“Under the Skin” di Jonathan Glazer

È stato accolto con qualche perplessità al suo apparire a Venezia Under the Skin, terzo lavoro del britannico Jonathan Glazer che punta tutto sulla star Scarlett Johansson (e non poco sul suo primo nudo integrale cinematografico).

Un motociclista raccoglie il corpo di una donna priva di conoscenza dal bordo della strada in una notte scozzese. Senza dire una parola la carica sul retro di un furgone. In un enorme spazio bianco e luminoso, un’altra donna, nuda, simile in tutto alla prima, spoglia il corpo con lenta precisione. Indossa i suoi panni, trucca di rosso le labbra, poi si mette alla guida del furgone e inizia girare senza meta lungo le strade statali e i grandi corsi delle città, dei paesi, dei villaggi. Quando incontra degli uomini accosta, chiede informazioni su mete sempre diverse, sorride, fa complimenti e li invita a salire. Li porta in case in rovina che dietro la porta d’ingresso nascondono uno spazio enorme, questa volta nero. Lì inizia a spogliarsi, fissando negli occhi gli uomini, un panno alla volta, loro la imitano, la seguono mentre cammina in una specie di danza lenta, finché il pavimento non si fa liquido e li inghiotte. La donna è una cacciatrice aliena, cerca uomini soli per imprigionarli, il motociclista la segue in silenzio eliminando le tracce dell’esistenza delle vittime.

Come la cacciatrice sia arrivata sulla Terra, chi sia, perché prenda prigionieri, non viene mostrato dal regista Jonathan Glazer, che ha compresso le più di mille pagine del romanzo cult di Michael Faber Sotto la pelle in un film di poco più di un’ora e mezzo, tagliando ogni struttura superiore, ogni elemento di fantascienza ulteriore che ponga un collegamento tra l’alieno e il suo mondo natale, tra le sue vittime e la sua missione, tra il suo essere predatrice e la forma della sua caccia.

Alleggerendo la materia narrativa di tutto quello che non è immediatamente rivolto alla cacciatrice, Glazer, che ha riscritto il soggetto e ha poi affidato la sceneggiatura a Walter Campbell, spoglia Under the Skin degli elementi più propriamente fantascientifici per concentrarsi sul duplice ruolo della femminilità. La cacciatrice aliena è una predatrice spietata consapevole della potenza della pelle che la ospita sugli uomini. Usa la seduzione per convincere le prede oltre la paura dello sconosciuto, per distrarli dall’ambiente irreale in cui finiscono per essere prigionieri, usando il corpo nudo come esca. C’è un momento in cui il lato umano inizia a prendere il sopravvento, in cui la pelle prevale sul corpo e l’umano prevale sull’alieno. È la vista del sangue di un venditore di rose, ferito da una spina, è l’incontro con un uomo deforme, gentile e timido, che non merita di finire prigioniero, a rendere l’alieno donna, a farle scoprire una dimensione umana. La scoperta delle sensazioni – la fame, il ritmo, il freddo, la paura – e la guida paziente di un uomo buono, che la assiste senza domandare, allontanano la natura feroce della donna conquistatrice lasciando un oggetto fragile che diventa anzi vittima della attenzioni sbagliate di un uomo.

Diventando donna, l’aliena perde la sua natura. Non affronta più il mondo, ostile e rigido come sono le Highland scozzesi battute dal vento, non usa più il corpo come un’arma.

Nel semplificare l’enorme portata del romanzo di Faber, Jonathan Glazer riduce Under the Skin a una metafora dell’aggressività dell’uomo contro il diverso, sia esso la donna o l’alieno. La nota di freddezza generale che attraversa il film, dall’indifferenza algida degli alieni all’incapacità affettiva degli uomini, unita al livore della messa in scena, dipinge un mondo ostile e distante, in cui il contatto, la comunicazione, non è mai pienamente possibile e a prevalere è sempre la solitudine.

Se si può contestare che il passaggio da predatrice a preda sia svolto con eccessiva leggerezza nel suo procedere per scarti che devono essere intesi perché appena mostrati nella semplificazione quasi sublimata di ogni forma di rappresentazione emotiva, è innegabile che lo stile in sé visionario di Glazer – tornato ai livelli dei suoi videoclip più celebri (“Street Spirit” e “Karma Police” per i Radiohead; “Karmacoma” per i Massive Attack) più che al suo cinema precedente (soprattutto Birth – Io sono Sean), amplificato dall’assimilazione quasi completa, a tratti imitativa, della lezione del Kubrick di 2001: Odissea nello spazio – coniugato alla colonna sonora alienante di Mica Levi, ponga Under the Skin nel ristretto novero di film dotati di una personale, e riconoscibile, cifra stilistica.

Scarlett Johansson è brava a incarnare due diversi tipi di impassibilità: il primo è quella dell’aliena aggressiva, consapevole del potere sessuale che sfrutta con calcolo; il secondo è quello dell’attonita presa di coscienza del lato umano, della debolezza delle sensazioni nuove, della fiducia, della solitudine, della paura.

(Under the Skin, di Jonathan Glazer, 2013, fantascienza, 104’)

“unastoria” di Gipi

In Italia, si sa, siamo molto legati alle tradizioni. E questo vale anche per la letteratura. Ha perciò destato scalpore – e continua a farlo – la presenza di Gianni Pacinotti, in arte Gipi, nella rosa dei 12 finalisti del Premio Strega 2014 proclamati lo scorso 11 aprile. Il motivo? Basta solo sfogliare unastoria (Coconino Press, 2013) per rendersene conto: non si tratta di un classico romanzo, né di un racconto, né di altra forma narrativa di consolidata tradizione letteraria. È infatti un graphic novel, ovvero un “romanzo grafico”, un genere che mescola gli ingredienti tipici del romanzo con l’immagine. Ma se la sua candidatura è stata accettata, cosa potrebbe avere di così sacrilego da far scandalo?

Innanzitutto, unastoria fonde due storie, dove passato e presente finiscono per confondersi in un unico amalgama, il cui collante è il legame di parentela tra i due protagonisti. Silvano Landi, scrittore cinquantenne affetto da schizofrenia improvvisa, viene rinchiuso in una clinica dopo essere stato ritrovato quasi incosciente su una spiaggia deserta. La sua follia prende le forme di un’anonima stazione di servizio e di un albero secco quasi privo di vita, che ritrae in alcuni suoi disegni, sottoposti all’analisi dei medici che lo tengono in cura. Landi aveva precedentemente recuperato le lettere che il nonno Mauro aveva spedito dal fronte durante la prima guerra mondiale, enucleata in tutta la sua brutalità. Da qui, si dipana anche la storia dell’avo: viene dipinto mentre combatte in trincea, mosso costantemente da un unico pensiero, cioè  il ritorno a casa dalla moglie e dal figlio.
 


