessuale.

Adriano dunque aveva deificato il suo favorito assimilandolo alla più alta divinità egizia non a caso visto che, secondo il mito, Osiride rinasce dalle acque del Nilo, simbolo di fertilità. Personalità complessa e multiforme, Adriano è mistero vivo di rinnovato fascino da che l’insuperata prova d’attore di Giorgio Albertazzi gli ha restituito voce, volto, spessore umano.

Nella realtà storica fu tante cose insieme: instancabile viaggiatore durante tutto il principato (117-138 d.C.), risiedette a Tivoli in maniera stabile solo pochi anni perché volle visitare tutte le province del suo sterminato impero, sia a oriente che a occidente. Uomo colto, raffinato, profondamente innamorato della grecità, interessato a architettura, pittura, musica, filosofia, era ossessionato da astronomia, astrologia, forse dalla magia, e continuamente alla ricerca di esoterici segni da decifrare nel tracciato accidentato dell’esistenza. Dichiaratamente omosessuale, avverso al mondo femminile e alla moglie Sabina, fu però devoto a Plotinia (moglie di Traiano a cui si deve la tardiva adozione) così come rispettoso della memoria postuma della stessa Sabina. I contemporanei non gli perdonarono non già d’essere omosessuale, che era opzione diffusa, bensì d’essere stato vinto fino alle lacrime da un giovinetto. Lo storico Cassio Dione gli rimprovera nell’Historia Augusta il fatto che alla morte di Antinoo, avesse pianto «come una donnetta» e che il giovane avesse avuto più onori funebri dei membri della famiglia imperiale. L’uomo più potente del mondo vinto dall’Amore: questo il vero “scandalo” per i suoi contemporanei.

Proprio lo “scandalo” dell’Amore rende Adriano un nostro simile. In un mondo che l’ha estromessa da molte parti, condividiamo il culto della bellezza non effimera che non si apparenta a nessun mercimonio, che muove amore, che fa piangere fino alle lacrime e ritrovare il sacro tra le pieghe di caduche vicende, specie se le fattezze sono quelle di Antinoo.


Antinoo, il fascino della bellezza, Tivoli – Villa Adriana, dal 4 aprile al 4 novembre.

Per ulteriori informazioni: 
http://bit.ly/SCtliX

Umberto Saba, prosatore sconosciuto

È nella storia di una famiglia disunita, nel contrasto di razze, che lo stesso Umberto Saba vede la chiave del proprio destino, la sua diversità: Ugo Edoardo Poli, il padre di Saba, fuggì, abbandonando la moglie incinta. Felicita Rachele Coen, la madre, visse tormentata dal ricordo dell’umiliazione subita, costantemente rinnovata dalla presenza di un figlio da crescere.

«Tutta la nostra struttura psichica», scrive Saba, «è modellata sulla nostra infanzia e quindi sui rapporti coi genitori». L’identità di Saba risulterà sempre franta – «un cuore in due scisso» – due diversi atteggiamenti manifesti nella realtà: da un lato il bisogno di appartenenza, di adesione alla vita, amare le cose quali esse sono, riuscire ad attingere dal proprio cuore tanto amore quanto basta da trovare bello «anche l’uomo e il suo male». E dall’altro un senso di distacco, di chi non riesce a inserirsi nel ritmo della vita, perché Saba sente come una condanna l’unicità del suo sguardo. È indipendente dalle influenze circostanti e lo riscontrerà immediatamente, quando ventiduenne, a Firenze, frequenta il circolo letterario della rivista La Voce. Quest’esperienza conferma la sua estraneità al gusto, alle tendenze intellettuali allora in voga.

