Paolo Cognetti vincitore del Premio Strega 2017

Strega 2017: vince Paolo Cognetti

È Paolo Cognetti con il romanzo Le otto montagne, pubblicato da Einaudi, il vincitore del Premio Strega 2017. Lo scrittore milanese, classe 1978, si è aggiudicato il premio con 208 voti.

Autore di romanzi e racconti (è apparso anche nel numero sei di effe, con il racconto I lanciatori), Cognetti si era già aggiudicato nelle scorse settimane il Premio Strega Giovani ed è risultato vincitore anche del Premio Strega Off, l’edizione parallela novità di quest’anno assegnata con i voti di blog e riviste letterarie.

Dal palco del ninfeo di Villa Giulia, Paolo Cognetti ha voluto ringraziare minimum fax, la casa editrice che lo ha lanciato, oltre ovviamente a Einaudi, dedicando la vittoria ai suoi amici montanari e alla montagna. Per le edizioni torinesi si tratta della terza vittoria nelle ultime quattro edizioni (nel 2014 Francesco Piccolo con Il desiderio di essere come tutti, nel 2015 Nicola Lagioia con La ferocia, mentre nella passata edizione, vinta da Edoardo Albinati con La scuola cattolica per Rizzoli, hanno deciso di non partecipare).

Le otto montagne ha staccato di quasi novanta voti il secondo classificato, La più amata, di Teresa Ciabatti (Mondadori), da alcuni dato come grande favorito per questa edizione.

Ecco la classifica dei cinque finalisti:

• Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 208 voti
• Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, 119 voti
• Wanda Marasco, La compagnia delle anime finte, Neri Pozza, 87 voti
• Matteo Nucci, È giusto obbedire alla notte, Ponte alle Grazie, 79 voti
• Alberto Rollo, Un’educazione milanese, Manni, 52 voti

Questa settantunesima edizione del Premio Strega è stata la prima assegnata con i voti di una giuria allargata. Accanto ai tradizionali voti degli Amici della domenica, infatti, sono arrivati anche le arrivate anche le preferenze espresse dagli istituti di cultura italiana all’estero (con esclusioni importanti, come Parigi, Londra o New York) e quelle di librari indipendenti e di quindici circoli di lettura delle biblioteche di Roma.

 

Foto: Premio Strega @Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Dopo il tramonto

