MArteLive 2012: al via la nuova edizione

Occasione imperdibile per artisti di ogni genere, per chi osserva questa nostra epoca e tenta in qualche modo di rappresentarla o semplicemente per appassionati e curiosi: torna MArteLive, il festival multidisciplinare delle arti ormai molto noto, che ha tutte le carte in regola per sperimentare, quest’anno, una nuova formula.
Con l’ambizioso progetto di essere il più grande raduno di artisti d’Europa nel 2012, dopo undici anni di successi, MArteLive si lancia in un progetto totalmente innovativo: per la prima volta assisteremo al coinvolgimento totale della città di Roma per sei giorni e sei notti, dall’11 al 16 settembre 2012, in venti location diverse tra teatri, gallerie, musei, librerie.
Tante le novità: con sei giornate interamente dedicate all’arte e allo spettacolo dal vivo, il festival MArteLive sarà l’evento principale all’interno dell’European Arts Forum che si terrà contemporaneamente in altri cinque paesi europei (Inghilterra, Francia, Spagna, Germania e Olanda), dove saranno organizzati degli eventi trasmessi in diretta streaming sul web, con l’obiettivo di dar vita al più importante appuntamento artistico, musicale e culturale dell’anno.
Ben 100.000 gli spettatori previsti provenienti da tutta Italia e non solo; oltre 900 gli artisti che si esibiranno in circa 300 spettacoli, concerti, performance teatrali e di danza, proiezioni, reading e molto altro; più di 150 i premi assegnati ai partecipanti ai vari concorsi; 9 le città coinvolte in tutta Italia (oltre a Roma troviamo Milano, Bologna, Torino, Firenze, Napoli, Bari, Palermo e Parma).
Le discipline artistiche sono 16: musica, pittura, teatro, danza, poesia, arte circense, foto live, grafica digitale, installazioni, visual art, VJ, DJ, cinema, moda e riciclo, artigianato e fumetto. Ogni sezione artistica è legata a un concorso realizzato in collaborazione con circa 100 partner, tra cui Flanerí.
L’evento è il nuovo punto di riferimento per gli artisti emergenti, una possibilità in più di mettersi in contatto con gli addetti ai lavori e con le varie istituzioni.
Inoltre, accanto ai giovani esordienti, MArteLive ospita, in ogni edizione, numerosi artisti affermati di fama nazionale e internazionale.

Per le iscrizioni basta visitare il sito www.martelive.it oppure il nuovo www.marteawards.it, dedicato esclusivamente ai concorsi di MArteLive con bandi, form di iscrizione e continui aggiornamenti.

 

 

“Il Mullah Omar” di Massimo Fini

«Il Mullah Omar, come i corsari di un tempo, porta abitualmente una benda nera sull’occhio destro. Lo perse nel 1989, a ventisette anni, in una battaglia combattuta contro i sovietici, ai confini col Pakistan. Una granata centrò un mujaeddin a pochi passi da lui e le schegge lo raggiunsero in pieno volto mentre cercava di ripararsi dietro un muretto facendogli fuoriuscire l’occhio dall’orbita. Si racconta che si sia strappato lui stesso l’occhio e ricucito le palpebre».

Non si tratta soltanto di una biografia del misterioso leader dei Talebani. Il Mullah Omar (Marsilio, 2011) di Massimo Fini ripercorre infatti anche numerose tappe della storia di un popolo, quello afgano, che continua a resistere all’invasione di truppe straniere e a lottare per mantenere la propria identità.
Non si tratta nemmeno di controinformazione, bensì di semplice completezza dell’informazione in merito alle reali cause di una guerra di portata internazionale, alle vittime che ha prodotto e ai sistemi con i quali è stata condotta in passato e ancora oggi viene gestita.

Si tratta invece di conoscere, attraverso una testimonianza ben documentata, il risvolto della medaglia rispetto a ciò che, per mesi e mesi, i mass media occidentali hanno mostrato agli occhi dei loro spettatori, durante l’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e poi del loro braccio armato europeo, la Nato.
Oltre la guerra santa contro gli attentatori dell’11 settembre e contro Osama Bin Laden ci sono, infatti, gli interessi economici del gigante dell’energia Unocal.
Oltre il trionfo democratico rappresentato dall’elezione del Presidente Hamid Karzai, c’è la creazione di un governo fantoccio che non esercita un effettivo controllo delle proprie forze di polizia e tantomeno del proprio paese.
Oltre il lamento funebre levato dai politici italiani ad accompagnare le bare dei “nostri ragazzi” caduti per la Patria in una terra di barbari, ci sono le parole del padre di uno di loro: «Io non piango un figlio morto per la Patria, piango un figlio morto. È andato laggiù perché qui da noi, in Sardegna, non c’è lavoro».

Massimo Fini ci regala così una testimonianza fuori dal comune, al di là del bene e del male, uno sguardo di principio, da occidentale controcorrente, capace di creare spunti partendo da avvenimenti storici sui quali sembrava si fosse già detto tutto.


(Massimo Fini, Il Mullah Omar, Marsilio, 2011, pp. 178, euro 16,50)

“Ciao ragazzo” di Chico Buarque de Hollanda

Che il Club Tenco, ormai da moltissimi anni, rappresenti un marchio indelebile per la musica nostrana, s’era capito da tempo. A stupire è il fatto che continui, in un mercato ormai totalmente saturo, a pensare e partorire, affiancato nella produzione dalla “solita” Ala Bianca (a cui va riconosciuto il merito di aver puntato fortissimo sulla migliore musica d’autore degli ultimi trent’anni), dei prodotti di un livello così alto. L’ultima chicca, il cd Ciao ragazzo, è di fatto un’opera unica, una vera e propria perla di indiscussa e rara bellezza.
Senza dimenticare il valore di testimonianza: si tratta infatti di un altro documento capace di arricchire uno scenario già colmo di personaggi troppo facilmente dimenticati dal grande pubblico.
Nella carrellata di “anime artistiche”, quest’anno è la volta del grande Chico Buarque de Hollanda, ricordato in un concerto del 1996 quando, ripulito dagli orpelli sanremesi, il palco dell’Ariston accoglie il progetto ideato dal rimpianto Amilcare Rambaldi.