Saba nacque a Trieste nel 1883, città di mare, di cultura, di commercio, con un’identità plurale, dove italiani, slavi, austriaci, tedeschi, greci, turchi, ungheresi, ebrei, convivono gli uni con gli altri, senza, tuttavia, fondersi. Secondo Saba, questa molteplicità, questo miscuglio di “sangui diversi”, comporta instabilità nella formazione delle identità individuali, favorendo lo sviluppo di caratteri introversi, nevrastenici, con tendenze auto-punitive. Tuttavia, le parole che egli dedica alla sua città rivelano il profondo legame col luogo natio perché: «Trieste ha una scontrosa grazia», è come un «ragazzaccio aspro e vorace» che «ha mani troppo grandi per regalare un fiore», ma ha anche «il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva». Mentre nel resto d’Italia irrompono i miti e i modi dannunziani e il Futurismo impressiona col suo programma negativo di rivoluzione distruttiva, Trieste è ancora una città romantica. Questo potrebbe sembrare uno svantaggio per la formazione culturale di Saba, invece, nascere in quest’ambiente, gli concesse la scelta istintiva dei maestri, degli autori da leggere e conoscere: «L’igiene dell’anima» per trovare una fisionomia e un linguaggio propri, e da quell’isolamento culturale trarre la sua originalità che dimostra già nel Canzoniere, «poesia d’istinto, ma di un istinto troppo complesso per il pubblico ordinario dei nostri poeti», per i critici che troppo a lungo hanno ignorato il suo modernissimo scrivere classico lasciato senza riserve all’esplorazione del mondo.

Umberto Saba, il cui nome oggi viene associato, quasi esclusivamente, alla famosa poesia “La capra”è considerato un “minore”. Invece si dovrebbe leggere, rileggere e studiare. E questo non solo per la poesia ma anche per la sua produzione in prosa, per la geniale invenzione di Storia e cronistoria del Canzoniere, per l’ardita scommessa rappresentata da Ernesto, ma soprattutto per Scorciatoie e Raccontini, edito da Mondadori nel 1946 e recentemente ristampato da Einaudi. È un’opera nata da anni di osservazione e riflessione, sotto il segno dell’esperienza psicanalitica che gli ha permesso di rinascere e posare il suo sguardo su piccoli indizi, fratture di senso che hanno carpito la sua attenzione, sorta di aforismi in cui Saba avanza diagnosi coraggiose e sorprendenti, dimostrando profonda lucidità intellettuale e indiscussa sensibilità. Il libro si apre con la scorciatoia 1 che enuncia, quasi programmaticamente, quello che sarà l’andamento stilistico e dice:

«GRAFIA DI SCORCIATOIE. Sono piene di parentesi, di “fra lineette”, di “fra virgolette”, di parole sottolineate nel manoscritto e che devono essere stampate in corsivo, di parole in maiuscolo, di “tre puntini”, di segni esclamativi e di domanda. Che il proto prima, e il lettore poi, mi perdonino».

Risulta, quasi, un suggerimento per il lettore che potrebbe sentirsi disorientato dinanzi a un testo così moderno, unico nel suo genere nella tradizione italiana che presenta mutamenti continui di grafia, tono e argomento. Inoltre, è evidentemente sottolineata la gestione della punteggiatura, così intensa ed efficace che ha valore contenutistico oltre che formale, sopperisce laddove qualcosa è stato taciuto, dice il non detto e comunica le emozioni di chi scrive e Saba ce ne dà conferma, quando afferma che «l’arte nasce attraverso la forma; vive, e muore, per il contenuto».

È innegabile che la scelta dell’aforisma, come espressione stilistica, risalga alle letture nietzschiane, che presentavano, appunto, frammenti più o meno lunghi, numerati progressivamente e spesso preceduti da una frase lapidaria come titolo. Esattamente come le scorciatoie di Saba, e che d’altronde si prestano alla “caccia grossa”, come diceva Nietzsche, oltrepassando i valori di facciata dell’ottusa mentalità borghese, con un coraggioso lavoro di scavo nella realtà, poiché «la scrittura aforistica è come “una semina del linguaggio” che porta a piccoli grani di verità»e stimola il lettore ricettivo alla libertà di pensiero, senza dilungarsi, senza indugiare e senza nascondersi.È comunque opportuno chiarire che il Nietzsche di Saba è il precursore delle scoperte freudiane, che rivolge la sua attenzione alla conquista di verità, sottoponendo la realtà, la cultura, l’uomo a un’indagine inesorabile e inclemente, questo è il Nietzsche di Umano troppo umano, di Aurora e di Gaia scienza, dove la scrittura frammentaria subentra alla forma del saggio e dove Nietzsche intuisce profeticamente la crisi della civiltà europea e smaschera le illusioni dell’umanità condannando la morale comune. Ma è anche «un maestro affermativo di vita» che suggerisce di lasciarsi dietro le «tristezze immedicabili» per godere delle «poche gocce d’oro che cadono sulla nostra lingua». Lontanissimo, dunque, dagli equivoci superomistici e dalle interpretazioni della volontà di potenza volte al nazionalismo e agli atteggiamenti antidemocratici. I contenuti di questi aforismi non sono altro che umane reazioni di speranza e dolore, l’impegno a cercar di capire le azioni degli uomini e i fatti del mondo. Saba spazia tenendo i fili di un’opera eterogenea, muovendo dalla conoscenza consapevole della realtà al ruolo dell’arte nel mondo, dai fatti storici e politici con i loro protagonisti a quelli della cultura e della letteratura e ai fenomeni di massa che coinvolgono la società, ad esempio il cinema, i libri gialli, che a Saba ricordano «le interminabili avventure dei cavalieri erranti» solo che «al posto del cavaliere è stato messo il poliziotto». E continua articolando, in brevissimo spazio, un’analisi socioculturale per cui la nascita delle attività è indissolubilmente legata al luogo, al periodo, ai fattori climatici, e quasi accidentalmente, innesta qua e là, fulminei dubbi e sentenze di natura psicanalitica.