Della mia vita precedente ricordo soprattutto certe notti. In quel periodo abitavo in un appartamento dalle pareti sottili, in un condominio di periferia pieno di giovani rumorosi e coppie con figli. Nelle notti d’estate la gente chiacchierava fino a tardi, sui balconi o appoggiata ai davanzali delle finestre; le parole si sollevavano come volute di fumo, filtrando attraverso muri porosi come gesso. Sentivo quelle conversazioni come se fossero pronunciate da qualcuno seduto ai piedi del mio letto. Partecipavo, inevitabilmente. C’erano dichiarazioni d’amore toccanti, lacrime di furore e persino soliloqui imbarazzati. Nelle liti più accese distribuivo le colpe e, sdraiato nella penombra, prendevo le parti di chi mi sembrava nel giusto. Mia moglie non si è mai accorta di nulla: aveva il sonno pesante, lei, le sue palpebre erano gravi e carnose quando dormiva, due scuri serrati, e il respiro le scivolava giù fino in fondo al petto, talmente leggero da farsi impercettibile. Forse lei non respira, non respira affatto, mentre dorme.
Un mattino di settembre – aveva appena piovuto – mi sono svegliato con il braccio indolenzito. C’era un parco giochi malmesso davanti al mio palazzo, e avevo sognato di dondolare sull’altalena cigolante, di notte. L’aria era fredda e rarefatta, nel sogno, bianca come la luce della luna piena. Mi alzavo in piedi sull’altalena, come a volte facevo da piccolo per volteggiare trasportato da un surplus di eccitazione, ma scivolavo in continuazione e rimanevo appeso alle catene per non cadere. La spalla destra era dolorante, ma pensai di aver dormito in una posizione strana, e non ci avrei mai più pensato se due giorni dopo, appena sveglio, non mi fossi ritrovato un’evidente escoriazione sulla faccia.
«Che cavolo mi hai fatto?» Chiesi a Benedetta, uscendo dal bagno. Lei cacciò un urlo non appena mi vide.
«Che cavolo hai fatto?»
Nessuno dei due ne sapeva nulla. Mi medicai come meglio potevo e andai a lavorare. All’epoca ero dipendente di una concessionaria di auto usate e per un venditore un’abrasione di dieci centimetri sotto l’occhio sinistro non è un gran biglietto da visita, per cui mi relegarono in ufficio a gestire i passaggi di proprietà per i successivi dieci, noiosissimi giorni. Seguivo il viavai della clientela dalla porta a vetri della mia stanzetta (tutte pareti a vetri, in quel negozio, un presidio contro gli scansafatiche, una specie di rete a strascico in cui finivano intrappolati anche esemplari più o meno innocenti, uomini i cui corti calzini bianchi spuntavano da sotto la scrivania, o che avrebbero dovuto rinunciare al vizio di infilarsi le dita nel naso). Fu quando un collega tirò fuori la Cadillac Escalade per un test drive che mi tornò in mente il sogno. La Cadillac, un grosso Suv americano tanto potente quanto inutile, era un bestione invenduto, nero come un gatto nero: per quanto abbassassimo il prezzo non riuscivamo a vederlo sparire. Se ne stava al centro del garage come un grosso scarafaggio, un animale infestante fatto di lamiere a forma di senso di colpa, che accusava noi dipendenti di incapacità, non appena il capo metteva un piede nel negozio. La notte prima di svegliarmi sfigurato, avevo sognato di viaggiare sulla Escalade da solo, serpeggiando in discesa lungo una serie di tornanti. Dopo un paio di curve l’auto aveva iniziato a non rispondere più ai miei comandi: i freni funzionavano e la Cadillac era in grado di girare, solo che non ero più io a decidere cosa fare e quando farlo. L’Escalade scalava diligentemente prima delle curve e disegnava traiettorie perfette, ma il panico cresceva dentro di me metro dopo metro: fissavo il parabrezza con gli occhi spalancati e le mani alzate, come se fossi la vittima di una rapina. Percorremmo circa due chilometri poi la cintura di sicurezza si sganciò lasciandomi indifeso: l’auto inchiodò e io schizzai come il proiettile di una fionda sfondando il parabrezza. Mi ritrovai disteso sul cofano, disperatamente aggrappato al radiatore, mentre la Escalade riprendeva la sua corsa accelerando nella notte.
Le strade erano vuote di persone e di cose: niente auto, niente gatti, niente bidoni della spazzatura, solo la luce spettrale dei citofoni sui muri dei palazzi, e i bordi sbeccati dei marciapiedi. Gli oggetti arretravano per fare spazio al ruggito della Cadillac, o almeno questa era la mia impressione, e la città era diventata una conca abbastanza ampia da accogliere per intero il mio dilagante terrore. Al negozio teniamo sempre le auto lucide e incerate: non ricordo come fossi vestito ma so che i pantaloni che indossavo non facevano alcun attrito sulla carrozzeria dell’auto e venivo sbattuto da una parte all’altra. Mi ritrovai con i piedi precariamente appoggiati su uno dei fanali, finché non scivolarono entrambi e io con loro, riuscendo ad aggrapparmi solo al radiatore. L’asfalto correva veloce trenta centimetri sotto la mia schiena, e anche se avevo il viso rivolto verso il cielo ora ricordo la linea di mezzeria sfilare via rapidamente come se allora fossi in grado di vederla. L’auto, sadica, accelerò ancora, andò avanti a una velocità irreale per due o trecento metri e alla fine inchiodò. Io persi la presa, mi rigirai non so come nell’aria e atterrai di fronte all’auto strusciando il viso sull’asfalto.
«Che cazzo è successo, qui?» L’urlo mi strappò via da quei pensieri, o da quei sogni (non so bene, infatti, se stessi solo ripensando a quel sogno o se lo stessi sognando di nuovo). Mi feci sulla porta dell’ufficio, un’iniziativa velleitaria, considerando le pareti di vetro. Carlo era appena sceso dalla Cadillac, e si guardava intorno. È un fumatore incallito, ha le dita gialle di nicotina e la voce roca, per cui sarebbe stato difficile non accorgersi che era stato lui a parlare.
«Che cazzo è successo?» Ripeté. Rivolse lo sguardo verso noi colleghi, passandoci in rassegna mentre indicava il parabrezza frantumato della Escalade. Fecero tutti spallucce. Feci lo stesso anch’io, anche se un certo rossore mi salì alle guance. Un po’ me l’aspettavo, in realtà: avevo già capito com’è che andava la cosa.
Per i cinque o sei giorni successivi non accadde nulla, e cominciai a coricarmi più sereno dopo due o tre notti in cui mi ero infilato sotto le coperte come se partissi per un viaggio dalla destinazione ignota. Poi però fu la volta della paralisi: sognai di essere sdraiato sul divano della casa in cui abitavo da bambino. Ero in posizione supina, rigido come un morto eppure cosciente; riuscivo a muovere solo gli occhi, in su e in giù, per osservare le persone che sfilavano ai lati del divano gettandomi una rapida occhiata di curiosità o compassione, poi si affrettavano per uscire. Anche se non arrivavo a vederla (più che uscire quei muti visitatori si dissolvevano ai margini del mio campo visivo) ero certo che passassero attraverso la porta di legno chiaro che un tempo introduceva al salotto dei miei. Riuscii a distinguere il mio vecchio insegnante di pianoforte, con i denti gialli e il colorito canceroso; la prozia Eugenia a mani giunte; il garagista che aveva custodito l’Alfetta di mio padre; i miei compagni di classe in fila per due, nei loro grembiuli stirati, e ovviamente i miei genitori e i miei nonni, né sorridenti né tristi, e mio fratello maggiore ancora vivo nonostante due infarti. Passarono persone che non sapevo di conoscere, ma che evidentemente si nascondevano in un anfratto riposto della mia memoria, e personaggi inventati usciti fuori da libri e telefilm. Passò anche un bambino che avrebbe potuto essere mio figlio, se ne avessi avuto uno, o anche un altro me stesso riemerso dall’infanzia. Alla fine arrivò mia moglie. Era bella come quando l’avevo conosciuta, i capelli ricci che brillavano di una luce dorata: è come fissare il sole attraverso un barattolo di miele, le dicevo sempre. La prima volta che l’avevo vista aveva poco più di vent’anni. Era seduta con altre due ragazze di fronte a una fontana, in centro. Rideva. Non so se il suono che ricordo è quello della sua risata o il frastuono schiumoso dell’acqua alle spalle delle ragazze; sono suoni indistinguibili, nella mia memoria. Avrei voluto sedermi accanto a lei e non alzarmi mai più. Avrei voluto gettarmi ai suoi piedi e giurarle che non l’avrei lasciata. Avrei voluto che mi uccidesse per essere per sempre suo. Ero giovane. L’amico con cui mi trovato, Fausto, conosceva una delle ragazze che erano con lei, così ci presentammo. Da quel giorno iniziai a seguirla ovunque, cercando pretesti per passare sotto casa sua, trasalendo ogni volta che una ragazza con il suo stesso motorino mi passava davanti, fingendo di avere bisogno del suo parere (ma ne avevo bisogno davvero, e fingevo di fingere) e facendomi invitare ai compleanni di persone che detestavo, se sospettavo che lei fosse presente. Cercavo di forzare la sorte, per quanto possibile.