Dunque, nel tessere due telai di storie parallele, Gipi sfrutta una tecnica ormai saldamente ancorata alla produzione letteraria dell’Occidente, l’entrelacement, che affonda le proprie radici nel romanzo francese medievale, per raggiungere piena maturazione coi poemi cavallereschi italiani del ’500. Si pensi all’Orlando furioso, in cui Ariosto per dare voce a ogni episodio abbandona quello che sta narrando per riprenderlo in un secondo momento dal punto in cui l’ha interrotto. L’autore, intelligente regista, taglia e cuce le scene, interrompendole e riavviandole al momento opportuno. Dovendo inoltre rappresentare piani temporali differenti, all’entrelacement si affianca il flashback, strumento narrativo utilizzato sin dagli albori della cultura classica. Insomma, all’autore del graphic novel di fatto non si può imputare alcun atto eretico nei confronti della nostra letteratura: è un nano sulle spalle di giganti autorevoli.

In più, se da una parte questa pratica di scrittura annulla il processo immaginativo con cui ogni lettore può creare da sé la storia nella sua mente, dall’altra ha il vantaggio di regalarci quella realtà così come è stata pensata dall’autore stesso; e in questo caso il magistero di Gipi è innegabile. Tra presente e passato l’autore interpone una differenza cromatica: se il presente èconnotato solo dal tratto nero e leggero di una matita su uno sfondo bianco, il passato assume le sembianze di una festa di colori per lo più scuri (in perfetta sintonia con il clima bellico, teso e incerto), quasi a comunicare che i ricordi possono sfuggire all’oblio, alla fugacità del tempo, per rimanere vividi e attivi nella memoria di ognuno di noi. Facendo uso sapiente dell’acquerello, con mano ferma e decisa, Gipi tratta il foglio di carta come fosse una tela, sfiorando le corde più sensibili del nostro io; e ci ricorda quanto, nella vita, sia importante non abbattersi mai, né di fronte all’invecchiamento del corpo né di fronte alla sofferenza, perché spesso è proprio il dolore a plasmarci e a fare di noi quel che siamo.

A questo punto, è lecita una domanda: la sua accoglienza allo Strega è forse il segnale che la cultura italiana si stia svecchiando e aprendo a nuove forme? Che il graphic novel possa rientrare nel canone dei generi tradizionali? La questione è ancora aperta.

Un consiglio, infine: abbandonate ogni pregiudizio, o voi che leggete!
 


(Gipi, unastoria, Coconino Press, 2013, pp. 128, euro 18)

“Ritratti italiani” di Alberto Arbasino

Diciamo la verità, era da parecchio tempo che Arbasino non occupava più i nostri pensieri di lettori. Specie chi si era a lungo nutrito della lezione di Un paese senza o dei Fantasmi italiani, e ne aveva in gran parte condiviso la diagnosi – peraltro di lungo corso, almeno dai grandi cinquecenteschi a Leopardi, a Prezzolini e a Gadda – sul tristo carattere nazionale, e molto aveva ammirato perle come LAnonimo lombardo, si era stancato di seguirne le peregrinazioni geoculturali di una volatile ma ripetitiva enciclopedia… Poi, poche settimane fa, arrivano in libreria questi Ritratti Italiani. Ti capitano fra le mani nella classica copertina della Biblioteca Adelphi, scorri l’indice e vedi una fila alfabeticamente ordinata di nomi – i ritratti del titolo –, e pensi che sì, sai quante volte ne ha già parlato e scritto l’autore dei Fratelli d’Italia, ma la insolita compostezza strutturale, la misura cifrata in poche pagine per nome, ti fa pensare a una sorta di compendio che garantisca all’oggetto un peso maggiore di quello riservato – secondo conclamato dogma espressionista – dall’autore a se stesso.

A lettura ultimata – e anche prima, visto che il libro si può leggere nell’ordine preferito – risulta evidente che Arbasino non ha smesso di essere Arbasino (come avrebbe potuto a ottant’anni?, peraltro una parte dei testi non sembra di nuovo conio e non sarebbe stato male riferirne luogo e data di edizione)e che, sfrondate le pagine dall’enumerativa aggettivazione dannunziana, il libro difficilmente potrebbe lasciare indifferenti. Per i nomi che contiene e perché sembra in un certo senso chiudere nel corposo (più di 500 pagine) sigillo della silloge la versione più amicale e ammirata della personale Kulturkritik dello scrittore.

A. M. Ripellino, Flaiano, Sanguineti, Moravia. Ottieri, Parise, Nono, Praz, Eco, Bertolucci, Delfini, De Chirico, naturalmente Gadda, ma anche Agnelli, Pertini, Moro, un centinaio per quasi un secolo di storia culturale, civile e politica di un paese che – così raccontato – non appare più “senza” ma inusitatamente ricco, sorprendente, vitalissimo…

Si diceva, le pagine più interessanti sono quelle in cui l’autore prova a mettersi da parte per lasciare emergere il biografato o l’intervistato. Il lungo articolo su Calvino, per esempio, costituito appunto da un’intervista e da un commento alle Lezioni americane, incui l’autore de Le città invisibili si staglia sulla pagina con tutta la forza composta di un’intelligenza prudente ma mobilissima, una sorta di pragmatismo debole ma nient’affatto debilitante o inerte nel leggere le cose culturali; oppure l’analisi spietata di un cinema non sempre farlocco come ritenuto dall’autore, quello di Antonioni, considerato «pseudo-cultura» (nonché uomo, il regista ferrarese, «assai noioso e permaloso»), ma certo spesso non privo di vere e proprie ridicolaggini (direi un testo obbligato per moltissima pseudo-critica cinematografica che non sa letteralmente quello che dice), o, per restare nel cinema, l’indagine su Fellini (Arbasino riconosce come capolavori  8 e ½ e La dolce vita ma per il resto non ha mai nascosto riserve su un genio – Kundera dixit – paragonabile a Michelangelo, quello vero). Distaccato (ma si tratta pur sempre di Arbasino) e perciò narrativamente più coinvolgente il memorial dedicato a Feltrinelli, amico molto amato seppure ideologicamente lontanissimo dal Nostro. Ben letto e narrato il sense of humour di un sud laconico e insospettabile ma tagliente chéz Flaiano. Laddove in certi passi scrivere di D’Annunzio (che ovviamente non ha potuto conoscere) o del mirabolante musicologo Mario Bortolotto, per Arbasino equivale quasi a scrivere di se stesso: funambolismi, stravaganze, «erudizione smisurata, proliferante», etc.  E «l’amico Pier Paolo», l’innegabile tenerezza nei suoi confronti che non gli impedisce di sottolinearne i limiti vittimistici e di narratore. Il Novecento insomma, scusate se è poco.