In Scorciatoie e raccontini Saba affonta la complessità della realtà in tutte le sue articolazioni, il suo sguardo attento si ferma sull’umanità di tutti i giorni per poi passare ai fatti sconvolgenti della storia umana. A conferma di ciò la sua affermazione per cui «il colore del tempo non è dato solo dai grandi avvenimenti, cosiddetti storici. Una persona accorta lo trova, senza cercarlo, nei piccoli indizi della vita quotidiana». Ecco dunque, la tipica attenzione di Saba al piccolo elemento che costituisce l’indizio rilevatore di situazioni storiche più estese e che rappresenta il suo modus operandi.

Scrivendo Scorciatoie e raccontini, Saba dimostra di essere un autore contemporaneo e conscio di occuparsi di pensieri che non potevano essere capiti se non dai posteri. Ferito dal mancato riscontro, scriverà a Eugenio Montale che la maggioranza dei suoi lettori o erano morti nel secolo scorso o dovevano ancora nascere. Furono vendute appena duecento copie di un’opera degna, più di altre, di essere studiata e trasmessa.

Auguriamoci che a favore del grande ingegno di Saba ci possa essere, oggi, maggiore fortuna.

“Flush” di Virginia Woolf

“Vampa di pieno rossore.” O “snidare un colore rasente”. Non sono azzardi poetici. Ognuna di queste parole si riversa in un’unica traduzione inglese. Flush (Nottetempo, 2012). Onomatopeico, come un sasso nell’acqua. Un lancio che buca lo stagno. In questo caso Flush, protagonista e titolo del romanzo di Virginia Woolf, è semplicemente il cane di Elizabeth Barrett. Lo spaniel perfetto, il corredo cromosomico pieno di lenzuola fresche. Con la morbida linea del cranio, «gli occhi grandi ma non sporgenti» e l’alchemica espressione in grado di fondere acume e dolcezza.

Quel pelo capace di dorarsi al sole nasce in un giorno imprecisato del 1842 e per i primi tempi alberga nelle immediate vicinanze di Reading, presso un certo dottor Mitford e la sua famiglia. Ma un cane del genere non fa per loro, troppo prestigio per i loro prati, zampe così delicate da non doversi incagliare nelle sedie mal rivestite, in quella vita mal rattoppata. Flush però non può essere venduto, al massimo potrà diventare oggetto di un dono. Un dono doppio. Miss Mitford regala il cucciolo a Miss Barrett, scrittrice debole e incapricciata che parcheggia le sue ore tra i cuscini, a Londra, nell’ agio sbuffante di Wimpole Street, che purtroppo non sa accarezzarla. E Flush viene alla luce una seconda volta, accanto a lei. Perché anche lui riceve qualcosa. Scopre cosa significa avere un padrone e conosce ben presto il prezzo delle relazioni. Che nel suo caso, come in quello di molti altri, si chiama “libertà”. Non c’è più occasione per scorrazzare a piene narici, inalare anche l’aria impossibile, immolarsi alla terra e inseguire gli odori come fagiani. La porta per lui resta chiusa, la stanza sul retro si rivela il suo unico feudo e le uscite sono gocce centellinate, pochi barlumi in carrozza e poi di nuovo subito a casa. Flush impara a sue spese che avere tutto: cibo, profumi, calore, riparo, non vuol dire avere ciò che si desidera.