Il disco, curato da Enrico de Angelis e Toni Verona e pubblicato in doppio cd, è un altro omaggio alla figura carismatica del fondatore del Club (nonché primo ideatore del Festival di Sanremo). Lo stesso titolo riprende infatti il tipico saluto di Amilcare Rambaldi, che quest’anno festeggia i cento anni dalla nascita.
Al concerto, presentato da Antonio Silva, partecipò, oltre all’autore arrivato appositamente dal Brasile, fatto di per sé raro, un nutrito gruppo di cantanti e artisti del calibro di Vinicio Capossela, Giorgio Conte, Armando Corsi, Irio De Paula, Grazia Di Michele, Enzo Jannacci, Antonella Serà e Tosca.
Tra le chicche e le rarità “Genova per noi” e “Anema e core” cantate da Buarque in italiano e in napoletano, la “Francese” di Capossela e il “Tatuaggio” di Tosca, e sfido a trovare un brano che non possa considerarsi tale, anche per il fatto che, nel progetto, sono state tentate con successo traduzioni di Sergio Bardotti, Giorgio Calabrese, Ivano Fossati, Vinicio Capossela, Sergio Secondiano Sacchi (per la Di Michele), Giorgio Conte.
I numerosi consensi che questo disco sta raccogliendo non hanno certo arrestato la promozione, che va avanti senza sosta con incontri e presentazioni in tutta Italia.


Track list

CD1
1) Samba de Orly – A. Corsi
2) Occhi negli occhi (Olhos nos Olhos) – A. Serà/A. Corsi
3) Ninna nanna (Acalanto) – G. De Michele
4) Anna da Amsterdam (Ana de Amsterdam) – G. De Michele
5) La banda passò (La banda) – G. Conte
6) Facendo i conti (Trocando em miudos) – Tosca
7) Tatuaggio (Tatuagen) – Tosca
8) La Francese (Joana Francesa)- V. Capossela
9) O que será– I. De Paula
10) Samba e amor – I. De Paula
11) Pedro Pedreiro – E. Jannacci
12) La costruzione – E. Jannacci
13) Oh che sarà – E. Jannacci/C. Buarque


CD2
14) Volta do malandro – C. Buarque
15) Samba do grande amor – C. Buarque
16) Futuros amantes – C. Buarque
17) Joana Francesa – C. Buarque
18) Eu te amo – C. Buarque
19) Quem te viu, quem te ve – C. Buarque
20) E la desatinou – C. Buarque
21) Bejo da cruz – C. Buarque
22) Estacao derradeira – C. Buarque
23) Genova per noi – C. Buarque
24) Vai passar – C. Buarque
25) Anema e core – C. Buarque

Bonus track:
26) Tre uomini – O. Vanoni
27) Tatuaggio – O. Vanoni

“Dieci donne” di Marcela Serrano

Talvolta si leggono libri di una delicatezza tale da rimanerne stupefatti.
La delicatezza alla quale mi riferisco è quella con cui Marcela Serrano racconta e scandaglia nel suo romanzo intitolato Dieci donne (Feltrinelli, 2011) il macrocosmo dell’emotività femminile, generalmente considerata dalla vox populi molto più complessa e sfaccettata di quella maschile.

A narrare la storia, o per l’esattezza le storie ivi contenute, sono Natasha, psicoterapeuta, e nove delle sue pazienti, tutte donne accomunate da un’esistenza difficile che le ha segnate irrimediabilmente, che le ha cambiate, che le ha costrette a convivere con una quotidianità così difficile da spingerle, nei casi più disperati, sull’orlo del baratro.

Rapisce del romanzo la naturalezza con cui la Serrano si muove tra la psiche e la varietà dei sentimenti delle sue creature, dando l’impressione di aver vissuto in prima persona ognuna di quelle esperienze; pagina dopo pagina si attraversano, con rispetto e devozione, le fragilità dell’animo umano e ci si ritrova a compiere, quasi involontariamente, una riflessione sulla propria vita.

La condivisione guarisce dalle ferite. La condivisione isola dalla solitudine. E consola il fatto che, da che il mondo gira, le donne, tutte le donne presenti sulla faccia della Terra, abbiano provato i medesimi sentimenti o affrontato le medesime situazioni. Quando si vivono momenti difficili, spesso si imputa a noi stesse l’incapacità dell’attitudine alla vita; niente di più sbagliato. La vita è un viaggio tortuoso e per alcune di noi lo è ancora di più, ma non si deve mai credere di essere sbagliate o inette. L’esperienza insegna che anche le donne all’apparenza più sicure, serene e appagate, nascondono intimamente una loro, personalissima problematicità, la differenza è che non la esternano, la nascondono ignorandola, anche se prima o poi saranno costrette a guardarla negli occhi. Anche questa tipologia di donne rientra nel gruppo delle pazienti di Natasha: donne di ogni estrazione sociale, giovani, mature, anziane, donne nelle quali è possibile specchiarsi e ritrovarsi.

Leggere il libro della Serrano fa bene, è un’iniezione di linfa vitale e di autostima, è un romanzo nella cui lettura ci si immerge totalmente senza mai perdere il senso della realtà, una cassa di risonanza interiore che pulsa di tutto il nostro essere: «A ciascuna le sue ossessioni. La mia è questa: ne ho pieni i coglioni di come le donne fanno di tutto pur di avere il loro uomo accanto. Gli uomini non sono atro che un oggetto simbolico e, credetemi, possiamo vivere anche senza un’icona del genere. D’accordo, un simbolo diventa tale per ragioni ataviche, di rappresentazione, e si può insistere sul suo valore metaforico o allegorico. Però mi rifiuto di essere complice. Mi angoscia vedere tutte queste donne che si svenano per non restare sole. Chi l’ha detto che essere single è una tragedia?»


(Marcela Serrano, Dieci donne, trad. di Michela Finassi Parolo e Tiziana Gibilisco, Feltrinelli, 2011, pp. 285, euro 18)

“L’industriale” di Giuliano Montaldo

Il periodo della crisi economica, dei fallimenti delle grandi industrie, degli scioperi degli operai. L’industriale è una sorta di contestazione stile anni ’70 ambientata ai giorni d’oggi, con uno sfondo di monitor di computer e Ipad.
In un’atmosfera grigia, una Torino uggiosa e umida ospita la storia di un imprenditore quarantenne sull’orlo del precipizio: la sua ditta, ereditata dal padre negli anni d’oro dell’industria italiana, è un’officina meccanica che fa lavorare uno staff di settanta uomini e di conseguenza mantiene le rispettive famiglie.
Nicola Ranieri, Pierfrancesco Favino, è un uomo tutto d’un pezzo, che sceglie di mettere tutto se stesso nel perseguire i propri interessi, nel tentativo di vincere le proprie battaglie, e in particolar modo quella messa in atto dalle finanziarie contro la sua impresa, destinata a chiudere a breve. La “minaccia” viene dalla banca, che per colpa di uno sconfinamento temporaneo e la mancanza di garanzie da parte dell’azienda, non predispone a Ranieri un ultimo finanziamento.