(Alberto Arbasino, Ritratti Italiani, Adelphi, 2014, pp. 552, euro 28)

“Ultraviolence” di Lana Del Rey

Anche il pop ha le sue icone. E le annesse regole. Ogni cantante un settore, un marchio, uno spicchio della fetta. A Rihanna, Katy Perry, Lady Gaga, Miley Cyrus e allegra combriccola una porzione abbondante del mercato, dei soldi di ciò che compone l'imbarazzante circo della musica commerciale. Poi c'è Lana Del Rey, e la situazione fortunatamente si fa più complessa.

Chi ha avuto abbastanza tempo libero da leggere i miei articoli in questi anni di Flanerí avrà iniziato a capire i gusti e le basi critiche con cui li ho motivati e comprendo la perplessità di alcuni nel vedere un pezzo sulla Del Ray. Eppure tutto è iniziato all'uscita di Born to Die: Ondarock decise di metterlo nella casella del Disco del Mese. Incuriosito più che sospettoso, ho iniziato ad ascoltare i brani di Elizabeth Woolridge Grant e a indagare sulla sua biografia. Fu colpo di fulmine. Musicale, ovviamente.

Sulla costruzione e sulle perfette azioni di marketing attorno Lana Del Rey non si discute: il sorvolabile esordio del 2010 sotto altro nome –  Lana Del Ray A.K.A. Lizzy Grant – e sotto sembianze leggermente diverse a quelle a cui siamo abituati, fino al restyling anni '50-'60 che le ha dato fama e celebrità, riuscendo ancora di più a farla inserire in quella linea d'ombra che scorre tra indie e main stream. Qui Lana del Rey ha compiuto un piccolo miracolo, riuscendo a diventare ipercliccata su YouTube (celebri parodie comprese), ma non sporcandosi mai di plastica commerciale. In un mondo discografico in cui dominano volgarità e ostentazione, il proporre un modello vintage e di sofisticata classe è senza ombra di dubbio un rischio notevole. Personaggio quindi costruito ancora di più a tavolino? Possibile, ma non dimenticatevi di considerare l’ago della bilancia, il vero fulcro del discorso: la musica. Perché Lana non è solo un ritratto su una rivista patinata: è la voce e l’anima di canzoni fantastiche. È l'artista pop del fruitore indie. E come se non bastasse, con Ultraviolence la posta in gioco si alza. Parecchio.

Born to Die era il biglietto da visita perfetto: bellezza estrema mostrata fin dalla copertina e ritratta fino alla magnificenza in ogni videoclip, canzoni accattivanti quanto inedite per la moda di allora: ballate dolenti, momenti ammalianti e hit di sicuro impatto. Il modello era palese: la ragazza bella, dolce e indifesa, vittima degli amori per i bad boy, in giro tra macchine e moto, spiagge e piscine. Un corredo visivo ben miscelato cinematograficamente con i brani. Da lì, la perfetta collaborazione con la colonna sonora del Grande Gatsby che ne ha accentuato la collocazione di “bella e dannata.”

E ora, con Ultraviolence? Un degno seguito o un cambio di rotta? Già la notizia di Dan Auerbach dei Black Keys come produttore ha fatto urlare allo scandalo gli avversari e spiazzato i seguaci. Poi le prime foto, i  primi shoot: una Lana sfacciata, fumatrice violenta e aggressiva. Che fine ha fatto la delicatezza romantica e quasi remissiva di “Blue Jeans” e “Video Games”? Qualche risposta poteva darla il singolo “West Coast”, filo conduttore perfetto tra i due dischi.  È il brano che più si avvicina al predecessore, ma alcuni strappi sono lampanti. Il bianco e nero del videoclip e un tessuto musicale più torvo, drammatico. Indizi che tutto Ultraviolence –  sin dalla copertina e dal titolo –  mostrerà apertamente nella sua grandezza. Specifichiamolo subito: il secondo album di Lana del Rey è una grandissimo prodotto, superiore al predecessore. Ultraviolence è in primis un suicidio commerciale: di ammaliante e luccicante c'è rimasto ben poco, anzi, nulla. I ritornelli, le orchestrazioni, le basi più ballabili sono sparite. Ultraviolence è un lungo mantello nero, depresso e oscuro, fitto di blues riff decadenti. Un sogno finito male spezzato in quindici brani. L'intensità è altissima, i tono spessi esasperati, tendenti al lirico. Nessun “Inno Nazionale” come in Born To Die, ma delusioni, schegge di speranze sparse ovunque, rapporti bruciati e persi per sempre. Ultraviolence è languido, onirico,  notturno, terso di quei pensieri che ti accompagnano per strada da solo nel cuore della notte.

Il carattere e l'impronta è più cantautoriale, intima e confidenziale. L’inizio dell’album è di profilo altissimo. In “Cruel World” la chitarra onnipresente in tutto il disco apre la danza e la performance vocale della Del Rey ci porta subito fuori dal tempo e dallo spazio. “Ultraviolence” è altrettanto bella, ma più rassegnata e al confine col dream-pop. Altro pezzo forte – già seguito a livello di video di “West Coast” – “Shades of Cool”. Il ritornello, tra impalpabile lirica e strazio d’amore, è una delle vette di Ultraviolence. Ancora più chitarra in “Brooklyn Baby” prima di arrivare a quell’altro grande momento: la citata “West Coast” dove Lana più che cantare, recita in film in cui è la protagonista perfetta e assoluta. Dopo la possente “Money Power Glory” l’atmosfera inizia a farsi rarefatta , forse anche troppe per un ascoltatore medio, ma nel complesso Ultraviolence canzone dopo canzone risulta impeccabile.

Che la svolta matura, drammatica e in molti momenti depressa di Lana Del Rey avrà delle ripercussioni è palese. Sicuramente i suoi video non verranno ostentati come una volta sui social: chi vuole far sapere a tutti della propria tristezza e malinconia? E chissà quanti ascoltatori scialbi e superficiale smetteranno di difenderla perché l’appeal e il mordente del passato è finito e le sue canzoni non sono più come quelle di una volta. Sicuramente tutto questo è stato calcato in primis dalla diretta interessata e Ultraviolence è la mannaia perfetta con cui tagliare via gli aspetti più scomodi e superficiale del mondo del pop. Con Ultraviolence Lana è cresciuta, è diventata grande. Anzi, meglio: una grande artista.

