“The Interview” di Evan Goldberg e Seth Rogen

Nei giorni immediatamente precedenti a quest’ultimo Natale si è creata una situazione di tensione diplomatica a dir poco particolare che ha coinvolto una potentissima multinazionale giapponese, la Sony, gli Stati Uniti d’America e la Repubblica democratica del popolo di Corea, comunemente definita Corea del Nord.

Alla fine di novembre, un gruppo di hacker che si fa chiamare Guardians of Peace si è introdotto nel sistema informatico della Sony entrando in possesso di una serie di informazioni riservate, dati personali e materiale ancora protetto da esclusiva. La Sony, per il gruppo di pirati informatici, sarebbe responsabile di un «atto di guerra e di terrore» nei confronti della Corea del Nord e gli Stati Uniti sarebbero loro complici. C’è chi ha detto che il gruppo di hacker provenisse dalla Cina e che fosse stato ingaggiato e indirizzato dal governo di Pyongyang.

Quello che rende l’intera vicenda surreale (a dir poco) è che l’attacco bellico di cui hanno parlato i Guardians of Peace non è altro che un film, e non un film di denuncia, o un documentario, ma una commedia dal forte connotato demenziale. Si tratta di The Interview, scritto, diretto e prodotto da Evan Goldberg e Seth Rogen, che insieme avevano già ideato Facciamola finita, in cui un gruppo di celebrità doveva affrontare l’Apocalisse, e scritto una serie di film di discreto successo (SuxbadStrafumatiMolto incinta). Il punto è che The Interview immagina un tentativo organizzato dalla CIA di uccidere Kim Jong-un, il supremo leader nordcoreano, e questo per Pyongyang è imperdonabile.

Già a giugno scorso il governo della Corea del Nord aveva annunciato ritorsioni in caso di distribuzione del film. La Sony e la sua controllata Columbia avevano comunque fissato la data di uscita del film per il giorno di Natale. Poi sono arrivati gli attacchi informatici, che di fatto hanno rilasciato sulla rete una serie di informazioni riservate della Sony, di mail personali con giudizi poco lusinghieri sulle star di Hollywood e di film non ancora distribuiti in sala (si parla di Sony Leak). La Corea del Nord non ha mai riconosciuto la paternità diretta dell’incursione, anche se la CIA – quella vera – ha parlato di un chiaro collegamento. Sono seguite minacce ulteriori di azioni «stile 11 settembre» contro i cinema che avrebbero proiettato il film. La conclusione è stata che, a circa una settimana dall’uscita, la Sony ha deciso di annullare la distribuzione di The Interview per paura delle conseguenze.

Sono seguiti giorni di furibonde reazioni di personaggi del cinema e della tv statunitense via internet che hanno twittato in difesa della libertà e del diritto di esprimere qualsiasi opinione, in qualsiasi forma e contro chiunque. Il presidente Obama, addirittura, è intervenuto sulla questione suggerendo che la Sony avesse sbagliato a ritirare il film. C’è stata una riscossa patriottica contro il terrorismo e anche solo la sua possibile minaccia (fonti di intelligence hanno assicurato che la Corea del Nord non sarebbe assolutamente in grado di compiere azioni miliari, o di guerriglia, in paesi stranieri) e alla fine è arrivata la decisione di cambiare nuovamente idea: The Interview è uscito in anteprima il 23 dicembre in duecento sale degli Stati Uniti. Goldberg e Rogen hanno partecipato a una proiezione a Los Angeles in un delirio di pubblico. Il film è stato distribuito on demand su una serie di piattaforme web a pagamento, in tutto il mondo. Insomma, si è passati dalla possibilità di non vedere mai il film a quella di poterlo vedere in ogni modo. E oltretutto non è successo niente: nessun attacco terroristico, nessuna ritorsione degli hacker, neanche una nota dal governo nordcoreano. L’unica conseguenza che c’è stata è che The Interview sta registrando incassi ben superiori alle aspettative.

Rimane da chiedersi solo una cosa: com’è questo film che ha rischiato di far scoppiare una guerra? Brutto.

L’intervista del titolo è quella che David Skylark (James Franco), conduttore di un talk show scandalistico, ha l’opportunità di realizzare con il supremo leader. Ad accompagnarlo in Corea sarà Aaron Rappaport (lo stesso Seth Rogen), suo produttore, braccio destro e miglior amico. Prima della partenza, però, un’agente della CIA affida ai due l’incarico di far fuori il dittatore usando un veleno che simula una morte naturale. Ci saranno disastri, inganni e una lunga serie di contrattempi.

Di base, The Interview è una bromance (da bro, diminutivo di brother, fratello, e romance, storia d’amore) con momenti di parodia del cinema d’azione e di spionaggio. Si inserisce nel filone sempre più ricco della commedia demenziale statunitense basata sul turpiloquio e l’allusione sessuale che ha nella coppia Rogen-Goldberg uno dei suoi punti centrali (un altro è Judd Apatow). Facciamola finita del 2013 era stato quasi una summa del genere in cui si erano radunati tutti i suoi principali esponenti davanti e dietro la macchina da presa. È un cinema che si basa su una comicità infantile, cretina a tratti, basata su un immaginario da maschi adolescenti che gioca sempre con il limite del cattivo gusto. Quando è fatta bene, funziona, fa ridere. Quando non è fatta bene, invece, mostra tutti i limiti di un mondo di masturbazione, falloforie e rumori intestinali. Ecco, The Interview è uno di quei film non venuti bene e in cui i limiti si vedono tutti.

L’ironia si fonda su due concetti: uno è l’honeypot. Letteralmente vaso del miele, in gergo informatico l’honeypot è un’esca usata come sistema di difesa contro i pirati informatici (guarda caso). In un slang più di strada, invece, honeypot è uno dei tanti nomi della vagina. Ogni volta che in The Interview compare una donna sta provando a fare una honeypot su uno dei due protagonisti, quindi lo sta attraendo verso una possibile conclusione sessuale per sfruttarlo. Se, invece, l’inganno è tra uomini parlano di honeydick. L’altro punto centrale è l’ano, che viene chiamato in causa già nei minuti iniziali e torna parecchie volte, e non c’è bisogno di aggiungere altro. Poi ci sono battute discriminatorie verso gli asiatici, gli omosessuali e gli ebrei, apparizioni di molte star della musica (Eminem), del cinema e della televisione statunitense, un carro armato, le canzoni di Katy Perry come metafora della libertà individuale, il rapporto padre-figlio e il peso delle aspettative. Della Corea del Nord si dice molto poco e quella di Kim Jong-un non è neanche una parodia, è solo una maschera, lo stereotipo del ragazzino viziato, solo e insicuro. Con la differenza che ha un arsenale atomico.

The Interview non funziona perché le battute sono ripetitive, perché James Franco, come giornalista cretino e ignorante, è eccessivamente sopra le righe e decisamente poco credibile, perché c’è un precedente, Team America: World Police, dei creatori di South Park Trey Parker e Matt Stone, in cui deve essere ucciso il padre, di Kim Jon-un, Kim Jong-il, e quel precedente graffia molto di più, sia la dittatura che la democrazia statunitense, e soprattutto il film di Rogen e Goldberg non funziona perché non fa ridere praticamente mai, perché ha una trama sfilacciata e debole che serve solo come contenitore per le gag dei due protagonisti.

Un po’ poco per far scoppiare una guerra.

“Lezioni in paradiso”
di Fabio Bartolomei

Fabio Bartolomei è entrato nella rosa dei miei scrittori preferiti grazie a We Are Family (e/o, 2013), un romanzo spettacolare, costruito come usando mattoncini Lego perfettamente allineati secondo forma e colore a creare un’architettura colossale ma, a vedersi, leggera come una piuma. Dunque non vedevo l’ora di leggere Lezioni in paradiso (e/o, 2014), per ritrovare le sensazioni che la storia di Al Santamaria e della sua famiglia mi aveva regalato: una storia superba e modesta, tenera e coraggiosa, in equilibrio tra l’intensità emozionale che raggiunge e la leggerezza con cui è scritta.