Il registra, Giuliano Montaldo, tocca questo tasto dolente e particolarmente provocatorio – considerati i tempi che incombono – senza immagini o scene-scandalo, ma facendo parlare con serietà i suoi personaggi.
L’industriale definisce la banca «usura legalizzata» ed è uno dei pochi che sta, in una visione manichea, dalla parte dei “buoni”, di coloro che lavorano con lui in modo costante, da sempre e con la stessa  fedeltà.
Un film di interesse culturale che rievoca la passione per il lavoro e quel particolare entusiasmo dato dall’unione, dalla coesione. Con il ritmo incalzante di una chiamata alle armi, la pellicola di Montaldo non abbandona il senso del dovere, secondo cui il bene personale è, anche e soprattutto, il bene comune.
La vicenda dell’azienda di Ranieri si intreccia con una difficile relazione di coppia tra lui e la moglie, la sensuale Carolina Crescentini, affrontando un nodo forse altrettanto duro da sciogliere: il sentimento della gelosia, fortissimo, che avvampa e logora chi ne è vittima.

Una storia, dunque, quella raccontata da Montaldo, che vale per tante altre, molteplici purtroppo, in Italia. Una brillante fotografia e un ottimo montaggio danno vita a una pellicola solenne, tesa. Un film che lascia con il fiato sospeso, alimenta la suspense e stupisce per il finale senza pretese. 

“Mozart come Dante” di Maria Soresina

Libro comunque stimolante, questo nuovo di Maria Soresina, Mozart come Dante, anche quando non riesca a convincere in pieno il lettore ad andare dietro a tutte le sue certo originali, ma non sempre persuasive proposte interpretative. Suggestivo, ad esempio, è il tema della simmetria dantesca: non nelle pretese affinità della vicenda iniziatica (detto francamente: tirate per i capelli), ma proprio nel significato culturale, umanistico si direbbe, della scelta del linguaggio, il volgare delle muliercule, quelle anime femminili semplici e profondissime insieme che Mozart non si è stancato di far cantare, con la voce della sua irraggiungibile e vicinissima Aloysia, sulle sue scene, ma che, sulla scena del Theater an der Wien, era poi, per una curiosissima ironia della storia, proprio il contrario di quell’italiano adottato da Dante e, dall’inquilino della casa presso la Michaelkirche di Vienna, il Metastasio, messo tirannicamente sul trono della vocalità operistica.

Meritoria anche l’altra intuizione del libro, quella cioè che il “nero” di Monostatos non sia il colore della pelle (che ne farebbe, certo, anche nella “sfrenata” sessualità, un fratello dell’Osmin della Entfürung, ma anche una troppo patente infrazione al verbo illuminista dell’eguaglianza che l’intera opera così altamente proclama), bensì quello della veste: l’abito talare insomma, da quello dei Gesuiti su fino all’odiato, dispotico von Colloredo.

Libro interessante, dunque, questo di Maria Soresina, non fosse che per le curiosità culturali che stuzzica: come, per dirne una, quella dell’assurda scena 21 dell’Atto II. Assurda, dico, non in se stessa, che, anzi, per il ductus musicale «il terzetto è degno compagno dei migliori concertati drammatici di Mozart», come commenta, in modo sacrosanto, Hermann Abert (Mozart, Vol. 2,  La maturità, EST, Milano, 2000, pag.700). Assurda è invece, come alla stessa Soresina non sfugge, «l’incongruenza nella successione delle scene» che ne deriva, e che ha portato «spesso a spostare o addirittura eliminare questo brano»: il che fa, non ultimo, l’Ingmar Bergman di Trollflöjten, 1974 – a proposito, se avete la cassetta, o il DVD, vi consiglio di rivedervelo, è un vero piacere per occhi, orecchie, e cervello. Ma, con buona pace dell’Autrice, a cui «tutto risulta invece chiaro se si considera Pamina la parte spirituale  dell’anima» di Tamino, l’incongruenza rimane: sì che forse vale la pena di rileggere con un po’ più di attenzione un piccolo particolare citato proprio dall’Abert, il quale si lancia nelle lodi della splendida pagina mozartiana, ma non sembra accorgersi della sua flagrante assurdità drammaturgica: e sì che Mozart era uno che alla logica delle opere ci teneva! La soluzione potrebbe essere in ciò che Abert stesso riporta a pag. 681: nel 1802, dunque quando Mozart, ormai morto, non poteva far nulla per impedire manipolazioni della sua opera (per non dire degli autografi che la sprovveduta Konstanze si ingegnava a vendere a sempre più caro prezzo), Schikaneder annuncia di aver inserito nell’opera «due brani musicali composti da Mozart e lasciati a me solamente». Abert identifica il primo (una diversa versione del N. 7, duetto Papageno-Pamina) e conclude «dell’altro nulla sappiamo». Tutto si aggiusterebbe, probabilmente, se, invece di pensare a improbabili parti spirituali di alcunché, si ipotizzasse che questa pagina, del tutto fuori posto nell’attuale sceneggiatura de Il Flauto magico, rispecchi in realtà uno stadio intermedio della composizione: Schikaneder che potrebbe, appunto, aver conservato la pagina mozartiana non cantata finché l’opera fu diretta dall’autore, e alle sempre più trionfali repliche del 1791, deve essersi detto che la musica era toppo bella, per lasciarla nel cassetto e averla così inserita nella ripresa del 1802, per l’inaugurazione del nuovo Theater an der Wien, chiudendo non uno ma due occhi di fronte a ogni tipo di incongruenza, in nome della bellezza – questa sì, incontestabile! – della musica.

Si dirà che questi (chissà se poi mai fatti, nella fluviale bibliografia mozartiana!) sono voli di fantasia…
Ma che altro dovrebbero provocare, se no, i buoni libri?


(Maria Soresina, Mozart come Dante, Moretti e Vitali, Milano, 2011, pp.183, euro 15)

“Almanya” di Yasemin Samdereli

Almanya, della regista turco-tedesca Yasemin Samdereli, narra la storia di Husseyn Yilmaz e della sua famiglia, che negli anni ’60 ha abbandonato la Turchia per andare a lavorare in Germania. È l’epoca del boom economico e la Germania stessa tende a incentivare l’immigrazione dei turchi da impiegare come mano d’opera.