In quel periodo Benedetta studiava filosofia e collaborava con una piccola casa editrice. Definirlo un lavoro forse è troppo, ma era un’occupazione meravigliosa, dal mio punto di vista. La pagavano poco per affibbiare titoli efficaci a racconti e romanzi, in sostituzione di quelli spesso prolissi e poco incisivi che autori scapigliati e forforosi apponevano in cima ai loro manoscritti. Lei era bravissima. Ricordo Luna di sangue, Oblomov al canottaggio, I denti perfetti di Miss cagnolina, Esperanto sentimentale… L’ossessione per i titoli finì per condizionarla a tal punto che cominciò a dare un titolo a tutte le esperienze che viveva o che le venivano raccontate: quando si laureò, lei che si sottovalutava sempre, disse che quello sarebbe passato alla storia come Il trionfo della regina da un soldo; Fichi sott’olio era il resoconto di un mio incidente in motorino mentre da casa sua tornavo nell’appartamento dei miei; Salici di vetro raccontava una settimana di vacanza in montagna, Nervi di nylon e pelle di tamburo, invece, un concerto jazz all’Alexander Platz. Da conoscitrice esperta di titoli, aveva una sua personale classifica: adorava L’amore ai tempi del colera, anche se non aveva mai letto il libro, Il mondo come volontà e rappresentazione, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo. Ripeteva i suoi titoli preferiti a bassa voce, muovendo appena le labbra, seduta su una poltrona di velluto blu rivolta verso il muro, contro una parete bianca. La cosa cominciò a darle dipendenza. Trovare un titolo per ogni esperienza vissuta sembrava la soluzione più efficace per ovviare al caos dell’esistenza. Ogni evento in un segmento di tempo, ogni segmento con il suo cartellino: tutto era ben delimitato e circoscritto, senza possibilità di sconfinamenti. Quello che fino a poco prima era stato il regno di una sfrenata fantasia si tramutò nell’esatto contrario: una gabbia, una rete, la trappola di un sentiero già tracciato. Invece di dare un nome a ciò che accadeva, Benedetta finì per partorire titoli inventati di sana pianta, calandoli poi dall’alto sulla realtà: un gioco d’incastri dagli esiti discutibili. In quel periodo stavamo insieme da circa tre anni. Si era laureata e non aveva fatto nulla della sua laurea, così, invece di prendersela con sé stessa per come aveva impiegato il tempo, se la prese con il tempo che l’aveva ingannata. Partorì l’idea di scrivere un libro costituito solo da titoli: voleva essere un modo per dare un significato al lavoro degli ultimi anni, ma era solo un’altra maniera per limitarsi. A cosa serve un titolo se non intitola nulla? È un recinto intorno al vuoto. L’editore (il suo editore) rifiutò la proposta. Benedetta si licenziò, ammesso che ci si possa licenziare da qualcosa che non è propriamente un impiego; si tagliò i capelli all’altezza delle orecchie e cominciò a indossare orribili tailleur pantalone dai colori spettrali. Di lì a qualche mese trovò lavoro in un’agenzia immobiliare, ottenendo l’approvazione di suo padre e arrivando con il tempo a dirigere quella piccola azienda con l’attitudine manageriale e spigolosa che tutto di lei promanava d’improvviso.
Ecco perché mi stupì tanto vederla china su di me, mentre io rimanevo sdraiato sul divano in quel sogno che forse non era un sogno o forse sì: perché a tutti gli effetti Benedetta era quella di una volta. I capelli, gli occhi, le mani. Le labbra socchiuse mimavano un bacio, o forse dicevano qualcosa che non riuscivo a cogliere, nello stato comatoso di quella morte onirica. Una M, credo, una smorfia come per soffiare con la lingua tra i denti, poi ancora una M, un soffio e la lingua tra i denti, e poi ancora, di nuovo.
«Svegliati», sentii dire. Ma ero già sveglio. Le ossa mi facevano male e non riuscivo a muovermi; ero lì, disteso come una salma, prigioniero nella mia stessa pelle. Con enorme sforzo chiusi e riaprii le palpebre. Tutto intorno a me cominciò a fari sfocato, per poi riacquistare nitidezza secondo nuovi contorni: le pareti della casa dei miei genitori divennero quelle della mia camera da letto e i capelli di Benedetta tornarono all’altezza delle orecchie. «Svegliati», mi disse lei. Mi diede anche uno schiaffo. «Sono sveglio», risposi io tirandomi su dal letto. Mi massaggiavo la guancia colpita. Non ero sicuro di essere sveglio, in realtà. Erano poche, ormai, le cose su cui potevo fare affidamento.
Nelle notti successive feci sogni tempestosi. Credetti di essere orbo e lo fui, il giorno dopo, seppur brevemente. Cantai alla perfezione per quarantotto ore dopo aver recitato un’intera notte in I Troiani di Berlioz. Facevo anche sogni più prosaici, sogni – per esempio – in cui divoravo cipolle ritrovandomi da sveglio in preda all’alitosi. Poi le mie notti cominciarono a perdere consistenza, lasciavo il mio involucro carnale e acquistavo una consistenza altra: ero un anemone frusciante nel mare, il grasso nella gobba di un cammello, la scia tracciata da uno scafo sulla superficie dell’acqua. Di più: ero un’etimologia, il suggerimento sussurrato a un attore in teatro, una nota stonata o un fischio, il sibilo di una fiamma che brucia. E tale mi sentivo, per ore e ore, vibrando impercettibilmente dopo essermi lavato e vestito.
Non era solo la tangibile intensità dei miei sogni, a stupirmi, né la loro tendenza a invadere la veglia, ma anche il processo inverso per cui la realtà sembrava contaminata dall’illusione. Quando tornavo a casa dal lavoro, la sera, il cielo acquistava bizzarre sfumature. Strane creature gracchianti lo attraversano, mentre dal buio umido dei tombini che calpestavo mi spiavano sclere giallognole e luccicanti. La ruvida concretezza di quelle chimere e l’eterea intensità dei miei sogni erano pezzi di un puzzle perfettamente combacianti, ma la cerniera tra le due tessere era tutt’altro che netta: le immagini si muovevano dall’una all’altra parte, scavalcando un limite convenzionale e dunque vano.
«Devi farti vedere da qualcuno», mi disse una mattina Benedetta con il tono che usava per gestire i suoi dipendenti (non quello di chi ordina, ma quello di chi dispone: l’ordine lascia pur sempre un margine ai ribelli). Semiaddormentato, mi aveva trascinato dal letto in cucina, e seduto di fronte a lei, sbocconcellavo biscotti con gli occhi ancora polverosi di sonno. Era vestita e pettinata, pronta per andare in ufficio, ma doveva essersi ricavata un po’ di tempo per farmi un discorsetto.
«Guardare da chi?» Biascicai.
«Da un medico, da uno psichiatra, non lo so… Da qualcuno che ti possa guarire».
«Non sono sicuro di essere malato». Afferrai un altro biscotto. Benedetta pensava che fossi sonnambulo, o per lo meno che nelle mie notti agitate fossi così confuso da compiere atti di autolesionismo, mentre lei dormiva protetta dalle sua palpebre carnose. La fatica di quei sogni spiegava, secondo lei, le visioni che mi turbavano da sveglio. Era una teoria come un’altra. Afferrai un altro biscotto.
«Vuoi andare avanti così? Vuoi vivere una vita così come… come un pazzo?»
Lei cominciava a irritarsi e perse completamente le staffe quando improvvisamente scoppiai a ridere. Il fatto è che i denti avevano iniziato a caderle via dalla bocca, uno dopo l’altro. Prima l’incisivo centrale destro, poi il canino sinistro, poi quelli anteriori dell’arcata in basso, e via via gli altri, molari compresi. In pochi minuti le labbra le si arricciarono sulla bocca svuotata.
«Ti stanno cadendo tutti i denti», le dissi per rispondere al suo stupore.
«Sei pazzo!», urlò alzandosi.
«E tu sei vecchia», risposi io ridendo più forte, ma poi cercai di calmarla in qualche modo: «È solo un sogno», le dissi. Questo non la calmò.
«Non hai più limiti», urlò, «non vedi più il limite».
I denti ricominciarono a spuntarle nella bocca, ma questo non bastò per farla sembrare meno vecchia e iniziai a provare pena per lei. Mi vennero in mente le notti in cui, anni prima, si era sistemata a cavalcioni su di me, pelle contro pelle, strusciando i suoi fianchi sui miei nel tentativo di rimanere incinta. Non ci riuscì. Non ci riuscimmo. Lasciai perdere la colazione e mi avvicinai; le feci una carezza, ma lei si scansò, come se in quelle circostanze lo ritenesse un gesto inopportuno. Passai il resto della giornata con il magone, ignorando la bufera che imperversò sulla città fino a sera. Un vento feroce trascinò sull’asfalto i platani, riempì le strade d’acqua melmosa, scoperchiò le case, strappò uomini e cose al dominio della terra, facendoli roteare come stracci di tela nel cielo incupito dalla pioggia. Arrivai a casa fradicio e distrutto. Benedetta dormiva già, il respiro leggero leggero, come sempre, quasi impercettibile. Mi sedetti sul letto accanto a lei, accarezzandole i capelli. Dormiva supina, le braccia sopra la testa come fanno i neonati; gli occhi si muovevano freneticamente sotto le palpebre spesse. Adesso mi sembrava già vecchia e ancora giovane a un tempo. Forse era vero che avevo perso la capacità di individuare i confini che separavano le cose. Avrei voluto svegliarla e chiederle di spogliarsi, salire ancora a cavalcioni sopra di me, strusciare la sua pelle sulla mia, ruotare gli occhi indietro, graffiarmi i muscoli del petto, invece non feci altro che sdraiarmi su di lei, la mia pancia sulla sua, stringendola forte con le braccia mentre la sentivo mugolare e contorcersi. Mi addormentai così e trascorsi la prima notte senza sogni dopo tanto tempo.
Quando mi svegliai Benedetta dormiva ancora, il fiato giù in gola come se non respirasse affatto. Dormiva anche quando tornai dal lavoro. C’erano due poliziotti accanto al letto, un medico legale e tre uomini in tuta arancione. Gli agenti mi misero le manette ai polsi e mi portarono via. Passai un periodo indefinibile in una cella le cui pareti si scioglievano ogni notte, colando su loro stesse come muri di fango. Quando il legale che mi assisteva chiese l’infermità mentale mi opposi urlando in mezzo all’aula che ero sanissimo; la cosa, scoprii più tardi, ottenne l’effetto opposto a quello che speravo, spingendo il giudice ad accettare l’istanza.
Ora vivo in una clinica di campagna. È una villa dalle pareti bianche dove gli infermieri si muovono lenti, a passi felpati. Tutti parlano a voce bassa, come se i suoni fossero lame capaci di ferire. Si sta bene, se si riesce a sopportare la noia: sembra di essere rimasti intrappolati in uno di quegli interminabili pomeriggi invernali che si passano in casa sbuffando, con la testa pesante. Io trascorro il tempo in giardino, osservando l’acqua ferma del lago che si stende lucente di fronte alla villa. Gli infermieri mi dicono che non devo oltrepassare il recinto tra il cortile e la spiaggetta, ma io questo confine non sono ancora riuscito a individuarlo. Comincio a pensare che sia proprio per questo che mi sono messo nei pasticci, perché non ho mai saputo riconoscere la differenza tra le cose: la vita e la morte, il prima e il dopo, il possibile e ciò che possibile non è. Spero di rivedere mia moglie, un giorno, ma so anche che non la rivedrò mai più: sono pensieri che si muovono indipendenti nella mia testa, ma quando si incontrano stridono come il gesso sulla lavagna, e rischiano di farmi impazzire sul serio. Strizzo gli occhi e mi tocco le tempie, allora, e mi sistemo sulla sdraio proprio davanti al lago. Porto scarpe bianche, senza lacci. Le sfilo e cerco di concentrarmi sull’acqua che si increspa. In pochi minuti sono di nuovo io, e sento di star bene. Mostri marini si sollevano dal lago, fissandomi con occhi come biglie di vetro. Forse si chiedono se esisto davvero.