Le mie aspettative dopo tale gioiello sono ovviamente altissime e vengono immancabilmente deluse alla lettura di Lezioni in paradiso, un romanzo pieno di spunti interessanti e di personaggi geniali che però non entrano in luce, lasciando il loro aspetto più intrigante e profondo nella penna dell’autore, lo nascondono lì: personaggi impauriti dall’inevitabile confronto con quelli perfetti del romanzo precedente, già rassegnati a perdere, o forse solo timidi all’idea di essere sottoposti a una prova di qualità così difficile.

Anche ambientazione e storia sono stimolanti, eppure non collaborano a spingere i personaggi ad aprirsi con il lettore. La protagonista Costanza è un angelo custode che dal paradiso cerca di proteggere tra non poche difficoltà il suo diletto Goffredo; e le difficoltà che incontra nel svolgere al meglio il suo compito sono le stesse che incontrerebbe sulla terra, dovute a un sistema viziato da regole sbagliate, favoritismi immeritati e omertà della peggior specie. Tale parallelismo è un buon punto di partenza per la creazione di un ottimo romanzo, ma viene sviluppato troppo superficialmente e nella pagina si disperdono i dettagli che renderebbero giustizia a un materiale così valido e che esalterebbero i personaggi che il genio di Bartolomei sa immaginare. A cosa sono dovuti infatti gli improvvisi scatti d’ira di Assunta, dolce e mansueta suora Orsolina? A cosa sono dovute l’ostilità e la ribellione di Tiberio, custode che si finge un imam? A cosa sono invece dovuti gli onori e la reputazione di Gian Maria? E qual è la vera storia del loro capo? E tanti altri sono gli interrogativi che, una volta risolti e approfonditi, darebbero la giusta brillantezza e il giusto valore a personaggi, sia gregari sia protagonisti, così singolari e ricchi di attrattiva; e renderebbero la storia un vero teatro di miracoli d’ingegno e fantasia, e non, come pare ora, una stazione in cui i destini di custodi e diletti si incontrano troppo frettolosamente per potersi raccontare con la dovuta calma e dovizia di particolari.

Forse è colpa mia o delle maledette aspettative, fatto sta che Lezioni in paradiso è a mio parere un romanzo affascinante ma incompleto: avrei voluto scoprire di più, indagare, scendere a una profondità che se di solito è dissimulata da una scrittura leggera e piacevole, questa volta è volontariamente negata. Avrei voluto, a proposito, sfamarmi più a lungo della scrittura fluida e penetrante di uno scrittore che stimo moltissimo, una scrittura che in effetti non delude mai, nemmeno questa volta, capace di acrobazie circensi messe in scena con l’agilità e la disinvoltura di un pavone che fa la ruota.

(Fabio Bartolomei, Lezioni in paradiso, edizioni e/o, 2014, pp. 144, euro 15)

[Best 2014]
I film

Siamo arrivati alla fine dell’anno e come sempre scatta il momento delle più o meno utili classifiche di riepilogo. È stato un anno particolare il 2014, per il cinema in Italia, con un primo semestre caratterizzato da una netta diminuzione degli spettatori in sala e conseguente crollo dei biglietti venduti. Alla fine, il box office ha consegnato un podio inaspettato: al primo posto il disneyano Maleficent, con Angelina Jolie nei panni e ali della strega della Bella addormentata nel bosco, Malefica solo di nome. Medaglia d’argento per una delle tante commedie italiane, Un boss in salotto, di Luca Miniero. Segue un film d’autore, ed è comunque una sorpresa, anche per il minutaggio a dir poco massiccio: The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, che evidentemente tra eccessi di parolacce, droghe e tette è riuscito ad attirare l’attenzione degli spettatori italiani.

Ma è stata una stagione senza veri vincitori, senza dominatori totali del botteghino. Basti pensare che Maleficent, in programmazione da maggio 2014, ha incassato un totale di 14 milioni di euro (e spicci) per circa due milioni e centomila spettatori. Solo nel suo primo fine settimana nelle sale, il blockbuster del 2013, Sole a catinelle, aveva raccolto più di 18 milioni e mezzo di euro con oltre due milioni e seicentomila biglietti venduti. E ancora: per raggiungere l’incasso complessivo del film di Zalone e Nunziante (sopra i 50 milioni di euro), bisogna sommare i risultati dei primi cinque titoli della classifica di quest’anno (oltre ai tre già citati ci sono l’imbarazzante Sotto una buona stella di Verdone e Interstellar, che in poche settimane dall’uscita in sala ha superato i 10 milioni totali).

Nessun vero fenomeno, quindi, nessun vincitore indiscutibile. C’e da dire che nella conta dei dati manca ancora il mese di dicembre, tradizionalmente il più redditizio per il cinema in Italia, e di conseguenza potrebbero esserci delle novità nella classifica, visto anche l’arrivo dell’ultimo Hobbit (già quattro milioni e mezzo di euro incassati in cinque giorni di programmazione), dell’ottimo film Disney Big Hero 6 e dell’orgia di più o meno cinepanettoni (Ma tu di che segno 6? del trio Parenti-Vanzina, liberi finalmente dalle pretese di Aurelio De Laurentiis, Il ricco, il povero e il maggiordomo, dei sempre più stanchi Aldo, Giovanni e Giacomo, Un Natale stupefacente della Filmauro e l’outsider Ogni maledetto Natale) usciti nelle scorse settimane, ma è difficile, se non impossibile, ipotizzare un nuovo campione assoluto.

Sul piano del cinema nazionale, inoltre, è mancato un film capace di catalizzare l’attenzione mediatica come aveva fatto La grande bellezza. Uno di quei film, insomma, di cui si sentono tutti in dovere di parlare, un titolo capace di andare al di là dei confini cinematografici per diventare oggetto sociale, ancora più che culturale. Ci hanno provato, riuscendoci solo a tratti, Il capitale umano di Virzì e Il giovane favoloso di Martone, ma la mancanza di certificazioni internazionali (anzi, il film di Virzì è stato anche escluso dalla shortlist per l’Oscar al film straniero) ne hanno limitato la portata. Martone ha comunque ottenuto dei risultati sorprendenti al botteghino (sopra i sei milioni di euro), ma nel panorama cinematografico nazionale è mancato un vero vincitore. Le meraviglie di Alice Rohrwacher si è aggiudicato il gran premio della giuria a Cannes per poi passare praticamente inosservato in sala, per esempio, mentre l’esordio di Sidney Sibilia con Smetto quando voglio ha mostrato, al massimo, un nuovo modo di fare commedie in Italia. E se sulla carta il 2014 doveva essere l’anno di Edoardo Leo, comparso in cinque film diversi, con una vera e propria sovraesposizione non solo rischiata, nei fatti è arrivata invece la definitiva consacrazione di Paola Cortellesi come nuova signora della commedia nazionale, presente in due campioni di incassi come Un boss in salotto e Sotto una buona stella, e nel più recente Scusate se esisto, uscito a fine novembre e da allora sempre presente nelle top ten degli incassi settimanali.

Comunque, tralasciando il dato oggettivo del riscontro sul pubblico, il 2014 cinematografico ha avuto le sue eccellenze e i suoi momenti da ricordare. Ne abbiamo scelti dieci spiegando cosa ci ha colpito di ognuno, senza nessuna pretesa di stilare una classifica. Questa stagione di cinema ha un solo vincitore, ed è l‘ultimo film dell’elenco.