Dopo tanti anni trascorsi in Germania e ormai divenuto anziano, Husseyn è riescito a mettere da parte dei soldi e a comprare una casa nella propria patria di origine e propone alla moglie Fatma e al resto della famiglia di partire tutti insieme per trascorrere una vacanza in Turchia. Nonostante lo scetticismo iniziale, la famiglia decide di partire e, durante il viaggio, la nipote di Husseyn, Canan racconta al più giovane della famiglia, suo cugino Cenk, ansioso di conoscere meglio le proprie origini turche, la storia dei loro nonni: il loro incontro, il trasferimento in Germania del nonno e il successivo ricongiungimento con la famiglia che ha dato inizio alla loro nuova vita in una realtà completamente diversa dalla loro.

Almanya riprende un tema che è stato già affrontato in film come East is East e Un bacio appassionato, cioè l’integrazione in Europa di immigrati provenienti da paesi arabi, ma in questa commedia manca l’elemento di tensione fra le vecchie generazioni, ancora molto legate alle tradizioni, e le nuove, vissute da sempre in Occidente. Anzi il legame tra i componenti della famiglia di Husseyn è incentrato sull’affetto e la solidarietà reciproca, che nei momenti di difficoltà prevale sulla rabbia e le incomprensioni, fornendo, in tal modo, un’immagine meno stereotipata della comunità araba.

La commedia, più che soffermarsi sulle differenze culturali o sui problemi legati all’integrazione, vuole porre l’accento sul desiderio di Husseyn di non dimenticare le proprie radici, pur senza rinnegare le proprie scelte o disprezzare il Paese che lo ha ospitato. Questo desiderio lo accomuna al nipote Cenk che, essendo il più piccolo della famiglia, è quello che è stato meno influenzato dalla cultura turca ma, nonostante ciò, sente tale cultura come una parte di sé e della propria identità e desidera riappropriarsene.

“L’unico scrittore buono è quello morto” di Marco Rossari

C’era una volta un paese lontano, tra gli infissi dell’ultimo cielo. E lì viveva un omino, schiacciato dal peso di troppe parole, che per non soffocare doveva per forza appoggiarle su un foglio. Farle sgorgare per liberarsene un po’. Potrebbe essere un ottimo inizio, forse. Ma non è quello di questo libro.

L’ispettore si chinò sul cadavere. Lo vide straziato, come se ancora soffrisse, come se stesse tremando dell’ultima frase, dipinta sui muri, increspata nei biglietti che non spedì mai. Anche questo potrebbe convincere, sempre forse. E comunque non è il nostro caso.

E allora qual è il vero avvio? Come comincia la nostra storia?

Non è così facile rispondere. Perché nell’ultimo testo in uscita a gennaio di Marco Rossari L’unico scrittore buono è quello morto (Edizioni e/o, 2012), la trama è molteplice, rincorsa dai suoi doppi, stremata dai riflessi delle sue immagini, un minotauro di specchi come quello di Dürrenmatt.
L’autore ci prospetta mille scenari, versioni stridenti di un’unica voce: quella di chi scrive. Traccia per noi foreste di ipotesi paradossali, strampalate e cocenti.
Come sarebbe, ci/si domanda, se un ostinato produttore di righe e capitoli si vedesse respingere ogni romanzo, inviasse manoscritti a qualsiasi editore, brindando con sua moglie a una nuova stagione, per poi accorgersi che di fresco c’è solo una ruga e un corridoio d’attesa senza finestre?

E cosa accadrebbe se il frustrato in questione fosse James Joyce? Se il padre del flusso di coscienza fosse soltanto il figlio d’infinite sfortune, da trascinare con sé nella cieca corrente di pensieri già spenti?
Se fosse uno di noi, uno che prova e fallisce, che rimescola i suoi inchiostri e non fa mai centro?
Si tratta solo di mero talento o anche le epoche fabbricano i loro possibili eroi?

E poi piovono altri esempi. C’è un tale W.S. accusato di plagio, perché ciascuna delle sue opere richiama o risucchia qualcosa di precedente. Ed è reale, probabilmente, perché calpestiamo lo stesso terreno, perché gli umori dei giorni sono tramati dagli stessi conflitti, perché le vicende d’amore e di guerra finiscono col somigliarsi, anche oltre i secoli. Ma il merito e la virtù di chi le racconta è renderle uniche, non sole ma differenti, avvistabili a distanze millenarie. Battezzarle di bellezza, codificarle sotto altra lingua, pur se già accadute altre innumerevoli volte. «Metterci la poesia» , come aggiungerà William per discolparsi.
Perché il suo Romeo non è uguale a nessuno, ed è dentro ogni cuore sbucciato, in ogni sentimento che incontri un ostacolo, diverso ed eterno, come i versi che vincono il tempo.

C’è chi si perde nel mito di Kafka, dove ogni cosa assume il suo nome, dove città, fiumi e bordelli respirano l’identico suono di lui che ci visse e che fuggì. Una Praga bollata come “kafkania”, perché lo scrittore ridisegna le strade, tratteggia nel sogno le mappe di chi le attraversa, una topografia di stelle sempre aperte per chi guarda in alto. E poi sempre più in basso.

Grondano altre esistenze, vite più anonime e per questo assolute di scrittori che regrediscono, che dopo aver sfornato decine di successi disimparano se stessi, corrono a marcia indietro nell’emissione del linguaggio, decostruiscono periodi, arretrano a tal punto da farfugliare monosillabi, da arroccarsi nell’abbraccio della lallazione. Così tanto da non essere più degli scrittori, ma da poterlo diventare. Anche più di prima.
Ci sono quelli ormai circonfusi di un’aura di trionfo, quelli di moda, inseguiti da applausi voraci, qualsiasi cosa facciano, qualsiasi starnuto riescano a firmare, quelli che cercano il dissenso per sentirsi ancora vivi, per capire che il pubblico li ascolta davvero. E che s’imbattono sempre nella stessa reazione entusiasta, sordomuta e incrostata nel già letto e saputo.

Rossari esplora il parco polimorfo delle creature letterarie, le interminate varianti di artisti e il loro rapporto con la creazione, la gelosia verso il proprio frutto o l’ossessivo bisogno che venga assaggiato.
Accende il suo focus su quello che vuole sparire, eclissarsi dai propri lemmi come da un ruolo che affigge su carta, che impicca ai doveri dell’identità. Perché chi scrive esce allo scoperto, si marchia a fuoco e si fa riconoscere, anche se le sue battute sono in bocca a qualcun altro. Perché anche Tolstoj non può scampare a quello che affermano i suoi personaggi, come gli ricorda un intervistatore alla radio, in una delle puntate surreali di questa passeggiata.