 

 

Federico Leoni è nato a Roma nel 1977. Giornalista, è caporedattore di Sky Tg24. Collabora con periodici e siti web di cultura e informazione. Nel 2008 ha pubblicato con Utet John McCain. Tutte le guerre di Maverick. Nel 2013 è uscito il suo primo romanzo, Starry Night (Ensemble).

Poster italiano di Fantozzi su Flanerí

L’incredibile Ugo

La scomparsa di Paolo Villaggio dello scorso 3 luglio lascia la cultura italiana orfana di una delle sue più riuscite incarnazioni. Il ragionier Ugo Fantozzi, creatura letteraria e cinematografica dell’attore genovese, è stata una delle più grandi rappresentazioni del Paese di tutti i tempi, capace di ridefinire l’immaginario collettivo come uno specchio deformante, spietato e quanto mai veritiero.

Nei vari ricordi di Villaggio che hanno invaso nelle ultime ore social network, giornali e tv, si ricorda anche l’attore che ha lavorato con Monicelli, Fellini, Olmi, Ferreri, i premi, l’amicizia con De André. Come se il solo Fantozzi non fosse sufficiente a dare dignità alla memoria, come se la miriade di dettagli della serie – il tono tragico della voce fuori campo, i congiuntivi stravolti, gli accenti svedesi – entrati nel linguaggio di tutti i giorni non fossero sufficienti a sancirne lo status di grandissimo.

Che Fantozzi sia stato quanto di più italiano ci sia mai stato in Italia è sotto gli occhi tutti. Il servilismo, la vigliaccheria, la deferenza nei confronti del potere sono le caratteristiche che hanno reso il ragionier Ugo il prototipo dell’italiano. Fantozzi è la cultura popolare italiana nella sua forma più pura, l’immagine esatta del paese a cavallo tra gli anni Sessanta e gli Ottanta.

Fedele al ruolo di anti-intellettuale che ha sempre rivendicato per sé, Villaggio ha creato un prodotto culturale di massa che più di qualsiasi altro tentativo più alto è riuscito a raccontare la nazione.

Quando Paolo Villaggio fece nascere il proprio personaggio alla fine degli anni Sessanta, raccontandone le peripezie in una rubrica fissa sul settimanale L’Europeo prima e nei libri poi, probabilmente non immaginava fino in fondo il livello iconico che la sua creazione avrebbe raggiunto. Fantozzi si è imposto nell’arco di un decennio come l’archetipo della classe media nazionale per poi rimanere tra le maschere eterne della cultura popolare. Vittima designata del potere, dei colleghi e di se stesso, il ragioniere è diventato sinonimo di sfiga, vigliaccheria, ingiustizie, sofferenza e nonostante tutto dignità.

È Fantozzi stesso a dare la migliore descrizione possibile di sé in Fantozzi contro tutti (1980, terzo film della serie, l’unico co-diretto da Villaggio insieme a Neri Parenti). Parlando con la moglie Pina dopo l’ennesima ingiustizia subita si definisce «indistruttibile». «Perché io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande perditore di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto – dico otto! – campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d’acquisto della lira, fiducia in chi mi governa. E la testa per un mostr… per una donna come te». In questa frase è sintetizzata l’essenza del simbolo fantozziano, agli antipodi rispetto a quello incarnato da Alberto Sordi, dell’arrogante e pavido, disposto a tutto pur di arrivare a una qualche forma di successo. Fantozzi sogna una vita appena migliore della sua. Si innamora della signorina Silvani, chimera raggiungibilissima, invidia il viscido Calboni più di quanto invidi i mega-direttori galattici. Ambisce a scalare un paio di gradini della scala sociale, al massimo, senza neanche osare di desiderarne la cima. Rivendica l’enormità della sua dignità media, della sua vita qualunque.

Lo sfruttamento cinematografico dell’idea di partenza, spinto fino all’abuso, ha indebolito pesantemente l’originale carica di ferocia nel ritratto della società italiana della rubrica de L’Europeo. La satira sociale ha lasciato spazio a una comicità ripetitiva, elementare, a tratti volgare. Il personaggio, però, ha continuato a proporsi come un esempio di sintesi critica sociologica e antropologica dell’italiano. Nessuno è mai più riuscito a raggiungere una simile perfezione sintetica in una rappresentazione comica. Chi ci ha provato in tempi recenti – vengono in mente Cetto Laqualunque di Antonio Albanese e il Checco Zalone cinematografico, più di quello televisivo, di Luca Medici – non è mai riuscito a trovare il giusto equilibrio tra comicità e disperazione, tra realismo e surrealismo.

Fantozzi è la vittima designata del potere, pronto a riconoscere l’umanità del proprio carnefice anche durante le sofferenze per timore delle reazioni. Accetta ogni umiliazione solo per poter continuare la sua semplice vita fatta di poche certezze. E quando reagisce, sa già di andare incontro a una soddisfazione effimera e a una severa punizione. Sa che a 92 minuti di applausi seguiranno sempre le ripercussioni. La gloria è breve, la punizione eterna.

Qualche anno fa – era il 2009 – Paolo Villaggio resuscitò sulla carta il suo ragioniere per una rubrica fissa sul quotidiano L’Unità. Fantozzi tornava a parlare in una società cambiata, con altri valori, altri punti di riferimento, altre paure. Villaggio stesso era molto cambiato, sempre più cinico, cupo, oscuro. Quando Villaggio lo inventò, Fantozzi tifava Inter (erano gli anni delle vittorie in Europa, nei film tiferà sempre Italia e guarderà le partite internazionali del Milan) ed era, apparentemente, democristiano. Nel segreto dell’urna, però, votava PCI, perchè i comunisti garantivano il posto fisso, l’incarico statale a vita, l’impossibilità del licenziamento. La presa di coscienza politica passa per il collega Folagra – il compagno Folagra – e ovviamente ha conseguenze drammatiche. La ricerca di un’identità ideologica sarà costante nell’evoluzione del personaggio, sempre pronto a credere alle promesse dei candidati. Il Fantozzi dell’Unità era leghista, infatti, di quella Lega che in quegli anni aveva ormai abbandonato le istanze secessioniste per avvicinarsi alla versione attuale di nazionalismo razzista e xenofobo. In linea con il suo livello culturale medio-basso, dichiarava Villaggio a un quanto meno confuso Borghezio durante un’apparizione televisiva, Fantozzi trovava nella Lega di allora chi potesse parlare dei suoi bisogni. Fantozzi era diventato della Lega perché l’italiano medio, in fondo, era leghista, a qualsiasi latitudine. Contro l’immigrazione, contro Roma Ladrona che spreca e consuma, a favore di punizioni violente per stupratori e pedofili, pensa a se stesso, al proprio territorio, alla propria città, quando va bene, prima che all’intera nazione. È incline a seguire chi grida più forte, chi è più simile a sè, chi parla più semplicemente. Ha paura del mondo al di fuori delle proprie certezze, non capisce la globalizzazione, l’economia internazionale e le oscillazioni del prezzo del petrolio. Oggi, probabilmente, Fantozzi voterebbe MoVimento Cinque Stelle e pubblicherebbe false notizie su Facebook, pronto a indignarsi senza capire fino in fondo.

Il Fantozzi di oggi starebbe antipatico a molti, probabilmente, sempre vittima ma animato da quel generico fascismo che sembra proprio delle nuove classi medie. L’Italia è cambiata, cambierebbe anche Fantozzi. Per fortuna la versione leghista del ragioniere è stata dimenticata in fretta e l’immagine è rimasta quella solita, con la moglie Pina, la figlia Mariangela e il pigiamone di flanella.

“Stamattina stasera troppo presto”
di James Baldwin

«Non aveva importanza quel che facevo o dicevo o sentivo: un occhio lo tenevo sempre risvolto al mondo… quel mondo di cui avevo imparato a diffidare quasi ancor prima di imparare come mi chiamassi, quel mondo a cui, sapevo bene, non era possibile volgere le spalle, il mondo dei bianchi».

Per James Baldwin (1924 – 1987), il più famoso autore di colore della sua generazione e portavoce delle rivendicazioni di rispetto e dignità degli afroamericani, il mondo nero non è soltanto il negativo della gente che si crede privilegiata e superiore perché bianca, è anche l’unico modo per giustificare il potere dell’“America bianca” che si esercita, ora come allora, tramite un dominio diretto (il linciaggio) o indiretto, più sottile (la discriminazione).

This Morning, This Evening, So Soon, magistralmente tradotto in italiano da Luigi Ballerini (Stamattina stasera troppo presto) per la piccola casa editrice romana Racconti Edizioni (2016), è una raccolta di racconti che brillano per la sottile osservazione della realtà, la fine introspezione dei personaggi e per i dialoghi meravigliosi. Ognuno ha la sua personale evoluzione, involuzione o regressione. Ognuno indugia nel dedalo del proprio labirinto. Ognuno ha fissazioni innocue ma micidiali perché ne limitano la libertà.