Cominciamo:

– Il capitale umano/ I nostri ragazzi/ Anime nere: perché in tre modi diversi i film di Virzì, De Matteo e Munzi hanno dimostrato, o ricordato, che in Italia si possono fare film diversi dalle commedie, che ci sono ottimi attori e che si sanno raccontare ottime storie. Virzì e De Matteo hanno parlato, in film diversi ma simili, della borghesia sempre più vittima di una crisi di valori e di identità, Munzi ha parlato di criminalità senza fascino televisivo e dell‘eredità invincibile del sangue. E hanno fatto grande cinema.

Mommy di Xavier Dolan: perché ha sancito definitivamente la nascita di un nuovo protagonista del cinema dei prossimi anni. Prima era solo un ragazzino di smisurato talento a cui guardare con curiosità. Adesso, a venticinque anni, Dolan è già un regista di culto.

Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée: perché ha rimosso gli ultimi ostacoli alla definitiva consacrazione di Matthew McCounaghey come grandissimo attore. E non solo per l‘Oscar.

Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne: perché i due registi hanno preso una stella, Marion Cotillard, e l‘hanno spenta nella miseria del lavoro che manca e delle lotte fratricide tra disperati. E lei ha brillato più forte.

Interstellar di Christopher Nolan: perché se n‘è parlato tantissimo prima, perché se n‘è parlato tantissimo dopo, e perché comunque, che sia piaciuto o no, è destinato a diventare un nuovo punto di riferimento.

Guardiani della galassia di James Gunn: perché è riuscito ad andare oltre il cinecomic e a fare solo puro cinema, nella sua forma più spettacolare e divertente, giocando con la cultura pop e senza prendersi mai sul serio.

Grand Budapest Hotel di Wes Anderson: perché è un omaggio personale e perfetto al gusto semplice della narrazione, in ogni sua forma, sia su libro che su pellicola.

Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmush: perché in un periodo in cui i vampiri sono da tutte le parti Jarmush è riuscito a usarli con intelligenza, a renderli ultimi difensori dell‘umanità e della bellezza.

Lo sciacallo di Dan Gilroy: perché è una riflessione sul cinismo della comunicazione contemporanea, sull‘effetto della televisione e sulla costruzione della realtà a uso dei consumatori. E Jake Gyllenhaal è di una bravura inquietante.

Boyhood di Richard Linklater: fuori da ogni classifica, fuori da ogni schema, Boyhood è il film dell‘anno e di più. È il film del decennio, un progetto unico e perfetto che deve entrare nella storia del cinema. Girato nell‘arco di dodici anni, con una settimana di riprese ogni anno, segue la vita e la crescita di Mason, dagli otto ai vent‘anni, e della sua famiglia che si muove intorno a lui, che cambia forma, che si perde e si ricompone. È un film, è un documentario, è una serie di fotografie, è storia e scienze sociali. Boyhood è vita vera, eccezionale nella sua normalità, nel suo scorrere regolare in una forma quasi non filmica. È il ritratto di un epoca.

“Il grande cielo”
di A.B. Guthrie

Perlopiù, un western ben fatto è innanzitutto una lezione di essenzialità. Nulla vi risulta esornativo o posticcio, secondo un ideale estetico direi piuttosto maschile in cui luci e ombre dello sfondo sono molto ben definite e la plasticità dei personaggi si vi staglia dura e definita.

Il grande cielo di A.B. Guthrie (Mattioli, 2014) sembra dar ragione di questa epica asciutta ma con un paio di varianti non da poco. La prima concerne il peso rilevante che vi acquista il passato, la nostalgia di ciò che nel momento in cui è attraversato è già fuori campo e strugge. Spesso è la violenza a imprimervi il suo segno; i ricordi poi confondono le cose.

L’altro è che attraversare il West nel romanzo in questione significa guadagnare con lo spazio non un territorio da conquistare come nel vecchio mito della frontiera ma un mondo da scoprire per una libertà “altra” rispetto a quella dei pistoleri. Guthrie – Premio Pulitzer per la narrativanel 1950 – difatti passa alla storia letteraria non come un semplice prosecutore di un viaggio iniziato dagli imprescindibili protagonisti di  Mark Twain ma come un anticipatore del tipo on the road – peraltro scrivendo molto meglio di Kerouac, va  detto.

Ma del western canonico nel romanzo, che a molti anni dall’ultima traduzione per Rizzoli arriva ora in una nuova versione per Mattioli 1885 dell’infaticabile Nicola Manuppelli, restano i grandi sentimenti umani messi in gioco senza fronzoli. Del resto non potrebbe permetterseli il giovanissimo Boone del Kentucky, che si decide a lasciare la casa di famiglia stufo delle botte assurde che il padre gli rifila a capriccio. Un certo giorno – ed è l’inizio del romanzo – il pugno glielo dà lui e quasi lo ammazza.

Fuori, lo aspetta un mondo sconosciuto. Non che non abbia paura di ritrovarsi da solo, lontano da casa, ma «un uomo non poteva guardarsi allo specchio se permetteva agli altri di metterlo sotto». Fatto così Boone, un ragazzino tosto. Finisce in una Louisville piena di gente, spettacolo che lo impressiona; sconfina nello stato dell’indiana, in un paesaggio diverso da quello nativo, con colline più alte e più tonde, s’imbatte in un tizio che si finirà per rivelarsi un amico importante. Boone impara a sgozzare galline e conigli e ovviamente si caccia presto nei guai. Finisce in cella accusato di aggressione e percosse (l’interrogatorio – di suo, un’impostazione del dialogo già fortemente teatralizzata – è esemplare dello stile di Guthrie: solo parole essenziali, così come lungo tutta la narrazione si stringe al massimo la cintura di aggettivi e avverbi). Ne esce presto e comincia a percorrere un territorio vastissimo che lo costringerà a crescere alla svelta. Saranno anni di incontri e di passioni. «Si imparano delle cose in tredici anni, cose che ti svuotano e ti annebbiano, e ti lasciano solo collere improvvise». Un peregrinare il suo che sarà anche un viaggio di esplorazione della terra: odori di stagni, di cavalli, di bisonti. E visioni di luce, di paesaggi, di grandi spazi da salvare. I morsi dell’inverno e il fuoco dell’estate che brucia la pelle dei cacciatori. Un canto della natura in effetti molto americano. In appendice al romanzo, un breve ritratto dello scrittore che porta dal firma del traduttore.

(A.B. Guthrie, Il grande cielo, trad. di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 2014, pp. 446, euro 16,90)

[Best 2014]
I libri

La verità è che le classifiche ci piacciono. Spesso tentenniamo. Ci indugiamo intorno giusto il tempo di sbirciare o di tossire una polemica. Una scia di dissenso stradale. Ci professiamo in disaccordo, perché in effetti ci sembra sminuente ridurre una selva di fatti o persone a un elenco decrescente.

L’imbuto dei numeri provoca allergia. Chi stabilisce cosa? Chi è che assegna i piani? E se qualcosa dondola in cima vuol dire che vale?

Eppure ogni anno, soprattutto in odore di traguardi, svetta quasi istintiva la vocazione al riordino. A questo serve la classifica. A capire che c’è da salvare. A spolverare lo scaffale, a scremare il superfluo cagliato sul fondo. E poi, mentre qualcuno la snocciola, a iniettarci la gioia virale di non essere noi quelli col numero accanto. Quindi, per non sottrarci a un rito sottilmente necessario, anche qui è stagione di podio. Molti giudizi, ben prima dei nostri, sono stati sfornati. Dal trionfo del Premio Pulitzer Donna Tartt con Il cardellino a John Green (Colpa delle stelle) e Gillian Flynn (L’amore bugiardo), autori di libri già pubblicati, ma risorti a nuove vendite grazie all’uscita dei film omonimi. Il criterio di Flanerí, come sempre, è altamente soggettivo. Ma da lettori forsennati siamo convinti che questa soggettività ci lascerà in larga compagnia.

Di seguito, i titoli che quest’anno editoriale ha deposto in libreria.