Un affresco esilarante, una radiografia eccellente dello scheletro d’autore, con le sue ossa ritorte, le sue artrosi emotive, la paure osteoporotiche di essere ignorato o troppo compreso.
Un libro che chi legge userà da manuale per capire chi scrive. E che chi scrive non può non avere. Non fosse altro che per sentirsi nella sua stanza, circondato da un popolo di folli colleghi.


(Marco Rossari, L’unico scrittore buono è quello morto, Edizioni e/o, 2012, pp. 224, euro 16,50)

Il futuro dei Reader?

Proprio oggi, su Twitter, ho avuto uno scambio vedute circa l’esperienza di lettura su schermo retroilluminato e su schermo a inchiostro elettronico. Qual è la migliore? Quale stanca, invece, di più?
Sembra che la risposta a queste domande sia determinante, per molti, nella scelta di quale dispositivo acquistare per i propri eBook. Ovviamente, siamo qui per illustrarvi i pro e i contro di entrambe le tecnologie.

Schermi retroilluminati: si dia loro qualsiasi nome altisonante, che nasconda le più svariate tecnologie (LED, AMOLED, etc.), questi display non risolvono l’annoso problema dell’affaticamento oculare. Stare davanti al computer (in via ormai generale, si dice ancora così) stanca. E, per quanto ci siano in giro articoli e studi che dicano il contrario (usare un iPhone 4s avrebbe diminuito la presbiopia all’autore di questo articolo su Forbes), leggere su questo tipo di schermi può risultare scomodo, fastidioso, stancante. Bisognerebbe abituarsi a regolare la luminosità: alta non significa necessariamente migliore. È importante anche la risoluzione: la tecnologia sta pian piano raggiungendo quella della carta, ma la strada è potenzialmente lunga. Diciamo solamente che la differenza tra l’attuale iPad 2 e quello che forse sarà il Retina Display del futuro iPad 3 (ma sono solo rumours) dovrebbe farsi sentire non poco.

Schermi e-Ink: niente da dire, la leggibilità è migliore. È migliore nonostante il contrasto bianco/nero sappia di carta di giornale vecchia e sporca, nonostante non esistano colori e la scala di grigi porti soltanto al primo piano. Ma è migliore anche perché la risoluzione si avvicina già molto a quella della carta, quindi praticamente alla massima visibile dall’occhio umano. E soprattutto perché ripropone in maniera quasi ottimale l’esperienza di lettura su carta. La stessa esperienza del buon vecchio libro. Una tecnologia già perfetta di suo, come ci ricorda il prof. Eco.

E allora perché continuiamo a parlare di eBook, multimedia, ipertesto? Per lo stesso motivo per cui l’inchiostro elettronico offre, ad oggi, un’esperienza di lettura migliore dei display retroilluminati: perché i primi “copiano” la carta, e lo fanno bene, mentre i secondi hanno bisogno di un’iniezione di novità che ancora stentano a offrire in maniera completa e sistematica. Ripropongo, qui, il discorso sulla lettura digitale, la lettura a schermo: lo spazio della scrittura, come ci dice Jay David Bolter, varia del tutto dalla carta allo schermo, e non si può portare il contenuto dello spazio cartaceo nello spazio digitale senza stravolgerlo.

Per questo, oggi, e-Ink batte display. Per leggere un classicolibro, ovviamente.
E domani?

Mirasol, azienda di display, inizia a commercializzare i propri schermi e-Ink a colori. Abbiamo visto come al CES di Las Vegas, la scorsa settimana, sia stato presentato un prodotto di questo tipo: eReader a colori, con sistema operativo Android e la possibilità di avviare animazioni e contenuti video con la stessa fluidità di un display “normale”.
Analizziamo con cura cosa davvero rappresentano questi dispositivi, poi diremo quanto potrebbero cambiare in futuro le nostre abitudini.

C’è da dire innanzitutto che la tecnologia e-Ink di Mirasol è ancora molto giovane.
Il contrasto dei colori rimane abbastanza scarso: la pagina sembra sbiadita e, in un certo senso, sembra di avere ancora a che fare con una pubblicazione antica. Fatta salva la risoluzione delle immagini e dei testi, comunque ottima, lo scarso contrasto influisce non poco sulla qualità di quanto viene visualizzato dal lettore. Inoltre, la reattività dello schermo touch non sembra aver raggiunto, a giudicare dai video disponibili su YouTube, i livelli dei prodotti più diffusi (quelli di Apple e di Samsung su tutti) ma, in fondo, gli standard di qualità non sono così alti nemmeno tra i prodotti a cristalli liquidi di fascia media. Per ora, la reattività “vera” appartiene solamente ai grandi nomi (e neanche sempre, anche nella stessa azienda spesso la qualità delle tecnologie touch si differenzia in base alla fascia di prezzo). In ultimo, i tempi di refresh. Precisiamo: parlare di refresh è inesatto. In base alla tecnologia Mirasol, non è tutta la pagina che cambia, ma solo la parte interessata. In teoria, lo spostamento delle particelle che compongono lo schermo a inchiostro elettronico dovrebbe avvenire con una tale rapidità e fluidità da risultare invisibile e potenzialmente continuo. In questo modo è possibile vedere contenuti video e interagire con il libro. Ma questo refresh “ottimizzato” risulta, in verità, ancora un po’ scattoso, soprattutto nei video.

I margini di miglioramento sono ancora ampi, ma il salto da uno schermo e-Ink in bianco e nero a questo prodotto da Mirasol è veramente incredibile. La novità più interessante riguarda invece il sistema operativo.
Integrare Android, seppure nella versione 2.2 ora che la 4.0 è alle porte, significa portare gli eReader a livello dei tablet. Con le conseguenze che sono ovvie a tutti: da una parte il dominio incontrastato dei sistemi operativi mobili (iOS, Android, e il futuro Windows 8), dall’altro la definitiva apertura anche dei dispositivi oggi più limitati al mondo digitale, senza frontiere. Scroll, video, animazioni, interattività… user experience a 360 gradi su ogni dispositivo! E questa, una volta ottenuta, difficilmente lascia tornare indietro (in senso cronologico, non qualitativo – non giudichiamo mai il libro cartaceo come “peggiore” del libro elettronico, solo ontologicamentediverso).