Un cane di razza “deve” indossare il guinzaglio, contare i suoi passi fino a sentire una stretta alla gola. Non esistono parchi per il suo istinto. Ma rinunciare fa parte del gioco. E la sua “iniziazione” nel mondo reale passa attraverso questa certezza. È in questo perimetro sghembo e mai totalmente compreso che s’incontrano gli spigoli e si apprendono le lezioni più ruvide. Flush cresce come il custode della sua padrona, legge i suoi movimenti, il tremore della mano che verga ogni emozione, in mezzo a un inchiostro che non può capire. Ma che non gli impedisce di fiutare i suoi pensieri. Ama Elizabeth, consuma i suoi avanzi perché il padre non la rimbrotti, ovatta la sua stanchezza, i suoi lunghi minuti emaciati. E si crede esclusivo.

Come crede esclusivo il loro rapporto. Quindi, quando nei mesi tutti piallati e intercambiabili di Miss Barrett e nei suoi tramonti filtrati dal vetro irrompono i guanti gialli di Mr Browning, Flush si sente espropriato, detronizzato senza troppi riguardi. Si sente geloso. E non può accettarlo. Scalcia, morde, si ribella fino a subire la giusta sanzione, il distacco della sua amata. Finché non intuisce che amarla davvero comporta accogliere ciò che lei ama, ciò che davvero ritiene importante. Malgrado si tratti di un terzo incomodo. E poi un quarto. Anche qui perciò arriva un’altra conquista di Flush, in quello che si delinea, con la sapiente sofisticata ironia dell’autrice, quasi un romanzo di “formazione canina”. Un’arguta scanzonata biografia che fa il verso agli umani, amplificandone gli umori e le piccolezze, mostrando quanto anche su due piedi il cielo possa schiacciare lo stesso.

Dopo aver letto le lettere tra Elizabeth Barrett e Robert Browning, la figura di Flush attrae Virginia Woolf a tal punto da indurla a cucirgli intorno un’esistenza. I sensi del cocker sono lo specchio stravagante e aristocratico delle loro lussuose vicende. Ma anche lo scrigno in cui sono protetti, perché ha ragione Romain Gary, scrivendo che «il solo posto al mondo in cui si può incontrare un uomo degno di questo nome è lo sguardo di un cane». 
 

(Virginia Woolf, Flush, trad. di Chiara Valerio, Nottetempo, 2012, pp.184, euro 13)

[BioSong] “Eleanor Rigby” dei Beatles

Vi è mai capitato di chiedervi come sia nata una canzone? Dopo il centesimo ascolto, domandarvi cosa diamine sia passato per la mente di quella band prima di dar vita a un brano del genere? La questione è più che lecita, soprattutto se riguarda artisti capaci di fare della propria vita la loro musica. Questa nuova rubrica di Flanerí si occuperà proprio di questo, di dare la risposta; raccontarvi come sono nate alcune canzoni memorabili. Non tradurle testualmente o classificarle in una graduatoria, ma mostrare la loro genesi, illustrare quegli eventi storici e biografici che fondendosi con lo stato d’animo dell’autore hanno reso quel brano un capolavoro universale, custodito nel cuore e nella memoria di innumerevoli persone. Da appassionati, ci siamo presi la briga di scegliere le storie reputate più significative, importanti ed emozionanti, usandole come chiave di volta per parlare di musica ad alti livelli. Nella speranza che quella storia sia in parte anche la vostra.


Iniziamo dunque il nostro percorso con “Eleanor Rigby” dei Beatles.

Nel 1966 , almeno a livello musicale, i Beatles erano veramente a un passo dal divino. Il terremoto rock datato 1965 aveva squarciato la terra e dalle sue viscere erano esplosi artisti britannici come i Kinks e i Byrds, mentre dall’altra parte dell’oceano Mr. Bob Dylan portava la musica a livelli artistici prima impensabili, grazie a dischi come Bring It All Back Home e Higway 61 Revisited e soprattutto a un brano: “Like a Rolling Stone”. Per non parlare di un certo Brian Wilson dei Beach Boys, che stanco del solito quadretto fatto di spiagge, ragazze in costume, mare e surf, inizia a virare verso atmosfere plumbee e complesse. Il risultato sarà quel Pet Sounds che per qualche periodo mise in discussione la leadership musicale dei “quattro di Liverpool”. Di fronte a tanto bellezza e grandiosità i Beatles rispondono e rilanciano con Rubber Soul, il disco della svolta e della maturità. Il tempo sbarazzino e brioso degli inseguimenti di fan urlanti e dei ritornelli pieni di love e you si era esaurito – fortunatamente – già con Help! (per intenderci, il disco con “Yesterday” e “You’ve Got to Hide Your Love Away”). Ma è da Rubber Soul che la carriera dei Baronetti compie il vero giro di boa; consci delle loro potenzialità i quattro abbandonano per sempre i bagni di folla e si chiudono in studio: il risultato sbalordirà il mondo.