Un senso di vertigine ci coglie di fronte a storie che non iniziano ma piuttosto ti strattonato per un braccio, ti buttano in mezzo a una rissa, tra fanatici religiosi in gita o fra gli afrori della stalla di un agricoltore, tra le luci di Parigi o New York. Raramente ci si imbatte in qualcosa di così esatto sulla vita, sull’amore e sulla sconfitta. La scrittura scorrevole e rotonda, imperturbabile e sincera di Baldwin si rivela un buon conduttore di idee, ritratti di persone e fatti. Anche quando nell’ultimo racconto abbandona la prospettiva afrocentrica per assumere quella di un bambino bianco il cui padre lo fa assistere all’impiccagione e tortura di un nero, reo di aver molestato una donna bianca, la tenuta è impeccabile. Il piccolo osserva attonito di fronte a quel corpo così diverso che suscita ripulsa e attrazione.

L’atroce scena richiama alla memoria le pagine di Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates, pagine piene di corpi neri, brutalizzati o uccisi dalla polizia. Tutti ricordiamo l’insurrezione della comunità nera di Ferguson all’indomani dell’assoluzione per legittima difesa dell’agente Darren Wilson, che il 9 agosto freddò a colpi d’arma da fuoco il diciottenne afroamericano Micheal Brown.

A essere segregati e colpiti sono dunque corpi, non persone. È una battaglia che si fonda su qualcosa di profondo e indelebile: la pelle, il sangue.

Quando, come e perché l’Africa è stata ridotta dall’Europa e dagli Stati Uniti a uno stato di sottosviluppo? Dopo la tratta degli schiavi cosa spinse molti africani a una fuga impazzita dal loro passato per buttarsi fra le braccia dell’America?

La risposta di un paese così civilizzato è stata non l’accoglienza ma la ghettizzazione, non l’uguaglianza dei diritti ma la sottomissione. Eppure nel quartiere newyorchese di Harlem, il quartiere nero per eccellenza della Grande Mela, sopravvive la parte più pulsante e viva della cultura afroamericana. L’autore descrive questa umanità con l’aggressività che si può permettere solo chi la ama disperatamente anche con i suoi difetti.

 

(James Baldwin, Stamattina stasera troppo presto, trad. di Luigi Ballerini, Racconti Edizioni, 2016, pp. 281, euro 16)

“Morte ai vecchi”
di Franco «Bifo» Berardi e Massimiliano Geraci

I giovani hanno iniziato a uccidere le persone anziane. Puro e semplice. Nella maniera più efferata e – a quanto pare – calcolata possibile. Omicidi come fenomeno virale sui social, un ben congeniato sterminio senile per mano degli adolescenti. Morte ai vecchi (Baldini&Castoldi, 2016) inizia così, nella maniera più violenta. Il professor Vitale assiste all’esecuzione del bidello della sua scuola e della coniuge per mano di uno sciame senza scrupoli di teenager. Mancano le precise coordinate spazio-temporali, però riusciamo a capire immediatamente come questo tempo non sia tanto lontano dal nostro. Le giovani generazioni svuotate, disilluse e in rivolata contro questi vecchi in perfetta salute che non cedono di un passo e non permettono la loro ascesa sono l’estremizzazione di un conflitto che ha i semi nella nostra contemporaneità. A scuotere ulteriormente il già precario equilibrio del nostro professore si aggiungono una vecchia fiamma appena tornata dal passato e il fidanzato della figlia suicida che continua a volersi mettere in contatto con lui. Che le cose siano collegate tra loro?

Poi appare Alex Turri, giornalista. Scaltro nel fiutare gli omicidi dei vecchi come tramite per la tanto ricercata fama. Sì, ci sono dei rischi, ma Turri è disposto a tutto per di emergere. Questi sono solo alcuni dei protagonisti di Morte ai vecchi, le loro non sono le uniche voci presenti nel romanzo: la scrittura è corale e presenta a ogni capitolo (non numerato, ma munito di nome proprio) i tormentati pensieri dei personaggi chiamati in causa, soprattutto quelli dei giovani killer. Cosa c’è nella loro testa? Cosa riempie le loro giornate? Di cosa vivono oltre il sesso promiscuo, i farmaci, i lutti, le fobie e la darknet?

Altra protagonista del romanzo è la musica. Sfogliando le pagine del libro gli autori ci suggeriscono la – pregevole – colonna sonora ideale dell’opera, che va dagli Autechre ai Death in Vegas.

La prosa scelta da Franco «Bifo» Berardi e Massimiliano Geraci è poetica e poi iperviolenta, alterna chattate a poesie. Il primo autore è noto per la pubblicazione dei saggi Mutazione e Cyberpunk, Ciberofilosofia e Heros. Suicidio e omidicio di massa e per la creazione di Radio Alice e della rivista A/traverso. Massimiliano Geraci, per anni dietro al periodico Cyberpunk e autore presso svariate riviste culturali, è un esperto di cultura psichedelica e Pop Surrealism. Un’affinità elettiva sfociata in Morte ai vecchi. Le due anime degli autori appaiono ben distinte ma sapientemente accoppiate nel creare un’intensa opera in cui l’intreccio thriller confluisce nella più attenta critica alla società: la scuola è vuota e passiva, i giovani sono lontani dai vecchi, visti come qualcosa di inutile e lontano da estirpare e basta. Il tragico futuro a cui stiamo andando incontro è alle porte: bisogna fare qualcosa il prima possibile. In questa guerra tra generazioni c’è una variabile discriminante: KapSoul. Non è una applicazione e nemmeno un rapper: è uno psicofarmaco dalla Inside Corporation, un’azienda farmaceutica con alcune attività parallele a dir poco misteriose. Indovinate dove lavorava la figlia (e il suo fidanzato) del professor Vitale?

Morte ai vecchi appassiona e fa riflettere: è già in circolo un farmaco capace di annientare l’empatia dei giovani? Se invece di una pillola fossero l’attuale stato della società, la piega che hanno preso i rapporti tra padri e figli a distruggere le cose? Il romanzo offre poco a poco le sue risposte: sta al lettore sceglierle e muoversi di conseguenza.

 

(Franco «Bifo» Berardi e Massimiliano Geraci, Morte ai vecchi, Baldini & Castaldi, 2016, pp. 368, euro 16)

“Un’educazione milanese”
di Alberto Rollo

Stando alla vulgata, ogni editor ha il recondito desiderio di assurgere a scrittore affermato. Ed è forse questa la sfida che ha voluto affrontare l’attuale direttore editoriale di Baldini&Castoldi, Alberto Rollo, pubblicando Un’educazione milanese (Manni, 2016). Se l’abbia vinta o no, non spetta a chi scrive stabilirlo. Ma il fatto che sia uscito vincitore del Premio Alvaro-Bigiaretti e sia stato ammesso nella cinquina dei finalisti del Premio Strega 2017 la dice lunga.

Chi non abita e non conosce Milano potrebbe trovarsi spaesato leggendo in apertura del romanzo una descrizione piuttosto meticolosa della città, con vie, ponti e paesaggi industriali, tanto da giudicare il testo faticoso, essere indotto a chiudere il libro e dimenticarlo su uno scaffale. La tentazione c’è, inutile negarlo; ma fatto lo sforzo, dal capitolo successivo la narrazione prosegue limpida, piana, coinvolgente, rendendo con vividezza tutti quei luoghi incastonati nella memoria dell’autore. Milano è d’altronde non solo lo sfondo delle vicende, ma una dei protagonisti, una città «difficile a dirsi», che si scopre «camminando. Ho fatto camminate estenuanti. Chilometri e chilometri con il semplice intento di vedere». Piazze e vie di una città che dagli anni del boom non ha fatto altro che espandersi.

Nella sua autobiografia, Rollo ripercorre le tappe della sua formazione: dall’«educazione milanese operaia» che riceve in una famiglia emigrata dalla Puglia, e stabilitasi dapprima in via Grigna e poi in via Mac Mahon, ai primi amori e alle gite con gli amici, dalle manifestazioni che attraversano la città meneghina alle trasformazioni in senso industriale che la coinvolgono e che ne mutano incondizionatamente la fisionomia, dai maestri che hanno influenzato il suo percorso di crescita (Franco Fortini, per esempio) al credo comunista professato in famiglia. Un’educazione che inizia nell’officina del padre e si chiude con la morte di un caro amico, con cui «cominciò a morire anche tanto di quel tempo in cui ero cresciuto, dentro il quale avevo messo a dimora la promessa delle promesse: quella di cambiare il mondo».