(Lana Del Rey, Ultraviolence, Polydor, 2014)

 

“Big Wedding” di Justin Zackham

Big Wedding, ovvero l’ennesima occasione di riunire un grande cast di vecchie e nuove stelle del cinema per offrire un prodotto che non ha assolutamente niente di originale da raccontare. Si può tranquillamente riassumere così la commedia del 2013 diretta da Justin Zackham che arriva nelle sale italiane con un anno di ritardo rispetto alla distribuzione statunitense.

I giovani Alejandro e Missy stanno per sposarsi con una grande cerimonia nella villa della famiglia di lui. Adottato quando era solo un bambino per essere sottratto alla miseria in Colombia, Alejandro è stato cresciuto da Don Griffin, scultore dedito all’alcol, e dalla moglie Ellie, un po’ ebrea un po’ buddista che viaggia alla ricerca di se stessa e dei segreti del tantra, insieme ai due loro figli naturali. Da vent’anni Don ed Ellie non stanno più insieme, lui vive con Bebe, che un tempo era la migliore amica di Ellie, e il matrimonio è l’occasione per rivedersi tutti insieme. Non solo rivedersi: per non scandalizzare la cattolicissima madre naturale, invitata al matrimonio con la sorella mai conosciuta, Alejandro non ha mai raccontato del divorzio dei genitori adottivi. Nei giorni in cui sarà ospite da loro, Don ed Ellie dovranno far finta di essere la coppia felice che non sono più, mentre ognuno dei loro figli avrà modo, in un solo week end, di confrontarsi con i problemi di tutta la vita.

La famiglia Griffin di Big Wedding è interpretata da gente come Robert De Niro, Diane Keaton, Katherine Heigl, Topher Grace e Ben Barnes. Susan Sarandon è Bebe, Amanda Seyfried è Missy. C’è anche posto per Robin Williams nei panni del prete che deve celebrare il matrimonio. Un prete che inizia intransigente con il giovane Alejandro, non credente e immigrato, quindi esterno alla comunità, per poi rivelarsi anticonvenzionale, ex alcolizzato e tutt’altro che fissato con i canoni della liturgia. Non è un cambio di direzione, è solo una delle tante, ingenue, contraddizioni che Zackham ha buttato nella sceneggiatura per risolvere piccole svolte cercando di insistere sul pedale della trasgressione.

All’origine, Big Wedding sarebbe il remake di una commedia francese del 2005, Mon frère se marie, che già di suo non era un film memorabile. L’idea del rifacimento era quella di accumulare grandi nomi tra vecchie glorie e giovani di successo, o comunque noti per il piccolo schermo, secondo un modello che trova vari, redditivi,  esempi (Mamma mia, la serie di Ti presento i miei). Funziona per i primi dieci minuti. Gli scambi tra De Niro e Diane Keaton e l’ipocrita cordialità femminile con Susan Sarandon chiamano qualche sorriso nei minuti iniziali, poi Big Wedding prosegue in un susseguirsi di situazioni tra il comico e il drammatico basate esclusivamente sull’equivoco. C’è il fratello che vuole conservarsi vergine per il vero amore e resiste alle tentazioni di infermiere vogliose per perdere la testa per la sorellastra colombiana, la sorella realizzata sul lavoro ma incapace di costruire una famiglia, o almeno che crede di esserlo, i due ex coniugi che dietro l’ostilità ritrovano una passione che è solo affetto, e una rete di tradimenti incrociati che si sfalda nel finale caotico, affastellato e stupido.

È chiaro, Big Wedding non pretende di essere altro che puro intrattenimento in una forma tradizionale come la commedia familiare, e nuziale, sporcata con quelle che vorrebbero essere macchie di trasgressiva malizia. Non pretende in alcun modo di essere altro dal prodotto di consumo classico, dal film strappa risate destinato ad essere dimenticato non appena si lascia la sala. Se però le risate non riesce a strapparle, se non in rari momenti, se si perde in considerazioni trite e ritrite sul valore del matrimonio, sull’amore che va oltre i legami di sangue, sull’irresponsabilità del padre e l’indipendenza delle donne forti che si cementa nella condivisione, l’obiettivo non viene raggiunto e non bastano gli interpreti a sconfiggere la noia.

(Big Wedding, di Justin Zackham, 2013, commedia, 89’)

“Il corpo della vita” di David Wagner

Ci vuole fegato per scrivere. Tanto quanto ne occorre a imbucarsi nel vuoto, come una lettera cieca.

È un atto estremo, quasi terroristico, prima di tutto verso se stessi. E l’idea dell’autore infeltrito, impavido quanto le asole del suo pigiama, s’intona soltanto a chi ha smesso d’immaginare da troppo.

A patto ovviamente di farlo sul serio, senza sconti alla cassa né reti sottostanti. Quando si salta davvero, non si aspettano cuscini o tappeti di braccia. Altrimenti si compila una lista. Di eventi da supermercato o di personaggi in offerta speciale.  Ma non è questo il caso. Nel romanzo di David Wagner Il corpo della vita (Fazi, 2014) “fortunatamente” non si sceneggia affatto.

La posta in gioco è alta, gli stessi esatti centimetri di chi lo ha firmato. Perché questo non è solo un libro scritto col fegato. È un libro scritto dal fegato. Da un organo che presto comincia a scricchiolare nell’addome del suo proprietario, che cigola a tal punto da scuotere il resto. Da ammutinare un uomo intero. Da spettinargli l’infanzia, fino a infilare i suoi trent’anni di padre in una stanza d’ospedale.

È la malattia a impossessarsi della scena, fin da subito, a disputare la partita con il suo corpo in mano.

Epatite autoimmune, una «balena bianca» che si dimena nei suoi battiti. Prima lo rende stanco, stanco per vegliare, stanco per dormire, stanco al posto degli altri, di chi non lo è mai.  Poi gli indemonia il sangue fino a spingerlo in bufera, fino a farlo vomitare rosso dentro una sera ordinaria. L’esofago affoga, la vista s’ingolfa. Il peccato da espiare si chiama emorragia gastrointestinale.  Il ricovero è l’as-soluzione.

Ancora una volta. E lì, in quella savana di flebo e prelievi, si schiude un continente smisurato, un distretto di sofferenze ostentate, indossate come medaglie al valor patito. Si attendono le visite, si attendono i pasti, si attende il risultato delle analisi, si attende e basta, mentre gli alberi raccontano un’aria impossibile, stagioni invidiate tra i piedi di chi passa. Un limbo di anime in pantofole, che gareggiano per la degenza più dolente. Chi ha subito più interventi, chi è stato quasi morto. In palio non c’è niente, c’è un eroismo senza guerra dove la patria da salvare è solo il giorno dopo.