Per il nostro discorso tutto ciò significa che anche i dispositivi a inchiostro elettronico si troveranno costretti ad abbandonare la metafora della carta, e a ripiegare su soluzioni differenti, più innovative, più digital-oriented, se mi si permette l’espressione. I tempi in cui l’eBook è solamente un adattamento del cartaceo stanno, forse, per finire. Quale sarà la tecnologia atta a farci visualizzare quello che verrà è tutto da vedere, sceglierà il mercato il nuovo standard.

Voi per chi fate il tifo?


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Inès de la Fressange e la sua “Guida allo chic”

Ok, il caso editoriale dell’anno (passato), nel suo genere (moda e costume) è sicuramente La parigina – Guida allo chic (L’Ippocampo, 2011) di Inès de la Fressange e Sophie Gachet, quest’ultima giornalista di moda di Elle Francia

Copertina di pelle rosso lacca, scritte corsive in oro e un’elegante firma in calce della stessa Inès; molti tra coloro che l’hanno acquistato non lo hanno fatto per leggerlo, ma per averlo: è un oggetto che chi si interessa di costume e di stile desidera possedere. La figura allungata di una donna in pantaloni e capelli al vento incisa sulla copertina vi obbliga a prendere dallo scaffale questo oggetto sublime. Da veri feticisti.

Spulciando il web e le varie riviste di settore di cui sono fornita, nessuno, che so’, nemmeno una signora in sovrappeso indispettita dalla silfide Inès, ha osato storcere anche di poco il naso leggendo la sua ultima fatica. Vediamo perché.

Chi è Inès de la Freissange? Ad oggi la definirei una post-model di 54 anni che lo scorso anno tornava a sfilare per Chanel e Jean Paul Gaultier, calcando le passerelle con la sua famosa falcata a X e i bronci che la resero la regina delle stesse negli anni ‘80, a soli vent’anni, quando Kaiser Karl Lagerfeld, per Chanel, la assunse a sua musa ispiratrice con un contratto di sette anni in esclusiva. Il perfido decise anche che Ines, che era tanto bella e rappresentava tanto bene la sua arte, poteva anche esprimere, a tratti, delle opinioni, da qui il soprannome “la mannequin qui parle”, la modella parlante (speriamo anche pensante!). La leggenda narra che però lei gli fece uno sgarro terribile: decise di prestare il suo volto per la Marianna di Francia. Kaiser Karl bollò questa scelta come iniziativa personale di tono rozzo e volgare, insomma, non in sintonia con l’esprit di Coco: il Kaiser «non veste le statue», quindi la licenziò e fecero la pace solo più di vent’anni dopo. Credo che il pianeta si sia ragionevolmente rassegnato a tale increscioso evento molto presto.

Come è arrivata Inès a parlare con e per Karl Lagerfeld? A essere definita una delle maggiore autorità al mondo in quanto a stile? A diventare ambasciatrice e manager per la boutique del lusso francese Roger Vivier? Be’, altri comuni mortali avrebbero fatto di certo più fatica.

Figlia del marchese André de Seignard de la Fressange e della modella argentina Cecilia Sánchez Cirez, Inès cresce appena fuori Parigi in un clima alto borghese e bohémien.
Sua nonna paterna, Madame Simone Jacquinot, era l’erede della grande banca Lazard: nella sua fatica letteraria precedente (Professione mannequin, Dalai, 2011), Inès esordisce infatti dicendo che a quattro anni la nonna le fece cucire su misura un pelliccia di ermellino e che passò l’infanzia e l’adolescenza a spulciare tra i sofisticati capi di alta moda di “nonnina” e “mammina”.
Certo, lei sostiene che era ricca e contornata dalla bellezza ma che i genitori non le davano affetto – sta cercando chiaramente di non farsi odiare.
Ci riuscirà? Un’ereditiera dell’alta finanza, dunque, di sangue blu, alta un metro e ottanta che a più di cinquant’anni sfila ancora per Chanel tenendo testa alle modelle russe quindicenni, che rifiuta il botox e a cui le rughe donano davvero. No, non ce la può fare, ci sta antipatica per forza.

E invece, basta guardare qualche sua immagine e soprattutto sfogliare questo libro e vi sembrerà, se non un’amica, un’amabile consigliera, nella maggior parte dei casi più bella e ricca di voi, certo, ma umana e non distante.
Inès de la Fressange è davvero un’icona dell’eleganza francese. A cinquantaquattro anni sembra una ragazzina, è sottile, elegante, ha una classe unica che oggi distilla in una guida allo chic à la parisienne, modello parigina.

Ma cosa avranno di tanto speciale queste parigine? La risposta è accennata nelle prime pagine di questa leggera guida, illustrata con 350 disegni della stessa autrice: «Non occorre essere nate a Parigi per avere uno stile da parigina. Avere l’aria “made in Paris” è un atteggiamento mentale».
Avendo vissuto a Parigi, posso dire che sì, le madames d’oltralpe hanno un’allure speciale e senza voler entrare nel merito del significato più stretto del termine chic, di certo si distinguono.

Inès ci dice che: «La parigina non cade mai nella trappola delle tendenze: la sua ricetta segreta sta nel lasciarle maturare e nel servirsene con discernimento. Senza perdere mai di vista il principale obiettivo, cioè quello di divertirsi con la moda». E questo mi piace, «divertirsi». La signora fa un’operazione rara nel mondo in cui si muove: gioca, sa che sta parlando di cose frivole, non le interessa peregrinare filosoficamente sul significato di chic o peggio ancora sul valore dell’estetica, vuole svelare al gentil sesso delle dritte che ha imparato da addetta ai lavori, con le quali sa divertirsi e che possono facilitare le operazioni di vestizione giornaliera di tutte le donne.

Apparentemente facile, ma davvero difficile da mettere in pratica senza conoscere i sei punti dello stile parigino (diciamo dello stile) e i sette capi classici di abbigliamento che non possono mai mancare nel nostro guardaroba: una giacca da uomo, un trench, un pullover blu marine, una canottiera, un tubino nero, dei jeans e un blouson di pelle. Il tutto dosato senza cadere nella trappola che differenzia la vera Parigina dalla non, ovvero essere bling. Mai avere un guardaroba carico di orpelli, marche in evidenza, stampe vistose, paillettes, animaletti, pupazzetti: bisogna imparare a eliminare, tenere solo l’indispensabile, pensare basico.