Quello che Alberto Rollo ci ha lasciato non è il susseguirsi sterile degli avvenimenti succeduti a un uomo che per qualche motivo decide di raccontarle, anzi: da queste pagine traspare l’amore e il legame con una città, la difficoltà di definire chi siamo a causa delle numerose ideologie e posizioni che ci bombardano e influenzano sin dall’infanzia, la capacità di stabilire la nostra identità in relazione allo spazio che abitiamo.

Un’esperienza che va per forza percorsa a ritroso perché «il presente non basta. Nel presente si perde il privilegio della prospettiva, nel presente si perdono amici senza sapere perché li perdiamo, nel presente riusciamo appena a raccontarci che cosa ci fa male».

 

(Alberto Rollo, Un’educazione milanese, Manni, 2016, pp. 320, euro 16)

“Crak-Up”
dei Fleet Foxes

Se pensavate che Father John Misty, ex J. Tillman, fosse l’unico membro tormentato dei Fleex Foxes, avevate sottovalutato le Volpi di Phoenix. Se pensavate che i Fleet Foxes non sarebbero sopravvissuti alla svolta accademica di Robin Pecknold, beh, vi eravate sbagliati di nuovo. Tra ritorni alla Columbia University, progetti artistici indipendenti e silenzio stampa di ben sei anni proprio all’apice del successo, i Fleet Foxes hanno fatto ritorno negli studi della SubPop sfornando uno degli album più ingarbugliati e cervellotici che sentirete quest’estate, Crack-Up.

Benché l’amore di Pecknold e Skyler Skjelset (i due fondatori della band) per Crosby, Stills & Nash (& Young) non sia stato pulito via del tutto dalle armonie e dalle atmosfere, l’effetto finale del lavoro è diverso dal rassicurante Best Folk Album 2012, Helplessness Blues. Non che il precedente lavoro spiccasse davvero per immediatezza, ma con Crak-Up sembra di trovarsi di fronte più a un progetto sperimentale di un PhD che a un disco concept neofolk e neohippie lavorato a puntino- come era successo invece con i tre precedenti, EP compreso. Già il titolo dell’album, ripreso da una raccolta di saggi di Francis Scott Fitzgerald, non promette hit estive da bagnasciuga – a loro rischio e pericolo. La radicalizzazione, in Crack-Up, dell’onirismo tipicamente fleexfoxiano spalanca le porte di ciascuna delle undici tracce e dilata le tempistiche dei brani: il risultato è un lungo trip omerico fatto di intrecci strumentali e vocalismi sirenici.

Per chiudere l’ascolto ci vuole, però, una bella dose di pazienza, oltre a un bagaglio pregresso di fiducia verso un gruppo che, sicuramente, la musica la sa comporre. Dopo il titolo Crak-Up, anche “I Am All That I Need/ Arroyo Seco/ Thumbprint Scar”, brano di sei minuti e mezzo che apre l’album, è tutto un programma di intenti. E giù via per i richiami marini di “Cassius,-”, gli arpeggi di “Kept Woman”, e per la preferita di Father John, “I Should See Memphis” , che insieme a “If You Need to, Keep Time On Me” è forse una delle tracce più vicine al modo di fare dei Fleet Foxes.
Al centro del disco esplode uno dei brani migliori, “Third Of May/ Odaigahara”, dedicato al co-fondatore Skjelset (nato il tre maggio), con i bassi protagonisti quasi quanto le imprescindibili architetture acustiche.

Accenni di mandolino e di tamburello tra gli ampi spazi delle orchestrate tentano di smarrire chi ascolta, e forse a volte ci riescono.  Ma nonostante tutto, vagare confusi tra le arie di Crack-Up può rivelarsi interessante. Lo sarà, quantomeno, per quegli irriducibili che cercano qualcosa di concettuale anche con trentacinque gradi all’ombra.

(Crack-Up, Fleet Foxes, New Folk)

“Kobane calling”
di Zerocalcare

Rebibbia è fin qui stato il Mondo. Il solo Mondo. E fuori da quelle coordinate la parola perdeva mordente e significato. Ma a Kobane c’è veramente tutto il Mondo perché si sa che ogni atto della Storia esiste solo dentro lo spazio di un territorio, di un paesaggio.

Kobane Calling (BAO Publishing, 2016), il graphic novel più maturo, sicuramente più impegnata di Zerocalcare esplora i silenzi e le incomprensioni tra due realtà, Oriente e Occidente, che non smettono di girare, di evolvere, di allontanarsi. E lo fa con la sua solita leggerezza, di calviniana ascendenza, canzonatoria e la solita autoironia di chi sa che qualunque giudizio morale suonerebbe vuoto e retorico. Anche le modalità di rappresentazione sono sempre le stesse: i personaggi sono raffigurati come eroi dei cartoni anni ’80 e fortemente caricaturali; l’Armadillo continua a fare la parte della coscienza di Zero che ne evidenzia paure e ossessioni. È così che Michele elabora, accetta o esorcizza ansie generali e particolari. È soprattutto nel periodo storico di grande tensione in cui ci troviamo a vivere, abbiamo bisogno di un modo per affrontare le nostre paure più profonde.

Il paesaggio è la vera novità e protagonista. Non più il mondo interiore di Zerocalcare dei precedenti lavori. Non più la comfort zone del quartiere periferico romano con i suoi punti di riferimento, il mammut, il carcere, la cricca di amici, qui ci sono i labili confini fra Siria, Turchia e Iran, le macerie di Kobane e le lenticchie per colazione.

Anticipato da due assaggi su Internazionale nel gennaio 2015, Kobane Calling è stato un vero e proprio viaggio iniziatico e purificatore di Michele Rech, compiuto fra il novembre 2014 e il luglio 2015 per portare aiuti e generi alimentari nelle aree del conflitto curdo-siriano.

Il viaggio ha rappresentato per Zero anche un’occasione per crescere, per definire sé stesso e la propria individualità senza per forza diventare un martire.

Ci porta così all’interno del Rojava, un’area nel Nord della Siria non riconosciuta dalla comunità internazionale e retta da un confederalismo democratico regolato da un contratto sociale che prevede convivenza etnica e religiosa, partecipazione, emancipazione femminile, redistribuzione delle ricchezze e spirito ecologista: «Tié, vallo a trova’ un paese con una costituzione così avanzata». Questa idilliaca situazione è però continuamente minacciata dall’avanzata dell’Isis contrastata dalla protezione delle unità maschili e femminili curde. Una realtà ben diversa da quella che si pensa di conoscere dove sono proprio le donne a essere più numerose e agguerrite.

Le persone incontrate da Zero rappresentano un vero e proprio campionario umano di fatica e passione di vivere: basta ricordare fra tutti la ragazza recentemente uccisa soprannominata “Cappuccio Rosso”.

Senza rinunciare alle solite pippe mentali e sbruffonaggini del personaggio Zerocalcare, Kobane Calling si presenta con l’innovativo taglio di un reportage a fumetti che ha il vantaggio di raggiungere un pubblico solitamente disinteressato a tali argomenti, ascoltati distrattamente e raccontati malamente e confusamente dai media.

 

(Zerocalcare, Kobane Calling, BAO Publishing, 2016, pp. 261, euro 20)
Copertina di effe numero 7

“effe – Periodico di altre narratività” numero sette

È uscito il nuovo effe – Periodico di Altre Narratività #7. Un numero speciale, perché è dedicato a una figura spesso bistrattata della filiera editoriale: il traduttore.

Il volume contiene infatti 8 racconti di scrittori stranieri mai apparsi finora in Italia, alcuni dei quali già molto noti nel paese d’origine, scelti in collaborazione con otto traduttori.

A tutto ciò si unisce la selezione di otto illustratori internazionali provenienti dagli stessi paesi degli scrittori, e nello specifico da Uruguay, Brasile, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia, Repubblica Ceca, Francia e Islanda.

A completamento del numero c’è la postfazione di Francesco Pacifico, che amplia di un ulteriore tassello la sua riflessione personale sulla traduzione.

La copertina di questo numero, infine, è a firma di Veronica Cerri.