1) Pietroburgo di Andrej Belyi (Adelphi, a cura di Angelo Maria Ripellino)
Acquazzoni di scioperi, fermenti di scosse e promesse di rivoluzioni. Questa è la città nel 1905.
Imponente e sberciata, come un gigante da conquistare. Qui, il ribelle Nicolaj Apollonovic verrà investito di un compito “adulto”, per la sua iniziazione politica: uccidere un vecchio burocrate ingessato. Suo padre. Linguaggio sontuoso per un diamante del simbolismo.

2) Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (Sellerio)
Molto più del vincitore del Premio Campiello. Due trame parallele: il figlio, magistrato in prima linea contro l’ultimo delirio della lotta armata; il padre, partigiano trucidato in cieli di guerra. Le loro vite si lambiscono appena, quanto basta a Giacomo per nascere e a Ernesto per morire, con un figlio ancora lattante. Eppure, le due storie si annodano senza toccarsi, perché parlano lo stesso sangue. E la stessa scrittura eccellente. Essenziale, atmosferica, in cui non c’è nulla che non sia indispensabile.

3) L’Istituto per la Regolazione degli Orologi di Ahmet Tanpinar (Einaudi, traduzione di Fabio Salomoni)
L’avventura di Hayri Irdal e la sua donchisciottesca ossessione d’inscatolare il tempo, combattendolo attraverso il suo primo strumento di potere, il meccanismo dell’orologio. Poderosa opera di letteratura turca, una finestra sul Novecento di Istanbul.

4) La morte del padre di Karl Knausgard (Feltrinelli, traduzione di Margherita Podestà Heir)
Mastodontica produzione letteraria intitolata La mia lotta, pubblicata nei primi due volumi per Ponte alle Grazie e poi ricomparsa sotto il marchio Feltrinelli. 3600 pagine di cui La morte del padre è il primo episodio. Torrente autobiografico esondante di digressioni, dove tutto confluisce in narrazione.

5) Anime baltiche di Jan Brokken (Iperborea, traduzione di C. Cozzi e C. Di Palermo)
Ritratti ipnotici di artisti straordinari e anonimi mortali, accomunati dal cordone di un territorio per molti ancora segreto.

6) Il figlio di Philip Meyer (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella)
La stirpe dei McCullogh si dipana con quella del Texas occidentale. Discendenze di allevatori, pionieri e petrolieri trapassate da massacri, soprusi e improvvise ricchezze.

7) Questi sono i nomi di Tommy Wieringa (Iperborea, traduzione di C. Cozzi e C. Di Palermo)
Camminano. Perché questo è il loro destino. Sette profughi innominati solcano il dorso dell’Asia centrale. Procedono verso Occidente, verso un’appartenenza, un’identità, in un affresco epocale del genere umano.

8) Golden Boy di Abigail Tarttelin (Mondadori, traduzione di Gioia Guerzoni)
La storia di Max, ragazzo popolare che nasconde sotto i vestiti la sua terra di mezzo, la sua natura intersex. Furbo e avvincente come lo stile della sua autrice.

9) L’uomo seme di Violette Ailhaud (Playground, traduzione di Monica Capuani)
Un villaggio dell’Alta Provenza viene spogliato di maschi dalla guerra. Restano solo le donne a condividere un voto, un intento, un progetto. Chiunque sarà il primo uomo, loro lo condivideranno.

10) Belushi. In missione per conto di Dio di Alberto Schiavone e Matteo Manera (Edizioni Bd)
Graphic novel di tributo alla vita dell’attore. Smaliziato e minimalista, fedelmente pazzo.

E ora, se vorrete, a voi il gusto di apportare correzioni.

“Un avamposto del progresso”
di Joseph Conrad

I primi due racconti che Joseph Conrad pubblicò nel 1897, su due diversi giornali, vengono ora riproposti, in un unico, elegantissimo volumetto, da Adelphi (Un avamposto del progresso, 2014): scelta tanto più meritoria, in quanto, come noto, l’editoria italiana si mostra generalmente piuttosto refrattaria verso il genere letterario del racconto, o comunque di ogni narrazione che non sfami gli onnivori lettori con corposi tomi sulle cinquecento pagine, ma provi piuttosto a misurarsi nella squisita arte necessaria a sviluppare e condurre a conclusione una storia nel giro di qualche decina di pagine, al più.

Arte di cui questi due racconti, e soprattutto il secondo in ordine di pubblicazione, ma qui impaginato per primo, rappresentano già due splendidi esempi.

Nel più antico, infatti, “La laguna”, oltre alla raffinatezza, non aliena da toni e preziosità da prosa lirica, degli squarci descrittivi che intercalano la voce narrante, Conrad adotta per la prima volta il meccanismo narrativo destinato ad essere portato alla perfezione in molte delle sue opere maggiori: quello, cioè, per cui una parte della narrazione, naturalmente il suo nucleo più ricco di passione e d’intensità umana, viene svolta non dal narratore, ma da uno dei personaggi interni al racconto, talvolta a grande distanza, cronologica o spaziale, dal teatro della vicenda. Un espediente narrativo che rende la storia, come è facile capire, assai più coinvolgente, per il lettore, che se fosse stata narrata tutta con l’imparzialità “fotografica” del narratore onnisciente caro alla grande narrativa del pieno Ottocento.

Èdunque Arsat, «un uomo giovane, robusto, con un ampio torace e le braccia muscolose», vestito appena di un sarong e «in testa, niente», che accoglie il «bianco» (nient’altro ci viene detto, di questo personaggio che si lascia facilmente interpretare come un alter ego di Conrad stesso) in viaggio sul fiume, e gli dà ospitalità per la notte. Sarà appunto la notte in cui, mentre all’interno del capanno la sua giovane donna «respira e brucia come se dentro avesse un fuoco. Non dice niente; non sente niente; brucia e basta», divorata da un male di cui non conosceremo la causa e per cui il nuovo venuto non ha portato alcuna medicina, Arsat ripercorrerà per il suo ospite occidentale la storia che lo ha condotto, per amore di quella di donna, ad abbandonare in mano dei suoi nemici la persona a lui più cara: suo fratello.

Sì che quando, all’alba, dopo che un maestoso uccello bianco si alza in volo nella luce del sole per «sparire nel blu come se avesse lasciato la terra», la donna «non brucia più», ci sembra di cogliere il senso di questo explicit imposto dal destino (essendo ormai il cielo di Conrad del tutto deserto di dei) ad Arsat: che di fronte ad esso però – nelle righe finali del racconto, mentre il «bianco» si allontana sul suo sampan – assume, da eroe già pienamente conradiano, la posa di un qualche protagonista di laicizzata tragedia greca: «Era in pedi, solo, nella luce spietata: e oltre il chiarore immenso di un giorno senza nuvole scrutava  la tenebra di un mondo senza illusioni».

La tangenza rispetto alla grande tragedia è ancora più evidente nell’altro racconto, che presta il titolo al volume, giacché i due protagonisti, dalla cui descrizione il racconto stesso prende le mosse, resteranno indissolubilmente legati uno all’altro – un po’ come poi i due ufficiali rivali attraverso i decenni, nei Duellanti – fino alla conclusione, di alto, drammatico impatto emotivo e, perché no, morale.

Meno elaborato, rispetto alla “Laguna”, sul piano della tecnica narrativa – che è, rigorosamente, focalizzata sull’esterno dei personaggi e condotta con scrupolosa sovrapponibilità del tempo narrativo al tempo dell’azione – il racconto è invece più complesso su quello dell’impalcatura ideologica. E lo dimostra il fatto che al delitto e al castigo risolutivi, oltre che da un crescendo di angoscia (l’isolamento rispetto al mondo da cui si proviene, i viveri che si rarefanno, il ritardo del battello, che giungerà, sì, nelle ultime pagine, ma solo per affrettare la sconvolgente katastrofé) misurato con la sapienza narrativa di un Conrad già perfettamente padrone dei propri mezzi, i due protagonisti vengano indotti dal lanciarsi contro una sola ingiuria, «schiavista».