È necessario ricordarsi che il vero must è la sobrietà, trasgredire alla ferrea dieta solo con eventuali accessori scelti ad hoc.
Sobrietà, che termine meraviglioso! Credo che molti ne sentano finalmente un estremo bisogno.
Dagli abiti alle borse, dalle scarpe al trucco e alla cura del corpo, Inès ha il suggerimento probo per tutte le situazioni, cene di lavoro e primi appuntamenti compresi; quelle che cercano la soluzione giusta per un invito a cena, ma anche per chi vuole rivoluzionare la sua immagine seguendo un modello ben collaudato.

La parte migliore del libro è quella degli indirizzi utili in città, dove acquistare i capi di abbigliamento della parigina doc o dove scegliere il complemento d’arredo giusto per aggiungere un po’ di french style al vostro appartamento. Perché lo stile parigino si riflette anche nel modo di vivere la vita, nel savoir faire. È per questo che Inès ci suggerisce anche il modo giusto per vivere la città, frequentare librerie o scegliere il ristorante.

Ora, a me il libro è piaciuto, credo altresì che il suo vero punto di forza, al di là di essere davvero sfizioso e leggero (spesso non dice niente di assolutamente inedito, specie per chi ha coltivato un certo interesse per la letteratura di moda), sia il modo accattivante in cui si propone: è piacevole per chi già sapeva che le spalline del reggiseno in silicone in estate sotto i vestiti smanicati sono semplicemente orrende, ed è fondamentale per chi, povera lei, ha nel cassetto tale oggetto. Spero che con un po’ di vergogna se ne sbarazzi presto.

Credo che sia un testo, non me ne vogliano i veri etici, che in questo momento storico possa anche essere approcciato con un occhio alla crisi e al severo cambiamento epocale che stiamo vivendo.
Inès, infatti, per quasi tutto il libro ci propone di evitare di comprare, o comunque ci invita a comprare poco, less is more. Sono necessari pochi capi nell’armadio, poche borse, e se vogliamo spendere ci guida a Parigi per lo shopping più avveduto e di qualità.
Io ho trovato quella sezione deliziosa, sembra redatta con l’affetto di chi davvero vuole condividere un pezzetto del proprio vissuto.

Certo, non c’è una riflessione sul concetto di chic in sé. Il libro, come dicevo prima, non ha nessuna pretesa: da parte mia gli perdono una certa dose di buonismo, o di distrazione su alcuni dati del corpo femminile che potrebbero far cadere il suo teorema sui must have.

Cara Inès, vorrei dirle con affetto, la giacca da uomo con canotta maschile, scarpe All Star o ballerine, abbinata al mitico jeans bianco cinque tasche non sta bene proprio a tutte, non credo possa essere il “look vincente” sempre e comunque come lo definisce lei per ovvie ragioni di proporzioni, (la giacca da uomo dona a donne con spalle larghe, vita stretta e pochissimi fianchi, così come canotta, ballerine e le All Star, che insieme ai pantaloni chiari hanno il potere di abbassare e allargare drammaticamente ogni essere umano non sufficientemente sottile e slanciato). La perdono perché la credo candida: per nascita, natura e vocazione probabilmente si è trovata raramente a interrogarsi sui fisici di donne diverse da quelle che si muovono nel suo Pantheon di moda e stile. La perdono perché mi piace pensarla lì, ancora un po’ distante da tutto il resto, chic con sette cose nell’armadio e capace, nonostante tutto, di non esserci antipatica, bensì di grande aiuto. Chapeau.

“Elisabeth” di Paolo Sortino

Un mio amico col quale gioco sempre ai critici, in un continuo palleggio di opinioni e consigli letterari mi dice: «Dobbiamo leggere Elisabeth», evidentemente interessato dal dibattito “tutto elogi” sul romanzo di esordio di Paolo Sortino. Leggo Elisabeth, e mi piace. A ogni riga una intuizione poetica (ma nitida) mi convince di stare afferrando le intenzioni sostanziali del libro, di stare osservando da vicino l’animo del romanzo. Finalmente una storia che, pur essendo ispirata a fatti purtroppo realmente accaduti, non è tutta cose e niente idea, e, come se non bastasse, i personaggi sono veri davvero, sono veri nella realtà storica, ma sono anche veri perché impressi su carta, nella loro esatta e sconcertante umanità. Certo, nulla è lasciato al caso della foga artistica su questa studiatissima pagina, a tratti anche un po’ prevedibile, come annotato da Gilda Policastro su Alias. Eppure persino frasi come «vide una finestra disegnata col gesso sul muro ma non vi si affacciò», nella loro finezza lirica, sono “giuste”, perfettamente integrate nello spirito dello scritto, rispondono alle sue palesi ambizioni, e con grande efficacia, come deduco dall’impatto che esercitano sul mio “cinico cuore di pietra”.

Il libro narra l’orribile vicenda venuta alla luce qualche anno fa, in una cittadina austriaca: un maniaco sessuale, Josef Fitzl, aveva tenuto segregata la figlia Elisabeth per ventiquattro anni nel bunker antiatomico da lui costruito sotto alla casa in cui viveva con la moglie. Dalle continue violenze sessuali incestuose, nel corso degli anni di prigionia, erano nati sette figli (tanti quanti ne aveva avuti dal matrimonio legittimo); uno, morto poco dopo la nascita, era stato gettato nell’inceneritore dal padre-nonno, gli altri sono cresciuti per metà sotto terra e per metà in superficie grazie alla simulazione di un abbandono da parte della figlia fuggita di casa (ma in realtà, come sappiamo, sepolta viva insieme a tre dei figli avuti dal padre-mostro). L’orrore dei fatti è emerso inconfutabilmente quando una figlia, da sempre segregata insieme alla madre, è stata portata in ospedale in condizioni gravissime. Sortino ne ha fatto un bel libro.

Un libro molto lavorato, o almeno così sembra, e calibrato in ogni sua sequenza con grande attenzione, attraverso espedienti narrativi funzionali al mantenimento in vita di una vicenda che si svolge tutta in una stanza, o poco più. Come lettrice ne sono appagata. Man mano che leggo, però, comincio a respirare poco bene, apro e chiudo le finestre di casa, mi sposto dalla sedia al divano, dal divano al letto. Comprendo infine di sentirmi sotto terra anche io, insieme alla protagonista, pur essendo da lei radicalmente disgiunta quanto a empatia: io vorrei che lei lottasse contro il proprio tiranno, che lo assassinasse, o che si uccidesse per vendetta. Ma non è andata così.
L’intenzione di Sortino, come ha raccontato in un’intervista rilasciata alla Fiera di Torino, è quella di narrare la felicità a tutti i costi di un essere umano desideroso di vivere, pur nella riduzione al minimo dell’esistenza stessa. L’autore fa intendere che la “lezione” (termine che sicuramente gli dispiacerebbe) di questa narrazione sta nella comprensione della possibilità dell’essenziale, una specie di Piccolo Principe a tinte nere e rosso sangue. Va bene, è un’idea molto profonda, molto interessante e molto esatta per fotografare la vicenda. Però resta il fatto che da lettrice mi sento disturbata: chi devo incolpare? Lo scrittore? La mia suscettibilità? La fenomenologia della cronaca nera? La mia femminilità? (Oddio, no!) La colpa in fin dei conti è di un pazzo folgorato di nome Josef Fitzl, oggi rinchiuso in un carcere, secondo una specie di contrappasso dantesco.