David intanto ha bisogno di un trapianto. Quel fegato che ha tracannato tutta la sua storia, ora non basta più. Tossisce, arranca, boccheggia. E tutta l’orchestra di carne trema insieme a lui. Sinfonia di una sconfitta. Non resta che tornare a casa, fino allo squillo giusto. All’annuncio fatidico. Fino al decesso che lo faccia rinascere. David è costretto a sperare che qualcuno non respiri. Che venga investito, che si strozzi con le olive, che non abbia abbastanza destino. Che gli presti altri inverni in cui scongelarsi.

Il “pezzo di ricambio” finalmente arriva, come un regalo vero, uno di quelli per cui la gentilezza non si può restituire. Il donatore scivola in lui, sfocia come un affluente, diventa un quartiere del suo ricevitore.

Forse adesso David vivrà diversamente, penserà altri pensieri, sognerà altri sogni, sarà abitato da chi abita in lui. Perciò quell’entità salvifica sconfina nelle vene e si tramuta nell’interlocutore di Wagner, nebuloso e vitale, incappottato in un mistero necessario. L’autore se lo figura donna, caduta chissà come, incespicata nel suo ultimo istante, pronta a cedergli il posto nella staffetta continua tra defunti freschi e vivi stagionati.

Ma il recupero è tutt’altro che semplice e in questo docu-diario sminuzzato in appunti, frammenti di minuti diluiti e di anni condensati, si rovescia il suo presente di adulto accudito come un bimbo e il suo passato di giovane qualunque. I viaggi rischiosi, ovvero quasi tutti con quella pancia imbizzarrita, il mare aperto di una normalità strappata a morsi spigolosi. I rapporti naufragati, la paternità che da sola riscalda la camera, anche quando le gambe si sciolgono molto prima di raggiungere il bagno. I lutti familiari e il dubbio campale di quanto rimanga da aggiungere al già visto. Sarà servito a qualcosa pazientare e soffrire? Galleggiare a bordo di un letto a rotelle?

Per questo esiste la scrittura, il coraggio di imprimere il segno e d’immortalarsi più che mortali.

Il corpo della vita, s’inscrive nel genere ideale dei “romanzi ospedalieri”, delle storie da corsia, come Cosa sognano i pesci rossi di Marco Venturino, atrocemente intenso nel suo quadro speculare tra medico e malato, o Il regno di Op di Paola Natalicchio, ambientato nello strazio di una madre al reparto di oncologia pediatrica o ancora A cosa servono gli amori infelici di Gilberto Severini, resoconto epistolare di un cuore al capolinea. In ognuno di essi c’è uno sguardo dall’aldiqua, da un purgatorio vissuto non solo come un corridoio, ma come una lente per capire ciò che oltre quella linea ci sembra quasi invisibile.

La crudezza del male, la verità meta-fisica della nostra decadenza.

Noi che siamo beni deperibili, da consumarsi preferibilmente entro quando non sappiamo, abbiamo solo l’occasione di conoscere le nostre crepe e di lasciare che, meglio e più dei trionfi, parlino per noi

(David Wagner, Il corpo della vita, trad. di Fabio Lucaferri, Fazi, 2014, pp. 280, euro 16,50)

“Cazzimma” di Stefano Crupi

Sisto corre a casa di Profumo: Cavallaro sa tutto. C’è da decidere il da farsi, e la cocaina aiuta. Profumo cerca di ragionare, è tranquillo, «si fa una pista e Sisto con lui. Cazzo se ne ha bisogno!». Poi realizza, e «adesso sembra di essere fottuto anche a lui che fottuto non si sentiva».

La fatalità spesso la si innesca, è sufficiente marcare un po’ e inconsapevolmente la mano per oltrepassare quella linea invisibile oltre la quale non si è più padroni delle proprie azioni. Come una palla che prende una traiettoria imprevista. Ma il calcio gliel’hai dato, vuoi per noia, vuoi per rabbia. Vuoi perché ti senti sicuro di te: te la metto lì. Ma così non è, capita che quella palla si perda, e ciao, tutti a casa.

E in Cazzimma (Mondadori, 2014) a casa, sani e salvi, torneranno davvero in pochi.

Sisto corre sul suo scooter, dribbla gli ostacoli con velocità prodigiosa, raccatta Profumo, spacciano coca: la vita è bella. Siamo però a Napoli, e nel quartiere il boss è Cavallaro, che prende da parte i due e illustra loro che cosa voglia dire saper campare. Se Sisto vorrà continuare ad aggirarsi per le strade di questo mondo, dovrà porre fine una volta per tutte alle stronzate di Profumo. Tutto ha un prezzo. Quindi Sisto ha una pistola in mano. La punta su Profumo, già mezzo morto a terra.

Non è che Sisto se la cavi perché sia speciale: è solo il nipote di Antonio, e Cavallaro ha fiducia in Antonio, da sempre. Se non hai cazzimma, nella «città maledetta» ti passano sopra.

C’era un ragazzo che tutti chiamavano Hamsik, un mostro col pallone. Un giorno chiede a Sisto di chiedere allo zio di chiedere a Cavallaro di far qualcosa, lui sa solo giocare a calcio, vuole la primavera del Napoli. Va bene, dice Cavallaro. Però Hamsik mi deve ospitare a casa un amico che viene dalla Sicilia. E così fu che Hamsik ospitò e in breve strangolò quel bastardo di siciliano, che voleva fare il padrone a casa sua. E di Hamsik e della madre non si seppe più nulla. Mai più. Ogni tanto qualcuno ne parla nel quartiere, e tutto muore lì.

Sisto è adesso a Prato, perché ha sbagliato, perché deve starsene lontano dai casini. Lavora in fabbrica, conosce Carmela. Si innamorano. Sisto tornerà però a casa, per pareggiare i conti con la propria coscienza, resa ora più viva dall’amore. E a casa, a Napoli, i colpi di scena. Alle volte basta volerle, le cose, e agire.

Ciò che stupisce di questo primo romanzo di Stefano Crupi è l’apparente facilità con la quale l’autore precipita il lettore nell’ambientazione: Napoli, prima ancora che una città, è un concetto dalla prepotente forza figurativa. Mise en abyme. Curzio Malaparte ne aveva già subito tutto il fascino; ma la guerra in città – e la storia lo neghi pure – non è mai finita: a che cosa si resiste ancora, oggi, a Napoli?

Crupi, giornalista, osserva. E non blatera: racconta. Rende visibile. E questo è un indiscutibile merito. Perché se non vedi, non credi. Se non vedi, dai fiato alla bocca. E quando l’aria è viziata bisogna pur aprire le finestre, te lo insegnano sin dall’asilo. Poi sta a te.