Con quella parola, è come se l’imbiancatura perbenista che essi hanno cercato di darsi – uno vuol arricchire per procurare la dote all’amatissima, e poco avvenente, figliola, l’altro, per più prosaiche questioni di bolletta, e di riscatto di fronte all’intero gruppo famigliare – crollasse, e, preannunciata dall’amara ironia del titolo, non restasse che la nuda, belluina ferocia dell’essere umano: la redditività dell’avorio strappato dalla Compagnia per loro tramite ai quasi subumani nativi l’ha resa socialmente accettabile, ed essa ormai non ha più alcuna remora a scatenarsi. Fino alle estreme, tremende conseguenze: che ci prendono alla gola, come un tuffo nel nostro stesso sangue.

(Joseph Conrad, Un avamposto del progresso, a cura di Matteo Codignola, Adelphi, 2014, pp. 124, euro 12)

“La signora di Wildfell Hall”
di Anne Brontë

«Era preciso e puntuale […], ha sempre reso giustizia alle mie buone cenette […] e questo è tutto quanto una donna deve attendersi da un uomo». La madre del narratore (parziale) di questa storia la vede così. Siamo nei primi decenni dell’Ottocento, nella campagna inglese, fra gente il cui perbenismo è fatto di convenzioni sociali tenaci, e se pensiamo che invece La signora di Wildfell Hall (la seconda narratrice e vera protagonista della vicenda) vi fa la sua comparsa in maniera piuttosto misteriosa, che è accompagnata solo dal figlioletto, che nulla si sa di lei e nulla sembra avere intenzione di rendere noto, e che il primo narratore – un possidente terriero – è destinato a incuriosirsene assai, snobbando la donna che sua madre ha in serbo per lui, abbiamo già il campo di forze che prepara una storia. A raccontarcela è Anne Brontë (1820-1849), la meno nota delle tre sorelle (autrice anche di un altro romanzo, Agnes Grey), e a riportarla in vita per i lettori italiani sono Monica Pareschi, ideatrice e curatrice della collana Grandi scrittrici per l’editore Neri Pozza e la traduttrice Francesca Albini.

Puro Ottocento di mezzo, il romanzone della Brontë: storia che si costruisce piano fra descrizioni puntigliose di ambienti e personaggi, narrazione mista fra l’epistolario e il diario, conflitto fra idealità e realtà, linguaggio vivo ma retoricamente complesso nei dialoghi, nei quali non di rado la fa magnificamente da padrona una sarcastica, antinomica deferenza, sviluppo lineare nell’evoluzione di un personaggio da un prima a un dopo secondo il modello del romanzo di formazione (anche se questo non è un romanzo di formazione tout court).

Helen Graham, la signora in questione,  ha scelto di abitare a Wildfell Hall in una casa fatiscente, isolata, a due miglia dai vicini più prossimi – non mancano nelle descrizioni i cascami gotico-romantici ben noti alle sorelle di Anne – e quanto più gli altri si fanno curiosi, tanto più lei li tiene freddamente a distanza (a volte «asociale in modo provocatorio», risponde con un moralismo tutto suo a quello degli altri). Gilbert però riesce a conquistarne con molta pazienza la fiducia – la guarda dipingere, attività che sembra appassionarla e prenderle molto tempo, vede in lei «occhi pieni di sentimento  […], un ardore, un’intensità» che non ne cancellano la ruvida schiettezza ma le cambiano segno. Ci riesce al punto di ricevere da lei i suoi diari, grazie ai quali potrà far luce sull’oscuro passato della donna. Che si chiarisce via viva anche per il lettore. Di Helen infatti scopriamo che viene da un matrimonio sbagliato con un “libertino” (così lo definiva sua zia, che pure l’aveva messa in guardia dallo sposarlo), che si è ribellata al destino dell’epoca (che voleva la donna sottomessa ai capricci del marito), abbandonandolo nel momento in cui si accorge che questo sfaticato incline a troppi piaceri rischia di dare al loro unico figlio la stessa impronta piscologica e culturale che lei crede di dover combattere. Helen insomma è una femminista ante litteram, e paga con la solitudine (temporanea) e la sospettosità non priva di disprezzo altrui il suo coraggio. E questo va bene.

C’è un ma. Nella prefazione Alessandra Sarchi illustra con chiarezza i motivi di interesse di un libro che merita di far parte della grande storia del romanzo ottocentesco – motivi estetici ma anche ideologici. Solo, non sarei sicuro che l’ideale di giustizia alla base del percorso esistenziale della donna sia ascrivibile a un impianto illuministico – non del tutto, almeno. Helen sposa il suo uomo “per redimerlo”, per farne un uomo diverso, ossia altro da quello che pure le ha fatto perdere la testa: ora, a me pare che questo abbia a che fare più con una spinta dai tratti puritani – tacendosi della banale attrazione erotica che non dovrebbe necessitare di un’autorità freudiana per essere riconosciuta. Insomma, sarà che gli occhi dello scrivente sono maschili, ma la storia magistralmente dispiegata dalla  Brontë, ci mette davanti sì un grande personaggio ma non più simpatico degli altri con cui ha a che fare. Fa bene Helen a inchiodare il marito – infantile e paraculo ma imperdonabilmente patetico nel momento del bisogno – alle sue responsabilità, ma lo zelo nel perseguire la propria virtù e perseguitare i vizi altrui non ne fanno un’eroina meravigliosa. Così, direi che la forza di questo libro (e un’opera estetica per fortuna va sempre al di là delle ragioni intenzionali dell’autore) sia poco nell’instabile fascino di un paradigma valoriale e molto nella straordinaria capacità di racconto della Brontë: l’esame e l’articolazione dei personaggi, per esempio, la costruzione e l’animazione del décor – per quel che è dato intendere dalla bella traduzione dell’Albini, si chiama scrittura.

(Anne Brontë, La signora di Wildfell Hall, trad. di Francesca Albini, Neri Pozza, 2014, pp. 592, euro 16)

“St. Vincent” di Theodore Melfi

Può capitare di essere considerati santi senza far niente per apparire anche solo essere umani decenti. E possono esistere film che trovano tutta la loro santità cinematografica in un personaggio e in un attore che fa passare in secondo piano la mediocrità generale. È il caso di St. Vincent e del suo santo personale, Bill Murray.

Vincent MacKenna è un misantropo tendente all’alcolismo e sull’orlo di un baratro finanziario. La sua vita non prevede molto di più stimolante del trascinarsi dal divano al bar, con tappa in cucina per un bicchiere, e gli incontri settimanali con Daka, una prostituta russa e incinta a corto di clienti. Le sue entrate sono affidate a un rigido sistema di scommesse sbagliate ai cavalli che lo mettono in difficoltà di vario tipo. Una mattina Vincent viene svegliato dal suo coma etilico abituale dal tonfo di un ramo schiantato sulla sua macchina, che lui dice essere d’epoca, ma assomiglia più a un rottame. È stata la ditta di trasporti che sta ultimando il trasloco di Maggie e di suo figlio Oliver, i suoi nuovi vicini. Per una serie di circostanze Vincent inizia a prendersi cura di Oliver mentre Maggie lavora. Ovviamente chiede dei soldi in cambio, ma presto il rapporto assume un valore nuovo, di arricchimento reciproco.

Di film basati su relitti umani che trovano un riscatto attraverso un incontro è pieno il mondo. Il cinema statunitense ci sguazza nell’idea, o nel sogno, del cambiamento, del riscatto delle morali offese dalla vita. St. Vincent non fa eccezione. Il praticamente esordiente Theodore Melfi – regista, sceneggiatore e produttore, molti corti e un film nel 1999, Winding Roads passato praticamente inosservato – si inserisce nel filone puntando tutto sul Vincent a cui viene appioppata la santità.