Alcuni, come Raimo, hanno ritenuto eticamente discutibile il lanciarsi su una storia di cronaca per farne un romanzo, senza il permesso di chi ne è stato dolorosamente vittima. Il che non può che evocarci Capote, e tutto il resto. Ma propendiamo per una assoluzione, che è tanto maggiore quanto più pungente diventa il fastidio della lettura. Questa lettura, insomma, provoca nel suo pubblico una reazione, lo scuote, lo induce a interrogarsi, o anche solo a spazientirsi, e questo non è poco.
Vorrei terminarlo, questo romanzo, e quando lo faccio tiro un sospiro di sollievo, con un’espressione di dubbio sul volto comprendo che anche questo è adesione a ciò che si legge.
Se dovessi indicare che cosa ho apprezzato meno, punterei senz’altro il dito contro certi patetismi che riguardano il rapporto madre-figli – specie in quei dialoghi in cui Elisabeth tenta di spiegare ai propri bambini concetti della vita di fuori, mai sperimentata da loro – o contro una lieve semplificazione della maternità in cattività. Sono forse un po’ tagliate con l’accetta alcune sequenze: i salti temporali, per quanto indispensabili, provocano una rottura tra il momento dell’analisi microscopica, minuto per minuto, e l’avvicinamento a una desiderabile fine. 
Resta il fatto che questo è un bel romanzo e sapere che chi lo ha scritto è molto giovane ci rende tutti contenti, è l’ennesimo segnale che dalla nostra generazione sfigata, lobotomizzata dall’avvento informatico, affossata dalla crisi e dalla disoccupazione, compatita, schernita e autoridicolizzata, ogni tanto proviene una lodevole prova di abilità e di bellezza. Avanti così.


(Paolo Sortino, Elisabeth, Einaudi, 2011, pp. 216, euro 19,50)

“L’evoluzione di Bruno Littlemore” di Benjamin Hale

Manca poco. Meno di un soffio. O magari già si sfiorano e ancora non lo sanno. Due palmi si tendono, s’inarcano al vento. 
E poi s’allungano addosso alle crepe, alle spalle di un cielo già vecchio. Del primo cielo. Sono pronti. Solo un attimo e accenderanno ogni cosa. Perché quel tocco è l’interruttore. 

È tutta lì la Creazione di Adamo. In quello scarto, in quel piccolo spasmo tra la mano dell’uomo e quella di Dio. Intimamente vicini e così alieni. A un battito l’uno dall’altro. Eppure, sappiamo, semplicemente inconciliabili. E quella stessa immagine, “parafrasata” e rivisitata, ci svela il senso intero del primo libro di Benjamin Hale L’evoluzione di Bruno Littlemore (Ponte alle grazie, 2011).

Anche qui viaggiano due estremità, galleggiano insieme alla deriva del mondo: quella umana, più molle e impigrita, forse perché aspetta ancora le nuvole; e quella di Bruno. Che uomo non è. E cosa allora? Scimpanzé, almeno all’inizio. Nasce in uno zoo di Chicago, contornato da una famiglia perfettamente calata nel suo selvatico ruolo. Una madre passiva e accogliente, che lo allatta di silenzi o di versi inconsulti, che non si sforza di essere altro se non una bestia; un padre violento ed egoista, che consacra il suo tempo a spargere seme, accoppiandosi con qualunque creatura si pieghi al suo istinto; un fratello d’innocua pochezza e una sorella innocente, con cui contare le pulci e sorprendersi per ogni dettaglio. Ma Bruno non è come loro. Non sa attenersi a quell’esistenza così simile al nulla, senza tensioni, senza passioni, senza domande. E la prima ad accorgersene sarà proprio Lydia, primatologa dell’Università, che legge in lui un altro tremore, un’inclinazione fortissima verso i riti, i colori, i perimetri incerti del regno umano. Fin dai primi esperimenti il soggetto si rivela diverso da tutti gli altri. La scimmia osserva, interroga quella Babele di sguardi e di suoni che colano impazziti e si coagulano in grumi chiamati parole. E così individua il suo obiettivo: staccarsi dalla sua origine e intraprendere un nuovo cammino. Verso un’altra postura, un altro aspetto, verso uno specchio in cui riconoscersi.
Verso l’amore. Eh sì, perché l’animale sprofonda nella trappola più antica. Nella tagliola da cui nessuno sa mai liberarsi. Lydia lo impiglia senza saperlo, lo avvolge nel suo universo, nella sua casa affollata di mobili e rumori. E Bruno continua a cambiare, inarrestabile, modifica il suo volto, lascia piovere i peli fuori dal suo corpo, impara a vestirsi, a coprire di stoffa i suoi brividi. Ma arriva a un punto in cui deve fermarsi, quel limite infinitesimo tra sé e il suo traguardo. Che non potrà mai appartenergli del tutto. E proprio da lì, da quel posto scomodo e privilegiato, da quel limbo di pochi millimetri sull’uscio dell’uomo, Bruno, che ha scelto il cognome della donna amata, racconta la sua specie e poi la nostra, quella prossima e irraggiungibile. Le architetture della nostra follia, il nonsenso delle nostre espressioni, per cui latrare di notte insieme a un autistico diventa prezioso e stimolante, più di uno scambio accademico.

Hale ci regala un notevole esordio, costruisce un diario energico e completo, un’intervista in cui l’essere ambiguo snocciola ogni parte della sua vita. Con forza, ironia, una proprietà di linguaggio raffinata e competente, sradica i grandi temi della nostra evoluzione. Cosa ci ha indotto a essere umani, al di là delle altezze e delle strutture e cosa ancora ci trattiene, su quel filo sottile, a cercare di essere migliori.


(Benjamin Hale, L’evoluzione di Bruno Littlemore, trad. di Lorenza Di Lella e Sonia Scognamiglio, Ponte alle Grazie, 2011, pp. 558, euro 21)