 

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero sette:

 

  • Storie che (ancora) non esistono di Roberto Bioy Fälsher
  • Anatomia di un racconto di Fernanda Trías (Uruguay  trad. dallo spagnolo di Giulia Zavagna ill. di Alicia Baladan)
  • Storia di una ladra di Björn Halldórsson (Islanda trad. dall’islandese di Francesca Di Berardino ill. di Sunna Rún Pétursdóttir)
  • Il gregge può pascolare tranquillo di Jess Row (Stati Uniti  trad. dall’inglese di Sara Antonelli  ill. di Erin Wallace)
  • L’evangelista di Irena Dousková (Repubblica Ceca  trad. dal ceco di Raffaella Belletti ill. di Milana Kasianova)
  • Petali di Julia Wähmann (Brasile  trad. dal portoghese di Marika Marianello  ill. di Carla Barth)
  • L’importante è finire bene di François-Henri Désérable (Francia  trad. dal francese di Angelo Molica Franco  ill. di Kevin Lucbert)
  • Quando abbiamo le nostre vite da vivere di Mine Sög˘üt (Turchia  trad. dal turco di Giulia Ansaldo  ill. di Bülent Gültek)
  • Il furgone di S.J. Naudé (Sudafrica  trad. dall’afrikaans di Stefano Musilli  ill. di Jamie Meyer)
  • Gracchiare come un disco sul piatto di Francesco Pacifico

 

Qui è possibile acquistare online effe #7 e consultare l’elenco delle librerie indipendenti amiche.

poster di 1993 la serie tv su Flanerí

1993 e la necessità di raccontare il presente

Si è conclusa lo scorso 6 giugno 1993, la serie tv targata Sky Atlantic che prosegue nel racconto degli anni fondamentali della storia contemporanea italiana della fine dello scorso millennio.

Nata da un’idea di Stefano Accorsi messa su carta e schermo da Alessandro Fabbri, Federica Rampoldi e Stefano Sardo, la serie prodotta da Wildside riprende i personaggi della prima stagione, 1992, che nel 2015 era diventata una specie di oggetto di culto tra gli spettatori per i motivi sbagliati. Nonostante un ottimo cast e l’enorme campagna promozionale, dopo la buona accoglienza in anteprima al Festival di Berlino, la serie Sky aveva faticato a convincere il pubblico per una certa approssimazione nella sceneggiatura e nel racconto di alcuni passaggi della storia italiana. Sui social, l’onnipresente scritta “Da un’idea di Stefano Accorsi” era diventata in fretta sinonimo di pessima idea. La recitazione insopportabile di una delle protagoniste, Tea Falco, fatta di incomprensibili frasi sbiascicate, si esponeva ad attacchi e critiche continue che nessuno poteva difendere. Il rumore sui difetti, in pratica, aveva sovrastato le voci sui meriti.

Perché nel rispetto della tradizione dell’ottima produzione televisiva targata Sky, 1992 aveva proposto un modo molto interessante di raccontare l’anno da cui prende il titolo. Momento di passaggio fondamentale nella storia d’Italia, con l’avvio dell’indagine di Tangentopoli che segna la fine di un’epoca politica e l’inizio del biennio stagista della mafia siciliana, il 1992 riviveva sullo schermo con la contaminazione di personaggi reali – Bettino Craxi, Marcello Dell’Utri, Antonio Di Pietro, tra gli altri – e immaginari in un romanzo del reale capace di raccontare la contemporaneità italiana senza deformazioni politiche.

1993 riprende i personaggi lasciati in 1992 e ne aggiunge di nuovi, sia tra quelli di finzione che tra quelli reali. Stefano Accorsi torna nei panni del pubblicitario Leonardo Notte, costretto ancora a fare i conti con il suo passato mentre diventa l’ispiratore segreto della politica berlusconiana. C’è ancora Tea Falco, meno strascicata, e la famiglia Mainaghi, in equilibrio tra industria, mafia e sensi di colpa. C’è il poliziotto Luca Pastore interpretato da Domenico Diele, parte del pool di Mani Pulite e impegnato in un’indagine personale sulla malasanità. C’è il leghista Pietro Bosco, a cui Guido Caprino continua a dare alla grande corpo e voce, mentre si misura con la politica e i salotti romani, e c’è ancora Veronica Castello, la soubrette dall’ambizione smisurata che trova in Miriam Leone l’interprete perfetta.

Il racconto del 1993 passa per gli ultimi momenti di Mani pulite mentre si prepara il nuovo scenario politico del post DC e PCI. Silvio Berlusconi finalizza la sua discesa in campo mentre la Lega si istituzionalizza e la sinistra si reinventa. La Rai cerca di capire come lottizzarsi dopo il crollo dei grandi partiti e intanto la televisione commerciale si consolida sempre di più. Le bombe della mafia esplodono ancora e passano dai giudici a Maurizio Costanzo. Alla radio ci sono gli 883 e i Duran Duran alla prima resurrezione, mentre i nasi si tingono del bianco della cocaina e i corpi sieropositivi vengono circondati dall’alone viola della pubblicità.

1993 conferma tutte le buone premesse di 1992 e dimostra di aver imparato dagli errori. Per i personaggi esistenti si continua con l’intelligente scelta stilistica di proporli con un collegamento minimo con l’immagine reale. Si capisce che abbiamo davanti Di Pietro, o Bossi, senza però esagerare nella macchietta, nell’imitazione, nella caricatura. Sono delle interpretazioni teatrali che creano dei personaggi ibridi tra finzione e realismo. E in questo, il lavoro di Paolo Pierobon su Silvio Berlusconi dimostra tutta la validità della scelta.

I tre autori hanno capito cosa contenere, cosa tagliare e cosa migliorare. C’è meno spazio per l’interazione tra i vari protagonisti e maggiore libertà allo sviluppo personale. C’è meno esibizionismo di Accorsi, con la famigerata scritta ridimensionata e un minor sfoggio di muscoli e autocompiacimento. Ci sono due puntate in meno rispetto alla prima stagione, e di conseguenza una maggiore asciuttezza e meno spazio per i tempi morti.

Il risultato finale che offre 1993 porta la serie molti passi più avanti rispetto a dove l’avevamo lasciata nel 1992. L’operazione proseguirà nel 1994, ultimo anno di un triennio determinante per la storia contemporanea del nostro paese.

Con questa correzione di tono,a emergere di 1993 sono soprattutto per i meriti (e infatti se ne sta parlando molto meno di quanto si sia fatto con la prima stagione). La storia contemporanea italiana, quella di Tangentopoli, della nascita del berlusconismo, dei movimenti populisti, trova uno spazio limitato nella produzione televisiva e cinematografica. La comprensione del presente, però, può passare anche da una finzione che sappia distinguersi dalla agiografie targate Rai o dal carico politico del cinema d’autore (Il caimano di Moretti e Il divo di Sorrentino, in attesa di vedere il suo film su Berlusconi, Loro). Con tutti i limiti di veridicità e approfondimento che può avere un programma pensato per l’intrattenimento, 1993 riesce con semplicità a proporre comunque un quadro d’insieme dell’anno di cui tratta, ricordando vicende che troppo spesso vengono dimenticate o che non trovano spazio per approfondimenti nelle opere destinate al grande pubblico e offrendo delle chiavi di lettura per il presente semplici eppure efficaci. Senza voler esprimere giudizi politici, bastava guardare la descrizione di 1992 della Lega come forza destabilizzante gli equilibri politici consolidati per capire quanto poco di originale ci sia nella proposta politica del MoVimento 5 stelle. Così come 1993 ci fa ricordare cosa abbia voluto dire l’arrivo in politica di Berlusconi e la totale incapacità del sistema – zoppicante, compromesso da Mani Pulite, ma ancora vivo – di prevederne l’impatto. La storia e le storie insegnano sempre, basta saperle guardare.

“Alla conquista della Luna”
di Emilio Salgari

Se dico Emilio Salgari – e lo dico con la pronuncia veneta che vuole l’accento sulla seconda a, a scanso di equivoci – penso alle avventure di pirati in località esotiche a un passo dall’Equatore. Ma quello che non si sa – o che si sa meno – circa l’autore che ha intrattenuto generazioni di lettori con le vicende dei Pirati della Malesia e del Corsaro Nero, è che la sua copiosissima produzione (oltre ottanta romanzi riconosciuti come autografi e pubblicati mentre era in vita) comprende anche un gran numero di racconti sommersi dati alle stampe presso vari editori, spesso sotto pseudonimo per sfuggire ai contratti editoriali in cui Salgari era impegnato, oppure apparsi su riviste.