Diciamo che il settantacinque per cento di questo film lo fa il cast. Di questo settantacinque, almeno la stessa percentuale spetta al solo Bill Murray, straordinario Vincent in sandali e calzini, sigaretta, parolacce e tute sdrucite. Indossa il suo dispetto per l’umanità con tutta la classe del grande attore che è, mostrando tutto quel mondo che si anima all’interno del suo personaggio senza mai rivelare niente. Perché Vincent non è solo un uomo che beve troppo e spende a caso i soldi. Sotto lo strato di accidiosa misantropia frigge un nucleo di dolore e sacrificio. Sopporta la fatica di una moglie malata, incapace di riconoscerlo come marito, che va a trovare ogni settimana nella lussuosa clinica in cui l’ha sistemata fingendosi un medico senza mai dire niente. È uno che continua a farle il bucato personalmente, Vincent, nonostante paghi qualcuno per farlo. È uno che mangia sardine di discount e compra le migliori scatolette per il suo gatto, e che paga con la sua assicurazione le visite mediche di Daka. È per questo che il piccolo Oliver, che è interpretato da un ragazzino che potrebbe avere talento, Jaeden Lieberher, instancabilmente alla ricerca di una figura maschile forte, lo vede come il suo santo, il santo umano di cui tutti hanno bisogno, il modello concreto di fallimenti ed errori in cui è possibile veder brillare una grazia non cercata. È Vincent a insegnargli le cose che la scuola non insegna, ad alzare la voce quando è giusto, per esempio, o a difendersi. Come è ovvio, l’arricchimento è reciproco, per cui da Oliver, Vincent impara soprattutto a sopportare gli altri, di nuovo, e a trovare, alla fine di tutto, un riparo dalla tempesta.

Intorno a loro si muovono l’attrice comica Melissa McCarthy, che mostra una precisa consapevolezza drammatica, nei panni della madre sempre sommersa di lavoro e costretta a lottare con un ex marito che vorrebbe tutto, e Naomi Watts che dà accento e volgarità alla “lavoratrice della notte” Daka.

Tolto il grande contributo di Bill Murray e degli altri attori, di St. Vincent non rimane molto altro se non una commedia di buoni sentimenti come se ne sono viste già tante e se ne continueranno a vedere. Senza un’idea particolarmente originale nello spunto di partenza, Melfi riesce ad arrivare verso l’inevitabile lieto fine senza particolari sussulti e allo stesso tempo evitando eccessive cadute di stile e banalità.

(St. Vincent, di Theodore Melfi, 2014, commedia, 109’)

“Democracy”
di Joan Didion

Nel 1992 Joyce Carol Oates concepì un romanzo breve – inusualmente breve, se si pensa alla sua torrenziale produzione romanzesca – sulla base di alcune annotazioni prese nel 1979. Quelle annotazioni (che riguardavano un evento di cronaca nera) divennero poi il fulcro di Black Water, la storia dell’incontro tra il Senatore e Kelly, dell’auto di lui che sbanda e finisce nell’Indian River, dell’acqua nera che li inghiottisce entrambi, la storia della palude da cui solo il Senatore riemerge e, lui, solo, si salva. Di questo piccolo e potente nucleo, carico di allusioni alla tracotanza del potere e all’inafferrabile ingerenza che questo ha sulla vita del singolo, sembra figlio anche Democracy (edizioni e/o, Roma, 2014), quarto romanzo di Joan Didion. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1984 (ma ambientato nel 1975) di nuovo sulla scorta di alcune note (relative stavolta alle sensazioni che le immagini della caduta di Saigon evocarono nell’autrice), Democracy sembra comporre con Acqua nera uno splendido dittico. Come nel romanzo della Oates, anche al centro di Democracy ci sono un senatore, Harry Victor, e una giovane donna, sua moglie, Inez Victor, nata Christian. E come la Kelly di Acqua nera finisce per soccombere, intrappolata nel sedile dell’auto del Senatore, anche Inez Victor, pare arrendersi di fronte alle manipolazioni del marito, della stampa, delle continue incombenze che la vita di moglie di senatore le impone; manipolazioni senza le quali la vita di Inez non sembra neppure concepibile: Inez è la figlia di Paul Christian, è «conosciuta sul posto [le Hawaii] come la nipote di Dwight Christian», è, naturalmente, la moglie di Harry Victor. La sua identità è continuamente presentata attraverso un referente esterno, come se l’autrice stessa non sapesse introdurla altrimenti, come se neppure agli occhi di Joan Didion Inez fosse sufficientemente interessante nella sua singolarità: a p. 22 è la Didion stessa ad ammettere: «Dapprima delle due figlie mi interessava più Janet, la sorella minore».

Così, mentre il marito è all’apice della carriera (ha persino corso per la presidenza degli Stati Uniti) questa inafferrabile ed eterea Inez (più eterea che inafferrabile, forse, vale a dire più evanescente che enigmatica) assiste, apparentemente inerte, al lento sfacelo della sua vita privata. Ma se il colore del romanzo della Oates è quello scuro e implacabile della melma della palude, Democracy si apre con il tenue color pastello della luce dell’alba: «La luce dell’alba durante i test del Pacifico era qualcosa da vedere. Qualcosa da contemplare. Qualcosa che ti faceva quasi pensare d’aver visto Dio». Perché Inez, a differenza di Kelly, ha qualcos’altro oltre Harry, il senatore. Inez ha anche Jack Lovett, ha forse solo Jack Lovett, «solo» perché è l’unico frammento della sua esistenza non mediato (e mediatizzato) dalle dichiarazioni del marito, da quelle dei suoi fidati portavoce, della stampa e neppure dalla Didion stessa. È infatti Jack è il solo personaggio che Joan Didion sembra rinunciare a delineare con nettezza: figura ambigua, forse trafficante d’armi, forse agente segreto, incontrato da un’Inez ancora quindicenne (lui è di vent’anni più vecchio) a Honolulu, dove viveva con la famiglia del padre. Tra Honolulu e il Sudest asiatico, tra San Francisco e Washington, sullo sfondo della politica internazionale, si snodano le vicende alterne di Harry Victor e Inez (che nel 1975, anno della disfatta vietnamita, sono sposati ormai da vent’anni), e di Inez e Jack Lovett, la cui relazione extraconiugale a tratti sembra non essere neppure mai stata consumata.

Di Acqua nera Democracy è però più (splendido) controcanto che speculare esperimento narrativo. Se nel racconto di Kelly infatti Oates autrice si dileguava nel monologo fiume della ragazza morente, in Democracy Didion procede per frammenti giustapposti, intervenendo ogni volta che può proprio en tant que autrice, a volte per puntualizzare a volte per esprimere le sue stesse incertezze: fingendo di aver conosciuto Inez (mentre lavoravano assieme alla redazione di Vogue, cui effettivamente Joan Didion ha lavorato in quegli anni) la Didion fa del suo romanzo un’inchiesta romanzesca metanarrativa la cui cifra ibrida si riflette in ogni suo aspetto, dall’intento alla struttura, dall’invadente presenza dell’io autoriale allo stile. «Io non ho un modo univoco per cominciarlo [il romanzo], benché abbia certe cose in mente» dice la Didion. «Ho in mente» continua «Colori, umidità, calore, l’aria abbastanza azzurra, le parole che Inez stessa usò per spiegare perché si era fermata a Kuala Lumpur». Da questo lirico nucleo centrale Joan Didion sceglie di non narrare («Ecco i cocci del romanzo che non scriverò più, l’isola, la famiglia, la situazione. Ho perso la pazienza. O me n’è mancato il coraggio») la storia dell’ascesa e della caduta della famiglia di Inez, tema che avrebbe sicuramente avuto bisogno di una struttura narrativa più canonica, ma di lasciare la storia snodarsi da sé, attraverso le sue differenti versioni e la mimesi dei generi più vari (storia d’amore, cinica analisi politica, autofiction, persino il giallo), in uno stile sempre bilanciato (ed è questa la prima e la maggiore forza del romanzo) tra indagine documentaristica e impulso lirico, tra toni distaccati e toni più ironici: e il titolo è l’ironia suprema, quella democracy nell’anno che di una certa idea di democrazia ha segnato la fine.

