“La linea di fondo” di Claudio Grattacaso

L’iperbole veloce e rocambolesca di una promessa del calcio, che tale sarà per sempre. Dal talento che emerge disordinato, sino all’incanalamento in un mondo che lascia sempre meno spazio all’improvvisazione. Claudio Grattacaso, nel suo esordio letterario, racconta con La Linea di fondo (Nutrimenti, 2014), l’alba, la vita e il tramonto di un sogno infranto, non solo professionale.

José Pagliara, in arte Freccia, è un giovane calciatore di belle speranze. Ha talento, e il suo nome circola con rispetto già su tutti i campetti polverosi della sua città.

Attorno a lui si muove un colorato manipolo di amici, che diverranno in pochissimi casi di lunga data; immancabile, inoltre, il primo amore. Corre veloce, Freccia, con le idee chiare e quell’aura d’invincibilità propria dell’adolescenza.

Al passato, molto più colorato e sereno, in un sud riconoscibile ma appena accennato, l’autore contrappone in modo diametralmente opposto un tempo più recente, fatto di silenzi e nebbie, proprie del grande nord, dove tutto sembra impercettibile e riflessivo.

Nel mezzo, l’evento doloroso di una perdita, la fine dell’infanzia, delle belle giornate trascorse a dare calci a un pallone, il ricordo delle feste, del bel tempo dell’innamoramento; poi l’età adulta, improvvisa, che ha che ha visto sgretolarsi una dopo l’altra le attese alle quali è stato sempre più difficile dare conferma: «Il destino sceglieva al mio posto, mi rendeva impotente, decideva lui a che angolo svoltare».

L’estro, e le devastanti falcate di Freccia, trovano così il loro stop nel peggiore dei modi, con un brutto infortunio che condizionerà inevitabilmente tutta la sua carriera. Ma peggior sorte gli toccherà quando sarà costretto a ritrovarsi solo e inascoltato, di fronte al fuoco incessante di poteri criminali, sempre più presenti nel pianeta calcio, ormai consegnato al denaro. La vicenda si fonde dunque con la realtà e ritornano in mente gli anni bui del calcioscommesse, che mai si è riusciti a debellare totalmente, e che invece sembra persistere in maniera ancor più consistente nelle serie minori, sui campi di provincia, dove l’attenzione mediatica non è quella dei grandi palcoscenici. Altro fattore di cui Grattacaso si occupa, seppur di sfuggita per ovvi motivi, è il doping e le sue conseguenze; nel calcio, a differenza del ciclismo, non è mai esplosa una vera e propria bolla doping, forse per tranquillizzare le masse e blindare così gli investimenti attraverso un penoso silenzio. Eppure, è un argomento che ha sempre aleggiato nelle discussione da bar, nel sottobosco di un calcio che fa sempre più fatica a restare soltanto un gioco: «Basta vedere un filmato d’epoca per rendersi conto di quanto siano differenti da come eravamo noi. Grandi il doppio, cattivi il triplo, resistenti il quadruplo. Mi chiedo che sostanze assumano per essere così». Ma gli addetti ai lavori, marionette di ben altri poteri, liquiderebbero la faccenda chiamando in causa le tre partite a settimana, il calcio moderno, l’evoluzionismo.

Oltre alla carriera spezzata, Freccia è costretto a interfacciarsi con ulteriori difficoltà da dribblare, questa volta tra le mura domestiche: la malattia di una moglie troppo debole per sopportare le angherie e le cattiverie, e una figlia che vuol smettere d’esser tale.

Freccia arriva alla fine del suo percorso con lo stoicismo dei vecchi calciatori, prendendo coscienza del tempo trascorso, ricco di disillusioni, e di un tempo ancora da vivere. Arriva così alla linea di fondo, alla fine del campo, dove tutto sembra finire se non hai più voglia di inseguire la palla, magari per rimetterla al centro, dove finisce l’erba e cominciano gli spogliatoi: «…era tempo di rimanere immobili e vederla perdersi oltre la linea di fondo».

(Claudio Grattacaso, La linea di fondo, Nutrimenti, 2014, pp. 256, euro 16)   

“Micah P. Hinson and the Nothing” di Micah P. Hinson

Ci si chiede spesso e si ragiona su quanto la biografia di un autore influenzi la sua musica. Quanto gli eventi privati sfocino nella sua chitarra, nei suoi brani – a tal proposito noi di Flanerí abbiamo ideato addirittura una rubrica: BioSong. Eppure esistono autori per cui vita e musica sono un eterno contatto imprescindibile. Di casi ce ne sono tanti, alcuni davvero preziosi, e stavolta – vista l’uscita del nuovo disco e gli ultimi tragici eventi – tratteremo di Micah Paul Hinson. Classe ’81, nato a Memphis. Cantautore. Un’esistenza segnata dall’ossessione della bellezza e dal lento e continuo perdersi nel baratro. Magro, bruttino e occhialuto, non ha il fascino e l’aura del maudit e nemmeno il carisma del rocker. Di maledetto ci sono solo i fatti che popolano le sue giornate. Intorno ai vent’anni vive questa storia d’amore con una modella di Vogue. Motel, pillole e distruzione: quando la storia finisce Hinson ha speso tutto ed è costretto a vivere sotto i ponti. On the Road di Kerouac lo tiene in vita. Gli dà la forza per andare avanti. Fino a che gli amici non si accorgono del suo talento e inizia la carriera clamorosa di questo intenso e profondo songwriter.

L’esordio è del 2004: Micah P. Hinson and the Gospel of Progress. Ogni disco avrà di qui in poi sempre questa costante: il nome dell’autore a comporre il titolo, proprio a confermare quanto ci sia della sua vita in ogni album. Altra costante: ogni copertina del disco mostra particolari di donne in intimo seminude. Con cadenza regolare il giovane cantautore americano si conferma con i suoi lavori una della voci più torve e intenso del cantautorato americano. A dieci anni dall’esordio, ora è il turno di Micah P. Hinson and the Nothing: un lavoro, che tanto per cambiare, è stato segnato dall’ennesima disgrazia.

2011. Durante il tour che fa tappa a Barcellona, il furgone con cui si muove gli si ribalta addosso. Tonnellette sul suo esile corpo. Incastrato nella lamiere, Hinson rischia la morte e per diverso tempo rimane paralizzato agli arti superiori. Anche stavolta gli amici lo aiuteranno a tornare in piedi.

Tra Cash e Cohen, The Nothing è un altro pregevole disco. In equilibrio tra intimità e rabbia, nessuna uscita dal tracciato o svolta e innovazione lirica e musicale. Puro cantautorato folk, in cui la figura del peccatore, del dannato in cerca di riscossa e redenzione appare in molti brani.