(Stefano Crupi, Cazzimma, Mondadori, 2014, pp. 250, euro 16)

“Karoo” di Steve Tesich

Steve Tesich è stato uno dei più importanti sceneggiatori statunitensi negli anni Ottanta e Novanta; lo stesso mestiere è quello che ha affidato a Saul Karoo, il protagonista di un suo brillante romanzo, pubblicato per la prima volta postumo nel 1998, Karoo appunto (Adelphi, 2014).

Tuttavia, a differenza del suo autore, Saul Karoo, benché più volte stimolato, non è mai riuscito a scrivere niente di suo pugno; la caratteristica principale del suo lavoro è infatti quella di sistemare sceneggiature altrui, di tagliarle o integrarle, di sconvolgerle totalmente o aggiustarle nei punti salienti. E questa modalità professionale pare riflettersi anche sulla sua vita privata: Saul è drammaticamente incapace di vivere la sua vita in prima persona. È un uomo incapace di rimanere solo nella stessa stanza col figlio, di interagire con l’ex moglie e con chiunque altro senza stordirsi di alcol; non riesce a guardare la madre, a rifiutare incarichi che non vuole e di cui non ha bisogno. Saul Karoo non riesce a mostrarsi per l’uomo che è, può solo assecondare l’immagine, spesso impietosa, che gli altri gli hanno cucito addosso.

A dare l’avvio al romanzo è una serie di lievi trasformazioni che sconvolgono la vita del protagonista facendo affiorare in lui un crescente senso di colpa che cova da tempo nel profondo: l’incapacità di ubriacarsi, la revoca dell’assicurazione sanitaria, la perdita dei vecchi abiti del defunto padre. Questi piccoli mutamenti del quotidiano innescano reazioni tragicomiche, portano Saul a una maggiore coscienza di sé e segnano l’inizio di una nuova, finalmente felice, fase della sua esistenza. Eppure gli eventi continuano a sopraffarlo senza che lui riesca ad averne pienamente il controllo, tanto che anche il lettore è in grado di prevedere i nuovi risvolti della sua vita prima che lui stesso possa avvedersene.

L’autore riesce mirabilmente a giocare con questi due piani narrativi, rendendo il lettore una sorta di osservatore a grado zero, ma senza diventare mai didascalico. Gli eventi scorrono come un liquido tra le pagine del libro, o meglio, come i fotogrammi di un bel film, di cui si intuisce il procedere della trama. Ma il finale, quello no, non si intuisce, ed è una sensazione eccezionale venirne sorpresi dopo aver avuto più controllo del protagonista sul suo stesso vissuto.

La storia poi si bilancia e si compone di situazioni acutamente ironiche e di eventi drammatici, che vengono trattati con la stessa leggerezza, con la stessa grazia e senza alcun giudizio dalla penna di Tesich. Una penna fantastica che sa usare e piegare le tecniche narrative letterarie per una fruizione cinematografica del romanzo; un esempio su tutti i flashback che raccontano il passato del protagonista mostrandolo senza spiegarlo, aggrappandosi ad oggetti e immagini.

È proprio un bel viaggio quello che si intraprende con la lettura di Karoo: sui binari di una trama – che non ho voluto descrivere – ricca e dinamica, sotto cui scorre, nascosto in bella vista, un approfondimento sulla natura umana senza inibizioni, senza paura e senza difficoltà.

(Steve Tesich, Karoo, trad. di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, 2014, pp. 459, euro 20)

“Nostalgia” di Eshkol Nevo

«Nostalgia è una bella parola, si ferma Saddiq, e Mustafa: perché proprio quella? Che ci trovi di bello? Saddiq si spreme le meningi (la notte quasi non ha dormito, e nemmeno la precedente c’è riuscito) e dice: perché la nostalgia è come hai detto tu, voler essere in un altro posto. E questa parola, gaaguim, è come un bambino che piange perché vuole la sua mamma, ga-a-gu-im, ga-a-gu-im, capisci che intendo?»

Quando gli anni da vivere cominciano inesorabilmente a essere meno di quelli vissuti, come i granelli di sabbia di una clessidra che velocemente vengono risucchiati verso la parte sottostante, si fa strada un sentimento che sembrerebbe peculiare della senilità ma di cui nessuno può dirsi immune: la nostalgia.

Nostalgia di una persona che non c’è più o di un oggetto, di un cane o di una casa, di una melodia che ci riporta all’atmosfera degli anni in cui l’ascoltavamo, di un profumo o di un sapore che al pari delle madeleine proustiane ci fa rivivere una sensazione passata innescando la nostra memoria involontaria.

Poi c’è la nostalgia in generale, ossia di niente in particolare. È questa la nostalgia che attanaglia le persone più fragili e sole di tutte le età, persone che, vivendo nel presente i loro piccoli o grandi drammi interiori, vanno alla ricerca di un posto nel mondo aggrappandosi ai ricordi.

È questo il caso delle voci che compongono il coro del bel romanzo con cui esordì nel 2004 lo scrittore israeliano Eshkol Nevo, Nostalgia (Neri Pozza, 2014), ora ritradotto con la partecipazione dell’autore: Noa e Amir, Yotam, Sima e Moshe, l’arabo Saddiq, Modi, l’amico di Amir.

La narrazione procede per fotogrammi, frammenti che vivisezionano il racconto personale di ciascun protagonista facendosi a volte faticosi come il respiro di chi cammina nella tormenta, in una sorta di antropomorfismo della scrittura.

In questi momenti la forma del romanzo diventa allora la forma della nostra modernità, insieme inquieta e inafferrabile, come una fotografia mossa. È questo del resto il segreto della fotografia (lo sa bene Noa, aspirante fotografa di professione): cogliere quel qualcosa che solo l’obiettivo riesce a catturare, qualcosa che non si può imparare ma solo sviluppare come uno scrittore fa con le parole.

Questo qualcosa è quello che cerca Noa ma che non riesce a esprimere da quando è andata a vivere con Amir, il suo compagno studente di psicologia, a Maoz Tzion detto il Castel, paesino a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv, ex enclave araba, occupata nel 1948 da una comunità ebrea proveniente dal Kurdistan. È come bloccata nella sua creatività, eppure ama Amir.

Anche Amir non è più lo stesso da quando presta tirocinio nel centro per malati mentali. È come se avvertisse su di sé il dolore di tutti quanti i pazienti per una sua innata ipersensibilità. Vorrebbe sfogarsi con Noa quando torna a casa ma inevitabilmente è lui che si trova a confortare lei dei suoi quotidiani piccoli fallimenti.