Arriviamo al 1966, l’anno di Revolver. Per spiegare e raccontare solamente le tecniche di sovraincisione usate da Lennon in “Tomorrow Never Knows” ci vorrebbe un articolo a parte, e poi, quello che a noi interessa è altrove. Non è nella psichedelia intrinseca del disco, non l’impatto inimmaginabile che ebbe sugli addetti ai lavori e sui musicisti, e nemmeno nelle rivoluzionarie tecniche di registrazione. No. Quello che ci interessa è la storia che riguarda una certa Eleanor Rigby e i motivi per cui Paul McCartney, arrivato all’apice totale, abbia deciso di rispondere a tutto questo splendore con una canzone di morte, disperazione e solitudine.

Chi è Eleanor Rigby? Alla base del brano c’è un’immagine abbastanza insolita e malinconica, soprattutto per una band classificata troppo spesso come spensierata e solare; una zitella impegnata a spazzare via il riso dal sagrato di una chiesa in cui si è appena celebrato un matrimonio.
McCartney era a Bristol , al seguito dell’amata Jane Asher, e rubò il cognome Rigby da un vicino negozio d’abbigliamento, aggiungendo poi il nome di battesimo dell’attrice Eleanor Bron, conosciuta sul set di Help!. Però sono in molti a non credere a questa ricostruzione e il motivo è molto semplice: ad Allerton, il sobborgo di Liverpool dove abitò il piccolo Paul, nel cimitero della chiesa di Saint Peter a Woolton – che passerà alla storia anche perché vide il provvidenziale incontro tra McCartney e John Lennon – c’è la tomba di una donna appartenente a una conosciuta famiglia del posto: Eleanor Rigby.

C’era qualcosa in particolare che ossessionava la mente del giovane compositore, forse più sensibile degli altri nel notare le fratture del loro stato umano e i lati oscuri della popolarità? Estremamente ispirato e chissà per quale motivo rapito da tali immagini funebri e tristi, il giovane Paul decide di virare verso territori sconosciuti, sviluppando uno dei testi più affascinanti della storia della musica. In primis – e non è un fattore da poco – perché nessuno si era mai permesso in un “canzoncina” pop di due minuti di parlare con questi toni drammatici e strazianti della morte. Tra i tanti primati dei Beatles c’è anche quello d’aver sfatato il tabù tematico del decesso, senza troppi fronzoli e giri di parole, con l’annesso trauma causato alle sconvolte orecchie dei fan. Fu come al solito la casa di Lennon il luogo in cui tutto il resto prese vita. Protagonisti del brano sono per l’appunto Eleanor Rigby e un certo padre McCartney, ribattezzato solo dopo padre McKenzie, grazie a un nome preso a caso tra le pagine dell’elenco del telefono. Già dalla prima strofa si capisce in quali lande desolate dell’animo umano siamo finiti; la richiesta di guardare «tutta la gente sola», già fa sprofondare l’ascoltare nel più cupo isolamento, il tutto sovraccaricato da un arrangiamento orchestrale immenso e inaudito per quei tempi, composto da quattro violini, due viole e due violoncelli, diretto in maniera sublime da George Martin. Ian MacDonald, il più illustre biografo dei Beatles, nonché il più attento a seguire la genesi delle loro canzoni, considera, credo giustamente, il verso in cui la protagonista conserva in segreto il suo volto in un vaso di fiori vicino alla porta di casa, come l’immagine più memorabile dell’opera della band. In quelle poche parole si riesce a dipingere la scena di questa donna estremamente sola, che per non rovinare il suo stato di middle-class inglese, non può far altro che sopprimere il proprio dolore, occultandolo agli altri. Nella strofa seguente è il turno di padre McKenzie, altrettanto dilaniato dalla solitudine, intento a «scrive le parole di un sermone che nessuno ascolterà», nonostante la sua chiesa sia la medesima della protagonista. Il ritratto delle serate passate a rammendare calzini è frutto di Ringo Starr, a sottolineare come ogni membro si sentisse sempre parte di ogni singola opera, nonostante il predominio del binomio McCartney-Lennon.