Sicuramente il disco non è per tutti. Sia per la densità dei brani, sia per l’impegno che richiede l’ascolto più viscerale. Ma se volete camminare in bilico sul filo che unisce musica e vita, avete trovato la vostra voce prediletta.


(Micah P. Hinson, Micah P. Hinson And The Nothing, Talitres, 2014)

 

“La creatura del desiderio” di Andrea Camilleri

Si apre, il nuovo, felicissimo libro di Andrea Camilleri, La creatura del desiderio (Skira, 2013), nel segno del mito greco: quello, innanzitutto, di Elena “egizia”, cioè del simulacro fatto «di una materia nobilissima: un lembo di cielo» che, come cantò prima Stesicoro e quindi Euripide – ma anche, a non molti anni di distanza dalla vicenda di cui il libro parla, Hofmannsthal, in un raffinato libretto per Richard Strauss –, avrebbe preso il posto dell’eroina spartana nel letto di Paride e sugli spalti delle porte Scee dove i vecchi troiani diranno che una donna simile val bene il «soffrir lungo tempo dolori». Ma, siccome l’eroe principale del libro è un pittore, il secondo mito che Camilleri cita è, coerentemente, quello di Pigmalione, fra le cui braccia, per dono della dea Afrodite, la statua bellissima da lui scolpita, e sterilmente amata, si animò del soffio vitale, e divenne calda carne di donna.

Tuttavia, è bene dissipare subito l’impressione che posso incautamente aver suscitato, di un libro dal sapore gessoso, di cosa antiquaria: ben presto, Camilleri mette da parte i riferimenti mitologici (per quanto utilizzati, va detto, senza alcuna mutria accademica), e passa a dar voce agli stessi protagonisti della tormentosa, davvero “umana-troppo-umana”, vicenda di attrazione, sensualità rapinosa, sofferenza e distacco e ancora altra sofferenza, che avvinse il pittore e drammaturgo espressionista Oskar Kokosckha e la splendida, matronale Alma Schindler, poi maritata e vedova Mahler, e ancora più e più volte unita a uomini tutti di forte caratura intellettuale, quali Walter Gropius o Franz Werfel («Alma è una donna», commenta Camilleri, sornione, «curiosa degli uomini, ma non degli uomini comuni, che l’annoiano mortalmente»).

Ed è qui che fa capolino il secondo, molto più novecentesco, nume tutelare di Camilleri: Pirandello. Perché passando, nei capitoli successivi, a narrare la storia dell’incontro fra i due, del loro accendersi rapidissimo e insaziato, e, dopo i primi amplessi, dello svegliarsi sempre più torturante, in Kokoschka, della gelosia – nella forma, per altro, più acuta e angosciosa: quella postuma, verso la grande ombra del, forse da lei non amatissimo, musicista boemo, il quale, tanto per dirne una, alla notizia che la prima delle due figlie che lei gli diede si presentava di schiena al momento del parto, non seppe far di meglio che commentare: «Brava, ha capito subito quale è la parte da mostrare a questo mondo!», Camilleri dà la parola prima a lui e poi a lei: e non è, per molti e significativi dettagli, lo stesso modo di vedere le stesse cose.

Ancora più pirandelliano, proprio nel senso della “corda pazza”, è però quello a cui Camilleri ci fa assistere – e i documenti fotografici non fanno che aggiungere un retrogusto di lieve ribrezzo al nostro voyeuristico accostarci al buco della serraura di questa privatissima, e anzi che no sordida, stanza delle torture – quando poi Alma, in un rigurgito della sua femminilità mortificata dalla gelosia maschile di Oskar, abortirà volontariamente del figlio che stava per dargli e lo abbandonerà, per sempre e senza più tentennamenti («È stato l’uomo col quale ho più litigato ed è stato l’uomo col quale sono stata più felice»), e lui, allora, concepirà il disegno assurdo, follemente, lucidamente perseguito, per giunta con le splendide capacità creative che la natura gli ha dato: farsi costruire un simulacro di Alma, che resti con lui, che sia, in tutto e per tutto, «come lui la vuole».

Ed è questa, sicuramente, la parte più felice e godibile del libro, quella in cui meglio si sente, e si apprezza, la mano espertissima, svelta e cristallina insieme, del creatore d’immagini televisive che Camilleri è stato in gioventù: il dialogo (che pure recupera, con un abilissimo, dissimulato gioco di citazione, battute dello stesso Kokoschka prese da  due suoi copioni teatrali) è perfetto nella sua funzionalità, il taglio narrativo delle scene incalzante e calibratissimo. La sequenza di Kokoschka che, a Dresda, assiste al Flauto magico con al fianco, nel palco, il simulacro di Alma, fra i commenti scandalizzati del pubblico, è degna del più paradossale e spassoso Gogol’ (non a caso citato, per il tramite di un racconto di Landolfi, già nel capitolo iniziale).

Ma forse l’apice del libro è nella figura di Hulda, «una deliziosa regazzetta sassone» (che lui, manco a dirlo, chiamerà con un altro nome, Resel: “Teresina” cioè, in dialetto viennese), la quale, da cameriera, aiuterà il padrone a far indossare alla bambola i vestiti lussosi che lui le ha comprato, a infilarle la biancheria intima che Alma stessa ha lasciato nei cassetti di casa nell’andarsene via «senza neanche far le valige», fino al momento in cui il goco di sostituzione raggiungerà la sua – prevista, ma non per questo meno umanamente e poeticamente dolorante – acme, e Hulda/Resel darà il calore della sua carne al replicarsi del miracolo di Pigmalione. E il simulacro? Uscirà di scena, e nel più tragicomico modo (qui, è il Camilleri giallista, a brillare), ma lasciandoci in bocca il gusto amaro di aver assistito, una volta di più, alla risibile, penosa commedia della umana capacità di autoingannarsi, e soffrire.

(Andrea Camilleri, La creatura del desiderio, Skira, 2013, pp. 144, euro 14,50)

“Allacciate le cinture” di Ferzan Ozpetek

Allacciate le cinture è l’invito che Ferzan Ozpetek rivolge al suo pubblico sin dal titolo del suo nuovo film, il decimo della sua produzione, per affrontare sicuri le turbolenze che la vita incontra durante il suo tragitto.