Ci vorrà un po’ di lontananza affinché la nostalgia di lei faccia vedere ad Amir le cose in modo completamente diverso da come le aveva interpretate fin a quel momento: «Mi sono fermato davanti alla foto dell’uomo triste. Strano, ho pensato. Avrò guardato questa foto un milione di volte e ho sempre pensato fosse un letto d’albergo, in un paese straniero, e che il tizio stesse guardando fuori alla luna, pieno di nostalgia di casa. Adesso improvvisamente mi è balzata in testa un’altra storia: l’uomo è in casa sua. Dentro una casa che una volta era sua. Sta guardando fuori nelle speranza che, lei che se ne è andata torni e gli restituisca quella sensazione, poiché senza di lei quel letto è anonimo, come un qualunque letto d’albergo. E il lenzuolo è spiegazzato di stanchezza, non d’amore. E quelle quattro pareti sono quattro pareti, niente di più, e la porta un buco nel muro riempito di legno, e il tetto nero come la pece, e la poltrona, il tavolo, le sedie – tutti i mobili sono freddi, morti».

Così Amir si affezione al figlio dei dirimpettai, Yotam che, da quando il fratello maggiore Ghidi è morto soldato in Libano si sente trascurato dai genitori.

C’è poi la vicina, Sima, la moglie del proprietario Moshe, che con la sua esuberanza ribelle alla religione e trasgressiva rappresenta tutto ciò che Noa non è.

A movimentare il quadro narrativo ci sono poi gli intermezzi delle lettere di Modi, il miglior amico di Amir, partito per il Sud America per dimenticare una delusione amorosa e che strappa più di un sorriso al lettore con le sue teorie strampalate.

A contestualizzare le vicende ci sono poi le eco degli eventi storici con l’assassinio il 4 novembre 1995 del Primo Ministro Rabin a opera di un estremista ebreo e gli attentati terroristici che seguirono a Gerusalemme. Del conflitto israeliano-palestinese, del resto, si avvertono le conseguenze a livello privato nella storia del muratore arabo Saddiq, la cui famiglia prima della cacciata era proprietaria della casa dei genitori di Moshe al secondo piano. La nostalgia  a cercare di recuperare in qualche modo qualcosa appartenente a sua madre e lasciato lì nella concitazione della fuga.

Nostalgia è un titolo azzeccato anche perché quando si finisce di leggerlo non si può non provare nostalgia dei suoi personaggi rivelati nelle loro fragilità, paure e insicurezze, che sono anche le nostre

(Eshkol Nevo, Nostalgia, trad. di Elena Loewenthal, Neri Pozza, 2014, pp. 416, euro 18)

“Quel che sapeva Maisie” di Scott McGehee e David Siegel

Liberamente ispirato al romanzo Quel che sapeva Maisie di Henry James (1897), il film diretto da Scott Mc Gehee e David Siegel racconta la storia, aggiornata al presente, di Maisie, una bambina di sei anni, contesa nella causa di divorzio tra i suoi genitori.

Genitori egocentrici. Susanna, madre disorganizzata, una rockstar invecchiata troppo preoccupata a non uscire di scena e Beale, un mercante d’arte il cui lavoro viene prima di tutto; due genitori, entrambi, troppo presi da se stessi, che combattono per l’affidamento della figlia, unica a garantire loro amore incondizionato, necessario a nutrire i loro narcisismi.

Coccolata e poi dimenticata, viziata e poi abbandonata, messa in mezzo suo malgrado Maisie deve sopportare anche i nuovi matrimoni dei due genitori: quello del padre con Margot, la sua tata più giovane e quello della madre con Lincoln, un sexy barman giovane e affascinante. Due famiglie inedite che non riescono a funzionare. Eppure la piccola Maisie riesce ad essere felice e a ritrovare un po’ di spensieratezza solo con Margot, e con Lincoln, che a differenza dei due genitori naturali sembrano capaci di comunicarle serenità e sicurezza.

Il bizzarro e spietato mondo degli adulti visto dagli occhi di una bambina, trattata spesso come un pacco postale, spedita da una casa all’altra, da un taxi a un bar, dalla solitaria panchina di scuola al letto di una sconosciuta. Anche i personaggi si scoprono e si apprezzano solamente in relazione ai comportamenti che hanno con la piccola. Ad esempio il personaggio di Lincoln, il fidanzato giocattolo sposato poi da Susanne unicamente per ottenere l’affidamento della bambina, racconta forse una crescita personale degna di nota: da toyboy a “padre” attento e premuroso, senza alcun artifizio.

Julianne Moore e Steve Coogan (Susanne e Beal) dovendo rappresentare in questo film lo stereotipo degli adulti dell’era contemporanea, egoisti e immaturi, assenti e superficiali, rimangono confinati a comparsate in squarci di situazioni con poco margine di interpretazione: una Moore sempre più fuori di testa, emotiva e isterica, inaffidabile e consapevole di esserlo affiancata da un inedito Coogan, uomo d’affari insensibile decisamente lontano dal ruolo del giornalista Martin Sixsmith interpretato nel recente Philomena.

L’attrice Onata Aprile, nei panni di Maisie, è confinata a recitare “in silenzio”, eppure attraverso i suoi sguardi ipnotici, le sue espressioni, i suoi sorrisi e le sue lacrime riesce a conferire un certo ritmo all’intero film. Sono gli attori ad essere centrali in Quel che sapeva Maisie che riesca ad aggiornare una tematica tanto triste e attuale mutando un classico della letteratura americana. Quello che il film vuole raccontare è un divorzio attraverso gli occhi di una bambina, lasciando alla nostra immaginazione tutto quello che non possiamo sapere con esattezza. Per fare questo, la coppia di registi si limita ad affrontare superficialmente una questione cruciale come la dinamica genitore naturale-genitore “acquisito”, banalizzando le figure di Margot e Lincoln nel momento in cui sceglie la loro unione, come unico lieto fine del film, come fosse una favola per bambini.

Il tema della genitorialità che va oltre i ruoli convenzionali e l’affetto dei figli verso i genitori che non può essere incondizionato, ma va meritato e costruito giorno dopo giorno, galleggia in superficie senza mai essere veramente approfondito.