E infine il dramma dell’epilogo; la morte di Miss Ribgy e il funerale fatto da padre McKenzie a cui non parteciperà nessuno, e il «nessuno fu salvato»finale suona come una condanna.

Lasciato solo in sala di registrazione, il bassista del gruppo potè incidere anche la parte vocale, sancendo una volta e per sempre l’egemonia dei Beatles in campo musicale. Ovviamente anche “Eleanor Rigby” fu un successo; scelta come singolo di quello che rimarrà il più grande album di sempre – Revolver appunto – rimase per lungo tempo in vetta alle classifiche di tutto il mondo. La genesi d’una canzone come questa mostra la complessità e la profondità d’animo di un giovane estremamente sensibile e emotivo, in grado, una volta raggiunta la vetta, di andare anche oltre, usando strade che nessuno aveva mai percorso prima. Ecco allora un rarissimo e prezioso caso di storia di una canzone capace di intrecciarsi e plasmare la storia della musica stessa passando per le zone più oscure dell’animo umano.


(The Beatles, “Eleanor Rigby”, Revolver, 1966, 2’06’’)

 

(

“Un sapore di ruggine e ossa” di Jacques Audiard

A tre anni di distanza dal pluripremiato Il profeta, Jacques Audiard torna al cinema con Un sapore di ruggine e ossa. Partendo dalla raccolta di racconti Ruggine e ossa di Craig Davidson (edita in Italia da Einaudi), Audiard e il suo sceneggiatore Thomas Bidegain hanno dipinto una storia di solitudine, violenza e disgrazie che diventano occasioni.

Alì (Matthias Schoenaerts) è un solitario inquieto che si ritrova a dover badare a Sam, il figlio di cinque anni abbandonato dalla madre senza troppe cerimonie. Incapace di provvedere al bambino, Alì decide di raggiungere la sorella Anna (Corinne Masiero), che non vede da anni, nel sud della Francia, ad Antibes. Lì trova un lavoro, una casa nella rimessa del cognato, una possibilità di vita normale. Una sera mentre lavora come buttafuori in un locale notturno, conosce Stéphanie (Marion Cotillard), bella, altera, sfrontata, che va a ballare di notte da sola per sentire gli occhi degli uomini su di sé («mi piaceva essere guardata, ero seducente, mi piaceva vedere gli uomini eccitati poi però mi annoiavo»). Dopo averla salvata da una rissa, Alì la riaccompagna a casa e le lascia il suo numero di telefono. Lei lo chiamerà solo una notte di alcuni mesi più tardi, dopo che un’incidente terribile al parco marino, dove lavorava come ammaestratrice di orche, le ha portato via entrambe le gambe, sotto il ginocchio. Tra i due inizia una frequentazione fatta di poche parole e molta, immediata, intimità. Attraverso Alì, Stéphanie ritrova la voglia di vivere e più semplicemente di esistere. L’animalesca vitalità di Alì, che nel frattempo si è dato ai combattimenti clandestini di full contact, la sua ingenua crudeltà, danno alla donna il coraggio di tornare sé stessa e di imparare a camminare di nuovo, sulle sue nuove lucenti gambe di titanio. Alì troverà in Stéphanie qualcuno in grado di capirlo e di tenergli testa, di dargli forza e di insegnargli finalmente a prendersi cura di qualcuno e di sé stesso.

Schoenaerts e Cotillard sono perfetti sullo schermo. Danno ai loro personaggi quella dignità e forza che sono l’arma in più del film. L’intesa silenziosa di Stéphanie e Alì, istintiva e semplice, riempie lo schermo. Nel descrivere l’orrore della mutilazione, Audiard non cede alla compassione ma percorre con la telecamera le cicatrici che segnano con una croce dove un tempo erano le gambe. La rappresentazione della violenza, sia fisica che psicologica, è cruda e diretta. La macchina da presa sembra pedinare i protagonisti, spiarne le vite con riprese ravvicinate quasi ossessive. I due attori si lasciano frugare dalla telecamera, concedendosi senza remore con il corpo e lo sguardo.