2000, Lecce. Elena ha venticinque anni, lavora in un bar, vive con una zia eccentrica che va e viene e con la madre con cui condivide il dolore per la perdita prematura di un fratello. Ha il sogno di aprire un locale con l’amico omosessuale Fabio, un fidanzato ricco con cui sta da anni e un’apparente serenità. Un giorno alla fermata dell’autobus, sotto il diluvio, si imbatte in Antonio, un buzzurro razzista con cui si prende a male parole. Viene fuori che è il nuovo ragazzo della sua migliore amica. C’è un’attrazione proibita ma invincibile, nonostante l’evidente differenza. Si piacciono, si prendono, passano tredici anni, hanno dei figli, una casa, lei quel locale che sognava e la consapevolezza dei tradimenti continui del marito che sopporta con gran dignità. Lui è infantile e inaffidabile, ma si amano in qualche modo. Lo capiranno meglio quando Elena scoprirà di essere malata.

Uno dei temi classici del cinema di Ferzan Ozpetek è quello di un evento drammatico o luttuoso che arriva a sconvolgere un equilibrio, anche solo apparente, consolidato. È l’argomento centrale del recente Mine vaganti, seppur declinato su toni più leggeri, è il nucleo fondante di Le fate ignoranti e Saturno contro. In Allacciate le cinture, che segna il ritorno in sceneggiatura di Gianni Romoli dopo sette anni e tre film, anziché concentrarsi sulle conseguenze del dolore, Ozpetek si ferma nel momento dell’esplosione del dramma, in quel tempo grigio in cui non è dato sapere in che modo si evolverà il futuro, con o senza la persona amata. Come sempre nel suo cinema, il regista turco fa muovere attorno alla protagonista Kasia Smutniak una famiglia allargata di amici e parenti uniti nel bene e nel male. Come sempre nel suo cinema, Ozpetek alterna i registri, passando dalla tragedia alla commedia, macchiando di leggerezza i momenti di ascesa emotiva. A prevalere, però, è un andamento melodrammatico, una tensione costante che è inizialmente sessuale tra Elena e Antonio per caricarsi poi di enfasi sentimentali con lo sviluppo. Troppa tensione, a tratti, troppo melodramma. Perché per descrivere questo amore incomprensibile fatto di carne che si tocca e unisce al di là delle parole si arriva a sfiorare il ridicolo nella scena dell’amplesso silenzioso sul letto d’ospedale. L’amore di Elena e Antonio, apparentemente inconciliabili eppure simbiotici, è il centro della narrazione. Quando arriva il cancro tra di loro, lei si impegna seria e stabile, lui inizialmente dà di matto come un animale, poi si pone al suo fianco. Come già in Un giorno perfetto è il desiderio la forza che li tiene uniti, nonostante tutto, ma la struttura è scarsa, le dinamiche poco sviluppate, come i loro dialoghi, di spalle, consumando un minestrone freddo «che è buono comunque».

Se Kasia Smutniak dimostra capacità di mutamento e adattamento nell’attraversare tredici anni nella vita di una donna, perdendo peso e mostrandosi magra e fragile nella malattia, il quasi esordiente Francesco Arca nel ruolo di Antonio fatica a imporsi, dimostrando che il passaggio di personaggi televisivi al grande schermo non riesce sempre a Ozpetek. Impostato su una stereotipata idea di duro, Arca risulta, soprattutto nella prima parte, espressivo come uno dei pistoni con cui ha a che fare il suo personaggio meccanico. Recupera, un minimo, nella seconda parte, dimostrando dedizione all’idea attoriale inquartando il fisico muscoloso e aprendosi all’animalesca tenerezza che lo lega alla moglie.

Molto bene i ruoli minori, con Filippo Scicchitano perfetto e credibile nel ruolo dell’amico gay saggio ma possessivo, e la coppia Carla Signoris-Elena Sofia Ricci (di nuovo nel ruolo di zia stravagante dopo Mine vaganti) che garantisce l’apporto leggero con un rapporto basato su una fraterna malsopportazione.

Ozpetek gira con maestria, limitando i suoi celeberrimi ed enfatici primissimi piani e muovendosi con una consapevolezza nuova, come dimostra il piano sequenza iniziale nel bar.


(Allacciate le cinture, di Ferzan Ozpetek, 2014, drammatico, 110’)

 

“Le bugie nel carrello” di Dario Bressanini

È strano, siamo talmente immersi nel sistema del marketing, che spesso nemmeno ce ne rendiamo conto. Anzi, proprio quando cerchiamo di aggirarlo, quando pensiamo di esserne immuni, è proprio allora che cadiamo vittime, ancor più inconsapevoli, delle strategie pubblicitarie messe in atto per attirare i consumatori. Proprio di queste strategie parla Dario Bressanini nel suo Le bugie nel carrello (Chiarelettere, 2013), con cui vuole mostrare dei campioni esemplari, presi da un immaginario museo rappresentato dalle corsie del supermercato.

Pur introducendo il libro come una naturale prosecuzione del suo precedente Pane e bugie (Chiarelettere, 2010), dedicato anchesso alla disinformazione alimentare, ma più concentrato a sfatare i falsi miti sugli alimenti stessi, Le bugie nel carrello se ne discosta significativamente spostando il focus dell’attenzione dalle paure (infondate) legate all’alimentazione che cambia alle “invenzioni” pubblicitarie che convincono gli ignari destinatari di essere dei consumatori consapevoli e responsabili.

La scelta dei campioni esemplari è intelligente, perché non perde tempo a descrivere la componente emotiva dei messaggi pubblicitari e delle confezioni, di cui ormai tutti sono ormai informati, ma attacca proprio laddove i consumatori critici si sentono più sicuri: il Kamut, spacciato per grano dei faraoni ma oggi marchio depositato nel Montana; il pomodoro pachino, vanto dell’agroalimentare siciliano ma in realtà di origine israeliana; le uova da galline provenienti da allevamenti di diversa tipologia, che però non garantiscono alcuna differenza nelle componenti nutrizionali; il problema tanto dibattuto sulla “tossicità” del latte e, ultima in ordine cronologico, della moda del latte crudo alla spina. E questi non sono che alcuni esempi tratti dal libro.

La forza di Le bugie nel carrello, però, non risiede solo nella scelta dei prodotti da esaminare, ma anche, e soprattutto, nella puntuale argomentazione delle sue posizioni. Non si ferma al sentito dire e alle mezze verità interpretabili degli studi, peccato di cui troppo spesso si rendono colpevoli moltissime delle pubblicazioni di tema alimentare non solo a opera delle associazioni impegnate nel campo (e troppo spesso faziose) ma anche da parte delle testate giornalistiche più blasonate, ma con rigore scientifico presenta le sue fonti, mettendole a disposizione di tutti, dopo averne attentamente vagliato l’attendibilità.