E su rivista sono stati editi tra il 1894 e il 1905 anche i racconti fantastici e proto-fantascientifici che Cliquot ha riunito per la prima volta in Alla conquista della Luna, a cura di Felice Pozzo, per restituirci un aspetto meno noto dello scrittore veronese che ha dato i natali a Sandokan. Cliquot, che dal 2014 è impegnata nel recupero – prima in digitale, ultimamente anche in cartaceo – di testi dimenticati, ha inaugurato la collana “Fantastica” con questo libro in doppia edizione costruita sul bellissimo progetto grafico e cartotecnico di Maurizio Ceccato e corredata dalle illustrazioni di Riccardo Fabiani.

Partendo dalla Norvegia verso la Cornovaglia, passando per San Francisco e le Isole Canarie fino ad arrivare in Florida, Alla conquista della Luna è un giro del mondo in sei racconti, per intraprendere il quale è sufficiente munirsi di una bussola e una carta geografica, senza allontanarsi troppo dalla poltrona di casa. E il saggio collocato in apertura a guida della navigazione è forse più utile come approfondimento a lettura ultimata, per evitare di guastarsi la curiosità della scoperta.

A dispetto del titolo derivato da uno dei racconti della raccolta, Alla conquista della Luna si svolge perlopiù sulla terraferma e tra le profondità degli oceani, in mezzo a ghiacciai, nebbie, vortici, correnti e tempeste spaventose e al bianco abbagliante – «il colore della paura», per dirlo con Pozzo – della schiuma che nasconde l’ignoto. Insieme a un vasto campionario di creature sconosciute o inventate che popolano la «vita sottomarina» di questi racconti, Salgari descrive una natura mostruosa e irta di pericoli, di fronte alla quale personaggi folli e visionari si imbarcano in imprese ben al di sopra delle proprie capacità, e per questo sono destinati a soccombere.

La sfida dell’uomo al potere impietoso delle leggi naturali è tratteggiata con i contorni della follia, perché per Salgari il limite del progresso scientifico sta nell’aver privato l’intelligenza umana della sua qualità essenziale: l’immaginazione. Dote che di certo non è mai mancata a questo autore, il quale in gioventù aveva iniziato a esplorare il mondo ed è stato per breve tempo uomo di mare, ma che ha tirato fuori le avventure più appassionanti dal cilindro della sua fantasia e in queste storie è riuscito a guardare al di là di un secolo, verso un futuro che dovrebbe coincidere con il nostro tempo, e arrivando a scorgere, per esempio, macchine in grado di sfruttare la potenza del Sole per volare.

Salgari dissemina la sua scrittura di riferimenti più o meno espliciti a mondi letterari affini al suo: in queste pagine è evidente il richiamo a Edgar Allan Poe e a Jules Verne – i maestri del fantastico a cui l’autore ha attinto per dare forma alla sua ispirazione – e tra i racconti fanno capolino, giusto per citarne qualcuno, un signor Melville o quel Mare dei Sargassi da cui si dipanano intrecci invisibili con altre storie. E se, arrivati all’ultima pagina, il desiderio di continuare a viaggiare verso un altrove lontano si fa ancora più forte, non può che essere un ottimo segnale.

 

(Emilio Salgari, Alla conquista della Luna, Cliquot, 2016, pp. 144, euro 16,00)

 

“Le notti blu”
di Chiara Marchelli

Oggi tocca a Le notti blu. Però esiste un prima. Abbastanza indissolubile. Prima c’è stata Paula. Ma a quindici anni sei talmente figlia, in modo così osceno e ubriacante, che leggere di una madre incastrata al capezzale della sua creatura ti sembra solo una favola appuntita. Perfetta per titillare il tuo palato inquieto. Poi t’imbatti in un testo quasi accidentale, una lettura prestata da chi poco ti conosce. Un anno nero per Miki di José Ovejero, in cui un uomo qualunque si ritrova solo e incrudelito, senza moglie, senza figlio e con un deserto d’anima addosso. Slavina di buio che però non ti s-travolge. Il terzo libro si chiama Riparare i viventi di Maylis de Kerangal e lì ti congeli.

Non prosegui, deponi l’osso. E non perché la storia non meriti o sia indegnamente riferita. Ti arresti perché nel frattempo sei diventata madre. E apprendere, seppur in forma recintata da apposita finzione, che tutto quello che resta da decidere su tuo figlio è acconsentire o meno di espiantargli il cuore, ecco, può essere chiederti troppo. Così, quando ho approcciato Le notti blu di Chiara Marchelli (Giulio Perrone Editore, 2017), tra i dodici finalisti del Premio Strega, sapevo non sarebbe stato facile.

La vicenda è quella di Michele e Larissa, cresciuti, rinforzati, intrisi oltre se stessi in un matrimonio pluritrentennale. Hanno attraversato un continente e vallate d’angoli. Hanno smussato, ruggito, cercato e offerto perdono come si fa col cibo. Sono arrivati al punto di anticipare il bisogno dell’altro. Di berlo dallo sguardo. Finché, un Capodanno sbriciolato tra gli altri, Mirko, quel figlio nominato come la «gloria del mondo», ingoia la morte sul letto. Mirko si ammazza. Ingerisce e aspetta. Avvelenando il suo sangue e quello che gli borbotta intorno. Cancellando ogni altro Capodanno.

Per sua moglie, che impazzisce e si sfinisce. Ma soprattutto per Michele e Larissa. Certo, quel filo di vita apparente non viene tranciato. Michele continua a insegnare. La sua matematica d’azzardo, quella Teoria dei giochi sdoganata da John Nash, secondo cui in un sistema non cooperativo, s’instaura un equilibrio dato dall’adozione da parte di tutti di strategie dominanti. Ogni giocatore cerca di fare il massimo. E questo giova a ciascuno. O quanto meno limita i danni. Ma Michele sa che la realtà si diverte a confutare le promesse più valide. Una sola decisione ha annichilito le altre per un tempo non svelato.

«La scelta del giocatore più importante li ha gettati in un sistema caotico e imperscrutabile, dove valgono Leggi che né lui né Larissa conoscevano». Anche lei continua ad alzarsi, a occuparsi dal marito, a impastare di farina ogni martedì, per la focaccia che piaceva a Mirko.

Ma non c’è più nulla che piaccia a lei. Resiste solo un crepaccio, una bocca di dirupo che tracanna i loro giorni. Quel costante insonne non aver capito, non aver neanche immaginato cosa poteva dilaniare loro figlio. Quello che sembra un essere noto, lo stesso brandello di carne capace poi di stare in piedi, di camminare lontano, ma che comunque resta sempre avvinghiato al midollo.

Michele e Larissa credevano di sapere. Che Mirko amasse la terra come un sogno possibile, che la osservasse per leggerla e decifrarla. Che fosse felice della donna al suo fianco. E basta qualche minuto per schiaffarli in un “eppure” senza sosta. Per iniettare nel respiro un indigesto sapore di alieno. Che non svuota mai la gola. Che dilaga oltre l’addio.

Dopo cinque anni di esistenza superstite, spunta una lettera imprevista. Una donna dichiara di aver avuto un figlio da Mirko. E poi scompare. Così, ancora una volta, Michele e Larissa sbalzano secoli e miglia fuori da sé, da ciò che supponevano di aver accettato. Forse c’è un nipote, forse c’è un pianeta, ennesimo, di coloro che amiamo, che sfugge al nostro tocco. Che non rientra nel riparo del ricordo.

Ciò che già ha ucciso, torna a infierire. Il non detto, l’impensato, il territorio dell’altro che nessun geologo saprà delineare. L’immancabile suicidio di una verità imprendibile.

La narrazione rimbalza, tra il presente di New York, la Liguria e Courmayeur. Luoghi di corpo e di memoria che lasciano sempre un lembo scoperto. Quelle Notti blu in cui non si può dormire. Quel quartiere segreto oltre il lutto, oltre il dolore, dove accedere è solo un’impressione.

Il linguaggio è asciutto, secco, senza nessuna concessione al vezzo. Puntuale e bruciante, come ciò che racconta. Con un’enorme lezione sul petto.

La mappatura delle emozioni, quelle dell’Io come quelle del Tu, rimane un Gioco irrealizzabile.

Un sistema non cooperativo a cui non possiamo sottrarci. Destinato a fallire. Destinato a non finire.

 

(Chiara Marchelli, Le notti blu, Giulio Perrone Editore, 2017, pp. 223, euro 15)