Indebolito da svolte narrative eccessivamente prevedibili, soprattutto nel finale, e dalla lirizzazione enfatizzante della rozza primitività di Alì, insensibile e irresponsabile, incapace affrontare la vita se non prendendola a cazzotti, Un sapore di ruggine e ossa è un film che colpisce per la sua durezza, per la descrizione del dolore priva di compassione e retorica, e per la grande prova di attrice di Marion Cotillard, capace di comunicare con tutto il corpo la storia di una rinascita.


(Un sapore di ruggine e ossa, regia di Jacques Audiard, 2012, drammatico, 118’)

Io conto parecchio

È sempre colpa di un libro. È sempre lì, nelle pagine comprese tra due copertine, che s’annidano le idee più bislacche e malsane. Peste incolga Melissa P. e il suo Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire. E la mia decisione di lasciarmi crescere i capelli. Perché no?!, mi sono detto, e ora eccomi qui: caschi il mondo, che io sia in casa, in campeggio o ospite d’amici, non riesco a mettermi a letto senza contarne 100, di colpi di spazzola. Mi corico pettinato come mai lo sono durante il giorno. E questo è un paradosso interessante. 1, 2, 3… da sinistra verso destra, avendo buona cura di coprire coi dentini della spazzola tutte le zone del cuoio capelluto. 25, 26, 27… senza trascurare mai la zona del collo, la più impervia.

Dai capelli ai denti il passo è stato breve: 31, 32… molari, incisivi, tanta cura ai denti del giudizio. 55, 56… e gli ultimi 10, sempre, ai denti che fanno il fronte del mio sorriso. 99, 100, un bel bicchiere d’acqua e sogni d’oro.

Poi ho cominciato a contare i passi. Da casa all’ufficio sono 654. Il divertimento è al rientro: conto a ritroso, e mi pare (456, 455…) di cullarmi verso la pace, con questa litania cifrata: 223, 222… e via le chiavi del portone: 87, 86, e il portoncino: 3, 2, 1, casa dolce casa.

Dopo un po’ quando conti, e conti davvero, ti lasci prendere la mano. Quanti giri di cucchiaino, prima di bere il caffè? 27. Le leccate al Fiordifragola, prima di ritrovarti in mano il bastoncino? 71. Scolapasta e pentola? Li lavi in 66. Il letto lo rifai in 25. Il mondo ormai m’è diventato un campo di mirabili scoperte. Evito i semafori il cui rosso duri più di 75. La metro è inaffidabile: San Paolo-Termini oscilla troppo, dipende dai passeggeri e dai trasbordi, ma mai sotto 1.000. Ma che gusto, che soddisfazione, quando i conti tornano. Quando un 81 rimane 81 a prescindere dal clima, o un 111 viene a confortarti che no, non è vero che tutto cambia e tutto si trasforma: quel 111 sarà lì con te per il resto dei tuoi giorni.

Quando conti, conti davvero. M’era preso di contare anche le spinte pelviche. «Dimmi qualcosa, sei così silenzioso… Amore, parlami…» «77, 78!». Non l’ho più rivista. Non è da tutte, stare con uno che conta davvero. È un peso troppo grande da sostenere.

Gli amici cari lo sanno, e non si stupiscono. A cena, passeggiando, nel bel mezzo di un’accorata discussione lo sanno, che quando m’astraggo sto dando fondo alla mia passione. Conto. Le boccate di sigaretta del dirimpettaio, i colpi di tacco della sventola che ci viene incontro, i ni-no ni-no no-no della sirena dell’ambulanza prima che scompaia del campo uditivo.

Una conta dà poca soddisfazione: quanto impiego a capire di star parlando a un novello deficiente. 1, 2… raramente arrivo a 5.

Io conto parecchio, e col passare degli anni sto diventando proprio bravo. Faccio anche le premonizioni: «Sarà un 37 o un 28?!». E quando ci prendo… oh!, quando ci prendo è proprio bello. Quando sbaglio no. Quando sbaglio m’arrabbio, e tanto. Divento nervoso, intrattabile. Quella signora doveva attraversare in 22, e invece ci ha messo 41. E io l’ho investita. Così impara. Sempre che sì rialzi: m’è parsa immobile, nello specchietto retrovisore.

Mhm, una volante m’insegue… A sirene spiegate, bello: ni-no, ni-no, ni-no… e tutto per me! Quanto ci metto, se m’impegno, a farmi sparare addosso? 1, 2, 3…