E se proprio una critica dobbiamo farla, bisogna spostare leggermente la prospettiva da cui si guarda. Non c’è nulla da eccepire sulle tesi presentate, tutte molto convincenti anche alla luce della documentazione descritta, ciò nonostante l’autore si dimentica un elemento importante, che va al di là delle semplici “convenienze” economiche e presunte superiorità degli alimenti qui smascherati, perché tralascia completamente il fatto che ciò che spinge il consumatore a preferire alcuni prodotti non è solo la miglior qualità e la sua genuinità, ma è anche una componente più responsabile in termini di rispetto dell’ambiente e degli animali coinvolti nel processo di produzione. Una dimenticanza che certamente non è stata casuale, ma che forse in alcuni punti avrebbe dovuto essere giustificata.

(Dario Bressanini, Le bugie nel carrello. Le leggende e i trucchi del marketing sul cibo che compriamo, Chiarelettere, 2013, pp. 196, euro 12,60)

“Nebraska” di Alexander Payne

Candidato agli Oscar nelle categorie miglior film, miglior regista, miglior protagonista, miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia, Nebraska un è film pieno di possibili strati di letture, spunti e interpretazioni narrative.

Dopo A proposito di Schmidt, Alexander Payne torna a incentrare una sua storia facendo perno sulla vecchiaia, questa volta veicolo per il viaggio nel cuore geografico e non solo della società americana, tra illusioni, ipocrisie e contraddizioni.

Woody Grant (Bruce Dern) è un vecchio scontroso che si ritrova in mano un volantino-truffa. Per la falsa promessa della vincita di un milione di dollari da ritirare a Lincoln, Woody decide di incamminarsi dal Montana al Nebraska. Nonostante i primi tentativi da parte del figlio Dave (Will Forte) di dissuaderlo da questa impresa, i due prendono e partono in macchina per Lincoln, quasi senza far caso alle rimostranze della moglie (June Squibb). Durante il viaggio emergono aspetti del rapporto sopiti dagli anni passati e avvengono chiarimenti – in maniera più o meno brusca – taciuti fino ad allora. C’è il tempo per una rimpatriata in famiglia nel paese dove Woody è cresciuto. Ad accoglierli il fratello con la moglie e i loro due figli, che probabilmente incarnano tutto il peggio della società – ipocriti, violenti, approfittatori, anche se di fondo due ingenui e rozzi nullafacenti. La notizia della vincita del milione di dollari si diffonde nel paese. Familiari e non iniziano a farsi avanti chiedendo qualcosa a Woody, tirando in ballo vecchie storie di vecchi prestiti, fino a quando non viene a sapersi dell’errore. La gogna pubblica, quando l’odioso Ed Pegram (Stacy Keach) legge ai compagni di bevute la verità scritta sul volantino-truffa sotto gli occhi di un ancor più spaesato Woody, è uno dei momenti più struggenti del film.

Memorabile la scena in cui Dave e il fratello Ross (Bob Odenkirk, alla ribalta negli ultimi tempi per aver interpretato l’avvocato sui generis di Breaking Bad, Saul Goodman ) rubano il vecchio compressore che quarant’anni prima era stato rubato (da Ed Pegram) a Woody salvo poi accorgersi di essersi intrufolati nel capanno sbagliato.

L’illusione dell’esasperazione dell’idea degli Stati Uniti come Terra Promessa e l’American Dream che soccombe alla crisi mondiale. Una società che muta e che deve far fronte delle difficoltà di un’epoca dove anche uno dei pilastri della società stenta ed essere ancora un appiglio ben saldo per i propri cittadini.

Nel viaggio si affronta l’alcolismo di Woody che si può vedere come una dipendenza in senso più ampio, un virus che ha attecchito nel corso della storia, soprattutto recente, e che oramai è una componente innegabile della società, un qualcosa che può rendere più semplice la via di fuga dalla propria vita – in questo caso una moglie probabilmente mai amata e l’aver vissuto la vita di qualcun altro –, tema che nella letteratura contemporanea è sviscerato con perizia da David Foster Wallace (dipendenza dalla televisione, dalle droghe, dall’alcol stesso), o estremizzato come in Chuck Palahniuck , dove sesso-dipendenza e la dipendenza stessa da incontri con le più disparate dipendenze sono il senso che muove la vita delle persone.

Lopera si conclude con una scena parodisticamente western, con Woody che vendica il proprio passato guidando il pick up – comprato da Dave dopo che anche il vecchio si rende conto che il milione di dollari non arriverà mai – lungo le strade del paese d’infanzia sotto gli occhi esterrefatti dei suoi ex amici ed ex fidanzate. Una vendetta silenziosa, strisciante, una (ri)acquisizione di sé lontana da probabili retoriche buoniste del vissero tutti felici e contenti.

Terza volta in un Nebraska (stato di provenienza di Payne), dopo La storia di Ruth, donna americana ed Election, messo in risalto perfettamente dalla sua scelta del bianco e nero, un’opzione stilistica che segue a tre anni di distanza quella di Michel Hazanavicius in The Artist (dove il bianco e nero aveva il compito di immergere ulteriormente la storia negli anni ’20 e ’30), e che accompagna con equilibrio le lande desolate in cui siamo immersi e i rapporti interpersonali dei personaggi.

Innegabile che, oltre l’aspetto sociale, Nebraska parli di quello che eravamo, della riscoperta di vite sepolte – un ritorno ai luoghi dell’infanzia à la Jonathan Franzen nelle proprie zone disagio –, le stanze nella casa in cui siamo cresciuti come luoghi emotivi che riemergono con impeto. Fare i conti on il proprio passato, prima o poi. Con ciò che siamo stati e che non saremo più.

La solitudine dell’individuo in una società cinica che crea illusioni come fossero trappole per topi e che successivamente divora e ingloba tutto, soprattutto le debolezze umane.

 

(Nebraska, di Alexander Payne, 2013, drammatico, 115’)

 

Anna Calvi @ Auditorium Parco della Musica, 24 febbraio 2014

«What’s happened?» sussurra al microfono Anna Calvi tornando da sola sul palco per l’ultimo bis.

Sorride timida, il pubblico della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica ha finalmente deciso di alzarsi dalla platea, riversandosi davanti al palco. Imbarazzata dalla vicinanza col suo pubblico la songwriter inglese imbraccia la sua Fender Telecaster usurata ai bordi, dalla quale per l’intero show mai si è separata. Chiede cosa vogliano ascoltare e fioccano le richieste. Lei ascolta e tra queste decide. Parte così il riff e una splendida versione di “Foxy Lady” di mr. Jimi Hendrix che chiude i cento minuti del live di questa splendida e piccola rocker (di statura e corporatura: «’na gnappetta!» commenta in puro slang romano una ragazza in platea) tutta voce, carisma e sensualità.

Quattro elementi sul palco, compresa lei. Superbo il batterista tra tutti, ma è la Calvi a sovrastare sin dal primo momento, artisticamente vera “primadonna”, cantante e musicista superba.