(Quel che Maisie sapeva, di Scott McGhee e David Siegel, 2013, drammatico, 99’)

“Lisario o il piacere infinito delle donne” di Antonella Cilento

Qual è la chiave del piacere femminile? Come decriptare il complesso meccanismo a monte dell’orgasmo di una donna, svelando il segreto di un’estasi ripetibile infinite volte? Avicente Iguelmano, il medico codardo che ha sposato la sua ex paziente Lisario Morales, è ossessionato dall’enigma. Quando gli diedero in cura la sua futura moglie, preda di un sonno costante e inspiegabile, presto rinunciò ai rimedi professionali: tentato dal suo corpo morbido, passò mesi a esplorarne ogni più remoto anfratto con le dita, provocandole un godimento ostinatamente vivo, nonostante il torpore, e un risveglio che fece gridare al miracolo. Quando però, avvenuto il prodigio, i genitori della giovane gliela diedero in sposa, l’atteggiamento di Lisario mutò, e, nonostante l’ostinazione ad affannarsi sulla consorte, il misero dottorino non riuscì più a suscitarle un briciolo di appagamento. Tra tomi di anatomia e indagini approfondite nei bordelli partenopei, perciò, Avicente decise di perseverare nella sua analisi tecnica sulle origini del piacere sessuale nelle donne, per capire quale meccanismo si fosse inceppato in sua moglie, un tempo così vogliosa. Ma presto Lisario, iniziata alle gioie carnali, cercò altrove il coinvolgimento psico-fisico che il marito, nelle sue fisime da discernimento scientifico, non poteva innescare.

In questo romanzo denso e caleidoscopico, Antonella Cilento dà voce al personaggio di Lisario, adolescente che si confida con la Madonna perché condannata a un doppio mutismo: quello corporeo, causato da un’operazione chirurgica malriuscita, e quello sociale, per l’inconveniente di essere donna nella Napoli del Seicento. Sullo sfondo di una città in pieno fervore culturale, dove gli artisti di tutta Europa giungono ad affinare i propri talenti e talvolta finiscono per perdersi, dove l’omosessualità è un peccato, dove i dominatori spagnoli e i signorotti locali devono vedersela con un popolo che cova la rivolta, Lisario Morales riesce a ribellarsi al suo destino di moglie e madre obbediente e trova il coraggio di decidere per sé e per la figlia che porta in grembo.

L’intreccio stratificato di Lisario o il piacere infinito delle donne non risponde ai requisiti minimalisti di tanta letteratura odierna: la trama pomposa e minuziosissima rievoca le atmosfere barocche di una vicenda troppo ramificata per essere raccontata con uno stile spoglio. Sarà per questo che ai protagonisti capitano avventure e disavventure sensazionali, incontri fortuiti nati da coincidenze inattendibili e naufragi su isole lontane, come nei romanzi picareschi del XVII secolo. Nel calderone napoletano del libro ribollono insieme prostitute, crocifissi, miseria, splendore, epidemie e rivoluzioni, gli ingredienti imprescindibili per narrare un contesto storico in cui il Mediterraneo era ancora una piattaforma cosmopolita di fermento culturale, e – tra le insidie – concedeva concrete prospettive di realizzazione sociale. Quando l’immigrazione non era un percorso obbligato verso il Nord, Napoli accoglieva le rotte umane confluite nel suo tumulto dai quattro punti cardinali: rovinava, glorificava, ma nel suo ventre gravido c’era posto per tutti.

(Antonella Cilento, Lisario o il piacere infinito delle donne, Mondadori, 2014, pp. 300, euro 17,50)

“48:13” dei Kasabian

Potente, ricco e complesso. Questi sono i tre aggettivi che caratterizzano uno dei migliori dischi del 2014. Infatti, se ancora non lo sapete, lo scorso 9 Giugno è uscito il quinto lavoro dei Kasabian, 48:13: un temporale estivo in piena regola, come quelli che abbiamo vissuto in queste settimane. Prima di ascoltarlo, un dubbio attanagliava la mia mente e spero non solo: il titolo dell'album era davvero la somma della durata di tutti i brani? Calcolatrice alla mano, ho verificato che fosse davvero così. Un'altra piccola curiosità è legata alla copertina, totalmente fucsia. Pare che il cantante Tom Meighan e il chitarrista Sergio Pizzorno lo scorso Aprile, indossando tute bianche, abbiano tinteggiato di rosa un muro di Londra, scrivendoci poi sopra proprio 48:13.

Ma cosa contiene realmente il quinto lavoro della band di Leicester? Il discorso appare subito complesso, ma si notano una serie di rimandi al cinema nei brani strumentali: in apertura “(Shiva)” ci regala un minuto di suoni distorti e synth che ricordano i film di Kubrick, mentre nel far west di “(Levitation)” e nel minuto di desolazione che accompagna “(Mortis)” è evidente il richiamo alle musiche del nostro Ennio Morricone. Con il secondo pezzo del disco si torna ai vecchi Kasabian. “Bumblebee” è un esplosione di rock già nei primi secondi di partenze ma con una inattesa base rap e un ritornello ossessivo. Sulla stessa linea è “Stevie”, il ribelle brano successivo: «'Cos it's no joke, no joke, I wanna open up your eyes wide, eyes wide, I feel it coming but you can't hide, can't hide, I wanna make you see life». Il primo singolo estratto da 48:13 è “Eez-eh”, ritmo trascinante ma video ancora più bello: Pizzorno balla a petto nudo, indossa maschere dei cartoon e mani giganti mentre Meighan si agita con occhiali da sole inguardabili e passeggia con animali impagliati, uno spettacolo irriverente. D'altronde a Gennaio i Kasabian avevano parlato chiaro: «L'album è un 'fottiti' a chiunque abbia osato criticarci o attaccarci, dicendoci che non possiamo fare musica di questo tipo. […] Abbiamo creato una pericolosa droga. È rock and roll, è brutale e tagliente, ma richiama anche l'elettronica che lasciammo a Letfield». La sobrietà non è da tutti. Ma il vero brano spacca-classifica molto probabilmente sarà “Glass”. Quello che sembra essere un coro da chiesa con base hip-hop e un po’ di elettronica, è invece un appello al mondo e agli uomini («come on and save from this world, tell me 'cause I need to know I'm not alone»), che si conclude con un lungo discorso letto dal rapper Suli Breaks: riferimenti storici e messaggi di salvezza. L'album si chiude con due brani lenti, “Bow” e “S.P.S.”, che per melodie e sonorità ricordano il britpop anni '90. Nel corso di questi anni, diverse volte il poliedrico Sergio Pizzorno ha dichiarato di ispirarsi a band come Oasis, The Stone Roses, Nirvana e perfino a David Bowie: nel disco appena uscito sembrano esserci proprio tutti.

Se proprio dovessimo cercare un difetto, è facile notare come manchi una ballata romantica  alla “Goodbye Kiss” o la carica di “Club Foot” e “Shoot The Runner”. Per il resto 48:13 ha centrato il suo obiettivo, attirare nuovamente l'attenzione mondiale sui Kasabian. Questa estate hanno già confermato la loro presenza al Festival di Glastonbury il 29 giugno e al Summer Sonic Festival in Giappone il 16 agosto, mentre il 31 Ottobre saranno a Roma e il 1° Novembre a Milano. Pienone assicurato come sempre.

(Kasabian, 48:13, Sony, 2014)