(Joan Didion, Democracy, trad. di Rossella Bernascone, e/o, 2014, pp. 224, euro 14,50)

“Filumena Marturano”
di Edoardo De Filippo

«’E figlie so’ffiglie… E so’ tutte eguale…»

Ancora oggi questa massima echeggia nella nostra mente come se fosse un’idea innata, un detto popolare in dialetto napoletano che è presente alla memoria di tutti e che pare esista da sempre, diffusosi non si sa quando e non si sa dove, e che all’occorrenza viene ritirato fuori. Ma in realtà la sua carta d’identità reca un anno e un luogo di nascita precisi: Napoli, 1946. E ha anche un genitore: il grande drammaturgo, nonché regista e attore delle sue stesse commedie, Eduardo De Filippo, venuto a mancare una trentina d’anni or sono. Il quale la dà alla luce in una commedia in tre atti rappresentata più volte e che è nel cuore di tutti, napoletani e non, Filumena Maturano (Einaudi, 1964).

La trama è arcinota: Filumena è una ex prostituta che si finge agonizzante per costringere il suo convivente Domenico Soriano a sposarla, nonostante questi rivolga le proprie attenzioni a un’altra donna. Scoperto l’inganno, «Don Domenico» è risoluto ad annullare le nozze, finché Filumena gli rivela di essere madre di tre figli cresciuti di nascosto, di uno dei quali proprio Domenico è il padre. Alle sue ripetute richieste per sapere quale sia dei tre, Filumena, impassibile, resiste, sentenziando che «i figli sono figli, e sono tutti uguali».

Il perno della narrazione è ovviamente la ieratica Filumena, apparentemente algida e refrattaria alla commozione. Ma proprio durante lo scioglimento della vicenda, lei stessa si scioglierà in un pianto liberatorio che le permetterà di riscoprire la felicità: «Dummi’, sto chiagnenno…Quant’èbello a chiàgnere…»Come per tutti i personaggi, anche il passato della protagonista viene sviscerato nel corso della narrazione e riassunto dall’ultima battuta rincuorante di Dummi’: «He curruto…He curruto…te si’mmisa appaura…si’caduta…te si’aizata…te si’arranfecata…He penzato, e ’o ppenzàstanca…Mo nun he ’a correre cchiù, non he ’a penzàcchiù…Ripòsate!»

L’umorismo, il sentimentalismo, il legame affettivo, il realismo sono temi che emergono battuta per battuta contribuendo a creare un’atmosfera coesa: pur stando comodamente seduti a casa a leggerla, laFilumena è architettata per far percepire quelle emozioni anche a un lettore, in maniera uguale a  uno spettatore che ha assistito alla recitazione dal vivo (magari qualche decennio fa, con un brillante Eduardo nel ruolo di Domenico Soriano). Il realismo inoltre è accentuato dal valido uso del napoletano, che all’inizio può ostacolare al lettore non avvezzo a tale dialetto un approccio agile e disinvolto al testo ma, con qualche sforzo, la lettura procederà scorrevole, dando l’opportunità a chi legge di entrare in contatto con l’umile mondo della Napoli dell’immediato dopoguerra.

La quotidianità impregna il tessuto narrativo del teatro eduardiano insieme ai piccoli riti della realtà napoletana, con i suoi caffè, la sua devozione religiosa, gli umili mestieri. E a riprenderla oggi, la commedia non può non strapparci un sorriso, facendo al contempo riflettere su questioni attuali. A testimonianza del fatto che il genio di Eduardo, a trent’anni dalla morte, non è ancora deceduto.

(Eduardo De Filippo, Filumena Marturano, Einaudi, 1964, pp. 71, euro 9)

“Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà” di Ken Loach

Doveva essere il suo ultimo film, questo Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà con cui Ken Loach si è presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes, per la dodicesima volta nella sua carriera. Almeno questo era quanto aveva dichiarato, salvo poi cambiare idea e dirsi pronto a tornare dietro la macchina da presa.

Il Jimmy del titolo è Jimmy Granton, un’attivista politico irlandese di area socialista realmente esistito. La storia non è quella della sua vita, ma quella della Pearse-Connolly Hall, il centro culturale che Granton costruì a County Leitrim, nella zona nord della Repubblica d’Irlanda, negli anni Venti del secolo scorso come un luogo in cui la gente potesse riunirsi per ballare, imparare le arti, discutere o dedicarsi al pugilato. Non erano anni semplici, quelli, in Irlanda. Il conflitto con il Regno Unito stava esaurendo i suoi fuochi, ma dalle ceneri era già pronto a divampare l’incendio della guerra civile che avrebbe iniziato a contrapporre gli irlandesi uno contro l’altro. Le attività di Jimmy, rivolte esclusivamente all’arricchimento culturale dei suoi amici e compaesani, non erano ben viste dalle autorità locali, in particolare da padre Sheridan, rigido sacerdote che temeva la deriva morale dei balli e di ogni forma di cultura. Jimmy è costretto a lasciare l’isola per cercare lavoro a New York. Torna dopo dieci anni, e apparentemente niente è cambiato a County Leitrim. C’è ancora padre Sheridan a dettare la legge etica. Solo che la gente ha ancora voglia di ballare, molto più di prima, e presto Jimmy decide di far rinascere la Pearse-Connolly Hall.

Nel 2006 Ken Loach aveva raccontato lo stesso momento storico dell’Irlanda in uno dei suoi film più riusciti che gli aveva fatto conquistare la Palma d’oro a Cannes, Il vento che accarezza l’erba. Nel raccontare la storia dei fratelli O’Donovan, Loach aveva concentrato il suo racconto sulla dimensione politica del conflitto e sulla possibilità costante della violenza che degenera in guerra. In Jimmy’s Hall, con il sostegno in sceneggiatura ancora una volta del suo storico collaboratore Paul Laverty, ha scelto di cambiare registro senza perdere comunque di vista la dimensione politica e sociale.

Nella storia della piccola sala da ballo di County Leitrim c’è il solito tema della libertà, da sempre centrale nel cinema di Ken Loach. La libertà dell’individuo da ogni forma di costrizione esterna e di vincolo imposto da un pensiero esterno che limiti la possibilità di espressione dell’uomo.

Padre Sheridan si oppone a Granton in nome di valori da conservare a ogni costo, opponendosi a ogni forma di novità. Quello che Jimmy è tornato a portare nella sua Hall è una possibilità nuova che non ha in sé nessun diretto potere rivoluzionario ma che comporta un’apertura della coscienza che può rendere piccolo il mondo che il prete difende. È contro la «losangelizzazione dei costumi», che Sheridan si oppone, contro la libertà appresa da Jimmy sui libri di Marx prima e nei locali di jazz negli Stati Uniti poi, dove neri e bianchi ballano insieme e la promiscuità si confonde nel ritmo.

Solo una minoranza segue Jimmy. La maggior parte dei paesani sono con Sheridan e, in generale, con il potere, qualunque esso sia. È questo che fa impennare la violenza, fuori dalla sala, con padri che frustano le figlie e gli insulti urlati nelle sale cinematografiche. Ma Jimmy non si arrende, continua a sostenere un mondo diverso da quello che ha visto crollare con la borsa di Wall Street nel 1929 e che si continua a vedere come l’unico possibile, in cui gli uomini possano lavorare «for need, not for greed» (per bisogno, non per avidità) ed essere liberi di ballare, cantare ed essere felici.