Rock allo stato puro, psichedelico, deragliato, epico a tratti con atmosfere tra Morricone e Loreena Mckennit. Ventuno i brani in scaletta. Si parte con la ritmica potente di “Suzanne and I”dal suo esordio discografico ufficiale del 2011 titolato semplicemente Anna Calvi.

A seguire arrivano“Eliza”, “Sing to Me”, “Suddenly” e la superba “Cry” con le sue “esplosioni” catartiche di voce e chitarre distorte alternate con la quiete di una (apparente) ballad.

È un quartetto di pezzi dall’ultimo disco One Breath, uscito proprio sul finire dello scorso anno, a ottobre, e entrato di prepotenza nelle classifiche di gradimento della stampa specializzata come uno dei migliori album del 2013.

«When we kiss my heart’s on fire / burning with a strange desire…»sussurra la Calvi prima di far esplodere la sua voce dopo l’arpeggio della sua chitarra che propone un’intro che ricorda le colonne sonore tarantiniane. È la dolcissima e sexy cover di “Surrender” di Elvis Presley. Una versione languida e romanticamente ruvida che scuote il pubblico della Sinopoli fino a quel momento come ipnotizzato ma silente e immobile.

Padre italiano e madre inglese, Anna Calvi sembra imbarazzata e intercala la sua set list con dei semplici: «Thank you so much».

L’assolo di chitarra nella strumentale “Rider to the Sea” dall’album d’esordio del 2011, evoca atmosfere da spaghetti western. La scaletta della Calvi scorre tra suoni sintetici, schitarrate ruvide, melodie “alla Jeff Buckley” (“Bleed into Me”) ed esplosioni elettro-rock che ricordano la migliore PJ Harvey (“Love of My Life”) fino al deflagrante finale hendrixiano.

Anna Calvi è l’ennesima conferma che oltre il “solito conosciuto” che ci propinano Sanremo e reality musicali, al di là del mainstream in onda sui consueti network commerciali, c’è della roba musicalmente meravigliosa in giro. Chi già conosceva Anna Calvi da questo live ha avuto delle conferme. Chi invece non la conosceva ancora e leggendo queste righe è rimasto incuriosito, non dovrà far altro che cercare e seguire questa piccola-grande “cantantessa” che (ci scommettiamo) a breve riempirà gli stadi. I cuori li riempie già.

Anna Calvi
One Breath Tour 2014
Evento del 24 febbraio 2014
presso Auditorium Parco della Musica di Roma

“Nulla, solo la notte” di John Williams

«Con la mente e la memoria, riusciva a tornare indietro nel tempo; lì dove il tempo era perduto, ora poteva indugiare – solo per un istante, ma un istante rubato per miracolo al presente. Dove nel tempo? C’era un momento che riusciva a ricordare. Certe volte, nel sonno, quel momento ritornava pian piano, affiorando dal buio con passi silenziosi e furtivi, e ritornando oscurava l’altra parte di lui. E in quest’altra parte, quella addormentata, irrompeva un’onda di calore dorata, trasportandolo in un sogno che, nell’irrealtà di quella condizione, gli sembrava verissimo. “Ecco qual è il momento più bello della vita”, pensò, “il tempo perduto. Il tempo dell’estate, quando le foglie degli alberi s’intrecciano nella luce iridescente del sole”. Pensava sempre alla sua infanzia come a una lunga estate ininterrotta».

John E. Williams partì volontario per la guerra nel 1942 e trascorse due anni e mezzo fra Birmania e India partecipando a dodici missioni aeree. Durante una di queste, il C-47 su cui era in volo fu colpito mentre si trovava sopra le montagne della Birmania. Degli otto membri dell’equipaggio solo altri due, oltre Williams, sopravvissero. La guerra, come affermò sua moglie, non lo lasciò mai più. Lo scrittore, infatti, visse per anni con la sindrome del sopravvissuto continuando a sentirsi in colpa e ad avere incubi.

Il suo primo romanzo, Nulla, solo la notte (Fazi, 2014) vide la luce proprio nelle lunghe ore di attesa fra una missione e l’altra. Tornato in patria Williams propose il suo manoscritto ad alcuni editori di New York che però non lo ritennero adatto alla pubblicazione. La svolta ci fu quando Alan Swallow, che aveva fondato a Denver una piccola casa editrice per scoprire nuovi scrittori, arrivò in possesso dell’opera. Il libro fu pubblicato nel 1948 ma non ebbe il successo sperato. Anni dopo la stessa sorte sarebbe toccata anche a Butcher’s Crossing e a Stoner. Williams morì di enfisema nel 1994 a 72 anni, dopo aver vissuto un’esistenza semplice, lontana dalle luci della ribalta, apprezzato perlopiù da un numero ristretto di critici e scrittori, stupiti di come la sua intera opera non avesse avuto, nel corso del tempo, il meritato successo. Poi improvvisamente, nel 2006, la (ri)scoperta sia in patria che in Europa; dopo una ristampa di Stoner priva di grosse aspettative, la New York Review of Books dedica infatti unarticolo all’opera,ritenuta un romanzo perfetto e magnificando la prosa di Williams, definita cristallina, semplice ed essenziale, eppure al tempo stesso, emozionante e bellissima. In Italia Stoner è stato pubblicato dalla Fazi nel 2012, con l’ottima traduzione di Stefano Tummolini e, anche nel nostro Paese, diviene nel giro di pochi mesi un caso editoriale. Anzi, è proprio il successo italiano a fare da catalizzatore per altre edizioni europee – basti pensare che in Inghilterra il libro viene dato alle stampe con la copertina scelta proprio dalla Fazi, che nel frattempo, visto il successo ottenuto, ha creato un blog in cui i lettori possono pubblicare le loro recensioni e trovare interessanti materiali di approfondimento.

Romanzo breve, eppure denso di lirismo, Nulla, solo la notte, è comparso in Italia per la prima volta in questi giorni, pubblicato dalla casa editrice romana, sempre con la traduzione di Stefano Tummolini. Scritto quando l’autore aveva appena vent’anni, narra le vicende di Arthur Maxley, un giovane dandy californiano annoiato e apatico che per certi versi ricorda l’Holden Caulfield di Salinger. Le vicende si svolgono tutte in una giornata, caratterizzata dagli incontri del protagonista prima con un amico desideroso di acquistare una macchina tipografica per stampare poesie, quindi dalla cena con il padre, un uomo spesso lontano per lavoro e con il quale i rapporti sono freddi da molto tempo e, infine, dall’approccio con una donna in un locale notturno. C’è un filo conduttore che lega tutte le vicende narrate e forse non a caso è lo stesso che possiamo rintracciare nell’intera produzione letteraria di Williams: la solitudine. Nulla, solo la notte è, in fondo, un romanzo sull’incomunicabilità e sulla distanza fra le persone: «Una figura solitaria, nella distesa immutabile del deserto, appare meno isolata di un uomo che si perde nell’infinità di una città affollata. Chi è solo nel deserto resta comunque consapevole del proprio peso, per quanto minimo, e della relazione che mantiene con lo spazio circostante. Ma chi è isolato in mezzo a uno sciame di gente, perde coscienza di se stesso come individuo». Senza Nulla, solo la notte molto probabilmente non avremmo avuto néStoner, né Butcher’s Crossing. La solituidne di Arthur è, in fondo, la stessa di William Stonere di William Andrews. E, molto probabilmente, anche di John E. Williams. Un John E. Williams che lontano da casa, in un paese straniero, sotto i colpi del nemico, ripensa alla sua infanzia, a quando tutta la sua vita sembrava una lunga e ininterrotta estate.


(John Williams, Nulla, solo la notte, trad. di Stefano Tummolini, Fazi, 2014, pp. 144, euro 13,50)

“Le ortensie” di Felisberto Hernández

Si prenda un collezionista di bambole alte poco più di quanto sono alti gli esseri umani, bambole dalle perfette fattezze femminili, per l’esattezza, bellissime e ammalianti, per di più, così prossime all’ideale che vogliono rappresentare da avere addirittura un liquido caldo (acqua nella fattispecie) a scorrer loro nelle vene. Si immagini che tale collezionista sia intento e molto compreso nel suo abituale passatempo, la messa in scena di vere e proprie rappresentazioni di gusto teatrale, immote eppure animate, di cui proprio le bambole sono protagoniste, simulacri statici di bellezza e femminilità, fissi nel capriccio del padrone. Si faccia poi costruire dall’abile artigiano creatore del prodigio ludico (talmente ludico da essere forse quanto di più lontano possa esserci dal gioco) una bambola speciale, Hortensia, dal profilo e dalle forme spiccicati a quelli di María, la moglie del collezionista inveterato, invero complice del marito e silenziosamente adattabile, almeno al principio, alle sue strambe manie. Si immagini allora il ménage che può nascere da questo bizzarro intreccio di relazioni tra esseri animati e non (ammesso che le bambole non abbiano l’anima), la trama di relazioni d’amore, d’acredine, d’odio e di spaesamento che può venirne fuori.

È questo, al netto delle semplificazioni necessarie nelle poche battute che ci sono concesse, lo scenario della nouvelle intitolata “Le ortensie”, primo degli otto racconti, nonché il principale, della raccolta di recente pubblicazione che porta il suo stesso nome: Le ortensie (La Nuova Frontiera, 2014), appunto, dell’uruguaiano Felisberto Hernández (1902-1964), autore qui da noi ancora poco conosciuto, apparso in traduzione per Einaudi con Nessuno accendeva le lampade nel ’72, poi smarritosi nella polvere del dimenticatoio e adesso, sulla scia dell’ecumenico interesse rivolto dalle nostre parti alle letterature ispanoamericane, ripescato dall’editore romano La Nuova Frontiera, che dei suoi pochi libri, nel 2012, aveva già pubblicato una nuova traduzione di Nessuno accendeva le lampade (libro del 1950), come questa a firma di Francesca Lazzarato.

E bene ha fatto, La Nuova Frontiera, perché le storie presenti nella raccolta, quella di cui sopra si è parlato su tutte, appartengono a un prezioso modo di fare narrativa, un raccontare ibrido che, pur facendosi forte di alcune strategie di sospensione proprie del fantastico, non ultimo il classico metodo del perturbante, sembra voler tenere ancora un piede nel reale, definendo però spazi minimi e lontani, in cui dettagli forse anche marginali, dati spaziali, scenografici, oppure caratteristiche caratteriali, psicologiche o d’inclinazione di personaggi smarriti, sembrano appartenere a un altrove che spesso risulta difficile identificare, nonostante Hernández ambienti i suoi racconti nelle nostre città, quelle che esistono pure sulla cartina geografica.

Si prenda per esempio il racconto “Il coccodrillo”, in cui un rappresentante di calze da donna riesce a piangere a comando al cospetto delle sue acquirenti, commuovendole e dando in tal modo una scossa sensazionale ai suoi affari, ma non riuscendo purtroppo più a smettere di versare lacrime.

Oppure si prenda “La casa allagata” altro racconto della raccolta, in cui un’eccentrica signora piuttosto corpulenta che decide di vivere in una casa letteralmente allagata, in cui i corridoi sono canali e le stanze stagni più o meno grandi, ingaggia uno scrittore per farle compagnia e per ascoltare quanto lei stessa ha da dire, da raccontare e da confidare, al chiuso del suo umido ambiente domestico.

Si tratta in sostanza di storie che lasciano un fertile senso di incredulità, quelle di Hernández, pur non rientrando nella categoria delle cose impossibili. Storie che sfumano in una scia diafana ben percepibile dal lettore, una scia che, per quanto trasparente, s’appoggia palpabile sul mondo come una coltre che rende tutto potenzialmente diverso, ai limiti dello smarrimento. E questa cosa, sia detto in conclusione, è forse uno dei compiti più attesi e maggiormente difficili da perseguire della bella letteratura, di quella davvero degna d’essere letta, quella a cui senz’altro appartengono i racconti di Hernández.

(Felisberto Hernández, Le ortensie, trad. di Francesca Lazzarato, La Nuova Frontiera, 2014, pp. 176, euro 17)    

“Qui e Ora” di Mattia Torre

Crash – Contatto fisico. Citando un film di successo di qualche anno fa, potrebbe essere questo il sottotitolo dello spettacolo teatrale Qui e Ora di Mattia Torre andato in scena nei giorni scorsi all’Ambra Jovinelli di Roma.

Protagonista di questa pièce originale è Valerio Mastandrea, perfetto nel ruolo del romanaccio coattoripulito-quasivip-neofighetto-aspirantepariolino.

Antagonista (quasi) silente e (quasi) remissivo è invece Valerio Aprea, ottimo caratterista e volto diventato celebre per la parte dello “sceneggiatore” nella serie cult Boris e in questi giorni al cinema col divertente Smetto quando voglio.

Qui e Ora è unacommedia grottesca e agrodolce che è una metafora sugli scontri sociali dei nostri giorni, su preconcetti, paure che si trasformano in vere e proprie fobie del diverso, o presunto tale.