Jimmy’s Hall si muove tra il 1932 del ritorno di Granton e il 1922 di prima della sua partenza. Cambia poco, in dieci anni, nell’ottusità del potere. Loach fa cinema schierato da sempre, e non ne ha mai fatto mistero. Si è sempre trovato più a suo agio a essere indulgente con gli ultimi che a indagare del tutto il senso della costrizione del potere. Quando è ispirato riesce a vincere la contrapposizione manichea e semplicistica che pone i “suoi” come buoni e gli altri come cattivi senza appello. A County Leitrim il potere è stupido e spietato, senza sfumature. C’e solo un giovane prete che trova inammissibile quello che succede contro il centro culturale, ma è una voce isolata e inutile. È questa contrapposizione troppo netta tra una fazione e l’altra a stridere in un contesto che non si preoccupa di approfondire la dimensione storica e politica lasciandola piuttosto come un generico riferimento. Jimmy’s Hall, comunque, trova un sostegno nella semplicità della gioia del ballo e della libertà pretesa dai cittadini che difendono la Hall perché non è solo un edificio, ma è quello che loro sono realmente, e nella storia d’amore interrotta tra Jimmy e Oonagh che torna a diventare possibile in un ballo notturno illuminato dalla luna.

(Jimmy’s Hall – Una storia d’amore e libertà, di Ken Loach, 2014, drammatico, 104’)

“Letterature germaniche medioevali”
di Jorge Luis Borges e María Esther Vázquez

Nel leggere il libro di Jorge Luis Borges, pubblicato da Adelphi, sulle Letterature germaniche medioevali viene spontaneo domandarsi quale sia il nesso tra l’autore e l’opera. Un argomento cioè solo apparentemente estraneo alla fantasia del grande scrittore argentino oppure qualcosa di più profondo e coinvolgente che attiene alla sua concezione dell’arte e al suo modo di scrivere?

La risposta la dà Antonio Melis, curatore del libro, in un pregevole saggio inserito, dal titolo “Il fascino guerriero del Nord”. Infatti qui viene riportata un’intervista di Osvaldo Ferrari del 1884, in cui è lo stesso Borges a svelarci che il senso dell’epico era sempre stato alimentato in lui come da un senso innato, e subito dopo: «È vero, l’epico mi commuove molto, in qualunque letteratura e in qualunque lingua, mentre il sentimentale mi dispiace. Forse proprio perché sono sentimentale e non sono epico mi piace l’epico e non il sentimentale».

È anche vero che a tale scelta hanno contribuito altre ragioni. A cominciare dalle frequentazioni familiari e dall’influsso paterno. Sarà infatti il padre a regalare all’adolescente Jorge Luis libri di lettura che sollecitano la sua fantasia per quel mondo primordiale, ricco di eroi e di imprese fantastiche, senza dimenticare poi le origini anglosassoni di un ramo della famiglia dello scrittore, quello paterno appunto.

Tale interesse viene intensificato in seguito con le esperienze raccolte dallo scrittore in giro per il mondo e soprattutto nei suoi soggiorni a Ginevra. Oltre all’esperienza di docenza presso l’università di Buenos Aires negli anni ’50 e ’60: durante questo periodo tale argomento diventa materia di scrittura creativa in prosa e in poesia e di attività critica, attraverso i corsi tenuti agli studenti. Molti dei contenuti di quelle lezioni confluiscono infatti nel libro in esame.

Tutto si arricchisce poi nella seconda metà del ’900 con la diretta frequentazione dei luoghi legati alla cultura e alla storia dei popoli germanici medioevali, soprattutto dell’Islanda, a cui Borges è stato particolarmente legato attraverso il contatto intenso con un pastore di pecore che coltivava il culto delle antiche divinità pagane. Perciò si può ben condividere la considerazione finale di Melis, riportata in quarta di copertina: «Il culto delle antiche letterature germaniche non solo ha illuminato la vecchiaia di Borges, il suo “occaso”, come egli stesso dichiara nel 1976, ma è circolato capillarmente in tutta la sua opera, nutrendo la riflessione sulla poesia e sul suo destino».

L’organizzazione del libro si fonda su un criterio prettamente geografico, perciò l’autore analizza la produzione letteraria in base alle tre aree del Nord-Europa: l’Inghilterra anglosassone, la Germania e la Scandinavia, secondo una scansione cronologica e una disposizione dei testi, basata sui generi letterari.

Le opere principali di ciascuno dei tre ambiti vengono esaminate attraverso efficaci riassunti: tecnica molto cara a Borges, o attraverso traduzioni di alcuni brani molto liberi e a volte perfino arbitrarie. Non mancano poi indicazioni essenziali di tipo bibliografico sia per le edizioni dei testi, sia per i lavori critici.

Questa intelaiatura tradizionale viene costantemente modificata dalle intuizioni di Borges scrittore, per cui si crea un rapporto con gli originali, ispirato a criteri di estrema libertà. Il dato più rilevante resta la libera appropriazione dei testi germanici medioevali, che entrano così a far parte di un universo letterario ignaro di ogni limite di tempo e di spazio. Si può parlare quindi di una letteratura che nasce dalla letteratura, poiché vi è una corrispondenza frequente tra l’analisi storico-filologica, condotta da Borges, e le sue rielaborazioni personali, in particolari poetiche.

Certo sarebbe un errore cercare di ingabbiare un autore tanto complesso in un solo modello interpretativo, come fa notare Marìa Kodama, vedova di Borges, in una recente intervista su Avvenire, ma è anche vero che nel libro si possono cogliere tutte le costanti della poetica di Borges e del suo modo di scrivere.

È interessante notare come ben due volte Borges si rifà alla prima grande testimonianza sul mondo culturale germanico, quella tramandata da Tacito nella Germania. L’autore esamina poi i testi fondamentali della letteratura anglosassone dell’Inghilterra, iniziando dal testo più noto in assoluto: il Beowulf, dopo aver descritto brevemente l’opera e l’attività di Ulfila, vescovo dei Goti, che tradusse in tale lingua la Bibbia, opera definita il monumento più antico delle lingue germaniche.

Borges parte dall’assunto che: «Nella letteratura anglosassone, come nelle altre, la comparsa della poesia precede la comparsa della prosa». Mette poi in rilievo due caratteristiche di tale espressione artistica: l’allitterazione e la metafora. Non desta meraviglia quindi che i testi esaminati nel libro siano prevalentemente poetici. Segue l’esamedi testi di indiscutibile valore, come Il Navigatore , Visione o Sogno della Croce, la Ballata di Maldon, che si alternano a documenti tradotti dalle Sacre Scritture.

Delle trentatré pagine che trattano la letteratura della Germania medioevale sono da segnalare le analisi delle seguenti opere: il Libro degli eroi o Heldenbuch, la Canzone dei Nibelunghi o Nibelungenlied,Gudrun con un interessante rapporto traAriostoe i Nibelunghi.

Le pagine infine più vibranti sono dedicate alla letteratura scandinava e soprattutto a quella islandese. In questa sezione si nota una presa di posizione dell’autore più partecipativa, quasi che le vicende riesumate dalle opere originali lo coinvolgano in prima persona. Non solo per una connaturale propensione all’epica, come si è sopra accennato, ma soprattutto perché «delle letterature germaniche medioevali, la più complessa e ricca è, incomparabilmente, quella scandinava».

Per concludere, Borges attraverso questo libro riesce a donarci non solo una storia letteraria, ma soprattutto un’affabile antologia e un affascinante racconto, che attraverso saghe e miti ci fa rivivere un mondo magico in cui rifugiarci.

(Jorge Luis Borges, María Esther Vázquez, Letterature germaniche medioevali, trad. di Lucia Lorenzini, Adelphi, 2014, pp. 228, euro 16)