Classi sociali a confronto ma anche e soltanto modi di pensare differenti, l’uno di fronte all’altro. Un piccolo affresco che, in chiave satirica, costringe a guardare allo specchio se stessi e la società che ci circonda con una venatura di cinismo e di politically uncorrect rari nell’italiota racconto nazionalpopolare.

La scena si apre con due motociclette fumanti, in rottami e accavallate in seguito a un violento incidente. La location immaginata dal regista è una periferia romana in prossimità del Raccordo Anulare. Una strada secondaria e deserta, senza macchine o pedoni di passaggio. Senza anima viva a cui chiedere soccorsi. I corpi dei due protagonisti all’apertura della scena appaiono moribondi, distesi sull’asfalto. Dopo qualche secondo di silenzio il primo a svegliarsi è il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea che risponde al cellulare e inizia qui il suo profluvio di parole e battute a raffica in perfetto stile romanesco. Mastandrea veste i panni di un cuoco che conduce anche un programma radiofonico, e immediatamente, seppur coinvolto in un grave incidente, dalla prima telefonata si capiscono subito le sue priorità: condurre la sua trasmissione in onda da lì a pochi minuti. Anche dal cellulare, anche in diretta dal luogo dell’incidente.

Tra un collegamento in diretta e un altro, tra una ricetta e un «editoriale contro la rucola», Mastandrea assale verbalmente il traumatizzato “compagno” d’incidente vomitandogli letteralmente addosso tutti i suoi preconcetti: da «immigrato», a «rumeno», da «contadino» a «piccolo insignificante essere che ignora il mondo che lo circonda», fino a «ladro» e «parassita della società».

Nella valanga di epiteti e cambi di tono, il personaggio di Mastandrea chiama anche i soccorsi al 118: «È il 2 giugno, c’è la parata e pochi mezzi: abbia fiducia» gli dicono i volontari della Croce Rossa. «Volontari e pure anziani: due dei grandi cancri della moderna società italiana» sentenzia il cuoco disc jockey davanti all’esterrefatto Aprea. Che finge di non riconoscere quello che sarebbe un popolare cuoco e conduttore, vero opinion leader delle casalinghe italiane. «Chiedi a tua madre e vedrai se non mi conosce!» intima Mastandrea.

Secondo atto e cambio ruolo. La “vittima” interpretata da Aprea si fa protagonista e svela la reale dinamica dell’incidente. Rivela al cuoco di conoscerlo e di essere vittima involontaria della madre “fan” del cuoco-dj. Oltre che della cosa più orripilante che orecchie (e stomaco) d’uomo abbiano mai udito e/o assaggiato o sopportato: la carbonara di mare!

Seppur con qualche buco e incongruenza di scrittura tra primo e secondo atto (il personaggio interpretato da Mastandrea prima appare xenofobo e razzista e poi subisce le invettive di Aprea che cerca di offenderlo definendolo «amico dei senegalesi») il progetto teatrale prodotto da Marcella Crivellenti per BAM è una piacevole e feroce commedia di parole, contrasti sociali tra personaggi che mostrano di essere ciò che in realtà non sono. Interpreti finti di una mondo che impone schemi, maschere, gruppi, clan e ruoli sempre più in contrasto tra di loro. Sempre più irreali, ma dai quali – proprio per questo – sembra impossibile tirarsene fuori per essere finalmente uomini liberi.
 


Qui e Ora
di Mattia Torre
scene di Beatrice Scarpato
con Valerio Mastandrea e Valerio Aprea

“Lor signori” di Gonçalo Tavares

Ognuno di noi ha (o quanto meno dovrebbe avere) un conto aperto con la letteratura.

Ogni lettore è in debito. Con più emisferi narrativi. O magari anche con uno soltanto. Con quello spiffero lasciato bisbigliare in braccio ai tempi persi, sulle rotaie di un’attesa troppo larga. Mentre scongelavamo progetti sull’autobus o stavamo accantonando una giornata avariata, c’è stato un paragrafo, un dialogo, un gesto condito a dovere oppure soltanto una frase capaci di spolverarci gli occhi. Un detonatore di reazioni. Questo spesso può essere un libro. Uno schiaffo così forte da rovesciare il nostro mondo. Perché, in un mentre qualunque, qualcuno ci ha detto qualcosa nel modo esatto e scompigliante in cui avevamo bisogno di sentircelo dire. E il nostro modo di saldare il sospeso è tesaurizzare, farne bottino, anche senza materassi sotto cui seppellirlo. Poi ci sono altri che hanno il privilegio di saper scrivere.

Di restituire sapientemente il favore. Com’è successo a Gonçalo M. Tavares, nel sentiero immaginario tracciato da Lor signori (Nottetempo, 2014).

Uno strampalato “percorso a puntate”, una raccolta di quattro testi pubblicati tra il 2002 e il 2006, destinati a comporre un «Bairro utopico» e qui confluiti in un unico volume.

La promenade inizia con Calvino, con la levità impalpabile ed eccentrica che impasta le sue pagine. Calvino che crede nell’ironia dell’universo, nei meteoriti come forma di beffa fiondata sul suolo. Calvino che dorme in diagonale sul letto per attraversare meglio la notte, che setaccia poesia involontaria. Calvino per cui il quotidiano è un esercizio acrobatico e un capitolo zen. Convinto che anche il sole abbia voglia di leggere, che ogni sedia vada collaudata per offrire al prossimo quella più comoda, Calvino per mezzo di Tavares (come anche Tavares per mezzo di Calvino) snocciola frammenti di leggerezza inestimabile, in cui a volte basta il cervello a innaffiarci di emozioni. Un esempio per tutti: «Avere una vita propria non era – per il signor Calvino – soltanto passare attraverso esperienze tribolate nel gioco degli avvicinamenti e allontanamenti: per lui, chi non aveva pensieri non aveva una vita propria».

Basta svoltare l’angolo e spunta il signor Kraus, che affida alla cronaca le roboanti astrusità del Capo e dei suoi due Assistenti, perché ha compreso alla perfezione che «l’unico modo oggettivo per commentare la politica è la satira». Il risultato è un reportage del ridicolo, dove l’ottusità si fa orchestrale e poi rocambolesca. Una sinfonia di assurdità spinta all’estremo, in cui ogni decisione è frutto della vorace inconsistenza di chi governa senza avere testa. Un Capo che di maiuscolo ha solo l’iniziale del suo nome; il resto è antologia del nulla. Un Capo che si pulisce il naso sulle cartine del suo Paese, che cerca ossessivamente di inaugurare anche le briciole e poi l’invisibile per mostrare a se stesso di saper fare.

E in questi bozzetti c’è molto di più di una favola. C’è il ritratto esilarante e impietoso di un uomo per tutti, di una classe politica intera, sfarinata nei parossismi dei suoi giochi, per cui la gente comune, appena dopo le elezioni, «entra tutta in un treno per dirigersi compattamente verso una terra distante. Questo popolo tornerà soltanto, con lo stesso treno, nelle settimane che precedono l’elezione successiva».

Il tour di Lor signori prosegue con Walser, impegnato a rintanarsi in una casa lontana, nella geometria perfetta per sfuggire a chiunque e costretto purtroppo all’invasione dell’altro perché quell’eremo impeccabile si rivela un giardino di crepe. E pare quasi che il suo sistema goda a scomporsi. Così ogni tegola divelta, ogni muro scuoiato infligge una spallata alla sua solitudine, bucandola come un polmone. Walser si riempie di operai, si ritrova immerso in una giungla di lavori in corso, intento comunque a mantenere contegno e cortesia con gli ospiti imposti e a sperare ancora che la prossima visita sia l’unica voluta. Quella più irraggiungibile.

E infine è il turno di Valéry, che diventa alto solo dentro di sé, perché fuori i salti e le sedie sono tamponi troppo brevi per ovviare al suo problema. Valéry e i suoi avvitamenti di logica, i voli carpiati dei suoi teoremi, per cui un animale inscatolato preserva dal rischio di affezionarsi; Valéry che schiva la pioggia come si fa coi proiettili e disegna le sue ragioni dentro schizzi esemplari, quintessenza dei suoi virtuosismi.

E sembra quasi di avvistarlo, quel piccolo uomo magrittiano, con la bombetta incastrata sul cranio e colate di caffè per benedire i suoi pensieri.

Il progetto è ancora in fieri, il quartiere deve ancora popolarsi, come mostra la piantina di apertura.

Ci sono anche Brecht, Melville, Proust, Pessoa, Pirandello, Joyce, Musil e una carovana di altri autori in attesa di ottenere il domicilio. Ma non è un ghetto eccellente. È un vivaio di speranze. Perché vederli muoversi in quello stesso spazio e supporre di incontrarli superato il semaforo, con le scarpe spaiate o un cane cieco al guinzaglio, immaginarli camuffati nella fila alla posta, sentirli vicini sul tram al posto dei passeggeri che sbuffano o imbrattano l’aria di inutilità, può davvero innaffiare il cuore.

Non è certo il primo tentativo di scritturare nomi egregi come protagonisti più o meno diretti di un esperimento narrativo. Basta ricordare Irvin Yalom e i suoi Le lacrime di Nietzsche, La cura Schopenhauer o Il problema Spinoza, oppure Thomas Bernhard che schiera in campo Wittgenstein e Montaigne nel suo Goethe muore. E Tavares non solo non si sottrae alla sfida, ma la condisce di genio e vitalità creativa. Ironico e appuntito, con una scrittura puntuale, brillante, radiografica, a cui bastano pochi tratti a immortalare la sostanza. Come le illustrazioni minimaliste di Rachel Caiano che contrappuntano le pagine.

Saramago ha sostenuto che nei confronti di uno scrittore del genere si ha «quasi voglia di picchiarlo».

Per chi come me non ha impulsi violenti, il solo istinto verso questo libro è di chiedergli asilo politico.

(Gonçalo Tavares, Lor signori, trad. di Marika Marianello, nottetempo, 2014, pp. 261, euro 16,50)

“Sherlock”: la terza stagione

[L’articolo contiene spoiler su una stagione inedita in Italia]

Come ci avesse lasciato Sherlock Holmes nell’ultima puntata della seconda stagione ne avevamo parlato qualche mese, fa nell’articolo tutto dedicato a The Reichenbach Fall. Con toni a dir poco concitati, vista la mole di intensità e bellezza. Con aspettative altissime, l’attesa per la terza stagione è stata accompagnata da quel dilemma ossessionante che tanto ci aveva scosso: come ha inscenato Sherlock la sua morte? La risposta arriva di schianto nelle prime immagini di The Empty Hearse, ed è stupefacente: peccato che Watson ancora non sappia nulla.

Il fedele assistente del consulente criminale di Baker Street nonostante abbia una felice relazione da un po’ di tempo, ancora non riesce a togliersi dalla testa quel momento terribile in cui i suoi occhi si imbattono in Sherlock in bilico sul cornicione di un palazzo, pronto a buttarsi. Nonostante la drammatica ferita, è pronto a chiedere alla compagna di sposarlo: l’invito a cena è calcolato alla perfezione, peccato che Sherlock abbia deciso di tornare…

Aiutato dal fratello Mycroft (interpretato dallo stesso sceneggiatore e produttore Mark Gatiss), Sherlock Holmes viene richiamato dalla missione segreta poiché Londra è sotto minaccia terroristica. Ma prima bisogna riappacificarsi con lo sconvolto Watson.

Da qui, il meraviglioso giocattolo chiamato Sherlock, ingrana la marcia e non si ferma più. Tutti i pregi che l’hanno contraddistinto ed elevato rispetto alla concorrenza vengono confermati: Cumberbatch e Freeman sono due attori di calibro internazionale e nonostante i tantissimi kolossal a cui prendono parte, non hanno lesinato amore e passione nel rivestire ancora una volta i panni di Holmes e Watson. Tra di loro un feeling incredibile, ormai punto fermo nella riuscita del serial. La regia si conferma innovativa e visivamente accattivante. La sceneggiatura è perfetta e implacabile: un’ora e venti di puntata che volano in un soffio.

Decisamente epica la seconda puntata, The Sign of Three: il matrimonio di Watson con annesso Sherlock come testimone di nozze forniscono uno spassoso mix di ironia, commedia e crime. Davvero fantastica.
 


Come il gran finale di His Last Vow, dove la nemesi rimasta nell’ombra per i primi due episodi finalmente si manifesta in tutta la sua ripugnante cattiveria. Per non parlare dei segreti che nasconde la signora Watson. E proprio quando sembra tutto finito e un profondo senso di malinconia s’appresta ad avvolgere l’animo dello spettatore, ecco un colpo di scena/shock: forse Sherlock non è stato il solo a inscenare la sua morte.

Arrivato alla terza stagione, Sherlock dal punto di vista qualitativo si dimostra senza ombra di dubbio tra le migliori serie in circolazione. La complessità dei personaggi, la profondità dei loro rapporti e le infinite sfaccettature dei loro comportamenti, fanno sì che questa serie sia capace di muovere l’ago della bilancia nella spietata battaglia tra format Uk e Usa. Altre spiegazioni o complimenti risulterebbero ridondanti, considerando che sono già state elencate in passato in questa medesima sede: se ancora non l’avete vista, recuperate il prima possibile. Non ve ne pentirete. Anche perché si parla di una quarta serie pronta per fine 2014.